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RESOCONTO MISSIONE DI PACE IN PALESTINA
ACTION FOR PEACE 27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
Per informazioni: Silvia Macchi <s.macchi@libero.it>
Gerusalemme, 28 dicembre 2001
MANIFESTAZIONE DELLA COALIZIONE DELLE DONNE PER UNA PACE GIUSTA
Oltre 3000 pacifisti - israeliani, europei e nordamericani - hanno accolto
l'invito della Coalition of Women for a Just Peace a manifestare
silenziosamente per le strade di Gerusalemme nell'ultimo venerdì dell'anno.
Alle "manine" delle Donne in nero con la scritta "basta con l'occupazione"
si sono aggiunti gli striscioni di solidarietà delle delegazioni italiana,
francese e belga, e numerosi cartelli con slogans quali "smantellare subito
gli insediamenti" e "confini del '67 = confini di pace". Presenti anche
alcuni parlamentari italiani (il senatore Marino, on. Giovanni Russo Spena
e on. Silvana Pisa) e il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino.
Il corteo si è mosso verso le 11,00 da Paris Square, a Gerusalemme Ovest,
ed è arrivato dopo un'ora davanti alle mura della città vecchia, alla Porta
di Giaffa. Tutto si è svolto nella massima tranquillità, nonostante la
presenza di piccoli gruppi di coloni che contestavano con veemenza
l'iniziativa dai bordi della strada.
Alla Porta di Giaffa i manifestanti si sono raccolti intorno ad un palco
per ascoltare le testimonianza di numerosi pacifisti israeliani e di alcune
personalità palestinesi ed europee. Tra queste: Shulamit Aloni, ex-ministra
israeliane ed esponente storica del movimento pacifista israeliano, Pnina
Firestein, dell'organizzazione antimilitarista New Profile, Jeff Halper,
direttore dell'Alternative Information Center e promotore della Campagna
contro la demolizione delle case, Zaira Kamal, delegata alle questioni di
genere presso il Ministero della Pianificazione e della Cooperazione
Internazionale dell'ANP, Luisa Morgantini, parlamentare europea e donna in
nero.
La manifestazione si è conclusa verso le 13,30 con il gospel una cantante nera.
Gerusalemme, 28 dicembre 2001
INCONTRO CON I PACIFISTI ISRAELIANI
Nel pomeriggio, presso l'Hotel New Imperial, nella città vecchia, la
delegazioni italiana ha incontrato i pacifisti israeliani. I momenti di
dibattito sono stati due: uno incentrato sulle attività di New Profile e
della Campagna contro la demolizione delle case; l'altro dedicato
essenzialmente ai movimenti delle donne che fanno capo alla Coalizione per
una Pace Giusta.
L'incontro con le donne è stato coordinato da Debbie Lermann, donna in nero
israeliana, che attualmente lavora presso il Parlamento Europeo in tandem
con la palestinese Jihan Anastas.
La Coalizione ha la peculiarità di coinvolgere numerosi gruppi stranieri
nelle sue iniziative, come nel caso dell'ultimo venerdì dell'anno quando in
oltre 100 città del mondo si manifesta con gli stessi slogans.
La Coalizione è costituita da 9 movimenti di donne israeliane, non tutti
rappresentati alla riunione. Sono intervenute in successione esponenti
delle Donne in Nero, di Bat Shalom, di Windows e del WILPF (Lega
Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà).
L'idea delle Donne in Nero è nata a Gerusalemme, durante la prima Intifada
(1988), come dimostrazione di lutto per le morti inutili da entrambe le
parti e riprende l'esempio delle Madri di Maggio, in Argentina. Il
movimento ha raggiunto rapidamente oltre 30 gruppi locali in Israele. Dopo
gli accordi di Oslo(1993) molte hanno lasciato il movimento, ritenendo che
non fosse più necessario. Ma uno dei primi nuclei, quello di Tel Aviv, è
sempre rimasto attivo, scendendo in piazza tutti i venerdì senza
interruzioni. Con la seconda intifada, il movimento sta riprendendo
consistenza. Oggi conta 12 gruppi locali, un numero destinato ad aumentare
e soprattutto a diversificarsi. Esistono due gruppi locali di palestinesi
israeliane, nelle città di Nazareth e Acre, e a Tel Aviv le più giovani
hanno formato un gruppo autonomo rispetto a quello originario, introducendo
nuove pratiche di disobbedienza civile.
Bat Shalom rappresenta la componente israeliana del Jerusalem Link, mentre
la componente palestinese è costituita dal Jerusalem Center for Women. Da
entrambe le parti si porta avanti un lavoro parallelo a favore del dialogo
e informato da una serie di principi (ripresi in gran parte dalla
Coalizione). I fondamentali sono: due stati per due popoli; mettere fine
all'occupazione e ristabilire i confini del '67; assumersi la
responsabilità dei problemi creati ai palestinesi con la formazione dello
stato di Israele (problema dei rifugiati); mettere fine alla politica dei
militari e della violenza e dare spazio alla politica delle donne, che
devono avere un ruolo attivo nei negoziati di pace. La priorità attuale di
Bat Shalom è la richiesta di Protezione Internazionale per il Popolo
Palestinese.
Infine Windows è un'organizzazione israelo-palestinese che ha come
obiettivo la promozione della conoscenza reciproca come base per la
costruzione del dialogo. I campi di attività sono essenzialmente tre: 1)
una rivista bimensile per ragazzi (10-14 anni) dove vengono trattati tutti
i temi sollecitati dai giovani lettori, dallo sport all'identità nazionale.
La collaborazione tra le due parti è assai difficile dopo l'Intifada, ma
continua. Il gruppo redazionale sta lavorando ora alla messa a punto di
strumenti educativi che possano aiutare genitori e insegnanti ad affrontare
con i ragazzi i problemi attuali. 2) Un centro dell'amicizia a Tel Aviv,
con programmi culturali di vario tipo, che si prefigge di far conoscere
agli israeliani il punto di vista dei palestinesi. Esiste un progetto per
la creazione di centri analoghi in campo palestinese, attualmente bloccato
per la situazione di conflitto. 3) Attività di aiuto umanitario ai
rifugiati (cibo, giochi) e di sostegno ai bambini di famiglie disagiate
nella città di Giaffa.
L'esponente del WILPF ha sottolineato l'importanza delle connessioni
internazionali che caratterizzano la Lega per il contatto tra le donne
israeliane e le donne delle comunità ebraiche nel mondo. Questo tema è
stato oggetto di dibattito e c'è stata un'esplicita richiesta di Debbie
affinché le donne italiane si facciano promotrici di una possibile
relazione tra donne israeliane e donne ebree italiane. Debbie ha
sottolineato la rilevanza politica di tale attività poichè il governo
Sharon sembra particolarmente sensibile alle pressioni delle comunità
ebraiche fuori da Israele.
Sempre da Debbie viene la proposta di creare un momento ad hoc (un
seminario) per confrontarsi sulle pratiche delle donne israeliane e delle
donne italiane rispetto alla questione israelo-palestinese.
ACTION FOR PEACE 27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi
Gerusalemme, 29 dicembre 2001
MISSIONE A NABLUS
Nella giornata del 29 dicembre, la delegazione italiana, composta di oltre
200 persone, si è divisa in tre gruppi con mete e programmi differenti. Una
cinquantina di persone sono andate a manifestare al check point tra
Ramallah e l'università di Birzeit, insieme agli studenti palestinesi e a
pacifisti nordamericani e francesi. Una trentina si è unita alla
delegazione belga e si è recata a visitare i luoghi di origine dei
rifugiati palestinesi (Haifa ed altri villaggi in territorio israeliano).
Il resto della delegazione, con una consistente componente sindacale, si è
recata a Nablus insieme ad una cinquantina di francesi e belgi.
Il viaggio di andata, iniziato alle 8 e 30, è durato molto più del previsto
perché i pullman sono rimasti fermi più di un'ora al check point di Nablus.
Motivo del contendere è stata la presenza di tre ragazzi palestinesi,
volontari del PNGO incaricati di accompagnarci. I soldati israeliani, dopo
aver controllato il passaporto ad ognuno di noi, proponevano di farci
continuare a piedi sulla strada principale mentre i pullman con i tre
palestinesi ci avrebbero raggiunto più tardi, attraverso una strada
secondaria aperta ai palestinesi. La proposta è sembrata inaccettabile e
soprattutto poco credibile. Chi ci assicurava che i palestinesi avrebbero
potuto effettivamente raggiungerci, una volta che non erano più tutelati
dalla nostra presenza? Davanti al nostro rifiuto e dopo una mezz'ora di
ulteriori discussioni, i soldati ci fanno passare tutti, palestinesi compresi.
Arriviamo a Nablus a mezzogiorno e troviamo moltissime persone ad
aspettarci: autorità, sindacalisti, famiglie dei martiri, attivisti ed
attiviste vecchi e giovani, studenti, ecc. Ci accolgono nella grande sala
della sede del sindacato, un edificio recente e ben attrezzato realizzato
grazie ai finanziamenti di diverse organizzazioni sindacali europee. Sul
palco si succedono velocemente alcuni rappresentati delle società civile
palestinese e il governatore di Nablus. Quindi ci viene chiesto di
raggiungere l'università per unirci ad una manifestazione degli studenti
contro alcune postazioni militari israeliane vicinissime alle case
palestinesi. Una volta sul posto, ci rendiamo conto dell'incredibile
situazione di vessazione cui sono sottoposti gli abitanti di Nablus.
La cosiddetta "strada secondaria", unico accesso alla città aperto ai
palestinesi, è un viottolo sterrato che scende piuttosto ripidamente dalla
cima di una delle montagne che circondano la vallata in cui sorge Nablus.
Chi vuole uscire, quindi, deve salire in auto in cima alla montagna, poi
discendere il viottolo a piedi per circa 500 metri, fino a raggiungere
un'altra auto o un autobus. Alcuni asini vengono utilizzati per i bagagli
più pesanti, ma in genere pacchi e bambini vengono portati a forza di
braccia. Ma questo ancora è quasi normale per chi vive nei territori. La
cosa veramente spaventosa sono i carrarmati che sostano su un pianoro che
sovrasta il viottolo. Di là i soldati si "divertono" a terrorizzare
chiunque passa, sparacchiando di tanto in tanto ed obbligando i malcapitati
ad abbandonare il loro carico sulla strada per ripararsi nel vicino dirupo.
E questo tutti i minuti di tutti i giorni. Naturalmente esiste una
"motivazione ufficiale": i carrarmati proteggono l'insediamento di coloni
sorto poco lontano.
Insieme agli studenti e ad un buon numero di donne e uomini palestinesi, le
delegazioni straniere percorrono il viottolo e risalgono verso i
carrarmati. Davanti un cordone di stranieri, dietro i ragazzi palestinesi,
dietro ancora un misto di stranieri e palestinesi. A cinquanta metri dai
carrarmati, il corteo viene fermato da raffiche di mitra sparate a terra.
Si indietreggia, qualcuno scappa, i ragazzi palestinesi passano in testa.
Poi ci si ricompatta e si torna ad avanzare. Ogni sparo o rombo di motore è
accolto da fischi e slogans, ma tutti si abbassano per paura dei
proiettili. Il mio vicino, palestinese, mi dice che ad ogni manifestazione
ci sono dei feriti e spesso anche qualche morto. Questo spiega la presenza
di ben tre ambulanze alle nostre spalle e di alcuni giovanissimi
barellieri (e tra loro molte ragazze) che accompagnano il corteo, pronti ad
intervenire.
Tra spari e grida, il mio vicino ed io iniziamo a discutere. Gli dico che
noi non vogliamo assolutamente altri "martiri", che davanti ci sono troppi
ragazzi giovani e che dobbiamo fare qualcosa. Lui mi risponde che i
palestinesi devono combattere e che i "martiri" sono il prezzo necessario
di questa lotta. Io ribatto che dobbiamo trovare altre forme di lotta
perché non trovo accettabile la morte di tante giovani persone. Nonostante
la distanza delle nostre posizioni, i toni sono molto pacati. Intanto che
parliamo, lui si preoccupa di farmi abbassare ogni volta che si sente uno
sparo. Io gli chiedo se mi può far capire un po' meglio dove ci troviamo e
che cosa sta succedendo..
La manifestazione dura circa un'ora. Ci ritiriamo senza problemi,
chiacchierando tra noi, scherzando anche, mentre l'ennesimo carrarmato
prende posizione accanto gli altri. Per un'ora una interminabile colonna di
persone, di tutte le età e carica di ogni sorta di bagaglio (pacchetti e
pacconi, lattine, sacchetti di plastica, bottiglie, sacchi di iuta,
valigie, ecc.), ha percorso il viottolo in tutta fretta, senza mai
fermarsi, approfittano della nostra presenza davanti ai carrarmati. Per
un'ora abbiamo garantito loro di poter percorrere poche centinaia di metri
senza rischi. Ce ne andiamo soddisfatti ma io non posso fare a meno di
chiedermi se non faremmo meglio a restare.
ACTION FOR PEACE 27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi
Negato ai pacifisti italiani, europei e americani il permesso di accedere a
Hebron
Hebron chiusa fino al 9 gennaio
Comunicato stampa
Gerusalemme 30 dicembre
E' durata due ore, dalle 9 alle 11, la trattativa tra il movimento
internazionale Action for Peace e l'esercito israeliano, che aveva bloccato
i pullman dei pacifisti al check-point tra Betlemme e Hebron, impedendo
loro di raggiungere la città dover li aspettava il sindaco.
Due ore durante le quali i coloni israeliani di Hebron (notoriamente i più
fanatici e intolleranti) si sono fatti vedere e sentire, non solo
insultando i pacifisti, ma soprattutto intimando ai soldati di "non
trattare con i terroristi".
Gli stessi soldati hanno fatto capire ai pacifisti italiani che il problema
era proprio l'aggressività dei coloni. "E' la prima volta che vediamo i
coloni dare ordine all'esercito, è impressionante quanto sia aumentato il
loro peso politico" ha dichiarato il senatore Giovanni Russo Spena, che ha
condotto la trattativa insieme agli altri parlamentari presenti.
I soldati hanno mostrato un ordine di polizia, in base al quale Hebron e
tutta la sua regione sono "chiuse" (nessuno può cioè entrare e uscire)
dalle 12 del 29 dicembre al 9 gennaio compreso. Una misura che inasprisce
ulteriormente le già disumane condizioni di vita della popolazione civile,
cui la missione Action for Peace è venuta a testimoniare la solidarietà
della società civile europea.
In assenza del console d'Italia Ghisi, il viceconsole Petruzzella ha
tentato una trattativa telefonica con le autorità militari israeliane,
ricevendone in cambio l'offerta o di consentire al sindaco di Hebron di
incontrare i pacifisti a Gerusalemme o di lasciar passare i soli
parlamentari - oltre al senatore Russo Spena, l'eurodeputata Luisa
Morgantini e i deputati Silvana Pisa e Luigi Marino - trasportati su una
camionetta dell'esercito israeliano.
Entrambe le proposte sono state giudicate inaccettabili e rifiutate.
I pacifisti europei sono giunti nei giorni scorsi in Palestina in segno di
solidarietà con la società civile palestinese e con le forze di pace
israeliane e per richiamare l'attenzione della comunità internazionale
sulla necessità di una forza di interposizione per la tutela della
popolazione civile. Dall'Italia sono giunte oltre 200 persone:
rappresentanti di associazioni, sindacati, associazioni delle donne,
organizzazioni non governative, ecc.... L'iniziativa, denominata "Action
for Peace" e' promossa dalla Piattaforma italiana per la pace in Medio
Oriente, che raccoglie questo vasto arco di forze, e si inserisce
nell'iniziativa europea coordinata dallo ECCP (European Coordinating
Committee for the question of Palestine)
ACTION FOR PEACE 27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi
Gerusalemme, 31 dicembre 2001
MANIFESTAZIONE A BETLEMME
Per la fine dell'anno i Patriarchi di Betlemme hanno promosso una
manifestazione con l'obiettivo di forzare il check-point di Betlemme e
recarsi a Gerusalemme, insieme ai loro fedeli palestinesi, per pregare nei
rispettivi luoghi sacri. La manifestazione è sostenuta dalle delegazioni
internazionali presenti in Palestina, con il coordinamento del
Rapprochement between people, e dai pacifisti israeliani.
Il concentramento avviene intorno alle 10, davanti al Bethlehm Hotel. Sono
presenti un migliaio di palestinesi e tra loro molti religiosi delle più
disparate confessioni (cattolici, ortodossi, maroniti, musulmani e anche un
monaco buddista). Il corteo si forma: in testa le delegazioni nordamericane
e francesi con una rappresentanza italiana, seguono i patriarchi, quindi
gruppi di fedeli (molte le donne e i bambini), chiudono gruppi di giovani
palestinesi mescolati con gli italiani del campo anti-imperialista. I 200
italiani di Action for Peace formano i cordoni laterali.
Passiamo davanti al Paradise Hotel, che nel passato ha ospitato altre
delegazioni italiane, reso inagibile dai recenti bombardamenti. Quindi
deviamo per Caritas street, poiché il tratto di strada davanti alla Tomba
di Rachele è sbarrato da blocchi di cemento e presidiato dai soldati
israeliani. In Caritas street, proprio di fronte alle sede dell'Applied
Research Institute - Jerusalem (ARIJ) dove abbiamo molti amici, l'esercito
israeliano ha piazzato alcune camionette. Il corteo è costretto a fermarsi.
Iniziano i soliti negoziati. Tutti colgono l'occasione per scambiare due
chiacchiere con i loro "vicini di manifestazione" e i moltissimi
giornalisti approfittano della sosta per intervistare i Patriarchi. Dopo
una mezz'ora le camionette vengono spostate e si allontanano. Possiamo
procedere e arrivare in prossimità del check-point, dove ci attende un
altro sbarramento di camionette.
Qui ci fermiamo di nuovo e iniziano i negoziati più difficili. Il tentativo
è quello di passare tutti insieme e imbarcarci sui pullman che ci aspettano
dall'altra parte. Ma i negoziatori riescono ad ottenere l'ingresso a
Gerusalemme solo per i Patriarchi. Nessun altro palestinese potrà
accompagnarli. I fedeli palestinesi potranno recitare le loro preghiere
davanti al check-point, prima che i Patriarchi lascino Betlemme.
Obbedendo alle richieste dei promotori, nessuno tenta di forzare il
check-point. Iniziano le preghiere, una per ogni confessione. Quindi il
corteo si scioglie mentre una voce al microfono dice che, nonostante lo
scarso risultato dei negoziati, l'iniziativa può essere considerata
riuscita. La manifestazione ha avuto luogo, la partecipazione è stata
ampia, non ci sono stati incidenti e, soprattutto, si è dimostrato davanti
ad un gran numero di testimoni internazionali che le vessazioni degli
israeliani non riguardano solo i musulmani e che qualsiasi palestinese,
quale che sia la sua confessione, subisce le stesse assurde limitazioni
alla sua libertà di movimento e si vede precluso di fatto l'accesso ai
luoghi sacri della città di Gerusalemme.
Gerusalemme, 31 dicembre 2001
MEZZANOTTE NELLA PIAZZA DI RAMALLAH
Alle 20 del 31 gennaio iniziano i festeggiamenti organizzati dal PNGO
(coordinamento delle ONG palestinesi) per le delegazioni internazionali.
Veniamo accolti nel teatro della Friends Boy School di Ramallah. Sul palco
un cantante e gli allievi della locale scuola di danza, una decina di
ragazzine tra gli 8 e i 14 anni e quattro ragazzini. I costumi sono
tradizionali, a colori vivaci. Dal copricapo delle ragazzine sputano
bellissimi capelli, leggermente arricciati, neri, castani, biondi. La
musica e le leggerezza delle danze commuovono tutti. Uno spettacolo
veramente straordinario.
Finiti gli applausi, arriva Mustafa Barghouti, presidente del PNGO nonché
direttore dell'HDIP (Istituto per lo sviluppo, l'informazione e le
politiche della salute). Mustafa è un medico e viene da una delle più
importati famiglie palestinesi, la stessa del leader politico Marwan
Barghouti. Parla un buon inglese e veste in modo sportivo. Con il suo
aspetto e i suoi modi informali, incarna la figura di certi nuovi dirigenti
della società civile palestinese, capace di mantenere un rapporto
dialettico con le istituzioni e i partiti, sempre preoccupato di tenere
insieme istanze nazionaliste e diritti umani.
Il suo discorso è breve ed efficace. Ringrazia una ad una le delegazioni
straniere (statunitense, canadese, francese, svizzera, belga, spagnola e
italiana). Ci dice che abbiamo contribuito a sollevare il morale della
popolazione palestinese, terribilmente basso dopo l'11 settembre. Ora sanno
di non essere soli. Ci prega di portare nei nostri paesi la testimonianza
di quanto abbiamo vissuto in Palestina e di intervenire con tutti i mezzi
presso i nostri governi e l'Unione Europea. Quindi ringrazia i tantissimi
volontari palestinesi che hanno lavorato nell'organizzazione delle missioni
e ci hanno costantemente accompagnato da una città all'altra. Infine lancia
l'augurio che il 2002 sia l'anno della liberazione della Palestina.
Alle 21,00 siamo fuori dal teatro, pronti per l'incontro con Yasser Arafat.
Ci accompagnano in un enorme sala (siamo almeno 500). Dopo pochissimi
minuti arriva Arafat, accompagnato da Mustafa Barghouti e da alcuni leaders
politici, tra cui Marwan Barghouti. Interviene per primo Mustafa Barghouti,
decisamente soddisfatto nel mostrare al Presidente i risultati del suo
lavoro. Mustafa chiede al Presidente di far intervenire tre rappresentanti
delle delegazioni presenti e Arafat risponde: "puoi far intervenire tutti
quelli che vuoi: 3, 10, 20, ...". La parola passa ai tre promotori della
campagna a livello europeo: Luisa Morgantini, il belga Pierre Galland e la
francese Claude Léostic. Infine prende il microfono Yasser Arafat.
Moltissimi gli applausi, in clima generale di festa che nessuno ha voglia
di turbare con note polemiche o altre espressioni di dissenso.
Dopo un'ora la "cerimonia" è finita e ci trasferiamo nella piazza
principale di Ramallah. Sono le 23,00 ed è già abbastanza piena. Un palco
attende gli ospiti d'onore (tra cui Marwan Barghouti e Luisa Morgantini) e
sui tetti vicini sono pronti i fuochi d'artificio. Vengono distribuite
delle candele bianche da accendere alla mezzanotte. Continua ad arrivare
gente, molti ragazzi ma anche intere famiglie, genitori giovani con quattro
o cinque bambini, coppie più anziane a braccetto. Ci dicono che questa
festa in piazza è una vera e propria novità per Ramallah e che da mesi non
si vedevano tante persone per strada di notte. A mezzanotte partono i
fuochi d'artificio e molti di noi tirano un sospiro di sollievo: non ci
sono armi in giro e gli unici "botti" sono quelli di Capodanno.
ACTION FOR PEACE 27 dicembre 2001-3 gennaio 2002
da Silvia Macchi
Gerusalemme, 1 gennaio 2002
INCONTRO CON ZAIRA KAMAL E REEMA HAMMAMI
Finalmente riusciamo a trovare un po' di tempo per incontrare le nostre
amiche palestinesi. Alle 18,00 del 1 gennaio, Zaira Kamal e Reema Hammami
ci raggiungono al nostro albergo. Non c'è che dire: un ottimo inizio d'anno!
Zaira Kamal ha superato i cinquanta ed ha vissuto in prima persona la prima
intifada, subendo sia il carcere che interminabili mesi di arresti
domiciliari. Oggi è delegata alle questioni di genere presso il Ministero
della Pianificazione e della Cooperazione Internazionale dell'ANP.
Reema Hammami è invece una quarantenne nata e cresciuta negli USA che ha
partecipato attivamente al dopo-Oslo. Insegna Antropologia all'Università
di Birzeit e fa parte del Programma di Women Studies della stessa università.
L'incontro è presieduto da Raffaella Lamberti, che invita le due ospiti ad
esporre la loro analisi della situazione attuale, mettendo in evidenza le
differenze rispetto alla prima intifada, e a passare quindi alla
formulazione di possibili linee di azione.
Entrambe esordiscono con parole di ringraziamento nei nostri confronti.
Zaira ritiene che le iniziative "people to people", quale la nostra,
possono servire a fare arrivare la sua voce in Europa, superando la
censura dei media. Reema sottolinea il valore della nostra missione in
termini di rottura dell'isolamento e della solitudine del popolo palestinese.
Passando all'analisi, Zaira parte dicendo che la causa prima delle
differenze tra prima e seconda intifada va ricercata nel processo di Oslo e
nella conseguente costituzione delle ANP (Autorità Nazionale Palestinese).
Durante la prima intifada non c'erano dubbi: la Palestina era un paese
sotto occupazione e l'intifada era una lotta di liberazione. Nella seconda
intifada, invece, l'esistenza dell'ANP confonde le idee soprattutto a chi
guarda dall'esterno. I cittadini europei non sanno che l'ANP governa solo
la zona A (18% della Cisgiordania e 70% della striscia di Gaza) per cui non
capiscono perché si parla di occupazione e non percepiscono l'intifada come
lotta di liberazione. La maggioranza pensa che si tratti di una guerra tra
due paesi, mentre di fatto c'è un popolo occupato e un esercito occupante.
Proprio per l'esistenza della ANP, la reazione di Israele è oggi molto più
violenta che in passato. Dopo 15 mesi di intifada il bilancio è di 700
morti, 2000 feriti, centinaia di case distrutte, centinaia di migliaia di
alberi sradicati, pesanti limitazioni alla libertà di movimento, 300.000
persone che hanno perso il lavoro e un tasso di disoccupazione altissimo.
Il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e per moltissimi
il pasto principale è costituito da the e pane.
I Palestinesi hanno perso qualsiasi speranza per il futuro e ciò ha indotto
comportamenti molto violenti nei confronti degli Israeliani. Per quanto
riguarda la sofferenza delle donne palestinesi, molte sono le vedove
giovani e giovanissime o le donne con il marito disoccupato che si
ritrovano senza reddito, senza formazione al lavoro e con i bambini piccoli
da accudire. Alla loro sofferenza si aggiunge inevitabilmente quella dei
figli: molti sono i casi di perdita della parola, di difficoltà scolastica,
di perdita della capacità di concentrazione. C'è una grande necessità di
trattamento psicologico per i bambini e di formazione al lavoro per le donne.
Anche per quanto riguarda il rapporto tra donne e intifada molto è cambiato
tra prima e seconda intifada. Sono mutati i luoghi dello scontro: i soldati
israeliani non sono più nelle strade, davanti alle case, non fanno più
parte degli incontri quotidiani per chi si muove solo all'interno del
proprio villaggio; le manifestazioni si sono spostate ai check point e
spesso prevedono l'uso delle armi per cui le donne non partecipano.
Inoltre, con l'avvento dell'ANP, la questione "nazionale" è uscita dagli
interessi delle organizzazioni di donne che si sono maggiormente dedicate
alla questioni sociali e ai difesa loro diritti nell'ambito della società
palestinese. Lo stesso vale per i giovani e per i lavoratori. Oggi c'è una
ripresa di interesse per la questione nazionale e la volontà della donne di
tenere insieme questione nazionale e questione sociale. Ma non è facile ed
è proprio su questo punto che Zaira chiede la nostra collaborazione.
L'analisi di Reema parte dalla affermazione che la situazione attuale è
estremamente pericolosa e che tale pericolosità è andata crescendo con
l'elezione di Sharon, poi con l'11 settembre e ancora nelle ultime due
settimane prima di Natale.
La politica di Sharon, che raccoglie il 55% del consenso israeliano, mira
alla eliminazione della ANP e alla distruzione di qualsiasi identità
nazionale palestinese. Non potendo però agire direttamente in questo senso,
usa tutti gli strumenti possibili per ottenere lo stesso risultato
indirettamente, tendendo un serie di trappole politiche alla ANP e minando
l'economia dei territori. Una volta eliminata l'ANP, i palestinesi
resterebbero intrappolati in una serie di bantustan, governati da leader
locali controllati da Israele e circondati dagli insediamenti dei coloni.
Per quanto riguarda le differenze tra prima e seconda intifada, Reema
descrive la prima come un largo movimento di massa, con la partecipazione
delle organizzazioni dei lavoratori e di altre organizzazioni di base, che
ha come obbiettivo la pace e che predilige la disobbedienza civile alla
violenza armata. Per queste sue caratteristiche, la prima intifada riuscì a
raccogliere il consenso di parte dell'opinione pubblica israeliana aprendo
così la strada al processo di pace.
La seconda intifada, invece, avviene in un momento in cui la società
politica palestinese vive una crisi di democrazia interna, in cui non
esiste una struttura capace di mobilitare la popolazione né di elaborare
una strategia politica. Il background di questa intifada è il processo di
pace e il governo israeliano sfrutta questo elemento per dire che i
Palestinesi non vogliono la pace, ottenendo così di ricompattare l'opinione
pubblica israeliana a destra e contro i Palestinesi.
Reema concorda con Zaira nel definire "militarizzata" la seconda intifada.
Questa militarizzazione, ovvero il ricorso alle armi da entrambi le parti,
è stata strategicamente voluta dal governo israeliano proprio per
compattare la sua opinione pubblica. Sharon ha infatti imparato dalla prima
intifada che una rivolta non violenta dei palestinesi può raccogliere un
buon numero di consensi tra i cittadini israeliani. Fin dai primi mesi
l'esercito israeliano ha risposto con le armi al lancio delle pietre da
parte dei ragazzi palestinesi. Ed infatti nei primi due mesi il numero di
vittime palestinesi sotto i 18 anni è altissimo. D'altra parte, in questa
seconda intifada, la società palestinese non sembra avere la struttura
necessaria per organizzare una rivolta civile che vada oltre il lancio
delle pietre. Il processo di pace e la successiva formazione dell'ANP hanno
portato ad una sostanziale smobilitazione della popolazione palestinese. E
la sistematica militarizzazione dell'intifada ha reso ancora più difficile
l'organizzazione di una resistenza su larga base popolare.
Reema affronta quindi la relazione tra donne e intifada, riprendendo quanto
già detto da Zaira. Il problema principale è rappresentato dalla scissione
tra questioni nazionali e questioni sociali in seno alle organizzazioni
delle donne. Tale problema era già evidente prima dell'intifada, tanto è
vero che cinque anni fa l'Università di Birzeit aveva organizzato una
conferenza su questo tema. L'intifada ha reso palesi le conseguenze di
questa scissione, in termini di non partecipazione delle donne. Tuttavia
Reema sottolinea che, a suo avviso, le donne non possono affrontare le
questioni nazionali da sole e che l'elaborazione politica deve avvenire in
un contesto più ampio che includa tutte le componenti della società.
Si passa quindi al secondo tema proposto da Raffaella Lamberti: i progetti
per il futuro. Su questo punto, Zaira e Reema sono concordi nel riconoscere
la situazione attuale come estremamente difficile. La società palestinese è
stremata da 15 mesi di lotta quotidiana per la sopravvivenza. Zaira porta
il suo esempio personale: gran parte del suo tempo e delle sue energie sono
consumate negli spostamenti, dagli attraversamenti dei check point a piedi
in mezzo al fango e alla polvere, dal folle passare da un taxi all'altro
anche per brevissimi tragitti. Quando finalmente si trova seduta alla sua
scrivania non ha più le forze e il tempo necessario per elaborare una
strategia politica. Reema ci confessa di essere estremamente depressa, di
uscire poco di casa e di passare molto tempo a letto. Questo è ciò che
voleva Sharon e ci è riuscito; ma, al tempo stesso, questo sta rafforzando
la società palestinese che sta dimostrando una incredibile capacità di
resistenza.
Per quanto riguarda la nostra comune azione per il futuro, Zaira individua
una serie di priorità:
1) fare pressione politica su tutti governi per ottenere la protezione
internazionale
2) sostenere le ong e le altre organizzazioni della società civile al fine
di creare nuove opportunità di lavoro, specialmente per le donne. Non basta
più lavorare sulla formazione e sui diritti umani; servono urgentemente
interventi che diano alle donne la possibilità di avere un reddito stabile
e duraturo
3) fare pressione su Israele attraverso strumenti quali il boicottaggio dei
prodotti dei settlements o altri strumenti in grado di produrre una danno
economico
4) sostenere i servizi sociali e psicologici, sviluppando un'offerta
differenziata. Zaira si sofferma sulle attività di drammatizzazione che
possono aiutare i bambini ad elaborare la sofferenza attuale. Finora questo
tipo di attività sono state trascurate e hanno ricevuto finanziamenti irrisori
5) sostenere i prodotti del lavoro delle donne per aumentare il loro reddito
Reema riprende le priorità di Zaira, aggiungendo alcune sue considerazioni.
Per quanto riguarda il lavoro da fare all'estero, ritiene fondamentale il
lavoro che possiamo fare rispetto ai nostri governi e le attività di
boicottaggio nei confronti di Israele. Propone anzi di andare oltre il
boicottaggio economico e di lavorare per il boicottaggio culturale, come si
fece per il Sudafrica (escludere le squadre israeliane dalle competizioni
sportive; impedire le tournée degli artisti israeliani; ecc.)
Passando al lavoro da fare nei territori, Reema sottolinea l'importanza
delle missioni civili di protezione perché ritiene molto difficile riuscire
a superare il veto degli USA in seno alle Nazioni Unite. Quindi ci chiede
di farle sapere di che cosa abbiamo bisogno per operare nei territori nel
senso indicato da Zaira, mettendosi a nostra disposizione per creare le
condizioni necessarie al nostro lavoro futuro
L'incontro termina sulla questione degli attentati suicidi. Reema riconosce
che si è atteso fin troppo per aprire il dibattito su questa questione ma
che qualcosa si comincia a muovere. Del resto è molto difficile esprimersi
negativamente rispetto a dei giovani che danno la loro vita per la patria.
I tutto il mondo questo tipo di comportamento è considerato positivamente.
Comunque si tratta di un dibattito che deve coinvolgere tutta la società e
non solo le donne. Quindi fa riferimento ad alcune statistiche che mettono
in relazione la situazione politica generale con la % di consensi raccolti
dagli attentati suicidi. Nel 1994, nel clima di ottimismo creato dagli
accordi di Oslo, solo il 20% dei palestinesi approvavano gli attacchi
suicidi. Tale percentuale saliva al 50% dopo tre mesi di intifada (dicembre
2000) e quindi al 75% dopo sei mesi di governo Sharon. Lo stesso andamento
si riscontra all'interno della società israeliana se si considera il
consenso degli israeliani all'assassinio dei leaders politici palestinesi.
Oggi il 70% dei cittadini israeliani approva tali assassini, mentre 5 anni
fa la percentuale era molto più bassa. Reema conclude quindi che entrambi i
fenomeni dipendono da una serie di variabili esterne alla cultura dei due
popoli, ovvero variano con il variare della situazione politica generale.
Sono destinati a crescere se il conflitto si inasprisce ulteriormente ma
possono diminuire se ritorna la speranza della pace.