Controinformazione sulle multinazionali: stasera il film "The Big One" di Michael Moore su La7 (ore 21.10)



Stasera non perdetevelo!
Ecco una scheda del film tratta da
http://www.cinemavvenire.it

--- FILM ---
Ore 21.10 su LA7 - 12/8/2008

The Big One
Un meraviglioso Moore di tanti chili fa!

Di Lorenzo Leone

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Attacco, in puro stile Michael Moore, all’establishment economico americano

The Big One è una sorta di backstage del tour promozionale del suo libro
Downsize This.
Bisogna anche aggiungere, a onor del vero, che dopo il successo planetario
di Bowling for Columbine, vincitore a Cannes e agli Oscar, si stanno
moltiplicando le iniziative (anche in Italia) per far conoscere le opere
precedenti di Michael Moore: niente di così romantico, per carità, ma è
solo un modo per far soldi utilizzando il traino del film più conosciuto;
un’operazione di marketing che, di certo, non scandalizzerà neanche il
buon Michael, dato che (anche) su questo ha fondato la sua fama.
A tal riguardo, basti vedere come è stato presentato il suo ultimo lavoro,
Fahrenheit 9/11, in concorso all’edizione 2004 della sua amata Cannes: il
clamore che ha preceduto il film (giustificabile o no dall’opera, non è
oggetto del mio discorso) garantirà allo stesso discussioni infinite,
dunque spettatori, perché la regola è sempre la stessa: più se ne parla,
anche male, meglio è.
È questo, forse, il prezzo da pagare per sentire una voce che si leva
contro l’establishment che governa il mondo?

Dunque, questo lavoro di Michael Moore, il suo secondo documentario dopo
Roger & Me e prima di Bowling for Columbine, è ancora grezzo, lontano
dalla perfezione raggiunta nell’opera successiva: lo stile è quello
inconfondibile del regista statunitense, un pastiche originalissimo che
rende interessante ogni sua inchiesta.
Qualcuno mi obietterà quanto appena detto e potrà sollevare dei dubbi
sullo stile e sull’estetica dei documentari di Moore: ed io non posso far
altro che confermare, ammettendo che, stilisticamente, i suoi documentari
non sono affatto ben curati e, riguardo all’estetica, il risultato è molto
simile ad un buon prodotto televisivo.
Ciò, però, non può scalfire il valore delle opere di Moore: anzi, e mi
spingo ancor più in là, proprio in questo trova la sua forza; il suo
stile, a tratti arruffone, la sua intima conoscenza dei tempi televisivi
(dovuta alla lunga militanza sul piccolo schermo) e il sapiente uso del
montaggio fanno sì che, ogni sua opera, finisca col essere una pietra
miliare della contro-informazione.
E che dire della sua abilità nel mischiare generi e produzioni diverse
(con un assurdo paradosso, mi arrischierei a chiamare Moore il Tarantino
dei documentari): in ogni suo lavoro trovano spazio, infatti, inserti
televisivi, cartoni animati, pubblicità, materiali di repertorio e
fotogrammi inediti; riesce a fare tutto questo pur operando all’interno di
un delicato e sui generis genere (e scusate il giro di parole) come il
documentario, d’informazione per giunta.
Non è assolutamente una scempiaggine ciò che dico: pur muovendosi, come
detto, fra generi e produzioni diverse (e qui, e solo qui, sta il paragone
con Tarantino) Moore riesce a dar nuova linfa, e visibilità, ad un genere
come il documentario, altresì relegato negli oscuri anfratti festivalieri.
Del resto, non è proprio questo il segreto dell’eternità, del cinema e
dell’arte più in generale?
Non è, forse, la "sindrome di Frankenstein" che ha permesso (e permette
tuttora) l’evoluzione dell’arte?

"Minacce alla cieca di un americano disarmato", questo è il sottotitolo di
The Big One, il documentario di Moore targato 1998: il paladino dei
diritti civili scende in campo per promuovere il suo libro, ma l’America
che incontra in questo suo lungo tour è un paese smobilizzato e
ridimensionato (da qui il titolo, to downsize: ridimensionare verso il
basso).
In ognuna delle numerosissime città visitate nel suo tour, Moore trova del
marcio: aziende che licenziano i propri operai, fabbriche che spostano le
proprie produzioni nei paesi sottosviluppati dove la manodopera ha un
costo nettamente più basso, catene di distribuzione libraria che negano
ogni attività sindacale ai loro dipendenti; insomma, l’America delle
multinazionali, per garantire la "sopravvivenza" del proprio lusso, è
pronta a negare la sopravvivenza della classe operaia (ammesso che esista
ancora.
Il bersaglio di Moore, dunque, non è George W. Bush (ancora di là dal
venire) ma i boss delle grandi aziende: ed ecco che troviamo ancora il suo
primo nemico, il presidente della General Motors, colpevole di aver
smantellato la fabbrica che garantiva il sostentamento di Flint (nello
stato del Michigan), la città di nascita di Moore (il suo primo
documentario, Roger & Me, trattava proprio di questo: una sfida dal sapore
western tra Roger Smith, presidente della GM, e Moore).
Ma l’incontro più assurdo è quello con il presidente della Nike: il
presidente, giustamente accusato d’aver spostato la produzione nei paesi
del terzo mondo, come l’Indonesia, per risparmiare sulla manodopera anche
a costo di far lavorare i bambini, non ritratta nessuna delle sue
nefandezze, giustificandosi come neanche un bambino potrebbe fare.
Alla fine del documentario sorge spontanea una domanda: ma meritiamo
proprio di essere governati da tali soggetti?




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