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Rodota' e il popolo di Seattle



da Repubblica del 14.6.01

Stefano Rodotà

    Si discuterà molto, da oggi fino al 20 di luglio, di quel singolare 
soggetto
collettivo che ormai si materializza periodicamente sulla scena del mondo,
e che per convenzione chiamiamo "popolo di Seattle". Temo, però, che se ne
discuta male. Il timore di incidenti induce a considerare la presenza a
Genova di decine di migliaia di manifestanti quasi esclusivamente come un
problema di ordine pubblico, e così si avviano risposte, pericolose, quasi
esclusivamente in chiave di riduzione del diritto costituzionale di
manifestare in pubblico. Le molte anime di quel popolo inducono ad abusare
delle distinzioni, ora enfatizzando gli aspetti di protezionismo, ora
guardando piuttosto agli aspetti neoluddisti, ora insinuando che dietro
potrebbero esserci gruppi economici interessati a combattere i grandi
protagonisti degli attuali processi di globalizzazione. Il dialogo con gli
attori di questa nuova vicenda non è finora andato al di là di qualche
buona parola o della promessa di versare "una goccia d'olio speciale" nel
duro ingranaggio del liberismo, come si diceva ai tempi in cui si
progettava il codice civile dell'Impero germanico. S'ignora così che un
profondo mutamento è già avvenuto e che quel popolo sta cambiando, ha
cambiato, l'agenda politica e sociale del mondo. Solo chi è prigioniero di
disegni di breve periodo può pensare che i temi rimbalzati da Seattle a
Porto Alegre, da Praga a Québec possano essere cancellati d'imperio o con
qualche astuzia o concessione tattica. Dobbiamo sperare almeno in un
pensiero presbite, capace di fare i conti con quel che oggi è già evidente
e domani sarà ineludibile? Superbia e scarsa cultura inducono ancora molti,
troppi, a trascurare il valore altamente simbolico, e quindi politico, di
un tema imposto all'attenzione di milioni di persone che, da quel momento
in poi, tenderanno a valutare molte altre cose attraverso quel filtro.
appunto quel che è accaduto con i temi esplosi a Seattle e maturati a Porto
Alegre. Agli occhi di un numero crescente di cittadini del mondo l'azione
di governi e governanti sarà sempre più valutata con riferimento all'agenda
progressivamente messa a punto dal popolo di Seattle. Questa si dirama in
molte direzioni, abbraccia anche temi tra loro contraddittori. Ma la
caratterizzano e la unificano alcune idee forti. La globalizzazione viene
presa sul serio, e proiettata fuori della logica esclusiva del mercato che
l'ha finora caratterizzata. Lavoro, ambiente, proprietà, ricerca
scientifica, brevetti, sono parole pronunciate con nuovi accenti, e
misurate non più soltanto con la logica del profitto, ma con quella, ben
più esigente, dei diritti umani. E tutto questo non avviene in una sorta di
vuoto sociale, non attira solo l'attenzione di minoranze. L'ostilità al
Trattato di Kyoto costa a Bush otto punti nei sondaggi sulla sua
popolarità, e lo induce a qualche (lieve) ripensamento. Dopo anni di
sdegnosa arroganza, società leader nel mondo delle biotecnologie, come la
Monsanto, cominciano a fare qualche concessione all'informazione dei
cittadini e a ridimensionare qualche programma. Perduti dodici milioni di
clienti nel 2000, le società statunitensi attive nel commercio elettronico
si avvedono di non poter disporre impunemente dei dati personali dei loro
clienti, e avviano politiche più rispettose della privacy. Grandi società
farmaceutiche sono costrette a rinunciare ad una intransigente difesa dei
loro diritti di brevetto, quando il governo sudafricano le sfida per
difendere la salute di milioni di suoi cittadini. La ricerca scientifica
non può diventare colonizzazione del vivente, estendendo sempre a
quest'area il principio proprietario del brevetto, né cercare tra i dannati
della terra le cavie per la propria sperimentazione, così come la logica
del decentramento produttivo mai può legittimare le nuovissime forme di uno
sfruttamento che si trasforma in nuova schiavitù. Si progettano e
sperimentano forme d'accesso alle tecnologie dell'informazione e della
comunicazione non mediate da pretese monopolistiche e proprietarie. Queste
non sono parole estreme, ma riflessi delle cronache d'ogni giorno,
giganteschi frammenti che attendono d'essere composti in un coerente
disegno sociale e politico. Un'agenda imposta dalla forza delle cose, con
la quale si devono fare i conti anche nella dimensione nazionale. Con quale
cultura, però? Leggere il mondo con strumenti nuovi non è facile. Ma è il
compito ineludibile di soggetti politici e sociali, e d'ogni singola
persona, che non abbiano rinunciato all'ambizione di una società in cui
libertà, eguaglianza, dignità siano i valori essenziali di riferimento.
Questi strumenti esistono, non sono riducibili a quelli soltanto che
nascono dalle riflessioni del popolo di Seattle, e possono dare fondamento
al progetto d'una sinistra che oggi sembra introvabile. Certo, non si va
lontano se si rimane prigionieri di interessi o pigrizie o di schemi
culturali che riflettono un mondo in cui nessun intralcio dev'essere
opposto alla logica proprietaria. Oggi la grande partita si gioca proprio
intorno ai criteri in base ai quali i beni possono entrare nel mercato o
devono restarne fuori. Stiamo ridefinendo lo statuto planetario
dell'ambiente, lo statuto del corpo umano, la dignità come ineludibile
criterio di controllo d'ogni attività, le forme della cittadinanza
elettronica. E chiunque si schieri sulla più modesta frontiera
dell'innovazione dovrebbe sapere che questi problemi non si possono più
affrontare con la vecchia logica proprietaria, con una disciplina del
brevetto nata in altri contesti. Ma il popolo di Seattle ci parla anche di
un altro modo di riferirsi ai soggetti politici. È vero che un giorno esso
viene identificato con José Bové, un altro con autrici di libri di successo
come Naomi Klein. Ma, poi, quel popolo non s'identifica con nessuna singola
personalità. Continua a chiamarsi e ad essere chiamato "popolo di Seattle",
presentandosi dunque esclusivamente come un soggetto collettivo. Può essere
utile, a questo punto, una lettura parallela tra vicende globali e vicende
nazionali. Mentre di quel popolo si registra la crescita, e a Genova se ne
teme "l'invasione", le ultime cronache ci parlano di drammatiche cadute
della tradizionale partecipazione politica: in Gran Bretagna l'astensione
arriva al 41%, solo il 30% vota per il referendum in Irlanda. Non è questo
un motivo di riflessione in tempi in cui si teorizza una personalizzazione
della politica senza alternative? Vi è, poi, la questione già ricordata
della formazione dell'agenda politica. In Italia, cercando spiegazioni alla
sua sconfitta, il centrosinistra ha lamentato la propria scarsa capacità di
comunicare i risultati della sua buona azione di governo. Questa
spiegazione consolatoria è contraddetta dalla realtà. Via via che passava
il tempo, l'opposizione riusciva ad imporre la propria agenda politica, già
nell'impostazione del lavoro della Commissione bicamerale per le riforme
istituzionali e poi con le giornate sulle tasse e la sicurezza, con
l'insistenza sull'immigrazione e la microcriminalità. Raggiunto l'obiettivo
dell'entrata nell'Unione monetaria, il centrosinistra non è più riuscito ad
identificarsi con un'idea forte, non ha saputo contrapporre un'agenda
propria a quella del centrodestra, trovandosi così obbligato a competere
proprio sul terreno scelto da quest'ultimo. Sì che l'opinione pubblica ha
finito con il giudicare governo e maggioranza con il metro imposto
dall'opposizione: l'azione di governo perdeva senso e capacità d'attrazione
proprio perché non riusciva a dare risposte all'unica, visibile agenda
pubblica. E ancora. Le vicende del popolo di Seattle mostrano come le nuove
tecnologie, nel caso specifico Internet, non producano necessariamente
effetti sostitutivi, bensì integrativi, rispetto agli strumenti già
esistenti. Internet ha permesso di fare di una moltitudine dispersa "un
popolo". Ma, per incidere davvero sui processi politici, quel popolo si è
dovuto materializzare in una piazza reale, non virtuale, ha dovuto
manifestare per le strade. E le immagini di quelle manifestazioni sono
state diffuse in tutto il mondo dal tradizionale strumento televisivo, con
un valore aggiunto di conoscenza diffusa che ne ha accresciuto in modo
determinante il peso politico. Rifletterà anche su questo quella sinistra
italiana che, folgorata nel 1994 dalla politica dell'immagine, ha ritenuto
che questa sostituisse ogni altro mezzo e, dopo anni di discussioni sulla
forma partito, ha pensato che fosse venuto il tempo di liberarsene a
vantaggio di una piccola accolita di personalità più o meno mediatizzate? E
questo è avvenuto mentre Berlusconi - ben consapevole degli effetti
integrativi, e non sostitutivi, dei vari strumenti della tecnopolitica -
affiancava alla politica dell'immagine quella dell'organizzazione
partitica. Infine. L'Europa si è resa conto che l'integrazione attraverso
il mercato non è più sufficiente a sostenere la crescita dell'Unione (come
mostrano le vicende di questi giorni) e sta cercando di affiancarle una
integrazione attraverso i diritti, partendo dalla Carta dei diritti
fondamentali proclamata a Nizza nel dicembre scorso. Questa volta la
lettura in parallelo va dal locale al globale. Il modello, allora, non può
che essere quello di una globalizzazione attraverso i diritti.