Pubblicità e razzismo in America latina
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- From: "Gennaro Carotenuto" <gc at gennarocarotenuto.it>
- Date: Wed, 9 Jan 2008 11:05:05 +0100
Pubblicità
e razzismo in America latina. Spunti per una possibile ricerca Anticipo in forma ridotta un mio
saggio di prossima pubblicazione Visto
dalla remota Europa lo stereotipo di bellezza femminile nel continente meticcio
per eccellenza, l’America latina, è quello degli occhi neri, dei capelli
crespi e della pelle abbronzata. È l’America morena letteraria di Teresa
Batista o di Donna Flor del bahiano Jorge Amado. Visto dallo show business
e soprattutto dal sistema pubblicitario latinoamericano, invece, lo stereotipo
di bellezza è quello occidentale, anoressico, biondo e dagli occhi azzurri.
Tale divaricazione non è ininfluente e la pubblicità appare mettere in scena e
contribuire a legittimare l’apartheid e la sottomissione
culturale al bianco delle maggioranze meticce, indigene e nere. Se leggi,
costituzioni, società e perfino la vita quotidiana rendono la discriminazione
in America latina né onnipresente né inevitabile, il mondo della pubblicità
nella regione, in maniera più marcata rispetto ai sistemi televisivi in
generale, rappresenta invece un baluardo della separatezza. È un mondo di
creoli che rappresentano se stessi anche quando devono vendere prodotti ai non
creoli, autocompiacendosi fino a considerare e presentare la bianchezza della
pelle come garanzia del successo di un prodotto. È difficile capire dove
finisca l’ottusità discriminatoria e dove comincino le finalità
politico-ideologiche di controllo sociale. Appare però evidente che le logiche
che si celano dietro la presunta neutralità delle logiche commerciali vadano
ben al di là degli interessi commerciali stessi. Ben
diversa è infatti la situazione negli Stati Uniti. Il mercato dei consumatori
ispanici muove 200 miliardi di dollari ed a questi si riferisce, considerandoli
ben più di una nicchia di mercato e dedicando loro attenzione ed investimenti.
Al contrario, in America latina è pressoché inconcepibile che in uno spot
pubblicitario un meticcio alla guida di un’auto di grossa cilindrata
possa essere servito alla pompa di benzina da un bianco. Eduardo
Galeano già nel 1989, quando appena si iniziava a teorizzare la perversione del
“pensiero unico”, che pretendeva di unificare e significare in un
unico immaginario collettivo anche “bisogni unici”,
“desiderio unico”, “consumo unico”, “aspirazioni
uniche”, “felicità unica” e ovviamente “bellezza
unica”, evocava con la sua grande penna i guasti che su una adolescente
peruviana provocava l’adozione da parte delle televisioni commerciali di
un modello di bellezza come quello rappresentato dalla bambola Barbie. Lo
scrittore uruguaiano aveva gioco facile nel denunciare come questa fosse un
modello di bellezza totalmente alieno, non solo alla cultura, ma anche alla
corporeità, della stragrande maggioranza degli abitanti del paese e della
regione andina. Il fatto che fosse alieno, però, non impediva che fosse
incessantemente propagandato nei media peruviani come l’unico modello di
bellezza possibile. Si trattava e si tratta di un modello di bellezza ariana,
importato dalla Svezia o dal Wisconsin, nel quale è evidente che lei, l’adolescente
peruviana, non potesse che rimanere stritolata, non potendo neanche provare ad
aspirare a naturali processi imitativi propri della sua età, e venendo
ingabbiata automaticamente nella sfera di una presunta bruttezza in un contesto
palesemente quanto artificialmente discriminatorio. La
riflessione di Eduardo Galeano non cadeva nel vuoto. Dal Perù al Venezuela, la
sociologa Carolina Corao, ha studiato l’influenza delle televisioni
commerciali sulla percezione della bellezza da parte delle classi popolari, quasi
totalmente nere e meticce, che vivono nei ranchitos, le favelas, i
quartieri marginali di Caracas. Se la bellezza femminile statuaria fa parte
degli stereotipi nazionali venezuelani come il baseball o il petrolio, tale
bellezza, in un paese più nero che meticcio, nei media commerciali, ma ancor di
più nel comparto pubblicitario, diviene rigorosamente bianca e con tratti
nordeuropei. Se le
telenovelas mediano, cercando dei punti di contatto con la realtà, ma
normalmente non riescono a superare lo stereotipo della sartina meticcia che
sposa il principe azzurro creolo, negli spot pubblicitari delle televisioni
neanche tale volo è possibile. Il modello positivo è sempre bianco,
bianchissimo, fino a dare l’impressione che non vogliano vendere prodotti
a consumatori caraibici, ma a consumatori francesi o belgi. L’immaginario
della bellezza pubblicitaria è profondamente orientato da due fattori. Il mondo
del marketing è il mondo dei quartieri per ricchi, dove la percentuale di
bianchi è ben più alta che nella società reale. È un mondo che, lungi dal
rappresentare i consumatori, finisce per rappresentare sé stesso in maniera
sempre più separata dalla società. Quel mondo finisce pertanto per
rappresentare identitariamente sé stesso prima ancora, ed è il secondo fattore,
di propagandare il modello consumista imposto dalle TV commerciali, controllate
anch’esse dall’élite economica creola. Se si guarda alle pubblicità
di prodotti di bellezza allora è evidente che sarà il modello di bellezza
predominante in quartieri come Las Condes o a Vitacura, parlo di Santiago del
Cile, a prevalere e ad essere imposto come unico anche a Renga e in altre comunas
popolari dove ragazzine di origine mapuche saranno indotte dai media a sentirsi
irrimediabilmente brutte. Di
fronte a tali fenomeni, percepiti come libere espressioni di consumo, non è un
caso che abbia destato scandalo mondiale quando lo scorso maggio il governo del
presidente venezuelano Hugo Chávez non ha rinnovato la licenza al canale
commerciale RCTV che indulgeva alla diffusione del Reggaeton, il più volgare e
consumista dei generi musicali, dove la donna è rappresentata come puro oggetto
di consumo sessuale, per sostituirlo con il canale pubblico TVES (che in
spagnolo suona grosso modo “ti vedi”). Questo per la prima volta
dava spazio alla cultura afrodiscendente, alla quale appartiene la maggioranza
dei venezuelani. Tale cultura, nella storia mediatica del paese, non aveva mai
trovato alcuno spazio, se non gregario, nel sistema televisivo commerciale. In
questo contesto non sorprende che TVES sia stato immediatamente bollato dalla
raffinatissima (sic!) opposizione come il “canale dei negri”. Spostiamoci
in Messico. Un altro sociologo, Carlos Pineda, sostiene che il 99% degli spot
pubblicitari del sistema televisivo messicano, basato su di un duopolio privato
tra i due grandi network Televisa e Tv Azteca, sia macchiato da un pregiudizio
razziale che definisce “rancido”. Per Pineda ogni singolo spot
pubblicitario contiene il messaggio, a volte subliminale ma quasi sempre
esplicito, che la felicità e il successo nelle società latinoamericane siano
riservati a persone dalla pelle bianca. Ovvero il messaggio che scaturisce
dalla pubblicità sarebbe che il benessere materiale sia legato a una
determinata appartenenza etnica che discrimina e scarta chiunque abbia un
colore di pelle diverso. Ogni
singolo spot – sostiene Pineda – pone al centro del mondo il güero[1].
I meticci, 80 milioni di persone e quindi di consumatori in Messico, sono
sistematicamente ignorati, a meno di non essere destinatari di messaggi
rassicuranti, pubblicità governativa o pubblicità progresso per sostenere che
viviamo nel migliore dei mondi possibili. In
questo contesto Pineda ritiene che nel linguaggio pubblicitario esistano ruoli
predefiniti per ogni gruppo razziale del continente. Gli indigeni vengono
presentati in maniera esclusivamente paternalistica, sempre affiancati o
sorretti da un bianco che ha il compito di incamminarli nella vita. I meticci,
che in un modo o nell’altro rappresentano i tre quarti dei messicani,
sono sostanzialmente ignorati. Non esistono o esistono solo in ruoli
subalterni, com’è spesso, ma molto meno sistematicamente, nella società.
Il creolo, ma con lui anche lo straniero bianco, invece viene
rappresentato sempre in ruoli e comportamenti positivi. È amorevole, gentile,
generoso, avvolto nel calore di una famiglia meravigliosa e di una casa
accogliente. Affetto, amore, dolcezza, sono le caratteristiche del bianco negli
spot pubblicitari. Se altri gruppi razziali vengono rappresentati, tali
caratteristiche positive non vengono al contrario esplicitate. Non
c’è nulla di meglio di una bella famiglia bianca – un passo in più
di una semplice famiglia benestante – per rappresentare
l’appetibilità di un prodotto. Alcuni prodotti poi, pensiamo a prodotti
tipici del neoliberismo reale come le assicurazioni sanitarie private, sono
venduti a famiglie meticce rappresentando loro la famiglia bianca riunita ed
apparentemente in ottima salute. Come se l’idea stessa di salute potesse
associarsi ad una specifica appartenenza etnica. Come se star bene voglia dire
sentirsi più bianchi. Anche
prodotti come le automobili sono rappresentate come uno status symbol
non solo di classe ma anche razziale. Nonostante centinaia di migliaia di
meticci abbiano il potere d’acquisto per potersi permettere auto di
grossa cilindrata, e infatti le comprano, nessuna pubblicità li rappresenterà
nell’atto dell’acquisto o alla guida. E se nello spot l’automobile
di lusso si ferma ad una pompa di benzina, alla guida ci sarà certamente un
bianco mentre chi tergerà il lunotto o controllerà la pressione delle gomme
sarà sicuramente un meticcio. In
pratica, nella logica delle agenzie pubblicitarie messicane e latinoamericane,
il bianco si trasforma in una sorta di testimonial. Usare un attore bianco, una
famiglia bianca, un consumatore bianco servirebbe a vendere meglio un prodotto
anche a consumatori che bianchi non sono. La
rappresentazione inversa, un meticcio alla guida di un’automobile di
lusso servito alla pompa di benzina da un bianco, sarebbe infatti considerata
provocatoria, frutto di un inaccettabile ideologismo e senz’altro non
appropriata a rappresentare un immaginario collettivo nel quale il successo è
sinonimo dello sbiancamento razziale. È come per TVES, la TV dei negri
di Chávez. Mentre in un paese popolato da neri e meticci è considerato del
tutto normale che tutte le televisioni commerciali e generaliste siano
proprietà di bianchi, dirette da bianchi e con programmi e pubblicità popolati
da bianchi (e dove i bianchi sono rappresentati positivamente), è considerato
intollerabile e perfino un vulnus alla libertà di espressione che una
sola televisione possa essere prodotta da afrodiscendenti ed orientata ad un
pubblico afrodiscendente. A
cosa sono dovute tali caratteristiche e l’accentuarsi di tali
caratteristiche nel corso del tempo? È evidente, come già detto in precedenza,
che l’ambiente nel quale nascono le campagne pubblicitarie è di dominio assoluto
delle élite bianche. L’evoluzione stessa della produzione pubblicitaria
ha favorito tale tendenza. Nel corso del tempo vi è stata una separazione
pressoché totale tra produzione televisiva e produzione degli spot
pubblicitari. Fino agli anni ’70, come in Italia per
“Carosello”, erano le televisioni a produrre gli spot. Col tempo si
è affermato un modello nel quale le agenzie pubblicitarie, in sinergia con i
clienti, in genere anche questi bianchi sia creoli che stranieri, hanno cominciato
a produrre in proprio gli spot che poi fornivano al sistema televisivo. Se la
televisione ha comunque dovuto sforzarsi di rappresentare la società in maniera
più proporzionata rispetto alla realtà, la pubblicità ha potuto far leva sulla
propria peculiarità e si è potuta permettere di forzare la mano, rappresentando
la società come i padroni di quell’industria la vedono nei quartieri per
bianchi dove vivono e/o desiderano che sia. Non è un caso che in Messico il più
celebrato guru pubblicitario, Carlos Alazraki, sia anche considerato uno dei
maggiori esperti di comunicazione politica e che abbia lavorato come spin
doctor nelle campagne elettorali di vari candidati conservatori, tutti
ovviamente bianchissimi. Lo
stesso pubblicitario Alazraki, dopo il massacro di Atenco, dove furono violati
i diritti umani di centinaia di cittadini meticci o indigeni, e più di 40 donne
furono stuprate dalla polizia, si vantò di aver inventato per il governatore
dello stato del Messico[2], Arturo Montiel, il
tristissimo slogan: «i diritti umani sono per gli esseri umani, non per i topi
di fogna[3]». Tornando
al Perù, dal quale siamo partiti in questo breve percorso attraverso il
contesto discriminatorio del mondo pubblicitario in America latina, nel 2005 il
“Coordinamento per i
diritti umani” assegnò un simbolico premio “alla
discriminazione” ad una delle più importanti agenzie pubblicitarie
peruviane, la Gloria S.A.. Questa, nell’anno 2004, in tutte le decine di
campagne pubblicitarie realizzate per molteplici prodotti, diretti ovviamente a
consumatori multirazziali, non aveva mai utilizzato né andini né meticci,
ovvero il 90% della popolazione peruviana, ma solo ed esclusivamente attori
bianchi. «Campagne pubblicitarie che utilizzano sistematicamente solo una razza
sono evidentemente campagne razziste» è stata la conclusione del
“Coordinamento per i diritti umani”. Secondo uno dei responsabili,
Wilfredo Ardito Vega, la cosa particolarmente grave è che la Gloria S.A. è
specializzata in campagne destinate ai bambini: «[…] ci sono evidenze di
gravi danni all’autostima dei piccoli peruviani. Se tutte le campagne collegate
a modelli di felicità e di successo li vedono sistematicamente esclusi,
penseranno che per il non essere bianchi non riusciranno mai a realizzarsi
nella vita[4]». La
Gloria S.A. ha sempre evitato qualunque commento per il premio ricevuto e
non risulta che nel 2005, 2006 e 2007 si sia preoccupata di uscire dal ghetto
per bianchi nel quale si è rinchiusa. [1] Biondo in
messicano, creolo di pelle chiara e occhi azzurri. [2] Lo Stato del Messico
è uno degli stati che compongono la federazione messicana, solo omonimo del
nome del paese. [3] C.
Monsivais, De la impunidad como anestesia cívica, “El
Universal”, Città del Messico, 21 maggio 2006. [4] A.
García, Activistas de derechos humanos dan ‘premio’ a publicidad
racista, “La República”, Lima, 22 marzo 2005. |
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