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[REP] G8, la paura della violenza e la scomparsa delle molotov
Segnalo questo articolo di Manconi perché quanto meno ha il pregio di trattare
la faccenda senza ipocrisia. M.
_[Ripostato da: La Repubblica - http://www.repubblica.it ]________________
[http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20010714/commenti/1515apre.html]
14 luglio 2001
G8, la paura della violenza e la scomparsa delle molotov
luigi manconi
DAL 1989, in Italia, non viene lanciata una bottiglia Molotov (se non da
bande del tifo organizzato). E da un decennio, in Italia, non si verificano
scontri di piazza (o quasi): in ogni caso, non si verificano scontri di
piazza paragonabili, per intensità di violenza, a quelli degli anni '70. Ci
sono, piuttosto, rappresentazioni di battaglie di strada e scontri
simulati. Spesso, queste performances belliche - grazie alla raffigurazione
fotografica o televisiva - sono apparse come vere. Ma, a parte rare
eccezioni, si è trattato esclusivamente di rappresentazioni. Posso dirlo
perché ho partecipato ad alcune di esse - mi riferisco agli ultimi cinque
anni e non al decennio 1967-1977 - con ruoli diversi, ma tutti relativi a
un'attività qualificabile come di mediazione: prima e durante le
manifestazioni. Questa opera di mediazione costituisce una novità solo
relativa: anche negli anni '60 e '70 negli scontri di strada c'era una
componente di recitato, che consentiva la negoziazione e favoriva
l'attività dei negoziatori. Ma col passare del tempo e col ridursi della
quota di violenza esercitata - e parallelamente alla crescita della quota
di "simulazione militare" - è cresciuto anche il ruolo della mediazione. Il
fatto è assai positivo per una considerazione di psicologia sociale che
precede, e di molto, qualunque calcolo politico. In altri termini, i
movimenti sociali sono portatori - oltre che di valori e di fini - di una
carica di aggressività che è il segno del loro "antagonismo": ovvero della
volontà di "cambiare le cose" e di "imporre" quel cambiamento a quanti vi
si oppongono. Quell'aggressività non è rimuovibile interamente nè
interamente governabile: ma non è destinata, di necessità, a tradursi in
violenza contro le persone e le cose. Quell'aggressività può essere
"contenuta" e sottoposta, appunto, a mediazione. "Contenere la violenza" è
la formula utilizzata dal ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, e ha due
possibili significati: riduzione della quota di violenza effettivamente
esercitata; amministrazione di quella stessa quota con i minori danni
possibili per tutti. Nell'ultimo decennio è accaduto esattamente questo,
grazie alla "combinazione virtuosa" di due fattori: lo sviluppo di una
intensa attività negoziale intorno alla gestione delle manifestazioni e il
diffondersi di un uso controllato della forza da parte di alcuni settori di
manifestanti. Il discorso è, evidentemente, delicato, ma va affrontato
senza ipocrisie. Quando, all'interno dei regimi democratici, si manifestano
movimenti collettivi di contestazione, una quota di violenza è fisiologica
e costituisce un costo non eliminabile. Si tratta di decidere se reprimerla
indiscriminatamente, quella quota, col rischio di radicalizzarla ed
estenderla: oppure, appunto, "contenerla". Le "tute bianche" e quei settori
di manifestanti che partecipano ai cortei con una "attrezzatura di
autodifesa", che esercitano una pressione fisica e ricorrono all'uso
controllato della forza, svolgono un ruolo ambiguo. Ma - questo è il punto
- è un ruolo, a mio avviso, positivamente ambiguo. Offre a
quell'aggressività di cui si diceva, un canale in cui esprimersi e,
insieme, uno schema (rituale e agonistico) che l'amministra. Propone uno
sbocco - e, dunque, in qualche misura rischia di incentivare la violenza -
ma esercita un controllo e pone (tenta di porre) limiti. L'attività delle
"tute bianche" è, dunque, letteralmente, un esercizio sportivo (e lo sport
è, classicamente, la prosecuzione e la codificazione della guerra con mezzi
incruenti), che depotenzia e disinnesca la violenza: perlomeno, la gran
parte di essa. Certo, questo presuppone un'idea della violenza di piazza
come una sorta di flusso prevedibile, indirizzabile, controllabile: ma è
proprio in questi termini che essa viene trattata da numerosi responsabili
dell'ordine pubblico e da molti leader di movimento. Sia chiaro: il
problema della violenza di piazza è cosa assai più complessa e ha radici
profonde, ma - per una volta - considerarla sotto l'aspetto essenzialmente
tecnico può essere utile. Mi spiego. La stragrande maggioranza del
movimento italiano anti-globalizzazione è su posizioni di pacifismo
integrale; una parte assai ridotta è favorevole alla radicalizzazione dello
scontro (mi riferisco ai casseurs e a piccoli gruppi autonomi, luddisti e
anarchici, che nella "violenza in sé", e nella sua funzione simbolica,
credono e investono); una parte assai più ampia intrattiene con l'esercizio
della forza un rapporto solo strumentale (finalizzata a uno scopo). Le
cosiddette "tute bianche" rappresentano bene quest'ultima componente, ma
non la esauriscono: accanto a loro, ma diversi da loro, operano i "gruppi
di affinità", le associazioni che provengono da esperienze di nonviolenza
classica e di disubbidienza civile e associazioni di cristiani radicali. Le
"esercitazioni" messe in atto e in scena nei giorni scorsi - giovani che
interpretano "poliziotti" che simulano di malmenare giovani che
interpretano "manifestanti" - richiamano un'attività di "formazione" (e di
vero e proprio training) alla nonviolenza. Le "tute bianche" portano al
punto estremo - assai vicino a quello di rottura - il medesimo discorso
della nonviolenza, declinato in forme assai differenti, e la disponibilità
a ricorrere alla forza per conquistare "agibilità": ovvero luoghi e
occasioni di presenza e di parola. A ben vedere, l'economia e la geometria
dei cortei degli ultimi anni hanno avuto, tutti, questa posta in gioco: gli
spazi da occupare. Nell'ottenere, o meno, l'obiettivo (raggiungere quella
zona, entrare in quello spazio, partecipare a quella iniziativa), il
movimento verifica la propria autonomia e la propria "autorità". Balza agli
occhi la valenza eminentemente simbolica di una simile mobilitazione: e
giova ricordare che i conflitti a più alta intensità simbolica sono quelli
dove maggiore è il rischio di rottura. E' esattamente per questo motivo che
il ruolo di una mediazione, capace di tutelare gli investimenti simbolici
di entrambi i contendenti, è così cruciale. In questo quadro, l'uso del
corpo e della strumentazione di "autotutela" da parte delle "tute bianche"
è, come si diceva, in precario equilibrio tra difesa e offesa: tra
protezione della propria incolumità e uso del proprio corpo (e di ciò che
lo "riveste": scudi in plexiglas, caschi da muratori, corpetti nautici...)
come corpo contundente. E' un rischio sottolineato anche da un leader dei
"gruppi di affinità" ("alzare il livello di protezione personale può essere
pericoloso: può elevare il livello offensivo e repressivo"): ma, come si è
anticipato, finora i risultati sono stati, sia pure contraddittoriamente,
positivi. E cito a conferma, ancora, quel dato: dal 1989, in Italia, non
vengono lanciate bottiglie incendiarie. Vi sembra poco? (Ciò, va detto, non
costituisce una garanzia sufficiente rispetto al G8 di Genova: la
componente dei casseurs, esile e controllabile tra i manifestanti italiani,
sarà più temibile quando si irrobustirà grazie agli apporti degli
stranieri). Certo, anche nell'ultimo decennio si sono verificate violenze
di piazza, ma i danni prodotti - in particolare, quelli alle persone - sono
stati limitati (anche quando, come nel caso della manifestazione contro la
visita di Haider in Vaticano, e in altre occasioni ancora, gli scontri sono
stati aspri): e questo ha impedito che si innescasse una spirale di
rappresaglie e ritorsioni. Il merito di una amministrazione non cruenta
dell'ordine pubblico nell'ultimo decennio è, appunto, di quella
"combinazione virtuosa" tra gestione controllata dell'aggressività da parte
dei manifestanti e capacità di mediazione da parte dei responsabili
dell'ordine pubblico. E qui possono risultare utili alcune testimonianze
dirette. Un anno e mezzo fa, nel corso di una riunione nella prefettura di
una città del Nord, i responsabili dell'ordine pubblico e alcuni leader di
movimento discussero puntigliosamente e, infine, convennero minuziosamente
- oltre che sul tragitto - sulla destinazione finale del corteo. E ci si
accordò sul fatto che vi fosse un punto, segnalato da un numero civico,
raggiungibile col consenso delle forze dell'ordine, e un altro punto,
segnalato da un numero successivo, non "consentito", ma "tollerato". Lo
spazio tra i due successivi limiti - un centinaio di metri - fu, poi, il
"campo di battaglia" di uno scontro totalmente incruento e pressoché
interamente simulato (ma tale non apparve nelle riprese televisive) tra
manifestanti e polizia. In una situazione tutt'affatto diversa - il Gay
Pride del 2000, a Roma - dove la variabile-violenza era assai remota, la
mediazione sul tragitto del corteo fu altrettanto meticolosa. Un numero
incalcolabile di riunioni a diversi livelli e in diverse sedi discusse
dell'itinerario - per mesi! - e la meta del Colosseo assunse, ben presto,
un intenso significato simbolico. La soluzione cui si giunse fu, poi,
quella di un corteo che "lambiva" il Colosseo e ne percorreva una parte del
perimetro esterno. In quella, e in altre circostanze, numerosi esponenti
del centrodestra, allora all'opposizione, denunciarono il calabrachismo dei
responsabili (politici e tecnici) dell'ordine pubblico; i più accaldati (o
i più scemi) parlarono di "subalternità del governo ai centri sociali". E'
passato appena un anno e il centrodestra sembra aver imparato che la
gestione pacifica dell'ordine pubblico e le strategie di "contenimento"
della violenza sono una questione non solo di intelligenza e di
razionalità, ma anche di buongoverno. Insomma, la parola d'ordine è:
trattare senza farsi male.
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