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La nonviolenza e' in cammino. 260



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 260 del 17 ottobre 2001

Sommario di questo numero:
1. Fulvio Cesare Manara, alcune riflessioni sulla marcia Perugia-Assisi
2. Giovanni Scotto, dopo l'11 settembre
3. Frei Betto, la nostra marcia
4. Rete di donne per la pace di Venezia e Mestre, la scelta della
nonviolenza
5. Luigi Ferrajoli, una sfera pubblica globale
6. Women's caucus for gender justice: giustizia, non guerra
7. Leonardo Boff, manifesto per la concordia e la pace
8. Nicoletta Dentico: guerra e ipocrisia
9. Un appello del Genoa Legal Forum
10. Per studiare la globalizzazione: da Edith Stein a Gino Strada
11. La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. FULVIO CESARE MANARA: ALCUNE RIFLESSIONI SULLA MARCIA
PERUGIA-ASSISI
[Fulvio Cesare Manara e' impegnato per la nonviolenza, per contatti:
philosophe@inwind.it]
Ho marciato, con altre centinaia di migliaia, ho marciato in silenzio, per
tutta la durata del cammino, in mezzo a una folla immensa, in solitudine.
Qualche sguardo scambiato furtivamente, piedi in marcia e occhi e orecchie
aperti.
Non ho ora tesi sicure da proporre. Ad altri, migliori testimoni e leader di
me, lascio questo compito.
Non credo che, incamminandomi anch'io, fossi immune da pregiudizi e
preconcetti, come chiunque, di fronte a quello che mi aspettava. Non credo
del resto ci possa essere qualcuno davvero "immune da pregiudizi", e restano
pochissimi quelli che li sanno gestire in modo autenticamente nonviolento,
peraltro.
Non ho visto un impegno per la pace nitido ed intransigente, ho colto
moltissime contraddizioni. Non ne ho paura: sarebbe un particolare
pregiudizio pure questo.
Rifletto, a cuore aperto e mente serena, perche' si', e' vero che e' stato
un cammino anche interiore, di meditazione. Una meditazione aperta su
centinaia di migliaia in marcia, su me stesso goccia in questo mare. Una
meditazione sulle fatiche della pace, sul pacifismo teneramente
insufficiente, in qualsiasi sua manifestazione. Una meditazione sul senso
dell'esserci e del pensare questo esserci, in cammino.
Non so se il mio sia stato e sia il cammino della nonviolenza. Ho grossi
dubbi. Certo verso la nonviolenza: possiamo dirci solo cercatori di
nonviolenza, in questo mondo duro a partire dai nostri stessi conflitti
d'area. Ma ho visto molti in cammino verso altro, sicuramente, se i loro
mezzi di dimostrazione eran quelli che ho visto e sentito. Ce lo diciamo da
molto, fra di noi, ma pare che si debba ripeterlo indefinitamente: "la
scelta fra le varie politiche e', in ultima analisi, una scelta di mezzi.
Infatti i mezzi sono l'unico metro sicuro per misurare il valore delle idee
per le quali vengono impiegati e gli uomini che se ne servono".
Le prime contraddizioni sono quelle che mi si son svelate dentro,
interiormente. Non credo di essere fatto per le grandi manifestazioni di
piazza, eppure ho voluto partecipare, e sono contento di averlo fatto, anche
se la fatica di arrivare alla fine a tratti mi distraeva. E mi sono sentito
smarrito, in mezzo a quella marea umana. Mi e' risultato difficile, se non
impossibile, identificarmi, cogliere un'appartenenza.
Lo sparuto gruppo del Movimento Nonviolento dietro il quale m'ero
deliberatamente posizionato ai giardini del frontone ha abbastanza in fretta
riarrotolato lo striscione e poi, per quanto mi sia ingegnato a seguirli, li
ho persi nella fiumana. Qualche sguardo, si', incrociato casualmente, mi ha
comunicato molto. Ma e' un'appartenenza senza volto, quella cosi' umana, che
ti fa sentire uno con il primo venuto, sconosciuto, che ti sorride. Non ho
visto tanti sorridere, pero'...
I segni di appartenenza piu' evidenti erano quelli che avrebbero dovuto e
potuto benissimo non esserci: quelli di antiche truppe cammellate, ancora
esistenti, cosi' disperatamente obsolete, anticaglie politiche... con i loro
leaderini, i loro slogan, le loro bandiere. Ai miei occhi solo grigio su
grigio, solo rumore. Canti arcaici dalle marce di un tempo paleolitico,
stranissimamente sopravvissuti.
I segnali provenienti da questi gruppi erano palesemente in frizione con la
festa di una marea sicuramente piu' estesa di altri giovani partecipanti,
colorati, impegnati.
E' vero che l'antica intuizione della festa lasciataci in eredita' da
Capitini e' piu' nuova di tutti i quadri intruppati di agenzie non al passo
della storia. Suoni, musiche, voci e colori: questi si'. E intanto io
sentivo la fatica dei miei piedi e delle mie gambe: sofferenze che cercavo
di tacitare pensando ai profughi afghani, alla loro sete al loro cammino, e
a tutti gli appiedati della terra, i cui piedi sognano una marcia come la
nostra verso un futuro, verso la semplice sopravvivenza.
Mi han fatto sorridere alcune immagini che non dimentichero' - un paio per
tutte: quella di una ragazza che sul suo zainetto portava non distanti tra
loro un adesivo con scritto "No global war" e un contenitore per un succo di
frutta della multinazionale Del Monte. Il volto di Ocalan su bandiere gialle
di emigrati curdi...
L'appello detto un giorno da Tonino Bello: "in piedi, operatori di pace",
ricordatomi da amici delle Acli, mi e' risuonato in testa a lungo,
marciando, quando cercavo ombra ove sedermi o quando i fischietti mi
assordavano stridenti o urla con insulti incivili han raggiunto le mie
orecchie.
Tutti "operatori di pace" quelli che parlano ad alta voce di pace, o
marciano in suo nome? I dubbi mi son rimasti integralmente. Importante saper
cogliere le sfumature: nessun unanimismo, odioso perche' sempre finto. No:
non tutti quelli che parlano di pace sono operatori di pace: si sa. E sono
troppi e tutti insufficienti, sempre, i pacifismi generici, quelli della
paura, quelli di superficie, quelli da militanza conveniente e leadership
strumentalizzante. I pacifismi di piazza, insomma.
Eppure il popolo della nonmenzogna c'era, e' vero: l'ho sentito con le sue
semplici trasparenze e la volonta' buona. La marcia e' pero' solo il "la" di
un cammino verso la nonviolenza.
Serve ben altro, e non solo l'azione nonviolenta contro la guerra (che sara'
di pochi, di troppo pochi a confronto con i duecentomila e rotti della
Perugia-Assisi). Ma il sogno di duecentomila resistenti alla guerra m'ha
sfiorato la mente, abbagliata dal sole meridiano. Sogno evanescente, certo.
L'azione diretta nonviolenta potra' mai diventare la diffusa pratica delle
reti dei gruppi, delle associazioni che si richiamano alla "nuova
globalizzazione"? E' unicamente questa la "nonviolenza" che puo' assumere il
senso di "varco della storia". Sono molto sospettoso sul fine dell'azione
diretta nonviolenta, se questa e' solo rivolta a fermare la partecipazione
italiana alla guerra e non si tramutasse in una ricerca di relazioni nuove e
di una rete di relazioni capace di resistere non solo alla minaccia del
militarismo (mai sconfitto, si vede) ma anche a quella del terrorismo, e,
alla fine, di cambiare il mondo in meglio.
Una marcia di popolo, sia pur riuscita, nonostante tutto, non basta. La
sento largamente insufficiente. Non e' un successo per me la sola conta
delle teste presenti, ne' il fatto che non si sian visti guastafeste.
La nonviolenza non e' solo un'antica parola: e' un appello sempre nuovo che
puo' diventare il varco della storia solo se cominciamo a praticarla.
Voglio vedere adesso le associazioni non sospettabili di ipocrisia sostenere
in concreto punti quali quelli proposti dai movimenti cattolici:
- incrementare la quota del Pil destinata agli aiuti per lo sviluppo dei
paesi  poveri rafforzando la cooperazione e la solidarieta' internazionale;
- applicare subito la legge sulla cancellazione del debito estero;
- bandire la guerra e combattere autenticamente il mercato delle armi;
- rafforzare il  ruolo delle Nazioni Unite nella prevenzione e soluzione dei
conflitti.
Sono mica cose che si possono fare poi cosi' rapidamente: la quota del Pil
destinata alle spese agli armamenti e' andata crescendo nel nostro paese, in
questi ultimi anni, perche' chi governa (sia esso di destra come di
sinistra) alla fine pensa ancora come nel paleolitico: che le armi e gli
eserciti (di volontari) possano essere "operatori di pace"... e crede che
questo sia un modo "nuovo" di praticare la ricerca della pace. Figuriamoci.
Sugli "interventi di polizia internazionale" fatti dagli eserciti stendiamo
un velo pietoso...
Siamo in tempi in cui la guerra e' parola che i politici corteggiano di
nuovo senza pudore, senza piu' inibizioni... Mai come oggi - mentre riceve
il premio Nobel per la pace - l'ONU viene snobbata e presa di mira da
politici e giornalisti, e, ahime', anche da qualche studioso, mentre la
fiducia nella sua riformabilita' sta perdendo terreno visibilmente.
Son mica cose queste che ci verran gratificate perche' c'e' buona
volonta'...
E invece, nessuno che si sia detto: impariamo l'azione diretta nonviolenta.
Addestriamoci. Ci aspetta una dura lotta... Il training - in verita' - non
basta mai: anzi, per la stragrande maggioranza deve ancora cominciare.
Insomma, sento tutta l'ambiguita' di appelli generici alla nonviolenza, che
possono con il loro baccano interferire con le poche voci che ci ricordano
che l'azione nonviolenta e la capacita' di condurla non si inventa dall'oggi
al domani. Che comportera' la capacita' di sacrificio, una lotta dura,
capacita' di resistenza e creativita', addestramento, lunga formazione e
quant'altro di difficile.
Il pacifismo non basta, si sa: e non bastano neppure i semplici appelli alla
nonviolenza. Bisogna che cominciamo l'addestramento.
Proprio perche' non mi sono costruito la mia marcia a mio uso e consumo e
non l'ho voluto fare mi trovo di fronte a questi pensieri e a queste
domande. Mi piacerebbe continuare la marcia nel dialogo di chi a sua volta
si interroga, e vuol essere sempre piu' coinvolto nella strada verso la
nonviolenza.
Tempi duri, certo. Riusciremo a non lasciarci indurire? Riusciremo a
governare le nostre paure? A non lasciarci amareggiare e a non fermarci nel
cammino verso un'umanita' nonviolenta? Mi son tornati in mente comunque i
versi di Wolf Biermann, insieme ai miei dubbi. Si', "Non vogliamo tacerlo /
In questo tempo tacito / Sui rami spunta il verde / Vogliam mostrarlo a
tutti / E allora lo sapranno".

2. RIFLESSIONE. GIOVANNI SCOTTO: DOPO L'11 SETTEMBRE
[Giovanni Scotto e' uno dei piu' noti peace-researcher italiani. Per
contatti: e-mail: gscotto@zedat.fu-berlin.de; sito:
http://userpage.fu-berlin.de/~gscotto/]
La distruzione delle torri gemelle del World Trade Center a New York e
l'attacco al Pentagono segnano la fine del "dopo-guerra  fredda" e l'inizio
di una fase completamente nuova nella politica internazionale. Si affaccia
sulla scena un terrorismo globale, capace di distruzioni su scala sinora mai
vista. E basta pensare all'eventualita' - assai reale - di un aereo pilotato
su una centrale atomica per far capire che la scala della distruzione in
futuro potrebbe assumere dimensioni inimmaginabili.
Per chi - come noi - vede nella costruzione di una cultura della pace e
delle convivenza planetaria l'unica possibilita' per il futuro del genere
umano, gli eventi dell'11 settembre sono un colpo assai duro. Come ogni
crisi, gli attentati terroristici portano con se' enormi sofferenze, ma
anche delle opportunita' di sviluppo. Gli orrori del nazismo hanno fatto
nascere una cultura planetaria dei diritti umani, e oggi i torturtori e gli
assassini di stato non sono piu' certi della loro impunita'. Il secolo dei
genocidi ha prodotto anche fulgidi esempi di nonviolenza; e il fatto stesso
che uomini come Mohandas Gandhi, Martin Luther King, Aldo Capitini, abbiano
camminato tra noi su questa terra ci riempie di ammirazione e di speranza.
Piangiamo dunque le vittime innocenti di New York e Washington, respingiamo
pero' la voce dell'odio e della vendetta e volgiamoci alla ricerca. Per
vincere la sfida, lasciamoci guidare dall'intelligenza e dall'umanita': i
terroristi vogliono la paura e la violenza.
Cosa abbiamo visto in queste ultime settimane? Il pianeta e' oggi assai piu'
unito e interconnesso di alcuni decenni fa. Per le seimila vittime negli
Stati Uniti il mondo intero ha assunto il lutto. Oggi sappiamo che anche nel
cuore della societa' piu' ricca, la vita umana rimane fragile, e puo' essere
spazzata via dalla violenza sconsiderata.
Allo stesso tempo rimane l'abissale divisione tra nord e sud che conosciamo
almeno dalle cifre: noi del nord, poco piu' di un decimo dell'umanita',
consumiamo piu' dell'ottanta per cento delle risorse del pianeta. Alle
moltitudini del sud rimangono le briciole, la disperazione e la rabbia.
In risposta alla barbarie abbiamo visto migliaia, milioni di persone agire
con coraggio e abnegazione. Lo scienziato Stephen Jay Gould ha raccontato
che, sul luogo del disastro, si e' manifestata ai suoi occhi una regola
fondamentale dell'esistenza umana: per ogni atto di barbarie esistono
diecimila atti di generosita' e nobilta' umana. Se non fosse cosi', il
genere umano gia' da tanto tempo avrebbe cessato di esistere. E' una cosa
che tutti sanno, ma che si dimentica facilmente. Coltivare la nostra
umanita' attraverso l'agire e' importante perche' e' una strada maestra per
sconfiggere il terrorismo: non fare cio' che i terroristi vogliono.
Se esaminiamo gli atti e le parole della leadership politica statunitense,
troviamo anche qui due aspetti. Dopo una avventata dichiarazione iniziale,
il presidente Bush ha ripetuto piu' volte che questa non e' una "guerra
delle civilta'"; in occasione della visita a una moschea negli Stati Uniti
ha perfino citato un versetto del Corano e pronunciato parole di
apprezzamento per l'Islam, religione di pace. In nome della lotta al
terrorismo, gli USA hanno lanciato un'iniziativa diplomatica senza
precedenti, trovano il sostegno di quasi tutti i paesi, e la collaborazione
fattiva della Russia. Addirittura l'inizio di un avvicinamento all'Iran.
Forse gli Stati Uniti sosterranno in un prossimo futuro risolutamente una
soluzione giusta per il conflitto palestinese.
Ma la dirigenza statunitense ha una grave responsabilita': avere "dichiarato
guerra." Quanto accaduto l'11 settembre e' un atto di violenza enorme. Ma e'
un atto di terrorismo, non e' l'attacco di Pearl Harbor. Dietro la
distruzione delle torri gemelle ci sono persone singole, organizzate in un
moivmento terrorista. Gli strumenti per contrastarlo avrebbero dovuto e
potuto essere gli strumenti del diritto. Invece le massime autorita'
statunitensi (e i maggiori media come la CNN) hanno deciso di chiamarla
"guerra". E non e' solo una questione di parole, perche' gli Stati Uniti
hanno in questo caso il potere di mettere in pratica quello che dicono. Gli
attacchi contro l'Afghanistan iniziati il 7 ottobre sono la conseguenza
logica di questa decisione fondamentale.
Il carattere di questa guerra e' preoccupante, perche' e' indeterminato, e
perche' le possibili ripercussioni sono incalcolabili: si pensi solo alla
possibilita' di un rovescio politico in Pakistan, o in Arabia Saudita.
Se intendiamo percorrere un cammino di ricerca, un passo indispensabile e'
respingere l'idea che la guerra, la risposta al terrorismo con la violenza
militare, sia un evento ineluttabile e senza alternative. Nella piccola
dimensione della politica italiana questo e' quanto vanno dicendo sia le
forze della destra al governo, sia i principali esponenti dell'opposizione.
Allora la riflessione e l'azione concreta per creare delle alternative alla
logica di guerra dovranno essere raccolte dalla societa' civile. Riflessione
(ricerca, studio) e azione concreta (movimento sociale, politica) sono due
facce della stessa medaglia: senza azione, la ricerca diventa un esercizio
sterile, buono tutt'al piu' per la carriera accademica; senza riflessione
l'azione diventa superficiale attivismo di chi batte la grancassa per il
proprio tornaconto politico, o umanitarismo nobile, ma non all'altezza della
sfida politica dei tempi.
* Links utili
Una delle proposte piu' interessanti di azione alternativa alla guerra e'
del mediatore e ricercatore statunitense John Paul Lederach:
http://www.changemakers.net/journal/01october/lederach.cfm
Una raccolta di articoli di approfondimento sull'11 settembre e le sue
conseguenze e' accessibile alla pagina:
http://www.changemakers.net/journal/01october/commonground.cfm
Si veda in particolare l'intervista al monaco buddista Thich Nhat Hanh:
http://www.changemakers.net/journal/01october/hanh.cfm
Per chi e' interessato al contesto dei rapporti tra occidente e mondo
islamico raccomandiamo caldamente il saggio dei Michael Sells "The
Interlinked Factors of a Tragedy". Sells e' docente di studi islamici
all'universita' statunitense di Haverford:
http://www.haverford.edu/relg/sells/interlinkedfactors.htm
In Italia, Enrico Euli ha fatto una serie di considerazioni assai
interessanti: La guerra mondiale al terrorismo: un caso didattico. "Nella
sventura, se avessimo voluto cercare con la lanterna un esempio di gestione
negativa e violenta dei conflitti, non avremmo mai potuto sperare in un caso
cosi' didatticamente perfetto. In esso si concentrano pressoche' tutti gli
elementi utili per individuare esattamente quel che sarebbe importante non
fare alla luce non solo della teoria e pratica nonviolenta, ma di qualunque
ricerca su questi temi condotta nell'ambito delle scienze sociali (comprese
le ricerche portate avanti dalle istituzioni militari e di polizia)".

3. TESTIMONIANZA. FREI BETTO: LA NOSTRA MARCIA
[Frei Betto, religioso cattolico, giornalista e saggista, e' una delle voci
piu' vive dell'America Latina. Questo intervento e' apparso sul quotidiano
"Il manifesto" del 16 ottobre]
Domenica ho partecipato alla marcia per la pace da Perugia ad Assisi. E'
stata una marcia di tutti i popoli, dal momento che li' mi sono trovato al
fianco di palestinesi, haitiani, brasiliani, donne afghane, kurdi, africani
e asiatici. Ritmicamente le persone applaudivano, in una manifestazione
esplicita di chi vuole non solo la pace, ma soprattutto la fine della
guerra.
Inutile che alcuni gruppi pretendessero una marcia apolitica. Non c'e' nulla
di apolitico sotto il sole. Lo stesso Gesu' non e' morto di epatite in un
letto, ma dopo due processi politici, dal momento che il suo messaggio
spirituale aveva profonde - e scomode - ripercussioni politiche. Nella
marcia tutte le realta' sociali presenti si sono unite in un solo partito
politico: il Partito della Vita, contro le forze della morte.
Parlare di pace in questo momento significa pronunciarsi contro il
terrorismo dal volto invisibile e il terrorismo di stato. L'odioso attentato
dell'11 settembre va esclusivamente a vantaggio di un settore della
societa': l'estrema destra.
Umiliata nella sua vulnerabilita', la Casa bianca ha reagito con la stessa
moneta, scegliendo la legge del taglione. Ma, nella guerra dell'occhio per
occhio entrambi i contendenti finiscono sempre ciechi. E, per la prima volta
nella storia, un impero muove guerra contro un uomo, senza curarsi affatto
dei sacrifici che questo significa per il popolo afghano.
Gli Stati uniti non hanno imparato nulla dalla propria storia. Persero in
Corea, furono sconfitti in Vietnam, lasciarono l'Iraq senza aver rovesciato
Saddam Hussein. Adesso s'impantanano in Afghanistan, dove hanno speso, nei
soli due primi giorni di bombardamento, ventidue milioni di dollari. Una
somma che equivale al Pil del paese attaccato.
La marcia per la pace e' stata un appello alla nonviolenza attiva. Una
pressione perche' la diplomazia prevalga sul furore bellico, il dialogo
sull'odio, i negoziati sugli attacchi. E' stata anche la prima grande
manifestazione contro l'attuale modello di globalizzazione - che sarebbe
piu' esatto chiamare globo-colonizzazione - dopo Genova e dopo la
distruzione del World Trade Center. Riassestati i rapporti di forza fra
l'Est e l'Ovest con la fine della Guerra fredda, resta ora da impiantare la
giustizia fra il Nord e il Sud. La pace sara' reale solo quando sara' figlia
della giustizia, dicevano i cartelli affissi nelle vie di Perugia.
Per il prossimo gennaio i combattenti per la pace del mondo hanno gia' un
appuntamento marcato nel secondo Forum Social Mundial a Porto Alegre, in
Brasile. La marcia continua.

4. UN APPELLO. RETE DI DONNE PER LA PACE DI VENEZIA E MESTRE: LA SCELTA
DELLA NONVIOLENZA
[Questo intervento abbiamo ripreso dal sito de "Il paese delle donne"; per
contatti: e-mail: pdd@isinet.it, sito: www.womenews.net]
La Rete di donne per la pace di Venezia e Mestre, facendo propri i numerosi
appelli italiani e internazionali di donne, chiede al sindaco di questa
citta', alle consigliere e ai consiglieri, alle elette e agli eletti nel
Parlamento italiano ed europeo di impegnarsi personalmente per il bene piu'
prezioso: la pace.
Alla condanna per gli attentati che hanno sconvolto l'America deve seguire
il fermo richiamo alla pace, il rifiuto di opporre violenza a violenza. In
un mondo senza piu' confini, in cui tutto cio' che ha dimensione locale
ricade nello scenario internazionale, nessuno puo' pensare di mettere in
campo una risposta armata senza che cio' pregiudichi la sicurezza del mondo
intero. Le recenti guerre hanno creato odio, umiliazione, devastato i
territori, creato danni all'ambiente, e minato la salute anche di chi le ha
combattute, sconfessando le ragioni di chi ha creduto nelle "guerre
umanitarie".
La guerra si oppone alla vita, non puo' mai riparare torti od offrire
giustizia perche' e' solo strumento di morte, parla il linguaggio delle armi
sempre piu' sofisticate e sempre piu' distruttive.
La guerra dimentica la vita reale di tutti i giorni, le esigenze dei corpi e
delle menti, i bisogni reali e non fittizi dei popoli, la fatica e il lavoro
di solidarieta', di rapporti civili che rendono possibile la vita delle
citta', dei luoghi.
Di fronte a cio' che e' successo nessun intervento armato riparera' alle
vite sacrificate ma creera' altri morti, altre sofferenze. Non rispondere
alla violenza non e' un segno di debolezza da parte degli Stati, bensi'
dimostrazione di civilta' e non di barbarie, segno che prevale la saggezza e
l'insegnamento della storia, che si opera per la restituzione alla politica
del suo senso piu' profondo: sostituire alla forza e al dominio
l'intelligenza, la ricerca della relazione, del rapporto e della mediazione.
L'unica via d'uscita dall'orrore e' la scelta consapevole della pace, del
dialogo tra diversita', la costruzione di un mondo piu' giusto e solidale,
strada percorsa da tante donne e tanti uomini anche nei luoghi dei
conflitti. La scelta radicale della nonviolenza si deve accompagnare
all'impegno per cancellare le storture, le profonde ingiustizie e
oppressioni radicate nel nostro modello di sviluppo, che generano odio e
spargimenti di sangue.
Questo e' l'impegno che deve essere assunto da tutti i cittadini e da tutte
le istituzioni che governano il mondo.
Ora pochi uomini di potere che confondono il maschile con una virilita'
aggressiva mantengono un ordine simbolico che impone le armi al posto del
dialogo. Non possono avere parola per tutti e tutte.
Noi donne impegnate a dare valore al lavoro della vita, radicate nella
differenza di pratiche e pensieri, alziamo la voce e chiediamo ad altre ed
altri di condividere con noi questo appello e di aprire uno spazio di
incontro e di riflessione in citta'.
Al sindaco e alle elette e agli eletti consegnamo questo appello e chiediamo
loro un impegno personale affinche' il governo italiano e il parlamento
europeo sappiano svolgere un'azione di mediazione facendo prevalere le
esigenze della pace e della vita, e che nell'esprimere solidarieta' al
popolo americano, siano fermi nel respingere un coinvolgimento militare
internazionale.

5. RIFLESSIONE. LUIGI FERRAJOLI: UNA SFERA PUBBLICA GLOBALE
[Luigi Ferrajoli e' un illustre giurista. Questo testo e' apparso sul
quotidiano "Il manifesto" il 14 ottobre]
Ad una settimana di distanza dall'inizio dei bombardamenti, possiamo ben
dire che gli Stati uniti hanno fatto esattamente cio' che nel suo proclama
Osama bin Laden aveva previsto e, probabilmente, sperato.
Naturalmente i bombardamenti sull'Afghanistan stanno provocando centinaia di
vittime civili e centinaia di migliaia di profughi affamati. Naturalmente
gli ultimi a essere colpiti saranno, se mai lo saranno, bin Laden e i suoi
accoliti, ben protetti nei loro sperduti nascondigli. Tanto meno,
naturalmente, sara' in tempi brevi sgominata la loro rete terroristica, che
tutti dicono ramificata in tutto il mondo e che dai bombardamenti sara' solo
rafforzata nelle sue basi di consenso e di reclutamento. Naturalmente,
infine, dobbiamo rassegnarci al fatto, la cui probabilita' e' prevista "al
cento per cento" dai servizi segreti americani, che i bombardamenti,
anziche' disarmare i terroristi, li indurranno a nuovi, terribili attacchi -
aerei, nucleari, chimici, batteriologici - alle nostre citta'.
Ma e' questa la politica di "sicurezza" decisa per tutto il mondo dal
governo americano: il quale ha anteposto la volonta' di un'inutile
esibizione di forza a qualunque considerazione, non diciamo giuridica o
umanitaria ma semplicemente razionale, di buon senso e di elementare
convenienza.
Avevamo sperato, nei ventisei giorni successivi al massacro dell'11
settembre, che prevalesse la ragione e la prudenza.
Dissoltasi, in quella terribile giornata, l'illusione della sicurezza e
dell'invulnerabilita' del nostro mondo, anzi del centro del mondo, per la
prima volta abbiamo avuto paura. Ma la paura e' un sentimento ambivalente.
Puo' essere un riflesso irrazionale, che suggerisce reazioni incongrue e
autolesioniste che non tengono conto dei loro possibili effetti. E puo'
essere invece un sentimento del tutto razionale, dettato dallo spirito di
autoconservazione e dalla consapevolezza dei pericoli in atto e dei mezzi
adeguati a fronteggiarli.
E' prevalsa la paura nel primo di questi due sensi. La strage di Manhattan
e' stata interpretata non gia' unicamente come un crimine, sia pure
gravissimo, ma come un atto di guerra, tipo Pearl Harbor, cui era necessario
rispondere, simmetricamente, con la guerra, anziche' con un uso della forza
finalizzato alla cattura e alla punizione dei colpevoli. I nostri Stranamore
hanno cosi' gettato benzina sul fuoco, dando modo a Bin Laden di trasformare
una mostruosa aggressione terroristica nel primo atto di una "guerra santa"
e la sua banda di assassini nell'avanguardia di una massa di milioni di
fedeli.
In questo modo il terrorismo e' stato elevato al livello di uno Stato in
guerra. Non si e' capito cio' che pure, in Europa, avremmo dovuto aver
appreso dall'esperienza dei nostri terrorismi: che e' precisamente la guerra
lo scopo di ogni terrorismo, proprio perche' come guerra, e magari come
scontro di civilta', esso si propone e vuol essere riconosciuto. E che
percio' la risposta al terrorismo e' tanto piu' efficace quanto piu' e'
asimmetrica: quanto piu' ai terroristi non e' attribuito lo statuto di
"belligeranti" ma solo quello di "criminali", e le loro aggressioni sono
riconosciute non gia' come atti di guerra ma come crimini contro l'umanita'.
Giacche' e' pur vero che il terrorismo e' sempre un fenomeno politico, che
va capito e fronteggiato anche politicamente. Ma e' proprio nell'asimmetria
rispetto ad esso stabilita dalla sua qualificazione giuridica come "crimine"
che risiede il segreto del suo depotenziamento e del suo isolamento, e
percio' del ruolo del diritto quale fattore di pace.
Oggi, con la sicumera e il fastidio per il dissenso che sempre caratterizza
il clima di guerra, i pacifisti sono accusati, da quelli stessi che fino a
un minuto prima dell'inizio dei bombardamenti avevano elogiato la prudenza
di Bush, di non capire la terribile novita' dell'accaduto, vittime del
solito, antico riflesso antiamericano. E' vero invece il contrario. E'
proprio la concezione della guerra come risposta a qualunque violenza che e'
un fenomeno di inerzia mentale, una sorta di riflesso condizionato dall'idea
primitiva che la guerra possa annullare l'affronto e magari prevenirne di
nuovi. Giacche' la guerra puo' soddisfare il desiderio di vendetta, ma e'
del tutto controproducente come mezzo di difesa nei confronti dei
terroristi: contro i quali si richiedono invece forze di polizia, armate dei
mezzi anche militari necessari alla loro cattura, ma dotate, soprattutto,
delle capacita' investigative occorrenti a identificare e a neutralizzare la
rete complessa delle loro organizzazioni e complicita'.
* Paura razionale
Il pacifismo di oggi non ha insomma nulla a che vedere con quello, non meno
fondato, delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Esso e' legato,
ben piu' radicalmente, al carattere anacronistico della guerra dopo che sono
venuti meno la divisione del mondo in blocchi contrapposti e il pericolo di
uno scontro armato tra Stati o tra coalizioni di Stati. E' frutto anch'esso
della paura: ma della paura razionale posta da Hobbes alla base del patto di
convivenza e generata dalla consapevolezza che il mondo, che credevamo
unificato solo dall'economia ma rigidamente diviso da confini e fortezze, e'
invece un unico mondo anche per cio' che riguarda la vita e la sicurezza,
non essendoci piu' un "esterno" dal quale possiamo isolarci ed essendo tutti
noi vulnerabili e insieme coinvolti (e corresponsabili) nei grandi problemi
e nelle grandi tragedie del pianeta.
Sicche' l'alternativa che si prospetta, di fronte a un terrorismo che di
quei problemi e' un sintomo perverso, e' quella tra lo sviluppo di una
guerra civile mondiale di tipo endemico, che l'Occidente potra' combattere
con l'atomica ma che avra' comunque solo vinti e nessun vincitore, e una
rifondazione del patto costituente che dette vita, mezzo secolo fa, alle
Nazioni Unite; tra l'insicurezza globale di una societa' mondiale selvaggia
e una "politica interna del mondo", secondo la bella espressione di Juergen
Habermas, che si faccia carico, attraverso un'adeguata progettazione
giuridica, sia della repressione che della prevenzione dei tanti crimini
contro l'umanita'.
Perche' prevalga questa seconda alternativa, occorre riconoscere lo
straordinario vuoto di diritto pubblico nell'odierno assetto internazionale,
tuttora privo di garanzie e di istituzioni all'altezza delle promesse di
pace, di liberta' e di uguaglianza formulate in quella embrionale
costituzione del mondo che e' la Carta dell'Onu e la Dichiarazione
universale dei diritti umani. E' questa mancanza di una sfera pubblica
internazionale, idonea a supplire alle insufficienze degli Stati nazionali
nell'odierno mondo globalizzato, la grande lacuna drammaticamente rivelata
dalle tragedie di questo mese. Si tratta, precisamente, di un triplice vuoto
di politica e di diritto pubblico internazionale.
La prima lacuna riguarda le garanzie della pace e della sicurezza. Contro la
minaccia di un terrorismo fanatico e ramificato, non servono armi nucleari
ne' scudi stellari ne' alleanze militari di parte come la Nato, bensi'
quella forza di polizia internazionale che e' prevista dal capo VII, ancora
inattuato, della Carta dell'Onu e che certamente, se fosse stata istituita
all'indomani dell'89, sarebbe intervenuta in tutte le crisi degli anni
passati con ben maggior forza e credibilita', e senza le inutili
devastazioni provocate dalle guerre scatenate dall'Occidente in violazione
del diritto internazionale. Una simile forza potrebbe tra l'altro unificare
e coordinare tutte le attivita' di spionaggio, i dati e le informazioni di
cui dispongono i vari paesi impegnati nella lotta al terrorismo. Ed avrebbe
un ruolo complementare al Tribunale penale internazionale per i crimini
contro l'umanita' approvato a Roma nel luglio 1999, che sarebbe peraltro un
segno importante di solidarieta' se fosse rapidamente ratificato da tutti
gli Stati che l'hanno approvato e se ricevesse l'adesione anche degli Stati
Uniti.
La seconda carenza e' piu' specificamente politica. Dobbiamo domandarci
quanto abbia contribuito allo sviluppo del fanatismo e del terrorismo una
politica dell'Occidente informata unicamente a interessi economici e
geopolitici: dalla mancata soluzione della questione palestinese,
drammaticamente aggravata in questi anni e in questi giorni dalle violenze
del governo israeliano, fino all'invadente presenza americana nell'area e
agli ambigui rapporti intrattenuti con lo stesso fondamentalismo islamico,
dapprima allevato e utilizzato in funzione antisovietica e poi rivoltatosi c
ontro i suoi vecchi protettori.
La terza e piu' importante lacuna e' l'assenza totale di garanzie contro i
giganteschi squilibri e le tremende ingiustizie provocate da una
globalizzazione senza regole.
Benche' non ci sia un nesso diretto tra queste ingiustizie e il terrorismo,
dobbiamo ammettere che i focolai dell'odio e della violenza traggono sicuro
alimento dal contrasto sempre piu' vistoso e visibile tra la ricchezza
spensierata dell'Occidente e le condizioni disumane di miliardi di esseri
umani. Dobbiamo pur chiederci se sia realistica l'aspirazione alla pace e
alla sicurezza in un mondo in cui ottocento milioni di persone, cioe' un
sesto della sua popolazione, possiede l'83%, cioe' i cinque sesti del
reddito mondiale.
* I veri anti-global
"Avremmo dovuto ascoltare i richiami che venivano dai movimenti
antiglobalisti, che hanno chiesto che la globalizzazione non sia una strada
a senso unico che giova ai ricchi e dimentica i poveri", ha scritto Michail
Gorbaciov su "La stampa" del 27 settembre. Al di la' delle etichette e degli
slogan, in effetti, i veri antiglobalisti sono proprio i G8, cioe' i potenti
della terra che fino ad oggi hanno difeso un assetto del mondo fondato sulla
globalizzazione dei mercati ma non dei diritti, e sulla chiusura della
fortezza Occidente ai diseredati del resto del mondo. Mentre i veri
globalisti sembrano precisamente i movimenti cosiddetti "anti-G", accomunati
dalla rivendicazione di una sfera pubblica internazionale - in tema di
ambiente, di farmaci essenziali, di tassazioni sovranazionali e di lotta
alla fame, al commercio delle armi e al debito dei paesi poveri - e
dall'assunzione, come unica comunita' di riferimento, dell'intera umanita'.
La cosa piu' urgente e' allora che anche la politica dei Grandi della terra
scopra finalmente che il mondo e' accomunato non solo dal mercato globale ma
anche dal carattere globale e indivisibile della sicurezza e della pace,
cosi' come della democrazia e dei diritti. Che trovi anch'essa intollerabile
che oltre un miliardo di persone sia privo dell'alimentazione di base e
dell'accesso all'acqua potabile e 17 milioni muoiano ogni anno, vittime di
malattie infettive e ancor prima del mercato perche' i farmaci sono troppo
costosi a causa dei brevetti o, peggio, non sono piu' prodotti perche'
relativi a malattie in gran parte debellate e scomparse nei paesi
occidentali.
E' chiaro che porre fine a questa gigantesca omissione di soccorso non e'
solo un dovere imposto dal diritto alla salute sancito dai Patti di New York
del 1966, ma anche una condizione indispensabile per garantire la sicurezza
e la pace e, anche per questo, la risposta piu' efficace (e piu'
asimmetrica) al terrorismo. E' lo stesso preambolo alla Dichiarazione
universale del 1948 che avverte, realisticamente, che esiste un nesso tra
pace e garanzia dei diritti umani, tra violazioni dei diritti e violenza.
Siamo ancora in tempo a prendere sul serio questa saggia avvertenza: se non
per ragioni morali o giuridiche, almeno a tutela dei nostri stessi
interessi.

6. RIFLESSIONE. WOMEN'S CAUCUS FOR GENDER JUSTICE: GIUSTIZIA, NON GUERRA
[Questo intervento abbiamo ripreso dal sito de "Il paese delle donne":
www.womenews.net]
Come e' avvenuto per migliaia di altre persone che attraversano e vivono le
strade di New York ogni giorno, anche noi, dalla nostra sede della Grande
Mela, abbiamo vissuto gli attacchi alle torri in una maniera particolare.
Qualcuna ha potuto osservare dalla propria finestra il crollo. Una nostra
collaboratrice africana ha perso un familiare, in quel crollo. La tragedia
cresce giorno per giorno, man mano che percepiamo le sue esatte proporzioni,




anche politiche.
Come network internazionale di gruppi di donne e di singole, esprimiamo la
nostra condanna per questi atti di violenza. Molte donne della nostra rete
hanno subito atti di terrorismo: Kenya, Algeria, Francia, Medio Oriente,
Ruanda, ex Yugoslavia, Cile, Nicaragua, Salvador, Guatemala, Sierra Leone,
Afghanistan. Quelle che hanno conosciuto il devastante impatto di questa
violenza, tutte insieme hanno espresso dolore, tristezza, solidarieta' alle
vittime dei fatti dell'11 settembre. Ancora sotto shock, perche' questi atti
sono stati indirizzati contro il mondo intero, esse, tuttavia, da vittime
del terrorismo, chiedono agli Stati Uniti ed alla comunita' internazionale
innanzitutto di riflettere sulle scelte politiche, economiche e sociali
causa spesso di ingiustizie e poverta', condizioni alla base di quel clima
di frustrazione e disperazione che e' terreno fertile per i terrorismi e gli
integralismi.
* Giustizia, non guerra
Lo crediamo fortemente. Non puo' esistere pace duratura senza una reale
giustizia, che deve potersi estendere a tutti.
Vediamo il Tribunale Penale Internazionale come unico strumento utile in
futuro, unico giudice di giustizia e pace. Ad eventi come questo vanno
applicate le leggi internazionali, essi devono essere considerati crimini
internazionali, non guerra, e risolti attraverso i canali giuridici piu'
appropriati. Non dimentichiamo che proprio agendo d'impulso, in periodi di
crisi, si rischia di fare solo vendetta cieca.
Gli Stati membri delle Nazioni Unite devono concordare su questo punto, e
essere particolarmente attenti ad agire con cautela e secondo legge e
giustizia. Ogniqualvolta noi resistiamo alla tentazione della violenza e
della vendetta e sottolineiamo il ruolo della legge, facendola valere per
tutti, facciamo si' che essa sia conosciuta e riconosciuta, e davvero
alziamo il livello di civilta'.
Rispettiamo, proteggiamo e garantiamo tutti i diritti e le liberta'.
Condanniamo qualsiasi atto di violenza, qualsiasi terrorismo perpetrato da
chiunque, in ogni parte del mondo. Il nostro e' un invito indirizzato a
tutti i governi. Tutti i diritti, civili, politici, economici e sociali,
vanno rispettati.
E' fondamentale in questo momento che la situazione non sia usata come scusa
dai nostri governi per incrementare la militarizzazione delle societa',
calpestare diritti, imporre divieti.
* Donne, pace e sicurezza
Le voci di donne si differenziano per prospettiva, e stanno dando vita a
feconde discussioni, in ogni parte del mondo. Molte donne, soprattutto negli
ultimi decenni, hanno lavorato per la pace e la sicurezza. Ancora oggi siamo
di quel parere, e non vogliamo soffocare le nostre voci. Ricordiamo a tutti
e tutte la risoluzione 1325 su Donne, Pace e Sicurezza. In essa l'Onu ha
posto l'accento sulla necessita' di favorire e ampliare il ruolo decisionale
delle donne, in particolar modo per quanto riguarda la risoluzione dei
conflitti. Chiediamo a tutti i governi impegnati nel cercare una risposta
agli eventi dell'11 settembre di tenerne conto e assicurare "uguale
partecipazione e pieno coinvolgimento" delle donne "in qualsiasi sforzo
diplomatico per il mantenimento della pace e della sicurezza", cosi' come
sancito dalla citata risoluzione.
Noi continuiamo a sostenere il coraggioso movimento per la pace, a New York
ed in tutto il mondo. A dispetto delle immagini che trasmette la televisione
e del clima che vorrebbe farci sentire, siamo incoraggiate da un crescente e
intenso attivismo, che e' nato tra le strade di New York, nei suoi parchi, e
dice no alla guerra. Occorre creare e mantenere una pace giusta, non
attraverso l'inazione, ma con un grande sforzo ed un lavoro impegnativo di
risposta politica, senza perpetrazione di militarismi.

7. RIFLESSIONE. LEONARDO BOFF: MANIFESTO PER LA CONCORDIA E LA PACE
[Questo intervento di Leonardo Boff, il grande teologo della liberazione, ci
e' stato trasmesso da Gerard Lutte, che ringraziamo]
Nessun essere umano e' un'isola, per cui non domandate per chi suona la
campana. La campana suona per ciascuno, per ciascuna, per tutta l'umanita'.
Se grandi sono le tenebre che scendono sui nostri spiriti, piu' grande
ancora e' la nostra ansia di luce.
Assistiamo da giorni, con stupore e indignazione, all'irrompere della
demenza umana. Non lasciamo che tale demenza abbia l'ultima parola.
La massima e ultima parola che grida in noi e ci unisce a tutta l'umanita'
e' per la solidarieta' e la compassione nei riguardi delle vittime, e' per
la pace e il buonsenso nelle relazioni internazionali.
Le tragedie ci danno la dimensione dell'inumanita' di cui siamo capaci. Ma
lasciano anche venire in superficie l'autentica umanita' che abita in noi,
al di la' delle differenze di razza, di ideologia e di religione. E questa
umanita' in noi fa si' che insieme piangiamo, insieme ci asciughiamo le
lacrime, insieme preghiamo, insieme cerchiamo la giustizia, insieme
costruiamo la pace e insieme rinunciamo alla vendetta.
La saggezza dei popoli e la voce del nostro cuore lo testimoniano: non e' il
terrorismo che vince il terrorismo, ne' e' l'odio che vince l'odio. E'
l'amore che vince l'odio. E' il dialogo instancabile, la negoziazione aperta
e l'accordo giusto che tolgono le basi a qualunque terrorismo e fondano la
pace.
La tragedia che ci ha colpito nel piu' profondo del nostro cuore ci invita a
ripensare le sfide delle politiche mondiali, il senso della globalizzazione
dominante, la definizione del futuro dell'umanita' e la salvaguardia della
casa comune, la Terra. Il tempo stringe. Questa volta non ci sara' un'arca
di Noe' a salvare alcuni e a lasciar morire gli altri. Dobbiamo salvarci
tutti, la comunita' di vita di umani e non umani. Per questo dobbiamo
abolire la parola nemico. E' la paura che crea il nemico. Ed esorcizziamo la
paura quando facciamo del distante un vicino e del vicino un fratello e una
sorella. Allontaniamo la paura e il nemico quando cominciamo a dialogare, a
conoscerci, ad accettarci, a rispettarci, ad amarci: in una parola, a
prenderci cura di noi. A prenderci cura delle nostre forme di convivenza
nella pace, nella solidarieta' e nella giustizia. A prenderci cura del
nostro ambiente perche' sia un ambiente completo in cui sia possibile la
convivenza tra diversi. A prenderci cura della nostra amata e generosa Madre
Terra. Se ci prendiamo cura di noi come fratelli e sorelle scompaiono le
cause della paura. Nessuno ha bisogno di minacciare alcun altro. Possiamo
volare nei nostri aerei senza paura che si trasformino in bombe per
distruggere edifici e decimare vite.
Che l'11 settembre del 2001 sia ricordato meno come il giorno della tragedia
americana e mondiale e piu' come il giorno della grande trasformazione nella
coscienza dell'umanita', verso relazioni piu' inclusive tra tutti, in
direzione di una maggiore compassione e solidarieta' tra gli esseri viventi,
umani e non umani, nel cammino del rispetto riverente di fronte alla vita,
dell'impegno per la giustizia, la responsabilita' e la pace, nella gioiosa
celebrazione dell'esistenza. Ognuno e' chiamato a collocare il suo mattone
nella costruzione di questo santuario della pace, della benevolenza e della
cooperazione mondiale e planetaria. Che lo Spirito Creatore che ci abita e
che guida misteriosamente i cammini della storia ci accompagni con la sua
luce e il suo calore per realizzare tali propositi collettivi e umanitari.

8. RIFLESSIONE. NICOLETTA DENTICO: GUERRA E IPOCRISIA
[Nicoletta Dentico e' direttrice esecutiva di "Medici Senza Frontiere" ed e'
stata coordinatrice della Campagna Italiana per la messa al bando delle
mine. Questo intervento e' apaprso sul quotidiano "Il manifesto" del 15
ottobre]
Le simbologie sono importanti, come ci insegnano gli autori degli attacchi
terroristici a New York e Washington.
Non puo' cosi' sfuggire all'occhio educato l'impatto simbolico dell'attacco
missilistico all'edificio dell'Afghan Technical Consultancy, l'agenzia delle
Nazioni Unite che coordina in quattro provincie dell'Afghanistan le
operazioni di bonifica del territorio, in uno dei paesi piu' contaminati
dalle mine al mondo.
"Liberta' Duratura', avvolta dalla censura mediatica e dai sofisticati
gerghi della nuova dottrina militare, debutta svelando fin dai primi raid la
sua natura autentica: quella di una guerra che, in nome di una
inviolabilita' violata, si abbatte contro un popolo vulnerabile da sempre,
senza difese.
Si abbatte contro le Nazioni Unite a contraddire il ruolo che il nuovo
consenso militar-diplomatico-umanitario attribuisce al Palazzo di Vetro;
l'imprevedibile recupero dell'Onu subito dopo l'attacco dell'11 settembre,
volto a legittimare la nuova alleanza contro il terrorismo, si sgretola
senza preamboli con l'affondo al cuore della sua attivita' umanitaria,
mentre la strategia di Bush e Blair invoca la paradossale pretesa di
combinare bombe e pane.
Si abbatte contro quattro sminatori, che in questi anni, accanto ad altri
coraggiosi brandelli della societa' civile afghana, hanno lavorato con
enorme impegno e rischio personale per rendere l'Afghanistan un paese
abitabile, una terra in cui ripristinare una vita ordinaria. Malgrado tutto.
Si stima che 10 milioni di mine terrestri siano ancora disseminate nel
paese. Per lo piu' mine lanciate dai bombardieri sovietici che rispondevano
alla logica delle "garbage operations", la contaminazione totale del
territorio per impedire qualunque movimento; ma non mancano le mine italiane
della Valsella e dalla Tecnovar, che passando per l'Egitto arrivavano ai
gruppi mujaheddin.
Il 41% delle zone ad alta priorita' per lo sminamento e' costituito da campi
e pascoli, ed e' qui che piovono i lanci di cibo e medicinali che
accompagnano i missili, nel segno di un "umanitarismo militare" che non puo'
esistere, e che condanniamo senza appello, in quanto contravviene a tutti i
principi fondamentali del Diritto Umanitario Internazionale.
Non e' dato sapere come finira' questa orribile crisi. Dal punto di vista di
un'organizzazione come Medici Senza Frontiere, che negli ultimi venti anni
si e' faticosamente conquistata la credibilita' nel terreno minato dei
signori della guerra afghani, in condizioni di estrema difficolta', alcune
domande restano senza risposta. Se i paesi impegnati nella lotta al
terrorismo, oggi, sono tanto preoccupati per la popolazione, perche' non
hanno mosso un dito per rifornirla di cibo e medicinali nelle settimane
precedenti, o anche nei mesi precedenti, quando risultava chiaro che
l'emergenza dovuta alla siccita', alla malnutrizione ed alla guerra sarebbe
stata devastante, a prescindere dall'attacco alle Twin Towers? Inoltre,
quali sono i motivi della "campagna bombe e pane" voluta da Tony Blair? si
vuole favorire la resistenza contro i Talebani, oppure prevenire un esodo in
massa nei paesi limitrofi?
Questa politica dei muscoli dal volto umano e' ambigua, strumentale e
pericolosa.
Ambigua, perche' si afferma senza spazio umanitario, ovvero senza
valutazione delle necessita' sul campo, senza prossimita' alle popolazioni
beneficiate, senza verifiche.
Strumentale, perche' non persegue i bisogni delle vittime ma gli interessi
geopolitici degli stati. Il lancio di qualche cassa di razioni e di viveri
mira piu' a rassicurare l'opinione pubblica che ad aiutare gli afghani, ma
la propaganda umanitaria avra' un effetto nefasto sull'impegno futuro nel
paese, e sulla connotazione imparziale ed indipendente delle agenzie di
intervento umanitario.
Pericolosa, nel caso specifico, in quanto non tiene conto del contesto
afghano. Per anni, l'educazione impartita alla popolazione in materia di
mine ha insegnato di non avventurarsi in aree insicure e non toccare oggetti
sconosciuti. Oggi, la sollecitazione a procurarsi cibo e medicinali
disseminati a caso come le mine espone la gente, e soprattutto le donne, a
rischi dissennati.
L'Afghanistan non e' il Kosovo, ma la strumentalizzazione umanitaria e' la
stessa. Ancora una volta, l'affermazione della propria alternativa di
indipendenza, imparzialita' e neutralita', dovra' passare attraverso
un'attenta politica di raccolta fondi. La cooptazione delle Ong si intravede
gia' all'orizzonte. Come per il Kosovo, Medici Senza Frontiere non
accettera' fondi dai paesi coinvolti militarmente in questa macchina da
guerra, che ha fatto degli aiuti di emergenza una componente strutturale. E
spudorata.

9. APPELLI. UN APPELLO DEL GENOA LEGAL FORUM
[Riceviamo e diffondiamo]
Chiunque abbia subito danni, minacce, insulti, sequestri o semplicemente
abbia assistito ai reati nella famosa serata della Diaz a Genova e non abbia
ancora sporto denuncia, e' pregato di contattare velocemente un legale del
Genova Legal Forum (GLF) che si occupa della vicenda.
I termini per avviare le procedure di denuncia scadono il 21 ottobre.
Si tratta di venire a testimoniare a Genova e raccontare quanto si e' visto
o subito.
E' molto, molto importante.
Grazie.
Per contatti: Giulio Itzcovich o Silvia Rocca, e-mail: cmanzitti@libero.it o
anche gitz@libero.it, tel. 010588553 (chiedere di Giulio o di Silvia).

10. MATERIALI. PER STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE: DA EDITH STEIN A GINO STRADA

* EDITH STEIN
Profilo: filosofa tedesca, nata a Breslavia nel 1891 e deceduta nel lager di
Auschwitz nel 1942. Di famiglia ebraica, assistente di Husserl, pensatrice
tra le menti più brillanti della scuola fenomenologica, abbracciò il
cattolicesimo e nel 1933 entrò nella vita religiosa. I nazisti la
deportarono ed assassinarono. Opere di Edith Stein: le opere fondamentali
sono Il problema dell'empatia, Franco Angeli (col titolo L'empatia) e
Studium; Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova; Una ricerca sullo
Stato, Città Nuova; La fenomenologia di Husserl e la filosofia di san
Tommaso d'Aquino; Introduzione alla filosofia, Città Nuova; Essere finito e
Essere eterno, Città Nuova; Scientia crucis, Postulazione generale dei
carmelitani scalzi. Cfr. anche la serie di conferenze raccolte in La donna,
Città Nuova. Opere su Edith Stein: per un sintetico profilo cfr. l'"invito
alla lettura" di Angela Ales Bello, Edith Stein, Edizioni S. Paolo,
Cinisello Balsamo 1999 (il volumetto contiene un breve profilo, un'antologia
di testi, una utile bibliografia di riferimento). Lavori sul pensiero della
Stein: Carla Bettinelli, Il pensiero di Edith Stein, Vita e Pensiero;
Luciana Vigone, Introduzione al pensiero filosofico di Edith Stein, Città
Nuova; Angela Ales Bello, Edith Stein. La passione per la verità, Edizioni
Messaggero di Padova. Per la biografia: Edith Stein, Storia di una famiglia
ebrea, Città Nuova; Elio Costantini, Edith Stein. Profilo di una vita
vissuta nella ricerca della verità, Libreria Editrice Vaticana; Laura
Boella, Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L'empatia a partire da
Edith Stein, Cortina, Milano 2000.

* GERTRUDE STEIN
Profilo: scrittrice e promotrice di cultura, benefattrice di artisti e
letterati, nata in America nel 1874, a Parigi dal 1903, lì morì nel 1946.
Opere di Gertrude Stein: segnaliamo almeno Tre esistenze, Einaudi, Torino;
Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi, Torino.

* GEORGE STEINER
Profilo: Francis George Steiner nasce a Parigi nel 1929 da padre di origine
ceca (di Lidice) e madre viennese. Nel 1940 la famiglia si stabilisce in
America. Torna poi in Europa. Docente di letteratura comparata (a Ginevra, a
Cambridge, a Oxford), saggista finissimo e denso moralista. Le sue opere
sono di una ricchezza, lucidità e profondità straordinarie. Opere di George
Steiner: Tolstoj o Dostoevskij (1959), La morte della tragedia (1961), Dopo
Babele (1975), Le Antigoni (1984), Vere presenze (1989), Il correttore
(1992), Nessuna passione spenta (1996), Errata (1997), tutti editi in
italiano da Garzanti; cfr. inoltre Nel castello di Barbablu (1971), SE; La
nostalgia dell'assoluto (1974), Bruno Mondadori; Heidegger (1978), A.
Mondadori; Il processo di San Cristobal (1981), Rizzoli.

* ALEXANDER STILLE
Profilo:nato a New York nel 1957, giornalista e saggista. Opere di Alexander
Stille: Uno su mille, Mondadori, Milano 1991; Nella terra degli infedeli,
Mondadori, Milano 1995.

* HERMANN STOHR
Profilo: 1898-1940, aderente al MIR, oppositore del nazismo, nel 1939
rifiutò di arruolarsi, condannato a morte e ucciso il 21 giugno 1940.

* ALFONSINA STORNI
Profilo: nata nel 1892, si tolse la vita nel 1938. Poetessa argentina,
figlia di emigranti ticinesi, insegnante e collaboratrice di varie riviste;
autrice di versi di una poesia tenera e vibrante, scrisse anche racconti e
prose liriche; è autrice anche di vari lavori teatrali per bambini. Opere di
Alfonsina Storni: noi l'abbiamo scoperta trovando su una bancarella la sua
raccolta di versi Irremediablemente, volume terzo delle Obras Completas,
Sociedad Editora Latino Americana, Buenos Aires.

* GINO STRADA
Profilo: medico impegnato in aree di guerra, fondatore dell'associazione
umanitaria "Emergency". Opere di Gino Strada: Pappagalli verdi, Feltrinelli,
Milano. Indirizzi utili: Emergency, via Bagutta 12, 20121 Milano, tel.
02/76001104, fax 02/76003719; e-mail: emergenc@tin.it

11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it ;
angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 260 del 17 ottobre 2001