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donne in guerra



Donne in guerra
di lanfranco caminiti

Il primo morto italiano di questa maledetta guerra è una donna, Maria
Grazia Cutuli.
Il primo morto italiano di questa maledetta guerra è una donna
meridionale, Maria Grazia Cutuli.
Non conoscevo Maria Grazia Cutuli e ho guardato con curiosità le sue
foto, contento che fosse anche bella, per lei stessa e per coloro che
hanno potuto amarla. Sono anche contento che fosse siciliana, perché
rende un po' migliore anche me, che sono siciliano per caso e per tigna.
Non avevo mai notato prima di questa guerra la sua firma sul quotidiano
per il quale lavorava, il "Corriere della sera". Avevo invece notato i
suoi recenti articoli sull'Afghanistan, che spiccavano per la sua
scrittura pulita e il punto di vista, foss'anche solo quel raccontare le
persone e le cose per come le vedeva lei, dandoci modo di guardarle
anche noi. Mi ha sempre dato una sensazione di scrittura per
sottrazione, come di chi avesse urgenza di mille altre cose da dire, ma
si sforzasse a trattenerle, a tenerle dentro come tornassero buone
un'altra volta, pulendo, togliendo, asciugando, scarnificando. Forse era
questo il suo "mestiere", forse era questo il suo carattere. Nella
rarefazione di questa scrittura stava tutta la sua densità: forse è un
dono, forse è il risultato di un lungo praticantato, forse è solo un
modo di essere. La sua storia personale, la sua geografia interiore, la
sua appartenenza ai Sud - per come l'hanno raccontata in questi giorni
chi l'ha conosciuta - mi fanno pensare che questo aspetto non fosse
secondario nella sua scrittura. In questa maledetta guerra, e nel
maledettismo modo con cui troppi giornalisti, commentatori, opinionisti
continuano a megafonarla, quegli articoli di Maria Grazia Cutuli erano
già un sollievo.
Proprio per questo non accetterò l'invito di Zucconi: "E la prossima
volta che sarete tentati di pensare ai giornalisti come a una categoria
di magnaccia, venduti, leccapiedi, untuosi, paraculi, corrotti,
maggiordomi e tripponi ingrassati dal potere non dico che abbiate torto.
Ce ne sono tanti, così. Ma ricordatevi, per un secondo solo, di Maria
Grazia." Proprio volendo ricordarmene a lungo continuerò a pensare che
ci sono troppi giornalisti magnaccia, venduti, leccapiedi, untuosi,
paraculi, corrotti, maggiordomi e tripponi ingrassati dal potere, che in
questa guerra ci stanno grufolando. Non sono disposto a concedere un
senso di lavacro sacrificale a questa morte. Ogni morte è terribilmente
singolare, anche quelle di fucilazioni collettive o di fosse comuni,
così come ogni colpa e ogni merito. A ciascuno il suo.
Adesso che quella scrittura è morta, che quella scrittura è stata
lapidata, fucilata, io mi domando se sia un caso che il primo morto
italiano di questa maledetta guerra sia una donna meridionale. Certo,
forse un caso è l'agguato, forse un caso è quella ferocia, forse un caso
è l'identità degli assalitori. Ma nessuno incontra la propria morte per
caso. Tanto meno Maria Grazia Cutuli. Che era giornalista di "fronte",
donna.
Le donne. Si è parlato molto di donne afghane e di burqa fin dall'inizio
di questa guerra. Proprio il "Corriere" ha pubblicato pochi giorni fa
una foto della prima manifestazione a Kabul di donne afghane senza velo,
a volerne dire la riconquistata libertà: andate a guardarla, cercatela
se vi è sfuggita. Ci sono tre donne in primo piano, non giovanissime,
con i loro volti esibiti con fierezza. Sono di una bellezza abbagliante.
Davvero. E il mio primo pensiero è stato che forse è questa bellezza la
ragione per la quale da quelle parti gli uomini si sono sempre dannati a
nascondere il volto delle loro donne, li capisco, non farebbero altro
nella vita che guardarle estasiati, niente lavoro, niente preghiere,
niente guerre: solo guardare tutto il giorno quelle donne
straordinariamente belle. O forse dio per ricompensare le donne di
quella crudeltà e punire la stupidità degli uomini ha deciso che dietro
ogni velo ci sia un volto di straordinaria bellezza: che se lo godano
fra loro le donne, che se ne innamorino i bambini. E fanculo gli uomini.
Sia come sia, il burqa è diventato il simbolo del carattere umanitario
di questa guerra, come se noi vi andassimo non a stanare il terrorismo,
non per combattere gli arabi che hanno troppo alzato la cresta, non per
conquistare un territorio vitale tra l'Europa e l'Asia, non a mettere
oleodotti per il petrolio che ci serve tanto, ma a liberare le donne.
Autorevoli voci del governo hanno addirittura rimproverato alla sinistra
e alle sue donne di non essersi mai battute abbastanza contro il burqa e
le sofferenze inflitte a quelle donne: il che non è del tutto vero,
perché da sempre hanno circolato semiclandestine petizioni e sono state
fatte rare iniziative, ma è anche un poco vero nel senso che la
disattenzione era comunque alta; ma è anche ingiusto perché rientra in
quel problema più generale che affligge la sinistra nel doversi tanto
preoccupare di se stessa da non aver tempo d'occuparsi d'altro,
figurarsi il burqa. E le donne, a sinistra, contano come il due di
coppe. Figurarsi il burqa.
Le donne sono diventate il lato pretestuoso di questa maledetta guerra,
il loro disvelamento l'emblema della vittoria e già d'un indaffararsi al
nuovo cominciamento, il loro ritorno al lavoro, al mercato, ai negozi,
il segno d'una modernità che impelle e che ci è familiare,
riconoscimento di civiltà comune il cui linguaggio di identificazione è
il maquillage. Perbacco, le donne vogliono le stesse cose in tutto il
mondo: truccarsi, comprarsi dei vestiti, andare a far la spesa tirandosi
dietro frugoletti in Cherokee jeep o tra la polvere e i muli, cucinare
per i mariti, persino lavorare e fare carriera, un po' defilate: il
mondo è uguale dappertutto, e i suoi istinti primari pure, ecco! "Ci
sarà una donna nel nuovo governo afghano - recita un trombone dagli
schermi televisivi - e questo è il segno più tangibile che le cose in
Afghanistan stanno cambiando." Che poi conti come il due di coppe non
importa adesso; e quando mai è importato, anche qui?
Che le petizioni semiclandestine delle donne afghane continuino a
circolare, allarmate di questo cambio di regime, di una impotenza, di
una esclusione a determinare, a dire, a contare, tutto questo non sembra
sia rilevante, non fa notizia, non fa "colore". Le donne continuano a
non poter essere considerate soggetto politico, costruttori di società.
Come prima. D'altronde loro non hanno "preso" Mazar-i-Sharif, non hanno
bombardato Jalalabad, non hanno assediato Kunduz, non hanno tribù, clan,
kalashnikov e vecchi carri armati da schierare, non hanno monarchi
mummificati da tirare fuori dai sarcofaghi o paesi stranieri che
tramestano per porzioni di territorio e potere. Come potrebbero contare?
Anche qui da noi, le donne non "prendono" mai una Mazar-i-Sharif, non
bombardano mai una Jalalabad, non assediano mai una Kunduz, non hanno
tribù, clan, kalashnikov e vecchi carri armati da schierare. Come
potrebbero contare? E forse sì allora, davvero sta qui, nelle donne
l'emblema di quel che sta accadendo in Afghanistan, di quel che accade
dovunque.
E forse sì, allora, in quella raffica sparata contro Maria Grazia Cutuli
c'era un supplemento d'odio, condensatosi lì per caso, contro una donna.
Contro le donne.
E' il primo morto italiano di questa maledetta guerra: mi auguro che sia
anche l'ultimo. Per il suo peso, basta e avanza.

Roma, 22 novembre 2001