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Ettore Masina sui fatti di Genova
Vi sono momenti nella storia (e ne stiamo vivendo uno) in cui pare che
dagli antichi recessi della disumanità irrompa una devastante bufera di
violenza, e ragione e follìa sembrano vorticare insieme come foglie morte
in un inverno feroce. E’ allora che la speranza diventa l’unica forza che
può riportare il sereno e ricomporre la pace. Speranza non vuole dire
illusione né volontaria cecità né faciloneria; speranza non vuol dire
sonno esausto: al contrario, speranza vuol dire occhi aperti, nettezza di
giudizio, realismo, vigilanza; ma vuole anche dire capacità di non
lasciarsi travolgere dai drammi vissuti né da quella che sembra l’oggettiva
prevalenza della forza bruta; vuol dire fiducia nell’uomo e nella storia,
non per provvidenziali automatismi (che non esistono) ma perché pur fra
alti e bassi (talvolta al di là di ogni previsione ottimistica, talvolta in
paurose regressioni) la vicenda dell’umanità, grazie all’azione degli
uomini e delle donne di buona volontà, avanza lentamente verso una
comprensione dei diritti umani che rende sempre più difficile ai Signori
del Potere sventolare i propri vessilli.
Una sofferta vittoria
Credo che compiremmo un crudele autolesionismo se accettassimo di valutare
gli avvenimenti di Genova soltanto in base alle tragedie che li hanno
connotati e che hanno tutti i colori dell’infamia, sia del nazismo “di
base” sia della legalità prostituita. Accetteremmo in tal caso la logica di
chi ha orchestrato quelle tragedie: di chi le ha preparate con la propria
insipienza (per esempio il governo D’Alema, che ha scelto la città e
organizzato la cosiddetta prevenzione) o di chi (vedi Berlusconi & Co)
quelle tragedie le ha, se non volute, certamente istigate, con l’intenzione
di mostrare al mondo che il movimento anti-G8 è una congrega di violenti e
il governo italiano è costretto dalla piazza “comunista” alla repressione;
accetteremmo la logica di una televisione di regime che - convinta che le
immagini di violenza procurino audience ha praticamente confinato
nell’invisibilità la immensa folla dei nonviolenti, la quale ha dapprima
gremito i luoghi della cultura, della politica e della preghiera e poi le
strade di Genova; e ha continuato a gremirle anche quando una “saggia”
prudenza poteva spingere al ritorno a casa.
Il movimento nonviolento ha avuto a Genova una sua impressionante validità,
anche più vasta e più coraggiosa di quella delle tradizionali marce della
pace. Il movimento ha riportato una sofferta vittoria, non soltanto
rendendo esplicite in sede culturale le crudeltà della globalizzazione ma
anche verificandone la ferocia strutturale che essa assume ai suoi vertici:
una esigua zona “rossa”, con un gruppo di privilegiati arcidifesi dalle
proprie forze armate, e, fuori, tutte le contraddizioni della società
moderna. E, anche, il movimento è riuscito a mostrare la stupida arroganza
di Grandi che credono di poter sostituire l’ONU con una cena d’affari alla
quale sono stati invitati un po’ di colleghi poveri: una sorta di cena di
Natale offerta da una sussiegosa San Vincenzo a nobili decaduti. Dopo
questi smascheramenti, il G8 non sarà più lo stesso: e a deciderlo è stata
l’opinione pubblica, prima ancora che Dobliù Bush spiegasse che c’è un solo
G di serie A, gli altri 7 sono G di serie B.
Un duro apprendistato
E’ a partire da questa constatazione che può e deve prendere il via (come,
del resto, l’ha già presa) una valutazione autocritica del movimento: su
come salvare insieme la necessità di un arco di forze il più possibile
vasto e pluralista e insieme quella di una forte identità nonviolenta; su
come elaborare strategie e tattiche; come scegliere liberamente le proprie
convocazioni senza sentirsi costretti a seguire l’agenda dei Potenti; sulla
capacità di “inventare” un servizio d’ordine che impedisca ai
professionisti della violenza di nascondersi fra le fila dei nonviolenti
per uscirne al momento opportuno. Sono problemi di grande (e anzi: fatale)
importanza: ma da discutere nella consapevolezza che il movimento è in una
fase di apprendistato e le autocritiche (e soprattutto certe critiche) non
possono non tenere conto di ciò.
Penso che la nostra capacità di speranza debba esprimersi anche nel
tentativo (necessario e urgente) di dialogare con quei giovani che, sia
pure lontani dalla ideologia dei black block, hanno poi finito per entrare
anche loro in azione contro le forze di polizia: quelli che hanno pagato il
prezzo più duro, con un ragazzo morto; e che quando hanno seppellito il
loro compagno non hanno saputo dargli altra bandiera che quella, effimera e
volgare, di una società sportiva. Questi giovani hanno bisogno di affetto e
di dialogo, non paternalista e non saccente, ma, nello stesso tempo, chiaro
e forte. Hanno bisogno di sapere che sono, anche loro, importanti; ma lo
sono se si sganciano dalle logiche della violenza sollecitate dal sistema
dominante.
Anche i poliziotti, anche il carabiniere che ha sparato e ucciso, sono
giovani, e anzi giovanissimi. Gli spettacoli di ferocia ai quali la
televisione ci ha fatto assistere (un ragazzo per terra (molti ragazzi per
terra) e intorno un nugolo di gente in divisa che continua a picchiarlo
selvaggiamente, non soltanto con gli sfollagente ma anche con calci su
tutto il corpo; e le notizie dal lager di Bolzaneto e la bestiale
“perquisizione” nella scuola Diaz) non devono portarci a una indiscriminata
accusa di tutta la polizia; quello striscione “Assasssini” portato alla
testa di certi cortei può essere stata l’espressione di un profondo choc,
nelle ore immediatamente seguenti alla tragedia, ma non può diventare un
manifesto politico. Qua e là, dalle cronache che non hanno trovato
accoglienza sulla maggior parte dei quotidiani ma che hanno fortunatamente
invaso i nostri e-mail, sono affiorati episodi di solidarietà fra agenti di
polizia e nonviolenti. Commetteremmo un gravissimo errore se stabilissimo,
come talvolta è avvenuto, una divisione dei giovani in due schiere nemiche:
nonviolenti, da un lato, e poliziotti dall’altro. Il comportamento “cileno”
di molti agenti non significa che abbiamo una polizia cilena. Anche qui un
dialogo deve essere avviato, nella chiarezza e nella cordialità.
Il coraggio della verità
E però penso che il movimento abbia anche e in modo assolutamente
prioritario la necessità morale di coinvolgere larghi strati di opinione
pubblica su quanto è avvenuto. Sarebbe un’autentica tragedia se esso si
ripiegasse soltanto sui suoi problemi per così dire “interni”. O il
movimento si rende conto di essere respiro di democrazia, strumento
politico che provoca mutamenti politici non soltanto a livello planetario
ma anche “qui e ora” o diventa una aristocratica accolita di benpensanti.
Come sempre, incombe sul movimento il pericolo di una strumentalizzazione
da parte di istituzioni che cercano di tamponare la propria crisi; ma i
fatti di Genova devono investire il parlamento e la magistratura e
l’opinione pubblica perché sono una spia allarmante di una degenerazione
democratica che può aggravarsi paurosamente con la scelta pericolosa di un
esercito di professionisti. Sono ormai emerse con ogni evidenza precise e
assai inquietanti responsabilità dei quadri intermedi della polizia in
ordine al controllo della piazza; difficile sottrarsi all’impressione che
vi sia stata una paradossale (ma davvero paradossale?) tolleranza nei
confronti dei black block e una vergognosa brutalità nei confronti delle
altre componenti delle manifestazioni. Di più: se un folto gruppo (per
usare un eufemismo) di agenti di quattro diversi gruppi di cosiddette forze
dell’ordine si muove con tanta brutalità diventa ben difficile non pensare
che vi siano dietro precisi ordini o almeno tacite connivenze del potere
politico oltre che dell’esecutivo. Giovedi 19 luglio sarebbe stato facile o
quasi bloccare l’esercito nero dei violenti ma i polisziotti sono stati
unicamente schierati a difesa della “zona rossa” e delle loro sedi. Perché?
Gli avvocati del movimento stanno dando prova, come hanno già fatto nelle
giornate genovesi, di grande coraggio e lucidità professionali; il
movimento deve ora pienamente collaborare con gli inquirenti e sollecitare
a rendere la propria testimonianza i medici che hanno esaminato le vittime
della repressione; e deve saper coinvolgere l’attenzione del maggior numero
possibile di cittadini.
In questi giorni è facile trovare persone che vanno alla ricerca di
giornali che non dicano quanto dicono “Repubblica”, “il manifesto” e
persino “Il Foglio”. Il fatto è che certe verità ci inquietano, perché ci
obbligano a prendere posizione, ciò che è assai scomodo; perciò vorremmo
bilanciarle con altre, stabilire equazioni fra “opposti estremismi”:
vecchio vizio della borghesia italiana sul quale cerca adesso di ergersi la
rozza astuzia bottegaia di Berlusconi, dopo avere difeso inutilmente la
versione secondo la quale c’erano soltanto aggressori (tutti i
manifestanti) e aggrediti (i poliziotti).
Il coraggio della verità è una delle colonne della democrazia. Il movimento
può e deve diffondere la verità sui fatti genovesi - e il gusto della
verità. E’ necessario portarne, non soltanto in parlamento ma al grande
pubblico, i fatti incontrovertibili e le problematiche che ne nascono.
Quando, prima delle elezioni, dicevamo a certi giovani: “Badate: una
vittoria di Berlusconi aggraverà la situazione italiana”, essi ci
rispondevano: “Peggio di così non potrà essere”. Quando lo dicevamo a certi
adulti, ci rispondevano: “Lasciatelo provare”. A Genova le illusioni di chi
era in buona fede si sono vanificate. Possiamo trasformarle, con paziente
tenacia, in un nuovo clima politico?
Un affettuoso saluto dal
vostro Ettore Masina