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"L'Italia farà la sua parte". Noi no
"L'Italia farà la sua parte". Noi no
Una riflessione di Walter Peruzzi, direttore della rivista "Guerre e Pace".
Le immagini di Manhattan in fiamme ci hanno riportato alla mente i
bombardamenti di Bagdhad o di Belgrado. Alla rabbia impotente di allora è
subentrata l'incredulità nel vedere abbattuti i "simboli" della
superpotenza che da mezzo secolo semina distruzioni e morte in molte parti
del mondo.
Ma dietro la distruzione dei simboli c'è quella orribile di migliaia di
vite umane: "è sempre il popolo", ha scritto giustamente Eduardo Galeano,
"a metterci i morti". Non può essere che totale la solidarietà con le
vittime e la condanna, politica oltre che morale, di chiunque usi
cinicamente l'assassinio di lavoratori e lavoratrici, bambine e bambini -
siano essi statunitensi o iracheni -, per inviare deliranti messaggi di
"potenza".
SCONTRO DI CIVILITÀ?
Qualcuno ha voluto vedere in questi attentati quello che Samuel Huntington
definì clash of civilization, "scontro di civilità, di culture". Questo è
quanto si vuol farci credere.
Pensiamo invece che la strage di New York e di Washington esprima la stessa
"civiltà" cui sembra contrapporsi, nonostante l'uso dei kamikaze anziché di
soldati programmati per uccidere a costo (occidentale) zero. Questi
attentati sono "speculari" ai bombardamenti da 10.000 metri di altezza su
città indifese, agli embarghi che causano milioni di vittime innocenti,
alle politiche economiche che moltiplicano la disperazione nel mondo. E
sono analoghi alle tante azioni terroristiche firmate dalla Cia, di cui
sono creature anche i Bin Laden. Fanno parte della stessa violenza
"globale", da cui più nessuno può dirsi sicuro, e che niente può giustificare.
Se non vale, per nobilitare una carneficina di cittadini inermi, invocare i
crimini del loro governo, non vale, per giustificare stragi ancora più
spaventose, rinominarle "operazioni di polizia" o "umanitarie", farle
vistare dall'Onu e dalla Nato o inventarsi, come in questo caso, un
improbabile "stato di guerra". Ciò serve per sostituire alla ricerca
rigorosa e alla punizione dei veri responsabili una indiscriminata
rappresaglia (termine e pratica care ai nazisti), che coinvolga anche gli
Alleati. Ma non può certo rendere tali azioni meno criminali di quelle dei
terroristi o meno apportatrici delle ingiustizie e della disperazione che
sono il terreno di coltura del terrorismo, lo aiutano nel reclutamento e
possono procurargli consensi.
L'IPOCRISIA DELL'OCCIDENTE
Enzo Mauro descrive la democrazia occidentale come una cittadella assediata
di "cittadini inermi […] che si considera in pace, riconosce i diritti
degli altri, rispetta i valori della civile convivenza" ("La Repubblica").
Ma la democrazia occidentale non riconosce il diritto alla vita degli
iracheni, sfrutta il lavoro schiavile nelle imprese delocalizzate, nega ai
palestinesi uno stato, ai kurdi i diritti umani, agli immigrati
accoglienza. E l'immagine di "cittadini inermi", usata per "mobilitare"
contro il terrorismo, mal si accorda con quella esibita davanti ai popoli
aggrediti. Mentre i bombardieri Usa "illuminavano" Bagdhad, Ernesto
Balducci scriveva: "Ora l'immensa comunità araba vede ad occhi nudi lo
splendore terrificante dell'Occidente… e rischia di imboccare le vie
minacciose del fondamentalismo."
Prodi si dichiara "inorridito", Berlusconi definisce i terroristi
"mostruosi criminali", Ciampi mette il lutto. Ma perché questi signori non
hanno avuto orrore di loro stessi e dei loro "mostruosi crimini" quando
partecipavano o ancora partecipano, come capi di governo, all'uccisione di
decine di migliaia di iracheni tramite l'embargo?
Madelaine Albright ha risposto per tutti. A un intervistatore che gli
chiedeva se era giusto uccidere 500.000 bambini per colpire Saddam, rispose
che si, era "un prezzo da pagare". Sia per i G8 che per i terroristi
"islamici" i morti sono "effetti collaterali" e "contingente necessità"
nella "lotta del Bene contro il Male" - come l'hanno definita Bin Laden e Bush.
"A New York", ha scritto Antonio Polito, "è stato perpetrato uno sterminio
di massa e indiscriminato di uomini e donne colpevoli solo di essere
americani" ("La Repubblica"). Ma di cosa erano colpevoli, se non di essere
palestinesi, sudanesi, iracheni, serbi, e domani afghani, le centinaia di
migliaia di esseri umani uccisi dai bombardamenti Usa/Nato o dalle milizie
di Saharon?
CHI SONO I TERRORISTI
La "distanza assoluta" dell'Occidente dalla pratica del terrore è una
favola ipocrita, usata per arruolarci contro l'Islam o contro il Sud del mondo.
Non per questo cadremo nell'errore di assegnare una qualsiasi valenza
positiva agli attentati contro le Torri Gemelle. Si tratta non solo di un
massacro esecrabile ma funzionale a un disegno reazionario, come lasciano
intendere i probabili autori e i prevedibili effetti.
Solo pochi gruppi e alcuni servizi segreti potevano realizzare attentati
così "sofisticati" e diversi da quelli purtroppo consueti in vari
conflitti. Sembra probabile che i responsabili siano i fondamentalisti
islamici facenti capo a Bin Laden e ai talebani, anche se la cosa non può
dirsi certa. Ma il giudizio politico non cambia se fossero coinvolti invece
(o anche) i servizi segreti di Israele, efficienti e interessati a
demonizzare il mondo arabo, o quelli di altri stati; la destra
fondamentalista statunitense, responsabile della strage di Oklaoma city;
ambienti e settori dei servizi segreti Usa, che potrebbero aver "lasciato
fare" per poi cogliere i frutti - vista la loro totale disinformazione
prima e la rapidità con cui hanno "sfornato", subito dopo, liste di
attentatori doc.
Si tratta comunque di forze estranee a ogni movimento di massa e a ogni
obiettivo di trasformazione sociale, che hanno in comune la cultura del
golpe, delle lapidazioni e dei linciaggi. E non per caso il risultato delle
loro azioni è stato di favorire quanti intendono legittimare, col "nemico
islamico", politiche di dominio, di militarizzazione e di cancellazione del
conflitto sociale.
A CHI GIOVA?
Come primo effetto questi attentati hanno compattato l'Occidente. Un
movimento antiliberista in ascesa, che almeno da due anni si andava
sviluppando, coinvolgendo anche settori sindacali, negli Stati Uniti,
rischia di essere rigettato sulla difensiva. La proclamazione dello "stato
di guerra" favorisce la sua criminalizzazione, iniziata a Genova; permette
di additare in ogni forma di dissenso il "nemico interno" colluso con i
terroristi e in ogni migrante, specie se arabo, una spia; dà pretesto allo
scatenamento di umori xenofobi come sta avvenendo.
Il fastidio per l'unilateralismo Usa, e le contraddizioni con l'Europa, in
aumento dopo l'avvento di Bush, vengono accantonate - in nome della difesa
contro il comune nemico - insieme alle riserve verso lo scudo stellare: del
tutto inutile contro questo tipo di attentati, come ripetono gli esperti,
ma che si può cercare di far passare sull'onda dell'emozione popolare,
subito cavalcata da Berlusconi.
La "minaccia islamica" restituisce finalmente alla Nato, dopo la caduta del
muro, un "nemico" non occasionale ma stabile e di lunga durata. Lo
sottolinea l'appello all'art. 5, privo di ogni utilità pratica ma che serve
a creare il clima per la mobilitazione generale nella "lunga guerra". E
mette ancor più nell'angolo i palestinesi, costretti a ripetuti giuramenti
di fedeltà agli Usa, restituendo a Israele il suo ruolo di avamposto della
civiltà fra gli infedeli.
Che la demonizzazione dell'Islam possa avere conseguenze laceranti per la
comunità umana e che l'estendersi della guerra non estirpi il terrorismo,
ma rischi di farne una risposta sempre più diffusa, e "legittimata" da
nuove stragi dell'Occidente, non preoccupa Bush, al di là di qualche
ipocrita rassicurazione volta a cooptare nella colazione alcuni paesi
islamici. L'obiettivo suo e dei poteri forti, col pretesto di "catturare"
Bin Laden, è mettere sotto il diretto controllo Usa, per di più con
l'appoggio estorto a Russia ed Europa, un'area strategica come l'Asia
centrale, che finora avevano cercato di sottrarre loro utilizzando proprio
quei fondamentalisti islamici oggi diventati inaffidabili.
DISERTARE LA GUERRA DI BUSH
Tornano così a soffiare venti di guerra. Tornano le dolenti teorie dei
profughi in fuga da un incendio che potrebbe investire oltre all'Afghanisan
l'Iraq: immagini di miseria, presto di morte, date in pasto ai
telespettatori per "risarcire" il Grande Moloch del suo orgoglio ferito.
E l'Italia? Farà la sua parte, proclama Ciampi e ripetono i ciambellani di
corte.
Noi questa parte non la faremo.
Non "sceglieremo" fra i terroristi e Bush. Non perché siamo neutrali fra i
due ma perché siamo contro entrambi. Perché chiediamo che siano individuati
e giudicati i veri responsabili degli attentati odierni - ma anche
dell'embargo all'Iraq, della guerra del Golfo e del Kosovo. Perché
crediamo, con i pacifisti newyorkesi e con le donne afghane, che si debba
dire "No" al terrorismo e alla guerra.
Noi continueremo a fare la nostra parte per costruire un mondo dove non si
globalizzino il dominio e la violenza ma i diritti, si cancelli l'embargo
all'Iraq, si rispettino i diritti degli afghani, dei kurdi, dei
palestinesi, dei migranti oggi minacciati dalla legge razzista Bossi -Fini.
E chiederemo nelle piazze, ai lavoratori e alle lavoratrici, ai giovani, di
disertare la guerra di Bush.
Walter Peruzzi