[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]
DA JENIN - ANDREA
Jenin, la disperazione che calpesta le macerie
Siamo appena tornati da Jenin, dove siamo rimasti quattro giorni, i primi
in cui e' stato possibile entrare dopo l' "operazione antiterrorismo"
compiuta dall'esercito israeliano. Nonostante il governo dichiari di
essersi ritirato militarmente, l'esercito e' ancora li' e assedia la
citta'. Entrare e uscire e' sempre difficile, sicuramente non come durante
le operazioni, quando giornalisti e volontari internazionali cercavano di
entrare in tutti i modi e venivano sistematicamente fermati e cacciati
via, ma rimane comunque difficile. Siamo arrivati al campo profughi
percorrendo gli ultimi chilometri a piedi su una collina, per evitare i
soldati che a valle stavano scavando una profonda buca nella strada allo
scopo di impedire il passaggio a chiunque. La sera una parte del nostro
gruppo e' uscita per lo stesso percorso, e si e' beccata mezz'ora di
raffiche di artiglieria dai soldati israeliani.
La situazione del campo e' disastrosa: un'ampia area e' stata letteralmente
rasa al suolo, un lavoro metodico e preciso iniziato con i bombardamenti
degli elicotteri Apaches, proseguito con l'ingresso delle truppe e
terminato con l'azione dei bulldozer che hanno demolito le case. Ma per
rendersi conto dei danni provocati bisognerebbe vedere con i propri
occhi. Gli abitanti sostengono che il livello del suolo era due o tre
metri piu' basso, si sono formate strade sulle macerie delle case. Ci si
rende conto di cio' quando, camminando per queste cosidette stradine, si
inciampa di continuo nei ferri di cemento armato che spuntano da sotto,
segno evidente che si sta camminando sulle rovine delle case. L'odore di
cadavere e' costante, dopo un po' ci si fa l'abitudine e io l'ho risentito
oggi a Gerusalemme quando ho annusato i pantaloni che ho indossato durante
quei quattro giorni. Nessuno riesce a dare una stima anche approssimativa
dei morti. Si dice che sotto le macerie ci siano molti corpi. Le due ruspe
della citta' stanno ancora scavando, altrettanto fanno le persone armate
di zappe e badili arrugginiti. Basta scavare un po' per trovare i corpi, i
lavori procedono a rilento perche' manca ogni tipo di attrezzatura. Con le
zappe e' impossibile, perfino le ruspe fanno fatica a districarsi in mezzo
al groviglio intricatissimo di tondini di ferro delle strutture portanti,
cemento, divani, mobili, materassi, rocce, solai ancora interi che si sono
afflosciati sui piani sottostanti. Si segue la puzza di carne in
decomposizione, se aumenta si continua a scavare, se diminuisce si prova
un po' piu' in la'. Come se non bastasse c'e' il grosso problema degli
ordigni inesplosi. La gente che prova a scavare alla ricerca delle
proprie cose tra le macerie incappa in qualche bomba o mina rimasta li' e
salta in aria. Ogni giorno si sentono almeno 4 o 5 esplosioni, ed ogni
volta qualcuno ci rimette un braccio, una gamba o anche la vita.
La gente assiste ai lavori con lo sguardo perso nel vuoto. Questo e'
il momento della disperazione di chi ha perso tutto e cerca di
reagire. La sensazione e' che arrivera' il momento in cui
questa sofferenza si trasformera' in vendetta, odio, morte.
Visitiamo la scuola che ospita i profughi del campo profughi. La gente e'
ospitale, ha voglia di raccontare tutto, di buttar fuori cio' che ha
dentro. Una signora mi prende per il braccio e mi porta a vedere il suo
bimbo di quindici giorni, che sta dormendo. Mi dice che i soldati hanno
preso lei e i suoi figli, li tenevano davanti a loro come scudi perche' di
fronte c'erano i combattenti palestinesi, che opponevano una forte
resistenza armata. Cosi' lei si e' trovata con i suoi figli, cio' che ha
di piu' caro al mondo, tra i soldati e i guerriglieri, che si sparavano.
Mi guardava come a chiedermi perche', che senso poteva avere tutto questo,
e sembrava non capire. Mentre ero li', cercando le parole da dire, che non
mi venivano, arriva un ragazzino sui 18 anni con un giubbotto da
pescatore, pieno di tasche. Mi dice "adesso lo riempio di esplosivo, poi
vado e... bum, mi faccio esplodere". Altri ragazzi ci tirano nella loro
stanza, ci offrono te', caffe', sigarette, chiedono cosa dice la gente in
Italia. Sono molto simpatici, si ride e si scherza, poi qualcuno dice che
anche lui e' pronto a farsi esplodere. La sera, nella casa dove siamo
ospitati a dormire parliamo con un uomo, un dottore, di questi ragazzi
aspiranti suicidi. Gli dico che e' uno sbaglio, che anche loro cosi'
uccidono dei civili, donne, bambini, persone innocenti. E che oltretutto
e' una strategia sbagliata, in questo modo si tirano addosso le antipatie
di tutto il mondo. Lui dice che e' d'accordo, ma come fare a convincere
questi ragazzi? Che armi hanno i palestinesi per combattere? Un altro ci
dice che ormai i palestinesi hanno il cuore morto, sono piu' di
cinquant'anni che vedono morire gli amici, i fratelli, i figli durante le
proteste in piazza, le dimostrazioni, ecc. Lui e' stato in galera perche'
appartenente a un gruppo politico. E in tutti questi anni hanno visto
l'espansione degli insediamenti che continua, i coloni protetti
dall'esercito, il loro popolo trattato come inferiore; e tutto il mondo
silenzioso, nessuno che prenda le loro difese. Una signora del campo
profughi mi fa vedere quello che resta della sua casa, e poi mi dice "in
questo modo Sharon non ha sconfitto il "terrorismo", ora ci sono almeno
cento ragazzi in piu' qui nel campo che sono pronti a prendere in mano le
armi. Mio figlio vuole andare a farsi esplodere, e io non sono in grado di
fermarlo, di proteggerlo." Un po' di tempo fa pensavo che ci fossero
organizzazioni ben strutturate a pianificare gli attentati in maniera
lucida e spietatamente razionale. Ora mi rendo conto che non e' cosi',
sento dentro - anche se non riesco a spiegarlo a parole - la disperazione
di questa gente, disperazione di decenni di soprusi subiti in silenzio
senza che il futuro offra uno spiraglio di luce. Pur condannando e
prendendo le distanze da questo modo di "combattere", a volte sento che la
reazione di questo popolo non potrebbe essere diversa. E vedo chiaramente
la menzogna che sta dietro a questa cosiddetta "guerra al terrorismo": E'
evidente che Sharon ha bisogno del terrorismo, non potrebbe portare avanti
i propri piani se non avesse questa scusa. Il vero obiettivo e'
conquistare la terra, deportare i palestinesi nei paesi circostanti,
chiudere le citta' e i villaggi come delle riserve, attorno alle quali
possa continuare l'espansione degli insediamenti, con la confisca
di terre, la demolizione di case, la costruzione di nuove strade. Questo
governo sta riunendo le caratteristiche di altre tristi esperienze del
passato: il colonialismo europeo e il neocolonialismo americano,
l'aparthaid sudafricano, e sembra aver dimenticato che il popolo ebreo e'
stato la vittima della piu' tremenda tra le persecuzioni.
Sembra che noi europei abbiamo una sorta di senso di colpa, appena si dice
qualcosa contro il governo israeliano diventiamo antisemiti. Non dobbiamo
cadere in questa trappola, altrimenti si rischia di favorire dei veri e
propri crimini contro l'umanita'. Non si puo' tacere. Una risoluzione del
conflitto in Medio Oriente si avra' solo quando Israele verra' costretto a
mettersi al tavolo delle trattative. Tutti i processi di pace del passato
sono stati falsi, la politica degli insediamenti non si e' mai fermata, lo
sfruttamento delle risorse non e' mai stato equo, il diritto ad uno stato
per i palestinesi mai difeso. E ora siamo arrivati ad un punto in cui il
governo israeliano adotta un uso indiscriminato della forza, se ne
infischia di qualsiasi appello internazionale o risoluzione dell'Onu,
appoggiato dall'esplicito assenso degli Stati Uniti e dal complice
silenzio dell'Europa. Nessuna trattativa sara' possibile finche' Israele
non verra' indotto a parteciparvi. L'Occidente potrebbe fare molto in
questo senso. Ma e' lampante l'inazione dei nostri governi. Bisogna fermare
Israele, e l'Occidente puo' farlo. Ma bisogna fermare l'Occidente nel suo
appoggio a Israele, e questo dobbiamo provare a farlo noi, societa'
civile, continuando a premere dal basso, attraverso la presenza qua sul
campo e attraverso un lavoro determinato e costante nei nostri paesi.
Andrea