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Romano Prodi sul G8



Fonte: La repubblica - 5/7/2001

http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20010705/commenti/01idee.html

I diritti degli esclusi nel mondo globale
LE IDEE

di ROMANO PRODI

A partire dalla conferenza dell'Organizzazione Mondiale del Commercio nel 
dicembre del '99 a Seattle (ma le prime avvisaglie si ebbero già due anni 
prima, a Ginevra, alle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della 
medesima organizzazione), gli incontri delle maggiori istituzioni 
internazionali come la stessa Omc, il Fondo Monetario Internazionale, la 
Banca Mondiale, il Consiglio Europeo, il G8 sono stati accompagnati da 
dimostrazioni di protesta sempre più aspre. Di fronte a queste proteste, 
dovremmo tutti reagire con onestà ed equilibrio. Per contrastare senza 
alcuna esitazione coloro che, in modo aperto e organizzato, sfruttano 
questi appuntamenti come occasioni di violenza. E per avviare una 
discussione vera con coloro che sono disposti al dialogo. Quando parlo di 
una discussione vera, voglio dire, ad esempio, che non dobbiamo tacere che 
il fatto che i nostri incontri, gli incontri di noi capi di stato, di 
governo e delle grandi organizzazioni internazionali hanno, nel corso degli 
anni, assunto un carattere sempre meno accettabile. Quelle che erano nate 
come occasioni preziose per approfondire contatti e conoscenze personali, 
per scambiarsi in modo diretto informazioni ed esperienze indispensabili 
per il coordinamento su scala globale delle economie e delle politiche, per 
un governo più intelligente del nostro presente e del nostro futuro, si 
sono progressivamente trasformate in avvenimenti e spettacoli di dimensioni 
quasi ingovernabili.


Le cause di questa crescita incontrollata sono diverse e vanno dalle 
pressioni delle nostre stesse burocrazie all'esplosione dell'industria 
dell'informazione, all'interesse delle amministrazioni nazionali e locali 
dei paesi ospitanti. Resta il fatto che abbiamo raggiunto un punto dal 
quale è saggio cominciare a pensare di fare marcia indietro e cambiare 
modello organizzativo, perché di questi incontri diretti c'è ancora più 
bisogno.
Discussione vera vuole dire anche ascoltare le ragioni di coloro che 
contestano. Per chiarire che su molti punti non esiste motivo di 
contrapposizione (i documenti sullo sviluppo sostenibile che l'Unione 
Europea ha presentato alla recente riunione di Göteborg li avrebbe potuti 
scrivere una qualsiasi tra le organizzazioni che dimostravano attorno alla 
sede dell'incontro). Ma anche per replicare con fermezza quando non siamo 
d'accordo, tanto per quello che ci dicono quanto per quello che non ci dicono.
Quando affermano che il modello di sviluppo basato sulla apertura e sulla 
liberalizzazione degli scambi, promosse e sostenute dalle grandi 
organizzazioni internazionali, non è altro che lo strumento attraverso il 
quale i paesi ricchi e industrializzati si garantiscono lo sfruttamento dei 
paesi poveri, i giovani di Seattle (e coloro che li seguono ripetendo le 
medesime cose) mostrano sì di avere a cuore le sorti della parte più debole 
della popolazione mondiale ma danno una lettura sbagliata della realtà e, 
quel che è peggio, suggeriscono una ricetta e delle politiche ancor più 
sbagliate.
Non servono cifre per sostenere che l'apertura degli scambi e dell'economia 
mondiale, come la marea che alzandosi porta in alto tanto le barche piccole 
quanto quelle grandi, costituisce fattore di ricchezza e di sviluppo per 
tutti i paesi e le popolazioni che a quell'apertura partecipano.
Per rendersi conto di questo è sufficiente guardare allo sviluppo 
dell'economia mondiale negli ultimi decenni. Le regioni che meno di tutte 
sono progredite, quelle che sono rimaste maggiormente indietro gran parte 
dell'Africa, le zone rurali dell'India e della Cina non sono quelle che 
sono state investite dalla globalizzazione dell'economia ma, al contrario, 
quelle che ne sono rimaste escluse.
Come ha detto Tommaso Padoa Schioppa al recente convegno di Camaldoli, la 
crisi della globalizzazione si risolve con più, non con meno, globalizzazione.
Ciò che dobbiamo fare è governare questo processo in modo da garantire alla 
fasce più deboli della popolazione mondiale accesso ai vantaggi della 
crescita e dello sviluppo. E' in questa direzione che si orientano due 
recenti iniziative dell'Unione Europea: il piano per lo sviluppo 
sostenibile che abbiamo presentato a Goteborg e il programma "everything 
but arms" (tutto eccetto le armi) che ha aperto in modo unilaterale i 
nostri mercati alle produzioni provenienti dai 49 paesi più poveri del mondo.
Difendere con tenacia le politiche indirizzate a promuovere l'estensione su 
scala mondiale della libera economia di mercato, persuasi che questa sia la 
via per sollevare da intollerabili stati di povertà i diseredati del mondo, 
non equivale, però, ad essere indifferenti alle enormi ineguaglianze nelle 
condizioni di vita tra i ricchi e i poveri del mondo.
Non c'è soltanto l'ineguaglianza tra paesi, tra paesi sviluppati e paesi in 
via di sviluppo o addirittura tagliati fuori da ogni sviluppo.
C'è l'ineguaglianza all'interno dei paesi poveri.
E c'è l'ineguaglianza all'interno dei paesi industrializzati, dei nostri 
paesi, delle nostre società.
Queste tre ineguaglianze sono tutte in crescita. Anche quella che tocca e 
divide le nostre società europee.
Come ho già detto qualche tempo fa parlando ai giovani studenti 
universitari di Scienze Politiche a Parigi, la distanza che separa coloro 
che si trovano in cima alla scala sociale da coloro che si trovano sui 
gradini più bassi sta raggiungendo i limiti di guardia.
Mi preoccupa il crescere delle ineguaglianze ma ancor più mi preoccupa 
l'indifferenza che l'accompagna.
Individuare e adottare le politiche e i comportamenti, collettivi e 
individuali, per contrastare questo fenomeno non è cosa facile. Ma è cosa 
addirittura impossibile se prima non c'è una precisa presa di coscienza di 
quanto il crescere delle ineguaglianze sia non soltanto moralmente 
inaccettabile ma anche, alla lunga, economicamente dannoso e socialmente 
pericoloso.
Queste sono le cose che vorrei discutere con il popolo di Seattle.