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DIARIO DALLA PALESTINA: Quel che resta di Jenin



Quel che resta di Jenin

Moheem Jenin, in una sola parola, l'Orrore. "Moheem" in arabo significa 
"Campo". Basta passare pochi giorni in questa terra insanguinata e i nomi 
dei campi profughi diventano qualcosa di molto familiare: Balata, Jabalia, 
Aida, Deheishe, Al Amari e tanti altri: interi quartieri all'interno delle 
citta' palestinesi che da luoghi di accoglienza temporanea degli sfollati 
delle ripetute guerre e occupazioni, soprattutto quelle del 1948 e del 
1967, sono diventati la propria dimora fissa, e quella dei figli e dei 
nipoti, sempre con in testa il sogno del ritorno ai villaggi d'origine.
Moheem Jenin era "il Campo" per antonomasia. Era. Moheem Jenin non esiste 
piu'.
Siamo riusciti a entrare a Jenin dopo tre tentativi. Da circa due settimane 
l'esercito israeliano non permette a nessuno di penetrare all'interno del 
campo profughi, nemmeno alla stampa e alle organizzazioni umanitarie. "Zona 
di operazioni militari" e' la laconica risposta. Provando e riprovando 
qualcuno riesce a aggirare il muro dei soldati, attraverso ore di camminate 
per sentieri impervi tra pietre e ulivi e miseri villaggi contadini, mai 
senza una guida locale, comunque rischiando la vita.
Oggi l'esercito si e' ritirato alle porte della citta', per la prima volta 
dall'inizio dell'assedio il coprifuoco e' stato sospeso per qualche ora. In 
periferia c'e' un via vai di gente. Un trattore ci carica per percorrere 
gli ultimi metri che ci separano dal campo. Dalle strade distrutte si alza 
la polvere, che ti si appiccicca addosso, offusca la vista. All'improvviso 
eccolo, il campo profughi, il posto del mistero, in cui da quindici giorni 
il mondo si chiede cosa stia succedendo. Le case ai bordi del campo sono 
seriamente danneggiate, tetti sfondati, enormi buchi nei muri. Su molte 
c'e' disegnata con lo spray la stella di David e scritte in ebraico "o con 
Israele o la morte". Scendiamo dal trattore e ci avviamo verso la zona 
centrale del campo "Hawashim". Per quanto si possa essere preparati cio' 
che si presenta supera ogni immaginazione. Macerie. Solo montagne di 
macerie. Cumuli di macerie e detriti. Tutta la zona e' stata rasa al suolo. 
Si fatica a credere che tutto questo sia opera di una mano umana. Nella 
nostra mente una tale devastazione puo' essere conseguenza solo di una 
catastrofe naturale.
Questo campo del nord della Cisgiordania, un area di un chilometro 
quadrato, ospitava quindicimila persone, rifugiate da circa settanta 
villaggi della zona di Haifa. A detta di molti, era probabilmente il piu' 
bel campo della West Bank, affollato, vivace, sui muri i disegni 
multicolori tipicamente arabi. Molti dei ragazzi qui frequentavano la 
"Jenin American University". Da qui sono partiti venti dei kamikaze 
dell'ultima ondata di attentati in Israele, il cui confine e' vicinissimo.
Iniziamo a camminare sui resti della quotidianita' di centinaia di 
famiglie. Ma cio' che piu' impressiona e' l'odore immondo che impregna 
l'aria, tanfo di carne umana in decomposizione. Conati di vomito prendono 
lo stomaco. Ci sono adulti che vagano come fantasmi. Spiritati, attoniti, 
rovistano a mani nude tra le macerie, alla ricerca di qualche frammento 
della propria esistenza. Spunta una videocassetta, un maglione, una 
pentola. Altri scavano per trovare i corpi di figli, fratelli, mogli o 
mariti, con la speranza che qualcuno sia ancora vivo.  I piu' giovani 
vedendo i nostri taccuini e macchine fotografiche, ci si affollano intorno, 
parlano tutti contemporaneamente. I bambini, soprattutto, ci tirano per i 
vestiti, tentano di trascinarci in ogni angolo con l'ansia di farci 
documentare lo scempio. Si mettono in posa davanti agli obiettivi della 
macchina fotografica con in mano proiettili, pezzi di bombe, missili degli 
elicotteri Apaches. Urlano in continuazione "Fotografa, fotografa, guarda 
qui ‘Made in Usa!'" mostrando le piccole scritte in inglese sul metallo 
dell'artiglieria. "Questo perche' Bush vuole la pace" mi traduce un 
ragazzo. "Sono tutte armi americane, sono loro che foraggiano Israele, e 
poi mandano qui Colin Powell a prenderci in giro". Una signora grida: 
"Andate via occidentali, cosa siete venuti a fare? Cosa avete fatto per 
noi? Cosa volte ora?". Un gruppo di cinque bambini mi trascina all'angolo 
di un muro miracolosamente in piedi, mi dicono che proprio qui la 
resistenza palestinese ha teso un agguato a tredici soldati, uccidendoli. E 
fanno il segno di vittoria con le due dita. Poi mi accompagnano tra le 
rovine di una casa, mi fanno vedere che sui muri e sulle porte ci sono 
spiaccicati resti di carne umana, io non ho parole, trattengo il respiro, 
mi estraneo da me stessa. "Vieni qui, qui dentro c'e' ancora un cadavere, 
sta qui da dieci giorni" E' tutto un vocio di bimbi, urla concitate, una 
camminata interminabile nei gironi dell'Inferno.
Io recupero un po' di lucidita', voglio raccogliere storie, parlare con la 
gente, cercare di raccontare l'incubo di questo popolo martoriato. La 
ragazza che mi traduce dall'arabo ha diciannove anni e un viso bellissimo, 
fasciato nello chador. Studia (studiava?) economia all'universita'. Si 
chiama Kholood, io non riesco a pronunciare il nome da questi suoni arabi 
cosi' ostici per noi, e lei mi dice di chiamarla Eternity, la traduzione in 
inglese del suo nome. Eternity… mi sa di un presagio.
Jamila Nassan e' seduta a gambe aperte di fronte alle macerie della sua 
casa. Una ruspa sta scavando alla ricerca dei suoi tre figli. I soldati 
sono entrati di notte in casa, dove c'erano quattordici persone. Hanno 
tirato fuori a forza le donne, lei non poteva camminare perche' ha problemi 
alle gambe, l'hanno trascinata di peso. Poi hanno tirato bombe all'interno, 
e hanno finito il lavoro con un buldozer. Non si ricorda esattamente quando 
cio' sia avvenuto, forse dieci giorni fa … io cerco dettagli per 
documentare, lei con una voce cantilenosa mi chiede che importanza abbia, 
l'hanno fatto e basta. "L'unica cosa che voglio ora e' che ai figli di 
Sharon succeda la stessa cosa che e' successa ai miei". Mahyoob mi racconta 
che sono entrati in casa e hanno fatto spogliare i suoi figli di quattro, 
dieci e tredici anni. Poi hanno detto "O uscite tutti fuori o li 
ammazziamo". Cosi' sono usciti, sono scappati da parenti che abitano appena 
fuori dal campo, quando sono riusciti a tornare la casa era sparita. Sahed 
invece ha solo otto anni, racconta che sotto ai suoi occhi hanno preso i 
suoi due fratelli di diciotto e ventidue anni, mi indica i polsi per farmi 
capirei che glieli hanno legati, poi li hanno trascinati via e da allora 
nessuno li ha piu' visti. La casa della famiglia di Abdel R. e' al limitare 
della collina, da li' si spara bene sul campo. Sono entrati un centinaio di 
soldati, hanno legato e bendato i ventiquattro membri della famiglia, 
sparavano sul soffitto e sui muri fingendo finte esecuzioni, e tutto questo 
e' andato avanti per quarantott'ore. I racconti concitati si somigliano, 
storie di crudelta' e di atrocita', e' difficile pero' pensare che sia 
tutta "propaganda palestinese". Di fronte a tanta sofferenza ci si sente 
davvero impotenti. Cerco di avere conferme alle voci che parlano di 
esecuzioni sommarie. Mi racconta Jamil, un medico di una ong,  che una sera 
hanno rastrellato un centinaio di case dividendo anziani donne e bambini 
dagli uomini e dai ragazzi, hanno legato questi ultimi e li hanno portati 
via, di loro non si sa piu' niente. E racconta ancora di cadaveri rimasti 
per strada per cinque, sei giorni e "miracolosamente spariti" prima del 
ritiro dei carri armati dal campo. Chiedo alle persone "perche' non siete 
scappate?" Mi rispondono che non sempre gliel'hanno permesso, un vecchio 
dal volto rugoso e la kefiah in testa dice che quella e' la loro casa e lui 
non l'avrebbe mai abbandonata. Ho la sensazione che comunque non si 
aspettassero che gli israeliani arrivassero a tanto. C'e' una donna giovane 
disperata, il marito ci allontana da lei, che ci urla che da ora in poi 
tutti i sopravvissuti di Jenin diventeranno dei martiri, dei kamikaze, 
altro che Oslo. Un ragazzo si gira e dice che dopo tutto questo non ci 
sara' altro da fare…
Intorno a noi si continua a scavare, con piccozze e badili, ma soprattutto 
a mani nude. I ritrovamenti di cadaveri sono annunciati dall'intensificarsi 
disgustoso del fetore. Il sudore attacca addosso la polvere e la speranza 
assassinata di tutti questi diseredati che probabilmente non avranno mai 
giustizia. Penso al mio mondo di occidentale benestante, e mi sembra quasi 
che con la mia presenza qui, con l'ansia di dettagli e di cifre, li stia 
ulteriormente violentando. Penso a quale sara' il futuro di questi bambini 
con un presente fatto solo di violenza, brutture e disumanita'. Forse ha 
ragione il pacifista israeliano Uri Avnery quando scrive che Jenin entrera' 
nella leggenda come la Masada dei palestinesi, come una battaglia eroica 
dove una manciata di uomini di un piccolo popolo ha resistito al quarto 
esercito del mondo protetto dai propri tanks e dalla propria impunita' 
internazionale. "Cosi', Sharon e Mofaz hanno creato l'infrastruttura 
terroristica, hanno gettato le basi della nazione e dello stato 
palestinese. La gente ha visto i suoi combattenti a Jenin ed e' convinta 
che essi siano molto piu' eroici dei soldati israeliani, protetti come sono 
nei loro pesanti carri armati. Cosi' si genera l'orgoglio nazionale."
E l'inerzia criminale della comunita' internazionale continua. Israele non 
permette alle organizzazioni umanitarie di entrare a Jenin, dove sotto le 
case distrutte ci potrebbero essere decine di cadaveri, e forse qualcuno e' 
ancora vivo, come e' successo oggi per un giovane di diciannove anni. Per 
non parlare dei rischi per la salute dei sopravvissuti, senza acqua e cibo, 
senza piu' un' infrastruttura. Che senso ha parlare di convenzioni di 
Ginevra, di carta delle Nazioni Unite, ci chiediamo? E' solo una grande 
immensa presa per i fondelli collettiva. Al governo israeliano oltre che 
alla violenza brutale sul campo di battaglia e' stata permesso di 
violentare qualsiasi legalita' internazionale. Ha fatto cio' che ha voluto, 
nel silenzio colpevole anche della "democratica" Unione Europea, e tutti 
ancora a far finta di credere ad operazioni antiterrorismo quando qui si 
tratta di diritti umani fondamentali. Anche se gli abitanti di Jenin 
fossero stati tutti terroristi, cosa difficile da credere, un simile 
trattamento non lo merita nessun essere umano.
Quando siamo usciti da Jenin i soldati ci hanno sparato intorno per piu' di 
mezz'ora, in continuazione. Evidentemente non volevano colpirci, ma solo 
farci morire di paura. Forse si sono anche divertiti a guardarci scappare 
per i campi. Quando tutto era finito, alla mia rabbia cieca si e' 
sostituita la pena per questi soldati ragazzini abbruttiti e disumanizzati 
da una guerra che forse molti di loro neppure vogliono, ma alla quale non 
hanno la forza e la coscienza di opporsi.
Chiede Edward Said: "Puo' Israele esistere come uno Stato uguale a tutti 
gli altri o deve essere sempre al di sopra delle restrizioni e i dei doveri 
di tutti gli altri Stati del mondo?". E' ora che qualcuno gli dia una risposta.

Francesca - <francesca@peacelink.it>