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pc: Un nuovo impero ci salverà
[la globalizzazione getta la maschera?]
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UN NUOVO IMPERO
CI SALVERA'
OLTRE I TABU' DELLA POLITICA INTERNAZIONALE
ANTONIO POLITO repubblica del 13 nov.2001
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Dove sono finiti gli Imperi? La storia che abbiamo studiato a scuola era
tutta loro: sumeri, babilonesi, persiani, greci, romani, bizantini; Sacro
Romano Impero, Impero asburgico, Impero spagnolo, portoghese, britannico,
francese, sovietico. All'inizio del ‘900, appena cento anni fa, ce
n'erano
ancora quattro: AustroUngarico, Germanico, Russo e Ottomano. All'alba del
2000 non ce n'è più nessuno. E' una situazione senza precedenti nella
Storia. Può il globo vivere nell'ordine e nella prosperità senza gli Imperi?
Secondo Robert Cooper, un diplomatico di carriera del Foreign Office, no:
non è possibile. Le sue tesi, ardite e penetranti, potrebbero essere
confinate al mondo delle idee, del dibattito libero e spregiudicato che
vivacizza la cultura anglosassone. Se non fosse per un piccolo particolare:
Cooper è il nuovo "guru" di Tony Blair, il suo più ascoltato consigliere
diplomatico, incaricato direttamente dal primo ministro di "costruire" il
futuro Afghanistan. Le sue opinioni, dunque, possono assumere il carattere
di una nuova "dottrina" internazionale, e influenzare le decisioni
politiche, così come la "teoria del contenimento" fornì la basi teoriche
della Guerra Fredda. Ridotta al nocciolo, questa nuova "dottrina" dice che è
«possibile immaginare un nuovo imperialismo difensivo». Gentile,
democratico, esportatore di elezioni e di diritti umani, oltre che di leggi
e moneta. E spesso "volontario", basato cioè non sull'esercizio della forza
ma sulla volontà degli stati che ne sono fuori di sottomettervisi, per porre
fine a caos e insicurezza interni. Un impero adatto ai tempi e alla
sensibilità dell'epoca, dunque, ma pur sempre un Impero, senza il quale il
mondo non può conoscere una pace stabile e duratura. Se ci pensate, dalla
caduta dell'ultimo Impero, quello sovietico, l'Occidente è già stato
coinvolto in quattro guerre nel breve volgere di undici anni: Golfo, Bosnia,
Kosovo, Afghanistan. Un po' troppe, per poter parlare di pace.
Quella di Robert Cooper non è la classica profezia "ex post", l'ennesima
trovata pubblicistica per "scoprire" con una brillante idea qualcosa che è
già accaduto. L'uomo è noto in Whitehall come la Cassandra che ha tormentato
Blair per anni con i suoi plumbei scenarii afghani. L'anno passato aveva
pubblicato un pamphlet inquietante per preveggenza, nel quale descriveva un
mondo diviso come durante la Guerra Fredda, ma secondo nuove linee di
frattura, in tre tipi di stati: quelli "premoderni", dove domina il caos;
quelli "moderni", statinazione che vivono in ordine all'interno di precisi
confini; e quelli "postmoderni", nei quali lo statonazione sta diluendosi
all'interno di un nuovo sistema imperiale, come è nel caso dell'Unione
Europea. Il punto centrale della teoria di Cooper è che si può determinare -
e infatti si è determinata - una "incompatibilità" tra questi tre ordini.
«Dove lo stato "premoderno" è troppo debole per essere pericoloso, attori
nonstatali, come trafficanti di droga, crimine organizzato, gruppi
terroristici, possono diventare troppo forti. Se, usando come base gli stati
"premoderni", queste forze diventano pericolose per gli stati "moderni", è
possibile immaginare un imperialismo difensivo». "Nuovo", ma necessario per
"creare stabilità", trasformando gli stati "premoderni" in stati "moderni":
esattamente il rebus che la comunità internazionale si trova oggi a dover
risolvere a Kabul.
Sarebbe sbagliato leggere questa "dottrina" con gli occhi di chi sospetta le
solite nostalgie imperiali britanniche. L'esperienza imperiale ne è certo il
brodo di coltura (ricordate il Kim di Rudyard Kipling, l'agente inglese che
si imbarca nel "Grande Gioco" in Afghanistan?); ma non ne è l'anacronistico
modello. E sarebbe altrettanto sbagliato liquidarla come l'ennesima
tentazione militarista e oppressiva del mondo sviluppato. Per capirlo, basta
leggere il saggio che Cooper ha scritto prima dell'11 settembre e ha
pubblicato sulla rivista Prospect dopo l'attentato di New York.
Il cuore della questione - secondo Cooper - è che la «decolonizzazione ha
lasciato le excolonie con strutture statuali che erano in molti casi
straniere alle tradizioni locali... spesso la decolonizzazione è stata
dunque anche più profondamente imperialista dell'impero stesso». La critica,
qui, è ai concetti di autogoverno e di autodeterminazione dei popoli, che
hanno dominato la politica internazionale da Woodrow Wilson a oggi. In nome
di quei principi, il concetto di StatoNazione è stato tirato da tutte le
parti per soddisfare nazionalismi, demagoghi locali e interessi delle grandi
potenze. Mentre invece «non esiste una chiara definizione della nazione».
Quando Cavour, fatta l'Italia, voleva fare gli italiani, solo il 2% della
popolazione della nuova realtà statuale parlava la stessa lingua. La Nigeria
è un'invezione dei poteri europei al Congresso di Berlino. «Sono i baschi o
i catalani nazioni? Il popolo arabo è una nazione? Quante nazioni ci sono in
Sudafrica? La nazione è spesso la creazione dello stato, non viceversa. E
specialmente del ministero per l'educazione. Gli stati nazione quasi sempre
contengono minoranze, ed essendo basati sull'identità nazionale hanno una
tendenza naturale a escludere le minoranze». Il risultato è sotto gli occhi
di tutti. Negli ultimi 50 anni il numero di stati è cresciuto a un ritmo
impressionante: erano in 51 a firmare la Carta delle Nazioni Unite nel 1945,
ora l'Onu ha 189 membri.
Il grande paradosso - secondo Cooper - è che l'integrazione economica
portata dalla globalizzazione non ha frenato la tendenza alla frammentazione
politica, ma anzi l'ha resa più agevole. In un mondo «di economie chiuse e
protezionismo, era importante essere grandi; ma in un mondo senza frontiere
per le merci, che differenza fa?». Gli stati che restano fuori dalla
globalizzazione, degradano molto velocemente: «Mutilazioni in Sierra Leone,
oppressione delle donne in Afghanistan, violenza genocida nei Balcani». E la
"teoria del domino", che non si è dimostrata particolarmente vera per il
comunismo, funziona perfettamente con il caos: la Sierra Leone destabilizza
la Liberia, l'Afghanistan il Pakistan, e così via.
Che fare? In altri tempi «la soluzione sarebbe stata la colonizzazione. Ma
oggi non ci sono poteri coloniali disposti a fare questo lavoro». Non è solo
questione di risorse: un pugno di uomini bianchi (gli europei saranno appena
600 milioni nel 2050, e gli africani due miliardi) non può più controllare
il mondo come un pugno di britannici controllarono l'India. E' anche
questione di valori. Esattamente le stesse ragioni che hanno reso il mondo
sviluppato 86 volte più ricco di quello povero - libertà di scambi, libertà
di parola e stato di diritto - gli rendono oggi impossibile fare ciò che
fece quando era solo tre volte più ricco: colonizzare. «Sia la domanda che
l'offerta di imperialismo si sono prosciugate».
Eppure «un sistema in cui il forte protegge il debole, in cui l'efficiente e
ben governato esporta stabilità e libertà, in cui il mondo sia aperto agli
investimenti e alla crescita, sembra estremamente desiderabile. Se è vero
che gli Imperi non sono sempre stati questo, è anche vero che spesso sono
stati meglio del caos e della barbarie che li hanno sostituiti». Ma «in un
mondo di diritti umani e valori borghesi», sorvegliati e predicati dai nuovi
missionari delle «organizzazioni non governative», «il nuovo imperialismo
sarà in ogni caso diverso da quello vecchio». Sarà volontario. Come già
avviene, del resto, in due casi: l'imperialismo finanziario, l'imperialismo
dei vicini.
Il primo è guidato dal Fondo Monetario Internazionale. Il quale concede
prestiti e aiuti in cambio di controllo e del rispetto delle regole. «Non
usa violenza, solo denaro». Gli stati che vi si sottomettono «non perdono
sovranità, ma prestano temporaneamente la loro sovranità», in cambio della
vantaggiosa integrazione nella comunità economica internazionale.
La seconda forma di "nuovo imperialismo" è ben rappresentata dalla Unione
Europea. Avendo instabilità alle sue frontiere, a differenza degli Stati
Uniti, l'Europa ha un interesse diretto a integrare i paesi appena
decolonizzati dell'est e sud del continente. Ma la cosa straordinaria è che
mentre l'antica Roma dovette esportare le sue leggi e la sua moneta con la
forza dei soldati, oggi sono gli stessi paesi confinanti con la Ue che
sudano le sette camicie per adattare le proprie leggi e le proprie economie,
in modo da essere accettate nel «nuovo Impero cooperativo», per il quale
Cooper non disdegnerebbe il nome di "Commonwealth".
Così, quella che poteva sembrare all'inizio una perfida albionata, diventa
la più appassionata perorazione dei vantaggi dell'Europa unita, proveniente
per giunta dal più improbabile dei pulpiti: il Foreign Office a Londra. Il
modello del «nuovo impero moderno, democratico e cooperativo» è dunque
l'Europa: «Come Roma - conclude Cooper - darà ai suoi cittadini leggi,
moneta e qualche strada, nella libertà comune».
Se Tony Blair si fiderà dei consigli del suo "guru" non solo per
l'Afghanistan ma anche per l'Euro, prepariamoci a vederne delle belle.