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Matteo Giuffrida: riflessioni su Genova



passati cinque mesi da quando alcuni scalmanati, presenti in entrambi gli 
schieramenti scontratisi a Genova durante il cosiddetto G8, hanno 
trasformato una manifestazione di pacifico dissenso in un massacro e una 
città in un campo di battaglia.

Ricordo che nei giorni immediatamente successivi mi chiedevo che cosa avrei 
fatto, cosa avremmo fatto dopo ciò che era successo. Era cambiato tutto, 
dopo quel venerdì e quel sabato d'estate, ed ero certo che eravamo cambiati 
anche noi. Anche chi non c'era, anche chi aveva solo potuto guardare la 
televisione o, trovandosi, come me, all'estero, leggere i giornali e 
navigare in rete alla caccia di qualche notizia che suonasse almeno come 
una decente approssimazione alla verità.

Oggi, però, mi chiedo che cosa abbiamo fatto. Eravamo cambiati e per questo 
dovevamo fare qualcosa. L'abbiamo fatto? Onestamente, mi sembra di no.

E non parlo solo di chi è convinto che la polizia abbia esagerato o che 
addirittura ci fosse un piano prestabilito per reprimere una protesta 
scomoda. Parlo anche di chi, semplicemente, in quei giorni ha visto la 
rabbia, il dolore, la morte e non vuole che si ripeta. Anche di chi, magari 
convinto oppositore delle tesi dei manifestanti, si è reso conto che non 
era quello il modo di confrontare le opinioni, e che bisogna trovare altri 
mezzi, altre volontà, altre idee per convivere e venirsi incontro. Tutti 
noi abbiamo fatto ben poco, perché la situazione non è diversa da prima.
Forse non eravamo poi così cambiati. Forse non ci hanno cambiato nemmeno le 
torri di Manhattan rase al suolo e le bombe degli Stati Uniti sulle città 
afgane. Forse.

Ma una cosa è certa: non è mai troppo tardi. E allora, forse, vale ancora 
la pena di soffermarsi a pensare un po', a riflettere, soprattutto, su 
quale possa essere il modo migliore per condurre la battaglia di tutti 
coloro che sognano un'equa distribuzione delle ricchezze, la tutela 
dell'ambiente, pari opportunità per tutti, la pace e un'unione dei popoli e 
delle culture che non sfoci necessariamente nell'omogeneizzazione delle 
differenze ma in un'armonia delle stesse.

Tante volte ho pensato che il posto giusto per lottare fosse nel Chiapas, 
con Marcos, o magari sulle strade e nelle campagne di tutto il mondo 
insieme a Bové. Oggi non ne sono più tanto convinto. Credo che ognuno nasca 
per svolgere un certo ruolo, nella vita, e alcuni sono nati proprio per 
stare accanto ai Marcos e ai Bovè. Ma, obiettivamente, sono pochi, e sempre 
a rischio di strumentalizzazione, perché insieme a tante persone disposte a 
combattere pacificamente (come anche Marcos sta dimostrando oggi dopo tanti 
anni di guerriglia) ci sono sempre i fomentatori della violenza e 
dell'odio. Ed io, da un lato, non ho nessuna voglia di farmi 
strumentalizzare, di venire associato a frange violente e magari di 
contribuire involontariamente alla loro furia insensata e, dall'altro, 
credo che ci siano anche altre forme di lotta, meno eclatanti, meno 
coraggiose, forse, ma di certo non meno importanti.

La verità è che tutti, anche a casa loro, anche senza lasciare le famiglie 
e il posto di lavoro, hanno la possibilità di fare qualcosa per cambiare il 
mondo. Lo so, è una bella frase retorica, ma è anche vera. Perché questo 
qualcosa va cercato nel piccolo (che poi non è affatto piccolo) della vita 
quotidiana e della coscienza che c'è dietro e che la deve sostenere. È qui 
che entrano in gioco scelte che, se ci pensiamo bene, molti di noi non sono 
ancora pronti a fare, ma che possono rivelarsi significative per il destino 
comune.
Ciò che intendo dire è che può essere importante anche solo cambiare tanti 
piccoli aspetti della nostra vita: non comprare certi prodotti, fare certe 
rinunce, riflettere un secondo prima di acquistare qualcosa, a costo di 
sembrare fanatici, o strambi.

E credo anche che sia importante imparare a fare cose di questo tipo in 
silenzio, senza sbandierarle, non perché ce se ne debba vergognare, ma per 
non perdere credibilità, per non apparire come persone che vogliono "fare 
scena" e apparire originali.

Certo, che mille o diecimila persone non vadano più da McDonald‚s (è solo 
un esempio) non la farà certo fallire. Ma è importantissimo pensarla in un 
certo modo e comportarsi di conseguenza, rendere l'azione coerente con il 
pensiero. Il primo passo su questa strada credo che sia proprio riconoscere 
di non averlo saputo fare o di non essere tuttora capaci di farlo. Ma 
pensarci. Assumere di fronte a se stessi la responsabilità di non fare 
quello che si può fare.
Un insegnamento antichissimo, comune a tante culture sparse per tutta la 
terra, è quello per cui il mondo è uno specchio di un altro mondo, quello 
che abbiamo dentro (che lo si chiami coscienza o anima o cuore o 
quant'altro). Ecco perché dobbiamo cambiare noi stessi per cambiare il 
mondo. Ecco perché diecimila persone che rinunciano a qualcosa di cui sono 
golose hanno un peso enorme.

Non basta pensarla in un certo modo. La vita concreta rende concreto il 
pensiero, gli trasmette tutta l'energia della volontà e dell'impegno. Se me 
ne sto con gli amici a protestare contro la globalizzazione con una coca in 
mano e un cheesburger nell'altra, i miei pensieri non hanno valore, anche 
se ci sembra di sentirli fortissimamente. Non solo: gran parte della 
responsabilità è nostra, senza scuse. Se un ragazzo è morto, se una città è 
distrutta, se delle persone sono state picchiate a sangue e altre sono 
scomparse, la responsabilità è, prima di tutto, nostra.

In prima persona. Bush, Berlusconi, la sinistra inconcludente e immatura, i 
Black Bloc sono tutto quello che ci meritiamo, che ci siamo cercati e, in 
ogni caso, di cui abbiamo bisogno in questo momento per crescere, per 
capire, per essere migliori. Il punto di partenza è qui, intorno a noi. Non 
serve andarselo a cercare in luoghi lontani, ai margini del mondo, perché 
chi già c'è, in quei luoghi, chi sta lottando laggiù non otterrà mai niente 
se noi non sosteniamo la sua opera dando un'impostazione ben precisa alla 
nostra vita.

Vorrei parlare di una cosa che mi è successa. Nei giorni seguenti al G8, mi 
trovavo a Cambridge e lavoravo in un pub. Una sera ero in cucina e lavavo i 
piatti. Su un cucchiaio c'era una macchia rossa e ricordo che per qualche 
attimo ho cercato di mandarla via con la spugnetta, finché non mi sono 
accorto che si trattava del riflesso del mio grembiule nell'acciaio del 
cucchiaio. Ci credo che non se ne andava!!! Ma è proprio questo che 
cerchiamo di fare, di solito: cambiare il mondo esterno senza accorgerci 
che è solo il riflesso di quello che abbiamo dentro. Togliersi il grembiule 
può essere difficile, può essere scomodo, ma è l'unica cosa che possiamo 
fare. E se lo fa uno, piano piano le cose cambiano, perché il pensiero, in 
un modo o nell‚altro, si trasmette.

Ma deve essere forte, vero, coerente con la propria vita. Ed è per questo 
che poche persone possono cambiare l'opinione della gente: perché gli 
agitatori, quelli che fanno della violenza una scuola di vita e un credo 
non sono poi tanti. Sono più numerosi gli indifferenti, gli apatici, i 
privi di volontà, e sono anche i più pericolosi, perché facilmente 
conquistabili dai fanatismi. Ma li possiamo conquistare anche noi, se 
abbiamo prima conquistato noi stessi.

A questo proposito, vorrei ricordare un esperimento che è stato fatto in un 
gruppo di isole disabitate di non so quale oceano. Alcuni studiosi 
insegnarono a una scimmia che viveva in una delle isole a lavare la frutta 
nel mare prima di mangiarla. A poco a poco anche le altre scimmie della 
stessa isola, prendendo esempio dalla prima, impararono e presero 
l'abitudine di lavare la frutta. Le scimmie non potevano in alcun modo 
spostarsi da un'isola all'altra, ma quando la centesima scimmia imparò (non 
sono sicuro che il numero sia esatto, ma non credo che sia importante), in 
tutte le altre isole tutte le scimmie, contemporaneamente, cominciarono a 
lavare la frutta...


Matteo Giuffrida