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Vauro intervista Gino Strada (che si trova a Kabul!)



Da Il Manifesto, 11 novembre


Gino Strada e' a Kabul. Li', da domani, l'ospedale di Emergency sara'
operativo. Con lui ci sono altri due italiani, Fabrizio Lazzaretti e Alberto
Vendemmiati, autori di Jang (fotogrammi del filmato girato nel viaggio dal
Panshir alla capitale sono disponibili sul sito di Emergency). Gli unici
occidentali a Kabul. La riapertura dell'ospedale e' un segnale di civilta'
nella citta' martoriata dai taleban e dai bombardamenti. Dimostra che un
messaggio diverso dalla guerra e' possibile e necessario. Lo abbiamo
raggiunto telefonicamente.
Vauro Senesi: Quattro giorni fa ti ho lasciato nel Panshir, ora sei a Kabul.
Gino Strada: Emergency non puo' non essere a Kabul oggi. Per ragioni che non
hanno niente a che vedere con la politica, ma con il fatto che in questa
citta' c'e' gente che soffre, che muore per una guerra. Questa ragione e'
piu' che sufficiente per essere qui.
V. S.: Per raggiungere Kabul hai dovuto attraversare le linee del fronte
Nord. Cosa mi puoi raccontare di questo viaggio?
G. S.: Il tipico viaggio afghano, con tutti gli accordi presi intorno a
interminabili tazze di te', in cui si arriva perfino a definire l'ora del
passaggio del convoglio e il colore delle macchine. Bisognava informare
anche chi stava volando sulle nostre teste. Siamo arrivati al fronte e
tutti, regolarmente, stavano sparando, da una parte e dall'altra. Era in
corso un bombardamento, e' durato tre ore, colpendo esattamente la strada
che dovevamo percorrere.
V. S.: La strada che stava percorrendo il vostro convoglio umanitario e'
stata bombardata nonostante tutti fossero stati avvisati del vostro
passaggio?
G. S.: Ci era stato garantito dai responsabili dell'Alleanza del Nord che i
comandi militari americani sarebbero stati avvisati del nostro passaggio.
V. S.: Avviso senza effetti?
G. S.: Si'... ma non vorrei fare polemiche. Sarebbe stupido aspettarsi il
rispetto delle regole nella guerra. La guerra e', per definizione, l'assenza
di ogni regola.
V. S.: Sei l'unico occidentale ad aver visto gli effetti dei
bombardamenti...
G. S.: Non li ho visti direttamente, ma lo staff Emergency afghano, mentre
veniva a prenderci al fronte, ha visto in un villaggio bombardato, sulla
strada per Tagab, raccogliere pezzi di membra umane. Abbiamo avuto conferma
di almeno tre persone uccise da una bomba in una sola casa di quel
villaggio. Abbiamo girato con le auto intorno a molti crateri freschi di
bombe. Dall'aeroporto di Bagram, la strada e' una pista sabbiosa che si
ricongiunge a quella asfaltata che porta a Kabul. La' non c'e' piu' niente.
I pochi accampamenti di pastori e nomadi sono scomparsi. E' una zona
martellata dai bombardamenti ogni giorno.
V. S.: Raccontami l'ingresso a Kabul.
G. S.: La quantita' di vittime e' impressionante.
V. S.: Quindi e' una citta' ancora molto abitata? Alcuni sostengono che a
Kabul ci sarebbero solo i taleban.
G. S.: Sono coglionerie che mette in giro chi probabilmente pensa che Kabul
sia nelle Filippine. A Kabul in questo momento ci saranno 800 mila, un
milione di persone. Viene bombardata da un mese e nessuno pensa che anche
questo possa essere un atto di terrorismo.
V. S.: Ricordo Kabul a marzo, era gia' una citta' di macerie. Adesso?
G. S.: E' difficile per chi ci ha passato quasi cinque anni della propria
vita notare la differenza tra venti case in piu' o in meno. La gente pero'
e' allo stremo. C'e' l'oscuramento, la contraerea e' incessante, i bambini
non dormono piu'. Non vorrei augurare ai figli di mia figlia di vivere
esperienze del genere. Anche in questo momento bombardano.
V. S.: Oscurato anche l'ospedale?
G.S.: Si'.
V. S.: Non e' rischioso che non sia riconoscibile dall'alto?
G. S.: Non poco. Domani andremo a rinegoziare. Ma per stasera c'e' un ordine
preciso di oscuramento totale.
V. S.: Come sei riuscito a convincere i taleban a farti riaprire l'ospedale
che eri stato costretto a chiudere a maggio per una loro incursione armata?
G. S.: Il primo contatto con il ministro degli esteri taleban l'ho avuto il
12 settembre, quando era chiaro che ci sarebbe stato un attacco militare
all'Afghanistan. La proposta di Emergency e' stata: abbiamo avuto e abbiamo
divergenze, forse insanabili, su molte questioni, pero' qui si profila un
disastro umanitario e il nostro ospedale e' l'unico in grado di curare i
civili gratuitamente e bene. Riapriamolo, accantoniamo problemi e divergenze
per tre mesi. Quando il periodo di crisi sara' finito ricominceremo a
parlarne. Allora, probabilmente, saremo tutti diversi, quindi ne parleremo
in modo diverso. La settimana scorsa c'e' stato l'invito del mullah Omar, e
il viceministro degli esteri ha dato anche disposizioni al ministro della
difesa di inviare suoi rappresentanti al fronte per guidare il nostro
convoglio.
V. S.: Che garanzie di protezione vi hanno dato rispetto ai cosiddetti
"arabi", la legione straniera taleban?
G. S.: Nessuna. Questa e' una delle ragioni che rende la cosa molto
rischiosa. Non ci sono altri occidentali a Kabul, siamo molto ben
identificabili.
V. S.: Potete circolare nella citta'?
G. S.: Solo nel tragitto casa-ospedale.
V. S.: Ma la casa e' di fronte a un'abitazione degli "arabi"...
G. S.: Si', ma ora i dirimpettai sono al fronte. Non ne sentiamo la
mancanza.
V. S.: Al di la' del suo valore umanitario, la vostra iniziativa dimostra
anche che interloquire con il "nemico" e' possibile.
G. S.: Non faccio il politico. Credo ci siano due modi per affrontare una
situazione internazionale cosi' grave: uno e' la guerra, l'altro e' il
dialogo. Io credo nel dialogo. Il dialogo e' possibile, e' una cosa che si
costruisce soltanto se e' preceduta dal rispetto, dimostrando che per te il
fatto che chi hai di fronte sia vivo o morto non e' indifferente. L'opposto
della logica "dead or life". La ragione per cui noi stiamo qui non e' che ci
stanno simpatici i taleban, ne' i moujaehddin quando eravamo in Panshir.
Siamo qui perche' qui gli ospedali non hanno medicine ne' cibo da dare ai
bambini.
V. S.: Non voglio tirarti dentro polemiche, sono tornato da poco e ho
trovato un paese piu' imbarbarito. Ma oggi sono andato a una manifestazione,
tanta gente per il no alla guerra. Molti portavano lo straccio bianco della
campagna Emergency. Vuoi dire loro una parola?
G. S.: Voglio soltanto dire che mi sarebbe piaciuto esserci, e mi piacera'
essere, in futuro, a tutte le manifestazioni contro la guerra. Non abbiamo
davvero alternative. Il movimento per la pace non e' soltanto l'unico che
puo' rendere il mondo piu' bello da vivere, e' anche l'unica strategia
possibile per restare vivi.