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lettera 79 di Ettore Masina
Care amiche, cari amici, credo fosse il mese di settembre del 2000 quando
in LETTERA vi parlai del Progetto “Gazzella”, varato da due straordinarie
persone: Marisa Musu e Marina Rossanda. Dandole il nome di una bambina
palestinese di 12 anni, colpita alla testa da un soldato israeliano
mentre tornava a casa da scuola e rimasta a lungo fra la vita e la morte,
Marisa e Marina, con un gruppetto di altri generosi avevano appena dato
vita, a quell’epoca, a una rete di solidarietà insieme politica e
affettuosa. Avevano, cioè, lanciato la proposta di adozioni a distanza di
piccoli palestinesi feriti o mutilati nel corso della Seconda
Intifada.
E’ passato poco più di un anno e nonostante la penuria di mezzi e -
naturalmente! il silenzio dei giornali, il progetto ha preso quota:
e poiché le animatrici di “Gazzella” dicono che i primi “adottori”
sono stati gli amici di LETTERA, mi sembra giusto informarvene: tanto più
che la situazione palestinese ci carica di un’angoscia dalla quale
possiamo uscire soltanto con gesti concreti di rottura del silenzio e
dell’inerzia.
Gli amici di Gazzella si sono riuniti recentemente per il loro primo
“congresso”: gente meravigliosa, venuta da tutte le parti d’Italia: La
loro rete si è ormai distesa come una carezza su 287 bambini
palestinesi.
(per informazioni: bettinif@libero.it)
Bambini di Palestina
Come vi scrivevo in quella LETTERA ormai lontana, da
cinquant’anni, anzi da cinquantaquattro, noi ogni giorno ci alziamo,
portiamo i bambini a scuola, andiamo al lavoro, ritorniamo a casa,
mangiamo, ci abbandoniamo al sonno e intanto in Palestina muoiono
ammazzati uomini donne e bambini: 361 bambini uccisi dal settembre
2000, uno di 13 anni assassinato il 17 febbraio scorso, quasi a impedire
che ci illudessimo di una pausa di questa atroce contabilità. No, non è
un genocidio, i giuristi negano che si possa definirlo così. Allora
diciamo: è uno stillicidio omicida, come se il tempo fosse segnato da una
mostruosa gigantesca clessidra attraverso la quale passano, ma sempre più
velocemente, non granelli di sabbia ma corpi di uccisi.
Da cinquant’anni, anzi da cinquantaquattro, noi ci innamoriamo, sogniamo,
preghiamo, frequentiamo concerti, organizziamo feste fra amici, ci
commoviamo leggendo le pagine di grandi scrittori, tentiamo di scrivere
poesie e di imparare nuove canzoni, e intanto uomini donne bambini
palestinesi continuano a morire ammazzati: uno dopo l’altro, o in stragi
crudelissime, dietro le muraglie di una totale incapacità di reazione
dell’opinione pubblica internazionale e di un’acquiescenza dei governi
democratici che rimarranno una vergogna per la storia del nostro
tempo.
In questo mezzo secolo di martirio palestinese, nei tranquilli territori
europei alcuni di noi sono giunti alla vecchiaia, altri hanno maturato la
loro giovinezza, ed altri ancora sono nati, sono cresciuti, hanno
imparato le tecniche per entrare in contatto con persone lontanissime da
loro mentre a due ore di distanza di aereo i palestinesi continuavano a
morire, in diverse maniere.
Nei primi decenni ci sono state, “laggiù”, guerre terribili. Allora per
qualche giorno o settimana siamo stati costretti da orrendi
rumori e visioni di massacri a pensare al Medio Oriente. Ma gli eserciti
innalzano le loro bandiere proprio per farci sapere che la guerra è cosa
loro, noi ne siamo fortunatamente (almeno direttamente) esclusi. Così a
quel sangue e a quelle morti abbiamo dedicato l’attenzione dolorosa
o forse soltanto perplessa - che si presta ad eventi che sono
atroci e disgustosi ma che, in fondo, non ci appartengono. Oppure è
accaduto a non pochi di prendere posizione su quelle guerre, parteggiando
per il “piccolo”, moderno, civile, “occidentale”, “europeo” Israele
aggredito da arabi fanatici, straccioni e sporchi. Ricordo ancora sui
parabrezza di molte automobili milanesi l’adesivo “Io sono per
Israele”.
Poi le guerre si sono rivelate più che mai inutili, il “piccolo” Israele
minacciato essendo in realtà un gigante, issato com’è sulle spalle degli
Stati Uniti e difeso dalle armi dell’Impero; e anzi qualcuno di noi ha
capito che in quella faziosità filo-israeliana era contenuto un grano di
razzismo. Franco Fornari, grande psicoanalista, ci ammoniva: concedere a
Israele il diritto di comportarsi in modi che non si consentirebbero ad
altri popoli significa pensare che esso è qualcosa di geneticamente
diverso da noi
Come se fossero vittime del traffico
Finita l’epoca delle guerre, è cominciata la più
macabra delle routines. Come le stragi sulle strade degli week-end nei
paesi industriali, le morti di uomini donne e bambini palestinesi
scandiscono nel Medio Oriente le cronache di una violenza che, nella sua
insensatezza, sembra ormai inestirpabile. Negli ultimi anni i palestinesi
non sono morti di guerre ma sono morti di nostalgia nell’esilio, di
miseria da espropri e da disoccupazione, di torture, di prigionie nel
deserto, di malattie da repressione: denutrizione, mancanza d’acqua,
ritardi nei soccorsi medici a causa dei blocchi stradali, immensa
difficoltà di stabilire un minimo di condizioni igieniche nei campi
profughi, in cui per mezzo secolo centinaia di migliaia di persone sono
state costrette a vivere e in cui per mezzo secolo gli israeliani hanno
impedito ogni miglioria. Negli ultimi sedici mesi i palestinesi sono
morti soprattutto di spietate rappresaglie di ogni loro atto
insurrezionale. Ma si potrebbe dire che i palestinesi sono morti e
muoiono soprattutto di solitudine perché il loro martirio di mezzo
secolo è anche e soprattutto amara consapevolezza di costituire per
l’opinione pubblica internazionale ben più un fastidio che un problema.
I bambini prigionieri
In mezzo a questa solitudine, a questo sangue, a queste case
sventrate dai bulldozers si muovono i bambini palestinesi; e molti non si
muovono affatto, perché dal settembre 2000 ad oggi più di 700 sono
stati incarcerati, cioè rinchiusi in celle, insieme a delinquenti
“comuni”, adulti, e quindi esposti non soltanto alle inevitabili
brutalità del sistema carcerario ma anche a rischi facilmente
intuibili.
Il 26 gennaio scorso si è svolta a Bruxelles una conferenza organizzata
dalla parlamentare europea Luisa Morgantini, straordinaria donna che
moltiplica le proprie iniziative a favore dei diritti umani con una
generosità che ha pochi riscontri nella classe politica del nostro Paese.
In questa conferenza hanno parlato il palestinese Quzman Khaled della
Defence Children International e Tamara Pelled-Sryck dell’associazione
israeliana Hamoked. Hanno portato cifre e illustrato il contesto
dell’infanzia negata ai bambini palestinesi. Riassumo: i piccoli uccisi
sono stati: colpiti per la maggior parte alla testa, cioè non per errore
o per una pallottola di rimbalzo ma con volontà di uccidere. 8450
bambini sono stati feriti o sono rimasti mutilati, e di essi
980 hanno riportato mutilazioni o lesioni permanenti. I posti
di blocco e i coprifuoco rendono difficilissime la possibilità di
tempestivi interventi sanitari, cosicchè si aggravano ferite ed emorragie
che avrebbero potuto essere soccorse con risultati ben migliori.
Quanto ai bambini incarcerati, le due relatrici hanno denunziato l’uso
quasi “normale” della tortura da parte dei militari, il diritto alla
difesa tramite avvocato quasi sempre negato, processi superficiali,
sommarî, che portano a condanne di una severità inaudita e a pesanti
ammende inflitte ai genitori, le visite delle famiglie a questi piccoli
dannati all’inferno
carcerario affidate alla discrezionalità dei militari e via
dicendo.
I sorrisi spenti
361 bambini morti, 8450 feriti, 700 incarcerati in un anno e
mezzo sono le cifre che conosciamo; ma nessuno può dirci il numero dei
piccoli palestinesi che avendo vissuto forti traumi psichici, sono ora
profondamente feriti nella loro identità. Ho parlato recentemente con una
psicologa tedesca che veniva dalla Striscia di Gaza, mi ha raccontato di
bambini segnati da difficoltà di apprendimento, incubi notturni, tremiti,
fobie- “Bambini mi ha detto incapaci di sorridere, bambini
che forse non sorrideranno mai più”.
Il regime coloniale comporta inevitabilmente la violazione sistematica
dei diritti umani più elementari e pone Israele al di fuori degli stati
che osservano le convenzioni internazionali. Viene sistematicamente
violata anche quella sui diritti del bambino, pur ratificata dallo stato
sionista. In realtà Sharon e i suoi stati maggiori hanno i cestini della
carta straccia pieni di risoluzioni umanitarie e di testi internazionali:
“chiffons de papier”, come si diceva una volta, fazzoletti di
carta.
Già, ma noi?
Care amiche, cari amici, so bene che facendolo mi
renderò odioso ma vorrei chiedervi uno sforzo di fantasia: quello di
pensare ai bambini che più amate, e di vederli per un momento, per un
solo momento, collocati, per una sorta di malvagio incantesimo,
nell’allucinante paesaggio palestinese: No, non vi chiedo di
raffigurarveli morti o mutilati o feriti; e neppure terrorizzati mentre
la loro casa viene demolita da un bulldozer per rappresaglia. Questi
sono, per così dire, casi estremi, anche se frequenti. Vorrei
semplicemente che pensaste a quei vostri cari mentre assistono allo
spettacolo del loro fratello maggiore portato via di notte da
militari nemici, del padre obbligato a mettersi in ginocchio con le mani
dietro la nuca (un padre che non può difendersi, tanto meno può
difenderli), della madre costretta a subire davanti agli occhi dei figli
perquisizioni umilianti. E queste sono scene “normali” nei territori
occupati. Non parlo di sangue. Parlo della bambola strappata dalle
braccia della sua padroncina e sventrata a un check-point perché potrebbe
contenere una bomba, parlo del piccolo uliveto che i bambini avevano
imparato ad amare come parte della sua casa, e improvvisamente viene
sradicato per tracciare una strada riservata ai coloni; parlo delle
scuole perennemente chiuse per ordine degli occupanti, o dei
coprifuoco che durano intere giornate mentre in casa mancano acqua, cibo,
medicinali. Bambini che non solo subiscono la paura dei bombardamenti,
l’incubo degli elicotteri, il rombo minaccioso dei carri armati ma anche
la profondissima insicurezza che nasce dal contemplare la disperazione
dei genitori. Pensate, vi prego, a che accadrebbe “dentro” a un
adolescente che amate se egli vivesse in un luogo come la striscia
di Gaza e proprio mentre allunga il suo sguardo sulle realtà della vita
per valutarne il bene e il male sapesse ciò che accade in una delle
quattro zone in cui i militari israeliani hanno diviso quel territorio:
1500 privilegiati consumano il 36% dell’acqua disponibile e di migliore
qualità mentre 230 mila persone ( fra le quali lui, il vostro ragazzo)
devono contentarsi del 64% e di peggiore qualità. Riuscite a pensare
quali accumuli di rabbia e anche di odio sì, diciamola l’orrenda
parola - si creerebbero nel suo cuore? Nel 1991, visitando con un gruppo
di deputati italiani i campi profughi palestinesi, ho parlato con ragazzi
del genere. Negli anni seguenti mi sono spesso domandato se qualcuno di
loro non si sia tramutato in bomba umana.
I 56 Giusti di Israele
Questi esercizi di fantasia, credetemi, non mi sono permesso
di chiederveli per sadismo ma in nome della verità. Perché, vedete:
i bambini palestinesi sono del tutto identici ai nostri e le loro
condizioni di vita influenzeranno il futuro dei nostri cari. Se noi non
siamo capaci di identificarci con gli oppressi, e di comportarci di
conseguenza, vincendo pigrizie, paure, senso di impotenza, tentazioni di
egoismo ci avviamo a un degrado progressivo dal punto di vista etico e
culturale.
E’ contro quel degrado che oggi si muovono molti meravigliosi
israeliani.
Penso ai duecento riservisti che affrontano l’accusa di diserzione
perché, si rifiutano di obbedire a ordini che, hanno scritto in un loro
documento, “stanno distruggendo tutti i valori di questo paese” e
perché, dicono ancora, non vogliono più combattere “per dominare,
espellere, affamare, umiliare un intero popolo”.
Penso a Sulamit Aloni, docente all’università di Tel Aviv, che, un anno
fa, al parlamento europeo, mostrando il numero tatuato sul suo braccio
dagli sgherri nazisti, gridava che neppure l’orrore della Shoa
autorizzava Israele a ghettizzare, reprimere e avvilire il popolo
palestinese.
Penso soprattutto a Nurit Peled-Elhahan, scrittrice, docente
universitaria, che tre anni fa ha perso una figlia tredicenne in un
attentato di Hamas e che da allora si batte contro chi non vede le
spaventose responsabilità del regime di occupazione, un regime
dice - “che umilia, affama, nega lavoro, demolisce le case,
distrugge i raccolti, ammazza i bambini, incarcera i minori in condizioni
terribili e spesso senza processo, lascia che i neonati muoiano ai
check-point e diffonde bugie”. Per Nurit non ci sono differenze fra
i 24 piccoli israeliani morti per attentati terroristici e i bambini
palestinesi uccisi dai militari. Lei dice: “Nel regno della morte i
bambini israeliani giacciono accanto a quelli palestinesi, i soldati
dell’esercito d’occupazione accanto agli attentatori suicidi e nessuno
ricorda chi era Davide e chi era Golia”. E Nurit dice: “Propongo
che i genitori i quali non hanno ancora perso i loro figli prestino
attenzione alle voci che salgono dal regno della morte, sul quale
camminiamo giorno dopo giorno e ora dopo ora, e che ci insegnano che non
c’è differenza fra una vita e un’altra, che poco importa quale sia il
colore della nostra pelle o della nostra carta d’identità o quale
bandiera sventoli su una collina o quale sia la direzione verso la quale
ci dirigiamo pregando”.
Dice una leggenda ebraica che ci saranno sempre 56 Giusti per amore dei
quali Dio mitigherà ka sua collera.
Protagonisti o vittime
E’ un “pensare in positivo”, creativo, attivo, quello cui
siamo sollecitati dalla tragedia medio-orientale e questo pensare e
creare gesti coerenti è l’unico modo per uscire da un’angoscia che
altrimenti si sedimenta in noi, in una specie di necrosi dell’anima.
Quell’angoscia possiamo fingere di non avvertirla, rimuoverla,
nasconderla sotto altri pensieri, come quello della nostra supposta
impotenza, ma farlo è del tutto vano, come la stupidità della
casalinga pigra o frettolosa che nasconde la spazzatura sotto il tappeto.
Credo fermamente che non ci sia altra scelta: o essere protagonisti della
storia (umili, piccoli, magari paurosi ma attivi) o essere vittime della
storia, scivolando ai margini delle tragedie mondiali ma finendo
egualmente in un abisso.
Se accettiamo questa prospettiva, abbiamo molto da fare, a cominciare dal
far crescere una insurrezione morale di massa contro la intollerabile
situazione coloniale della Palestina; ma questo lavoro rimarrà
astratto - e poco coinvolgente per coloro cui chiederemo di
condividerlo se non sapremo renderlo più vivo, più amabile (ecco la
parola giusta!), attraverso azioni concrete di solidarietà. La gente non
ne può più della politica fatta soltanto col bilancino della prudenza e
l’avarizia del buonsenso: la gente vuole, deve avere, una politica
che sia anche esigenza del cuore.
Le amiche e gli amici di Gazzella ci offrono oggi una mano per uscire
dalla campana di vetro dell’inerzia colpevole. Li ringrazio con tutto il
cuore e spero che saremo in molti a unirci a loro
Ettore Masina.
Libri
Umberto Allegretti non è uno di quegli intellettuali italiani
(Dio sa quanti ce ne sono, a nostra perenne disgrazia!), che nei tempi
bui se ne stanno raggomitolati dietro le loro cattedre, distillando note
a piè di pagina. Tanto per dirne una, la televisione ce lo ha mostrato
mentre sfilava in prima fila, insieme con la sua straordinaria moglie.
Teresa Crespellani, alla “Marcia dei professori”, com’è stata chiamata la
sorprendente manifestazione fiorentina. E’ un giurista internazionalmente
noto, ma accanto alla “produzione” scientifica allinea una serie di
attività e di libri che lo rendono prezioso a chi si sforza non solo di
proclamare ma anche di mostrare che “un altro mondo è possibile” . Per le
Edizioni Cultura della Pace fondate da padre Balducci ha scritto nel
1992, con Dinucci e Gallo “La strategia dell’Impero. Dalle direttive del
Pentagono al Nuovo Modello di Difesa” che contiene pagine quasi
profetiche; è stato fra i più importanti animatori dei Comitati Dossetti
per la difesa della Costituzione etc: etc. Grande mediatore culturale,
generosamente al servizio dei tanti gruppi che richiedono la sua
presenza, Umberto ha appena pubblicato un libro di eccezionale
importanza: “Diritti e Stato nella mondializzazione”, ed: Città Aperta,
pagg. 302, e 18,07. Sì, il titolo non è invitante per i tanti che
sono (o pensano di essere) digiuni di certe materie: ma il discorso è
piano e soprattutto va al cuore dei problemi che la Terra “mondializzata”
ci presenta: dalla negazione dei diritti umani inevitabilmente imposta
dalla globalizzazione a tutti gli uomini e le donne (non soltanto dunque
a quelli dei paesi sottosviluppati ma anche a noi, alle nostre libertà,
alla nostra democrazia) alle devastazioni dell’ambiente provocata dalle
logiche del neloliberismo, a un militarismo sempre più pericoloso.
Tuttavia il quadro non è soltanto fosco, Allegretti pone con lucidità
alcune indicazioni per alternative possibili: le quali sollecitano la
nostra presa di coscienza e il dovere di essere protagonisti della
storia. Un libro scritto con competenza scientifica nello spirito di
Porto Alegre.