La guerra fa male ai soldati: 950 tentativi di suicidio al mese



Veterani: 950 tentativi di suicidio ogni mese

 da Il manifesto
di Antonello Catacchio

Spettri DI GUERRA

I veterani non riescono a riadattarsi. Tra loro, 950 tentativi di suicidio
ogni mese. Un documentario racconta la quotidianità di questi uomini segnati
per sempre da un conflitto di cui non hanno capito il senso
Il 26 aprile di quest'anno Army Times, periodico dell'Esercito americano ha
fornito questi dati: tra i soldati in cura nelle strutture del ministero per
i veterani ci sono 950 tentativi di suicidio ogni mese e nel 2009 il numero
dei militari suicidi ha superato quello dei soldati morti in guerra.
La struttura che dovrebbe farsi carico dei problemi psicologici dei soldati
che tornano dalla guerra in Afghanistan o in Iraq è il Ward54, il braccio
psichiatrico del Walter Reed, l'ospedale che si fa carico dei veterani a
Washington. Negli altri reparti i feriti, i mutilati, qui invece quasi un
braccio fantasma, perché lì non si entra. L'esercito non ama far vedere che
molti, troppi, non hanno retto psicologicamente. Anche perché dovrebbe
risarcirli. Ecco allora che il Ptsd, il termine che definisce un «Disturbo
post-traumatico da stress» viene praticamente bandito. Utilizzando cavilli
burocratici, anche se hanno terminato la ferma, alcuni vengono rimandati
nelle zone operative, chi ha tentato il suicidio viene cacciato
dall'esercito con disonore (e senza soldi). E dietro questi suicidi, tentati
o riusciti, ci sono storie di persone che Monica Maggioni, giornalista del
Tg1, ha voluto raccontare nel documentario Ward54, presentato a Venezia
nell'ambito del Controcampo italiano, seppure in modo semiclandestino (una
sola proiezione pubblica in una saletta da 150 posti).
La storia segue le vicende di alcuni veterani che hanno tentato il suicidio.
In particolare quella di Kristofer Goldsmith. Kris è andato in Iraq, il suo
compito era quello di fotografare e classificare i cadaveri iracheni. Un
giorno però l'orrore di una fossa comune fa scattare qualcosa da cui non
riesce a liberarsi. Ritorna in patria e la prima cosa che fa è entrare in un
negozio di liquori e prendersi litri di whisky. Per un paio di mesi beve a
dismisura «prima di allora avevo bevuto cinque o sei volte», afferma. È
chiaramente malato, ma l'esercito non ci sta, lo vuole rimandare in Iraq.
Lui allora il Memorial Day tenta di suicidarsi. E l'esercito lo congeda. Con
disonore.
Kris è a Venezia per accompagnare il film, a sua volta accompagnato dalla
sua ragazza «non mi sentirei a mio agio senza di lei, questa è la prima
volta che vengo in Italia, gli unici miei contatti con l'Europa sinora erano
stati un aeroporto in Germania e uno a Dublino». Ma questa è l'unica nota
leggera in un contesto durissimo dove appaiono immagini crude. Alcune,
quelle delle fosse comuni, sono state riprese proprio da Kris, altre dalla
troupe di Monica Maggioni che ha inquadrato prigionieri iracheni devastati
dopo tre giorni abbandonati nel deserto, oppure nel Mash, l'ospedale da
campo dove si vede un intervento a cuore aperto, o sulla tristissima
processione di militari feriti che salgono sul 130 che li riporta in patria.
Immagini che Bush non voleva far vedere ai suoi cittadini.
I soldati da inviare nella guerra bugiarda erano pescati tra le fasce più
deboli della popolazione. «I giovani erano reclutati tra coloro che non
avevano alternative - racconta Maggioni - ragazzini che arruolandosi
speravano di raggranellare il denaro necessario per andare all'università,
immigrati di seconda generazione che arruolandosi ottenevano la
cittadinanza, addirittura persone condannate per reati minori che così
avevano qualche sconto di pena». Poi però dovevano confrontarsi con una
guerra odiosa. Così viene spontaneo chiedere a Kris perché lui, di Long
Island, quindi vicino a New York, si sia arruolato, soprattutto in un
periodo di guerra. «Fin da bambino sognavo di entrare nell'esercito. Mi
piacevano le mimetiche, collezionavo mostrine militari, ero affascinato
dalle divise. Sognavo di fare la carriera militare sino in fondo, diventando
alla fine ufficiale. Mentre ero al liceo ci fu l'11 settembre. A quel punto
al sogno di una vita si abbinava un nemico concreto. Alla fine del 2003 mi
sono arruolato. All'epoca la guerra era quella in Afghanistan. L'Iraq doveva
essere una guerra lampo. Poi l'Afghanistan è stato dimenticato e l'Iraq è
stato quel che è stato».
E allora viene da chiedergli quale sia oggi la sua percezione del nemico che
aveva visto concretamente. «Questo argomento di chi sia il nemico è un
pensiero costante per me. Più imparo, conosco, cerco di comprendere e
analizzare, più cambia il mio punto di vista. Da ragazzo, il primo anno in
cui mi sono arruolato, mi avevano insegnato che iracheni e afghani erano
tutti jihadisti, erano nostri nemici perché avevano come unico obiettivo
uccidere americani . Avevamo allora un presidente che ci diceva queste cose,
affermando che loro odiavano la nostra libertà. Ora mi sembra sciocco. La
guerra fu fatta col pretesto di cercare armi di distruzione di massa che
avrebbero potuto distruggere le città americane, anche se la scusa era
Libertà in Iraq. Poi vidi Bush che scherzava su queste cose, fingendo di
cercare le armi di distruzione di massa sotto la sedia, nello studio ovale.
Lì ho cominciato a aprire gli occhi. Mentre tanti al fronte soffrivano,
cominciavo a trovare spaventoso quel che diceva».
Kris ha dovuto abbandonare il suo sogno infantile di diventare ufficiale,
poi anche quello più modesto di andare all'università con i soldi
dell'esercito che non gli riconosce alcuna malattia. Lui non rinnega la sua
storia militare, anzi vuole che gli venga riconosciuta. «In prima istanza,
ho ricevuto un rifiuto alla mia richiesta; voglio riaprire il caso,
l'esercito non può ignorare queste cose, alcuni miei amici sono finiti in
galera per avere tentato il suicidio».
La Ptsd è una sorta di insormontabile senso di colpa per quel che si è visto
e fatto in guerra e uno dei momenti emotivamente più forti del documentario
è la visita di Kris ai genitori di Jeffrey Lucey. Giovanissimo, Jeffrey
aveva firmato per arruolarsi contro il parere di mamma. Poi era stato
addestrato per partire prima ancora dell'invasione. L'impatto con l'Iraq, a
Nassiriya è devastante. Quando si trova di fronte due giovani della sua
stessa età, disarmati, Jeffrey esita. Qualcuno invece lo spinge a tirare il
grilletto. Spara. Davanti a lui due cadaveri. Jeffrey prende le loro
piastrine e non le mollerà più. Quando rientra a casa è devastato, la sua
idea fissa è il suicidio, addirittura gli capita di chiedere al padre di
tenerlo sulle ginocchia. Una sera il babbo vede la luce accesa in veranda,
apre la porta, lungo le scale vede delle fotografie, disposte con
attenzione, scende gli scalini, cammina ancora, vede suo figlio, sembra in
piedi, invece ha qualcosa intorno al collo. Si è impiccato. Il padre lo
solleva e lo tiene in braccio. Per l'ultima volta.
Il prezzo pagato dagli iracheni per la guerra criminale voluta da Bush e co.
è spaventoso, ma c'è anche un conto da saldare nei confronti di chi, per
ingenuità o ignoranza, ha creduto in buona fede di combattere per la libertà
e la giustizia e si è ritrovato privato proprio di libertà e giustizia.