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Tommaso Moro e il processo SME



Fonte: http://www.rosabianca.org/isolautopia.htm

NELL'ISOLA DI UTOPIA


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Nell’isola di Utopia, immaginata nel 1516 da Thomas More (Tommaso Moro), 
non sono assolutamente ammessi avvocati, perché le cause non devono venir 
trattate "con astuzia" o con "cavillose discussioni di legge". More era il 
più grande avvocato di Londra, la testa più acuta d’Inghilterra. Poi 
divenne primo ministro, infine martire della fede per mano del suo re, 
Enrico VIII. Scrivendo, con una notevole dose di ironia, della società 
buona immaginata sulla sperduta isola di "Utopia", More criticava la 
società del suo tempo e in particolare il suo sistema politico-giudiziario, 
dove le troppe e intricate leggi, e i raggiri dei furbi, impedivano di 
arrivare alla verità. Che direbbe oggi, di fronte al processo Sme-Ariosto, 
esempio luminoso e terrificante di raggiro da parte dei furbi? Di fronte 
all’avvocato-parlamentare Previti che è riuscito per anni a non presentarsi 
in tribunale? Di fronte al capo del governo Silvio Berlusconi che utilizza 
il ministro della giustizia per trovare tutti i cavilli di legge possibili 
per impedire che si svolga un processo nel quale lui stesso, Berlusconi 
Silvio, è imputato? Forse More dovrebbe constatatare amaramente che, cinque 
secoli dopo, sono addirittura aumentate l'arroganza e la 
spudoratezza.Berlusconi e Previti sono accusati di aver comprato dal 
magistrato Renato Squillante una sentenza in loro favore nella vendita 
della società Sme. Un'accusa gravissima. Ma invece di favorire il rapido 
svolgimento del processo per liberarsi al più presto dall'onta, lo bloccano 
utilizzando mezzi e parole che in un paese civile provocherebbero una 
sollevazione generale.

Purtroppo la sollevazione non c’è. Storditi dalle televisioni, rimpinzati 
di benessere, gli italiani assistono allo scontro come ad una partita di 
calcio. Come se non fosse in gioco la loro libertà, il senso stesso della 
democrazia che ha il suo fondamento nell’uguaglianza di fronte alla legge. 
Qualcuno dice che la vicenda è troppo complicata. No, no, si capisce bene 
se si vuol capire. Tutto è terribilmente chiaro: chi ha il potere vuole 
impedire di essere giudicato. Perciò cambia le leggi (vedi rogatorie 
svizzere e diritto societario, primi atti del Parlamento), così certi 
processi a suo carico non si possono più fare; intimidisce i giudici e 
costruisce campagne di diffamazione a loro danno usando le televisioni di 
cui dispone; prende le distanze dal contesto europeo, che lo vincolerebbe a 
più rigorose norme in materia giudiziaria; si dichiara vittima di 
persecuzioni.Il potente si fa beffe della legge. Lui è la legge. Lui è il 
diritto, l’economia, la finanza, la pubblicità. Lui è il governo, il 
parlamento, la politica interna, la politica estera. Lui è la verità che 
ogni giorno diffonde tra il popolo battendo la grancassa mediatica. Questo 
è il funerale della democrazia.

Il 17 febbraio prossimo saranno dieci anni dall’arresto di Mario Chiesa che 
inaugurò la stagione di Mani pulite. Triste anniversario se non sarà 
l’occasione per svegliarsi, per tornare a farsi sentire, scrivendo, 
protestando, togliendo la fiducia, se disgraziatamente gliel’abbiamo data, 
al nuovo padrone. Non passerà molto tempo che, come per gli anni di 
Tangentopoli, ci si vergognerà di questa stagione. Dei silenzi, delle 
complicità, delle vigliaccherie che hanno accompagnato i colpi mortali allo 
stato di diritto inferti dal nuovo padrone e dalla sua servitù. Anni dove 
si è continuato a vivere come sempre, come se nulla fosse, ciascuno facendo 
il suo mestiere, occupandosi dei suoi affari e dei suoi cari, come sempre 
accade nei più nefasti momenti della storia. Chi a studiare, e a curare 
libri e carriera, come tanti silenziosi professori universitari; chi a 
comprare e a vendere, come tanti imprenditori, per nulla sgomenti che 
l’imprenditoria al potere dimostri la sua massima capacità nel raggiro, e 
non nella competizione leale; chi a curare scuole private e otto per mille, 
in mancanza di concordati da firmare, come buona parte della gerarchia 
cattolica italiana, che considera un peccato di gioventù il proprio 
documento "Educare alla legalità", del 4 ottobre 1991, che anticipò Mani 
pulite e che sferzò la pigrizia e l’ignavia di tanti cattolici. Chini sul 
proprio particulare, si lascia che a sbrigarsela con i colpi mortali allo 
stato di diritto siano i giudici. Supplenti, ieri come oggi, di una società 
senza spina dorsale, capace di emozioni e indignazioni tanto passeggere 
quanto opportunistiche: basti vedere il tradimento verso Mani Pulite della 
Lega Nord e di Alleanza Nazionale, ma anche di una bella fetta della 
sinistra nella stagione infelice della bicamerale di D’Alema. Dieci anni 
dopo, è tempo di tornare eretti. Giustamente Saverio Borrelli, nel suo 
ultimo discorso da Procuratore generale, ha invitato a resistere sulla 
linea del Piave della legalità. Resistere, resistere, resistere, tre volte 
resistere. Di fronte a questo accorato appello, Thomas More di certo 
tirerebbe un respiro di sollievo: non tutto è definitivamente perduto.

Giovanni Colombo e Vincenzo Passerini

Milano, 12 gennaio 2002

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Giovanni Colombo è Presidente nazionale della Rosa BIanca e consigliere 
comunale di Milano

Vincenzo Passerini è consigliere regionale del Trentino Alto Adige