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Intervista a Leoluca Orlando di Francesco Silvestri
Fonte: Narcomafie - http://narcomafie.it/art_10_2001.htm
Ottobre 2001
Cosa Nostra sempre più "nostra"
Intervista a Leoluca Orlando di Francesco Silvestri
Volto anonimo, controllo economico del territorio, violenza ridotta al
minimo: la "normalità" della nuova mafia impone per Leoluca Orlando nuovi
strumenti repressivi ma soprattutto una diversa cultura della legalità
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Docente universitario , fondatore della "Rete", intelligenza inquieta e
paradossale, Leoluca Orlando ha vissuto come sindaco di Palermo gli anni
bui delle stragi di mafia e poi, da protagonista, quelli della "primavera
di Palermo". Stagione certo straordinaria, di grande impegno civile e
morale, forse un po’ mitizzata, certo passata. Perché chi oggi si mette a
parlare di mafia rischia di incontrare sguardi annoiati o quell’ascolto
rassegnato e paziente riservato a chi rincorre fantasmi privati, a chi
torna ossessivamente sullo stesso argomento.
Onorevole Orlando, perché accade questo, perché oggi è sempre più difficile
parlare di mafia?
Io ho sempre sostenuto che esistono due modelli di mafia. Un modello che
vorrei tanto chiamare americano, ma purtroppo devo chiamare
"siculo-americano". È il modello della mafia monogenerazionale — dove il
capomafia lavora perché il figlio faccia non il mafioso ma l’avvocato, il
magistrato, il medico, come prova il fatto che le cinque famiglie mafiose
di New York hanno nomi siculo-americani ma nessuna di queste ha come capo
uno che abbia quel cognome. E un modello che possiamo chiamare
"siciliano-siciliano": il figlio del boss mafioso fa il boss e non c’è una
grande mobilità nei ruoli dei capi mafia. Ecco, questo modello, cui si è
ispirata la mafia corleonese, è stato sostanzialmente sconfitto: ha giocato
fino in fondo le sue carte con le stragi di Falcone e Borsellino e con gli
attentati a Firenze, Roma e Milano e poi, nel ’93, ha chiuso la sua
parabola. E questo certamente perché c’è stata una reazione delle persone
oneste e delle istituzioni, ma anche perché c’è stata una reazione della
mafia siculo-americana che aveva aiutato Buscetta. Non è un caso che
Buscetta fosse un siculo-americano e non un corleonese.
Lei dice che Cosa Nostra americana ha spinto per un cambiamento della mafia
siciliana?
Certo, perché il comportamento di questi "selvaggi" rovinava il mercato,
rovinava l’immagine. La mafia siculo-americana era collegata al nostro
traffico di droga, al nostro traffico di armi, aveva gli stessi interessi
della mafia che stava in Sicilia. È chiaro che un mafioso americano poteva
fare in modo che il figlio diventasse un politico o un avvocato a
condizione che la mafia non creasse allarme sociale. E in America la mafia
non creava allarme sociale, di regola non uccideva magistrati, poliziotti e
politici. Ma quando Cosa Nostra cominciò a uccidere e a fare stragi in
Italia, per non rischiare di essere identificata con quel tipo di mafia la
mafia siculo-americana studiò il modo di eliminarla.
Veramente questo non è mai venuto fuori dal punto di vista processuale…
Ma guardiamo l’origine dei pentiti... Il vero primo duro colpo ai
corleonesi, in chiave collaborativa, venne dai mafiosi siculo-americani —
per intenderci dai gruppi che si riconoscevano in Bontade, Inzerillo,
Badalamenti. I figli di Bontade, piuttosto che di Inzerillo, frequentavano
le scuole migliori di Palermo: era un’operazione di riciclaggio rispetto al
passato mafioso della famiglia. Con il ’93, con l’assassinio di padre
Puglisi e l’arresto di Riina, la strategia stragista viene di fatto
abbandonata. E a quel punto qualcuno dice che la mafia non c’è più. In
realtà stiamo tornando ad un modello che è quello pre-corleonese,
ovviamente adeguato ai nuovi tempi.
E in cosa consiste questo adeguamento?
Bisogna rendersi conto che il panorama è cambiato: non soltanto per i colpi
dati alla mafia, o perché ormai lo stragismo non era più utile rispetto
agli interessi internazionali della mafia, ma anche per il fatto che
progressivamente cala l’importanza della droga negli interessi di Cosa
Nostra. Quindici anni fa era il business più significativo, oggi di droga
non se ne parla quasi più: è sempre un affare molto importante, però il
gruppo criminale che controlla il traffico di droga negli Stati Uniti
d’America non sembra essere più quello siciliano o colombiano, ma quello
messicano. C’è in parte uno spostamento di potere, in parte un cambiamento
di interessi del potere. La mafia che controllava il traffico di
stupefacenti controlla a mio avviso altri affari e lascia ai messicani il
compito di occuparsi della droga, che è diventata un business considerato
minore di fronte ad altri affari.
Che genere di affari?
C’è il riciclaggio del denaro sporco, che richiede intelligence e
preparazione tecnica. Ci sono le ecomafie. C’è il filone che riguarda
l’utilizzo di risorse finanziarie legate ad interventi non collegati a
guerre, cioè i grandi flussi finanziari che sostengono i paesi in via di
sviluppo.
Sta parlando del meccanismo della globalizzazione?
Qual è l’elemento di novità nell’economia mondiale? È che per la prima
volta non c’è più la coincidenza tra il luogo della produzione e il luogo
del comando. Quel modello è finito. Il luogo del comando può essere
indifferentemente la "finanziarizzazione" o la telematizzazione. Se poi le
due cose coincidono, si ha il massimo risultato: questo vale per l’economia
legale, perché non dobbiamo pensare che valga anche per l’economia
illegale? La mia opinione è che si stia operando un passaggio indolore
dalla mafia corleonese a quella siculo-americana. Furono 48, credo, i
familiari di Buscetta uccisi dai corleonesi mentre Buscetta parlava. Oggi
noi abbiamo 1100 pentiti, ma da anni nessuno dei loro parenti viene non
dico ucciso ma nemmeno schiaffeggiato!
E questo cosa sta a significare?
Che in questa operazione c’è una regia. E la regia è l’eliminazione di
tutte le tossine della mafia corleonese, perché questo potrà consentire a
soggetti in giacca e cravatta, che parlano le lingue e che fanno affari, di
comandare. Il passaggio dalla mafia vecchia alla nuova mafia nuova non è
però ancora concluso: pur nell’attuale predominio del modello
siculo-americano, permangono soggetti mafiosi di stampo corleonese.
Ma il tradizionale controllo del territorio che fine farà?
La mafia continua ancora a controllarlo in due modi, uno antico e uno
moderno. Quello antico è il controllo fisico, ma accanto a questo c’è anche
il controllo immateriale, cioè finanziario. Immaginiamo che la mafia abbia
una mano, un cuore e un cervello: noi finora abbiamo dato un colpo
fortissimo alla mano, l’aspetto militare, abbiamo fortemente ridotto le
funzioni cerebrali — non si può più parlare di egemonia culturale della
mafia, di capacità della mafia di entrare nella testa della gente — ma al
cuore, alla finanza, abbiamo fatto appena il solletico.
L’esistenza di un cuore finanziario della mafia è un grave pericolo per la
democrazia…
Peggiore delle stragi... Se noi continuiamo a inseguire una mafia che non
c’è più, il boss — che sa che quella mafia non c’è più — ci guarda e si
mette a ridere. È vero che la nostra strategia ha costretto la mafia a
cambiare tattica, quindi da quel punto di vista abbiamo vinto, Palermo ha
smesso di essere una città con 240 morti ammazzati all’anno. Ma l’assenza
di omicidi significa anche che la mafia continua attraverso le reti
finanziare a condizionare la comunità, perché ha scoperto che il controllo
immateriale di una realtà è molto più efficace di un controllo materiale.
Però la mafia esiste e vive ancora nel territorio…
Certo, e il fatto che i mafiosi non si uccidano più tra di loro è segno che
c’è un’intesa. Oggi non c’è una guerra di mafia. Ma ho la sensazione che se
ne potrebbe scatenare una nuova.
A Palermo o in generale?
In Sicilia.
Lo storico Nicola Tranfaglia parla di una nuova convivenza con la mafia.
Lei pensa che in futuro sarà più difficile isolare la mafia?
Convivere con chi fa affari è molto più facile che con chi fa stragi. Lo
puoi fare anche senza accorgertene. È un problema culturale ed è per questo
motivo ho creato una Fondazione (The Sicilian Renaissance Institute, ndr.)
che gira per il mondo partendo dall’esperienza di Palermo. Il tema di fondo
è: riusciamo a inserire nell’agenda internazionale il rapporto fra
democrazia e legalità? Siamo capaci di fare entrare nell’agenda delle
Nazioni Unite il tema che non vi può essere democrazia senza pace e
legalità? La pace non la si deve affidare solo ai soldati e la legalità
solo ai poliziotti. Ho scoperto nella nostra esperienza i tratti di un
progetto che può essere utile anche fuori dalla realtà siciliana, con
riferimento a temi che non sono soltanto la mafia.
Ma c’è una teoria forte della legalità? Esiste un’idea di governo partendo
da questi temi?
C’è la legalità, la cultura della legalità e l’economia della legalità. Che
differenza c’è tra legalità e cultura della legalità? Parlavo tempo fa con
un mio amico straniero, un imprenditore, che mi diceva che pagare le tasse
era per lui un diritto. Lì ho capito che differenza c’è tra legalità e
cultura della legalità. La legalità è l’idea che pagare le tasse è un
dovere, la cultura della legalità è l’idea che pagare le tasse è un
diritto. Lui mi diceva: "Se io non pago regolarmente le tasse nessuno
crederà ai miei progetti, se poi il mio interlocutore economico pensa che
accanto al bilancio ufficiale io ne abbia anche uno ufficioso e falso, avrà
sempre il dubbio che ne abbia un terzo, un quarto, un quinto". La legalità
deve quindi diventare cultura della legalità, la cultura della legalità
deve diventare economia della legalità, perché se la gente non si convince
che rispettando la legge si fanno pure gli affari prima o poi farà la
rapina. E questo vale anche per la pace, per l’ambiente... Noi per la prima
volta a Palermo abbiamo organizzato contro la mafia la riapertura di un
teatro. Mi si dirà: cosa c’entra? C’entra perché l’affermazione della
democrazia è come un carro con due ruote: una ruota è quella della
repressione, la ruota della magistratura e delle forze dell’ordine, l’altra
è quella della promozione sociale, culturale ed economica. Se una ruota si
ferma, il carro non va avanti. Se hai soltanto la repressione, il carro
gira su se stesso e la gente si convince che si stava meglio quando si
stava peggio. Se hai soltanto la promozione culturale, rischi di
organizzare un concerto in onore dei boss mafiosi. La magia della primavera
di Palermo consisteva nel fatto che riuscivamo a fare andare le due ruote
alla stessa velocità. Vorrei leggerle questa affermazione dello storico
Salvatore Lupo: "Non è vero che l’opinione pubblica sostiene la mafia,
nemmeno adesso che in Sicilia si è espressa con un voto così clamoroso,
l’opinione pubblica non ritiene piuttosto che la discriminante
mafia-antimafia sia così importante da farla schierare su questo problema".
Io sono assolutamente d’accordo con Salvatore Lupo e considero questa la
nuova vera insidia della mafia. Il problema è appunto che la mafia è
presente con procedure, meccanismi e tecniche che non sono più
terroristici, ma finanziari e culturali. Perciò l’affermazione di Lupo
fotografa una realtà indubitabile nel comune sentire della gente: il tema
della lotta alla mafia non è più prioritario perché la mia vicina di casa
non legge più le notizie di morti ammazzati e quindi si preoccupa piuttosto
della disoccupazione, della mancanza d’acqua, del traffico.
E la politica deve adeguarsi a questo dato di fatto?
Certo che no. La politica deve cambiare il suo modo di combattere la mafia:
non più frontalmente, come faceva prima, ma prendendone il posto. Nei
confronti della mafia stragista era facile dire di essere contro Riina,
Brusca, Bagarella, e anche la massaia era contro. Oggi non basta essere
contro la mafia, perché se tu continui a dire che sei contro la mafia e non
riesci a prenderne il posto — e quest’affermazione mi ha creato molte
incomprensioni — non riuscirai mai a sconfiggerla. Oggi il posto della
mafia non è più nelle montagne o nei quartieri di periferia, ma nei centri
finanziari e culturali. Se noi vogliamo veramente combattere la mafia
dobbiamo evitare che la mafia che ha smesso di sparare si confonda con noi.
E allora il tema diventa far esistere l’altra ruota del carro. In passato
abbiamo avuto una società civile che tifava e un apparato repressivo che
colpiva. Ma oggi come ci si fa a entusiasmare per la lotta contro i mafiosi
finanziari? La gente non si mobilita. La mafia antica, quella che sparava,
era più pericolosa ma anche più facile da combattere; la mafia nuova è meno
pericolosa, ma più difficile da combattere. E allora bisogna elaborare una
strategia finanziaria e culturale.
Però il politico deve dare risposte ai bisogni della gente. Anche alla
massaia che dieci anni fa tifava per i magistrati…
Io ho fatto una campagna elettorale nella quale ho mostrato il volto di una
Sicilia adeguata ai tempi. Ho fatto la scelta di chi dice: io vi presento
quello che penso debba essere la Sicilia, e ho preso oltre 300mila voti in
più rispetto alla coalizione che mi sosteneva. Detto questo, noi dobbiamo
insistere nel portare avanti un modello culturale alternativo. Io lavoro
perché ci sia in Sicilia un’egemonia culturale della legalità. Perché
diversamente l’egemonia culturale sarà quella della mafia...
In Sicilia chi sono gli alleati di Leoluca Orlando in questo progetto?
Sono quelle 300mila persone fuori dal mio schieramento politico.
E i partiti della coalizione?
Ci sono anche loro, certo. Ma il fatto che io abbia avuto questo risultato
è un aspetto nuovo. Per la prima volta 300mila siciliani hanno appoggiato
un progetto difforme dalle loro appartenenze politiche. Allora questo sta a
significare che c’è in atto un processo di fondazione di una nuova cultura
della legalità, che non può più essere quella costruita sul tifo da stadio.
L’ho vissuta quella stagione, ma c’è un tempo per ogni cosa. Se tornassi
indietro rifarei esattamente quello che ho fatto, ma se oggi faccio quello
che facevo dieci anni fa la gente mi prendebbe in giro.
È una strategia che riesce realmente a passare in Sicilia?
Non bisogna cercare scorciatoie, non bisogna avere fretta. È un cammino in
cui ci vuole pazienza. Il tema della lotta alla mafia e all’illegalità è
sottoposto a un processo severo di revisione dei modelli di riferimento
culturali, perché altrimenti rischia di essere una collezione di alcune
straordinarie testimonianze individuali. Ma queste testimonianze, se non si
collegano ad una elaborazione culturale che si faccia teoria e progetto,
restano isolate.
Quest’estate il ministro delle Infrastrutture Lunardi ha detto cose
inquietanti sul rapporto tra economia e legalità…
Guardi che noi dobbiamo ringraziare il ministro Lunardi perché la sua
affermazione ha provocato una reazione culturale. Ha posto un tema vero.
Lunardi ha detto in sostanza che ci sono nel nostro Paese persone che
considerano normale che si conviva con la mafia. Non sono mafiosi — non
vorrei essere frainteso — non sono neppure complici della mafia, ma alla
fine si girano dall’altra parte. Allora il punto è: vogliamo consegnare
queste persone alla mafia? Oppure dobbiamo cercare di convincerle che non è
possibile convivere con la mafia, che non è conveniente? Perché se oggi
passa l’idea della convivenza con la mafia, tutti gli operatori economici
di alcune regioni del nostro Paese, e la Sicilia fra queste, si vedranno
costretti ad iscriversi ad una cosca mafiosa. E se sbagliano cosca perdono
l’affare e la vita. E allora bisogna dire che il tema della convivenza con
la mafia è inaccettabile non soltanto eticamente ma anche economicamente,
perché la convivenza con la mafia non conviene. Se cerchiamo di convincere
le persone che convivere con la mafia è soltanto peccato, allora la gente
dice: faccio peccato, ma intanto faccio l’affare! Bisogna invece far capire
che con la mafia non si fanno affari. Fare uno sforzo in questo senso però
non è facile, perché chi lo fa sembra quasi che voglia rinunciare al passato.
Difatti tutto questo sembra più che altro frutto d’iniziative individuali.
Non sembra esserci ancora un soggetto politico che se ne faccia portatore...
Io sono fierissimo degli anni vissuti a Palermo. Abbiamo dimostrato che è
possibile contrastare la barbarie e l’inciviltà della mafia senza diventare
barbari e incivili, senza la pena di morte, senza la legge dell’occhio per
occhio dente per dente, senza applicare meccanismi d’intolleranza, senza
portare all’altare della dea sicurezza i valori in cui crediamo. Però mi
rendo conto che un messaggio di questo genere viene recepito molto più
facilmente all’estero che in Italia, dove, nonostante i miei sforzi, vengo
identificato in uno schieramento politico. Non è un caso che in America le
cose che vado facendo sono sostenute dai democratici come dai repubblicani.
Perché là viene percepita non l’apparteneneza politica ma l’impianto
culturale. Con la mia Fondazione sto cercando di trasformare un’esperienza
politica non in un’altra esperienza politica, ma in un progetto. Siamo
nella fase in cui si sta costruendo un nuovo modello di cultura della
legalità, cercando di coniugare il rapporto fra democrazia e legalità col
terzo millennio. Negli ultimi anni del secondo millennio il rapporto fra
democrazia e legalità era prevalentemente repressivo, fece eccezione la
primavera di Palermo che affiancò alla repressione la proposta culturale.
Quell’esperienza oggi è un modello per andare avanti.
E, in questo discorso, che fine fa il concetto di società civile?
La società civile in passato era costituita sostanzialmente da soggetti
organizzati. Oggi o la società civile diventa un modo di sentire — con e
oltre i soggetti organizzati — o altrimenti si perde, perché la mafia, dal
momento in cui ha deciso di abbandonare la strategia stragista, ha scelto
di diventare società "civile" diffusa. O noi riusciamo a trasformare queste
cose in un comune sentire oppure tutto diventa difficile. Non è un caso che
il luogo strategico di questa battaglia sia la scuola. La scuola è
un’organizzazione non organizzata. È l’elemento di maggiore speranza e
confronto. Noi abbiamo decine di migliaia di persone che oggi non hanno
memoria, neanche delle stragi dei primi anni Novanta. Se noi vogliamo
onorare la memoria delle persone che sono morte in una fase terribile della
nostra storia, dobbiamo riuscire a coniugare al terzo millennio gli stessi
loro valori.
Cosa bisogna fare allora: testimoniare?
La testimonianza è fondamentale: maledetto il popolo che non ha testimoni,
maledetto il popolo che ha bisogno di eroi. La testimonianza però non deve
essere l’unico modo. Noi dobbiamo insistere, dobbiamo essere capaci di
essere noi, e non i mafiosi, egemoni nei processi finanziari. Noi, e non i
mafiosi, egemoni nei processi culturali.
E chi è questo noi collettivo?
Tutti quelli che ci stanno.