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Testimonianza di Carla Benelli da Jenin
----- Original Message -----
From: carla benelli carlitas@palnet.com
Sent: Sunday, April 14, 2002 6:58 AM
Subject: e da Jenin
carissimi tutti,
il messaggio che ho inviato qualche giorno fa ha avuto un impatto ben al di
la' di quanto mi aspettassi. Ho ricevuto numerosissimi messaggi da amici
che non sentivo da tanto tempo, grazie a quelli di voi che lo hanno fatto
circolare in modo tanto diffuso e a testimonianza di quanta voglia ci sia
di sapere che cosa succede in questo brutto posto. Ve ne invio un altro,
scritto con molta tristezza a chiusura di un giorno a Jenin.
Come ci eravamo ripromessi siamo riusciti di nuovo ad organizzare un
convoglio di aiuti umanitari, questa volta in direzione di Jenin. Le
notizie che arrivano dalla citta' e in particolare dal campo profughi nel
suo interno, sono sotto l'attenzione di tutti, o almeno di coloro che
seguono con sincerita' l'aggravarsi quotidiano del conflitto. Jenin e'
sotto il tiro dell'esercito israeliano e del coprifuoco ormai da 10 giorni.
Le agenzie internazionali parlano di gravissima crisi umanitaria, non si
conoscono le condizioni di vita della popolazione e quelle rarissime
immagini che sono riuscite a filtrare la cortina di ferro imposta dagli
israeliani ci fa pensare al peggio.
Anche questa volta si parte alle 5 di mattina. Jenin e' all'estremo nord
della Cisgiordania, un viaggio che in un periodo normale avremmo percorso
in due ore. Questa volta siamo costretti a fare continue deviazioni e
procedendo lentamente dietro ai camion prevediamo di impiegare almeno 5
ore. Le organizzazioni non governative umanitarie coinvolte sono piu' o
meno le stesse della volta scorsa, quello che e' aumentato sono gli aiuti,
partiamo con 5 camion e 26 jeep. Questa volta ad accompagnarci sono il
Consolato italiano e l'Unione europea. Non partecipano alle trattative con
l'esercito israeliano, restano indietro, pronti ad intervenire in caso di
bisogno di assistenza diplomatica (anche se da queste parti molto spesso
anche questa e' ininfluente).
Lungo la strada della valle del Giordano veniamo bloccati tre volte. Ma
sempre riusciamo a passare. Finalmente raggiungiamo il posto di blocco di
Jenin dal nord. Jenin e' proprio sul confine. Le prime case della citta' si
vedono perfettamente dai villaggi arabi all'interno di Israele, divisi da
Jenin solo da due piccole colonie ebraiche che impediscono la contiguita'
territoriale.
Malgrado i tanti blocchi che abbiamo trovato lungo la strada, l'attesa al
posto di blocco principale prima di rientrare in Cisgiordania e'
relativamente breve; sara' per le notizie drammatiche che si stanno
diffondendo sulla condizione della popolazione civile o meglio per
l'incontro che proprio in queste ore il sottosegretario di stato americano
Colin Powell sta tenendo con i responsabili delle agenzie umanitarie a
Gerusalemme.
L'attesa e' comunque piacevole, molto diversa dalla volta scorsa, quando al
posto di blocco di Nablus i coloni israeliani ci gridavano "assassini". Qui
incontriamo un gruppo di rappresentanti delle comunita' palestinesi che
vivono all'interno di Israele (gli arabi del 1948 come si dice qui). Sono
giorni che manifestano al posto di blocco. Hanno raccolto una incredibile
quantita' di aiuti, alcuni sono riusciti anche a farli passare anche se gli
israeliani glieli fanno lasciare appena al di la' del posto di blocco e non
si sa se e come avvenga la distribuzione. Ci chiedono aiuto per trasportare
le merci all'interno, si scambiano numeri di telefono e suggerimenti. Una
persona si avvicina alla nostra macchina "avete tutto il nostro rispetto"
ci dice, e si allontana piangendo. Non riusciamo neanche a rispondergli,
per dirgli cosa poi?
Siamo passati, come sempre senza giornalisti e, a differenza della volta
scorsa, senza macchine fotografiche o telecamere che ci vengono confiscate.
Subito dentro vediamo sulla sinistra i camion di aiuti di cui ci hanno
parlato i palestinesi dell'interno di Israele. Sono tutti carichi, saranno
rimasti cosi' da quando sono entrati o sono altri? Ci resta il dubbio.
Dobbiamo passare un ulteriore posto di blocco, a fianco al campo militare.
Numerosi carri armati sono in deposito, i cannoni puntati verso di noi. In
lontananza, vediamo altri carri armati che escono dalla citta' dirigendosi
verso ovest. Dalla radio abbiamo la notizia che l'esercito israeliano, in
risposta agli appelli al ritiro che stanno arrivando da tutto il mondo, sta
occupando una serie di villaggi nei dintorni.
L'ingresso alla citta' e molto diverso da quanto ci aspettiamo, e da quanto
abbiamo visto a Nablus. Non ci sono segni maggiori di distruzione, solo qua
e la' i segni dei cingoli dei carri armati sulla strada, del resto gia'
sterrata. Ai lati le case sembrano deserte, nessuno questa volta ci osserva
dalle finestre, non c'e' segno di vita, il silenzio e' totale, un silenzio
che sa di paura. Tutta la citta' e' senza luce e senza acqua dal giorno
dell'occupazione.
Il posto dove dobbiamo depositare le merci e' all'ingresso della citta',
dal nostro lato, e arriviamo velocemente. Il campo profughi si intravede
sulla collina di fronte ma e' troppo lontano per distinguere qualcosa con
esattezza. Come da accordi presi con gli organizzatori del convoglio non ci
allontaniamo. Qui pero' le persone escono dalle case, il coprifuoco non
sembra rigido e percorriamo tranquillamente a piedi la distanza tra il
centro di accoglienza dove portare gli aiuti e i magazzini che sono a
qualche centinaio di metri. Il centro di accoglienza e' in effetti una
scuola. Vi sono stipati nei tre piani piu' di 800 persone. Senza luce e
senza acqua, senza nessun sostegno. Qualche coperta buttata per terra. I
nostri sono i primi materassi che arrivano. Ma la sproporzione tra il
bisogno e quello che e' disponibile e' tale che scoppiano risse per
l'accaparramento, e non c'e' nessuno in grado di occuparsi della
distribuzione. Ci sono donne, bambini e uomini molto anziani. Ci raccontano
di essere tutti sfollati dal campo profughi. Nel campo non c'e' piu'
nessuno dei suoi 15 mila abitanti. Sono rimasti solo i morti, ci dicono, ma
gli sporadici spari che si sentono ci fanno pensare che esiste ancora una
resistenza, seppure debolissima. Dove sono andati gli abitanti? Qui, in
altre scuole, negli edifici del comune, presso le famiglie che ancora hanno
una casa. I dati ufficiali delle Nazioni Unite (responsabili del campo
profughi) dicono che sono 3 mila gli abitanti di case distrutte nel campo.
E gli uomini? Uccisi, arrestati, evacuati nei villaggi limitrofi. Sappiamo
da fonti giornalistiche che nel villaggio di Rumana sono arrivati 500
palestinesi da Jenin, in mutande e scalzi, rilasciati in questo stato dopo
essere stati arrestati nel campo profughi. Nella scuola sono molte le donne
e i bambini che ci parlano di mariti, padri, fratelli, uccisi sotto i loro
occhi. Una donna mi avvicina, lo sguardo duro. Mi dice di andare nel campo
a vedere se suo marito e' ancora vivo. Lei e' stata evacuata quattro giorni
fa, suo marito e' stato legato, in ginocchio per terra davanti casa,
insieme ad altri 40 uomini. Una sua vicina arrivata ieri alla scuola le ha
detto che era ancora li', nella stessa posizione, senza cibo ne' acqua. Le
dico che non posso andare, che il campo e' chiuso a tutti, anche alla Croce
rossa e alle Nazioni Unite, che ci sono i cecchini che sparano verso
chiunque tenti di avvicinarsi. Mi risponde: "e allora che sei venuta a
fare?. Non ho bisogno della tua acqua". Anche un gruppo di tre ragazze
giovanissime mi rimprovera. Una ha perso il padre, le altre non so, non ho
il coraggio di chiedere. Tutte sono senza casa. Mi dice anche lei "non
voglio aiuti, mi puoi ridare mio padre? mi puoi dare giustizia?
Ma non ho risposte, anzi per quello che posso immaginare pensando a come
sono andate le cose per i palestinesi da piu' di cinquanta anni ad oggi,
non ci sara' giustizia per questa gente. C'e' un filo rosso che lega il
massacro di oggi di Jenin ai massacri nei campi profughi di Sabra e
Chatila. Si tratta di un uomo, oggi ancora piu' potente di allora. Nessuno
sembra avere il coraggio o la voglia di fermarlo. E allora suggeritemi voi
cosa dire a quelle ragazze, come convincerle che esiste ancora la speranza
di un percorso di pace. Io l'ho persa.
Carla Benelli