Pubblicità e razzismo in America latina



Pubblicità e razzismo in America latina. Spunti per una possibile ricerca

Anticipo in forma ridotta un mio saggio di prossima pubblicazione

Visto dalla remota Europa lo stereotipo di bellezza femminile nel continente meticcio per eccellenza, l’America latina, è quello degli occhi neri, dei capelli crespi e della pelle abbronzata. È l’America morena letteraria di Teresa Batista o di Donna Flor del bahiano Jorge Amado. Visto dallo show business e soprattutto dal sistema pubblicitario latinoamericano, invece, lo stereotipo di bellezza è quello occidentale, anoressico, biondo e dagli occhi azzurri. Tale divaricazione non è ininfluente e la pubblicità appare mettere in scena e contribuire a legittimare l’apartheid e la sottomissione culturale al bianco delle maggioranze meticce, indigene e nere.

di Gennaro Carotenuto

Se leggi, costituzioni, società e perfino la vita quotidiana rendono la discriminazione in America latina né onnipresente né inevitabile, il mondo della pubblicità nella regione, in maniera più marcata rispetto ai sistemi televisivi in generale, rappresenta invece un baluardo della separatezza. È un mondo di creoli che rappresentano se stessi anche quando devono vendere prodotti ai non creoli, autocompiacendosi fino a considerare e presentare la bianchezza della pelle come garanzia del successo di un prodotto. È difficile capire dove finisca l’ottusità discriminatoria e dove comincino le finalità politico-ideologiche di controllo sociale. Appare però evidente che le logiche che si celano dietro la presunta neutralità delle logiche commerciali vadano ben al di là degli interessi commerciali stessi.

Ben diversa è infatti la situazione negli Stati Uniti. Il mercato dei consumatori ispanici muove 200 miliardi di dollari ed a questi si riferisce, considerandoli ben più di una nicchia di mercato e dedicando loro attenzione ed investimenti. Al contrario, in America latina è pressoché inconcepibile che in uno spot pubblicitario un meticcio alla guida di un’auto di grossa cilindrata possa essere servito alla pompa di benzina da un bianco.

Eduardo Galeano già nel 1989, quando appena si iniziava a teorizzare la perversione del “pensiero unico”, che pretendeva di unificare e significare in un unico immaginario collettivo anche “bisogni unici”, “desiderio unico”, “consumo unico”, “aspirazioni uniche”, “felicità unica” e ovviamente “bellezza unica”, evocava con la sua grande penna i guasti che su una adolescente peruviana provocava l’adozione da parte delle televisioni commerciali di un modello di bellezza come quello rappresentato dalla bambola Barbie.

Lo scrittore uruguaiano aveva gioco facile nel denunciare come questa fosse un modello di bellezza totalmente alieno, non solo alla cultura, ma anche alla corporeità, della stragrande maggioranza degli abitanti del paese e della regione andina. Il fatto che fosse alieno, però, non impediva che fosse incessantemente propagandato nei media peruviani come l’unico modello di bellezza possibile. Si trattava e si tratta di un modello di bellezza ariana, importato dalla Svezia o dal Wisconsin, nel quale è evidente che lei, l’adolescente peruviana, non potesse che rimanere stritolata, non potendo neanche provare ad aspirare a naturali processi imitativi propri della sua età, e venendo ingabbiata automaticamente nella sfera di una presunta bruttezza in un contesto palesemente quanto artificialmente discriminatorio.

La riflessione di Eduardo Galeano non cadeva nel vuoto. Dal Perù al Venezuela, la sociologa Carolina Corao, ha studiato l’influenza delle televisioni commerciali sulla percezione della bellezza da parte delle classi popolari, quasi totalmente nere e meticce, che vivono nei ranchitos, le favelas, i quartieri marginali di Caracas. Se la bellezza femminile statuaria fa parte degli stereotipi nazionali venezuelani come il baseball o il petrolio, tale bellezza, in un paese più nero che meticcio, nei media commerciali, ma ancor di più nel comparto pubblicitario, diviene rigorosamente bianca e con tratti nordeuropei.

Se le telenovelas mediano, cercando dei punti di contatto con la realtà, ma normalmente non riescono a superare lo stereotipo della sartina meticcia che sposa il principe azzurro creolo, negli spot pubblicitari delle televisioni neanche tale volo è possibile. Il modello positivo è sempre bianco, bianchissimo, fino a dare l’impressione che non vogliano vendere prodotti a consumatori caraibici, ma a consumatori francesi o belgi.

L’immaginario della bellezza pubblicitaria è profondamente orientato da due fattori. Il mondo del marketing è il mondo dei quartieri per ricchi, dove la percentuale di bianchi è ben più alta che nella società reale. È un mondo che, lungi dal rappresentare i consumatori, finisce per rappresentare sé stesso in maniera sempre più separata dalla società. Quel mondo finisce pertanto per rappresentare identitariamente sé stesso prima ancora, ed è il secondo fattore, di propagandare il modello consumista imposto dalle TV commerciali, controllate anch’esse dall’élite economica creola. Se si guarda alle pubblicità di prodotti di bellezza allora è evidente che sarà il modello di bellezza predominante in quartieri come Las Condes o a Vitacura, parlo di Santiago del Cile, a prevalere e ad essere imposto come unico anche a Renga e in altre comunas popolari dove ragazzine di origine mapuche saranno indotte dai media a sentirsi irrimediabilmente brutte.

Di fronte a tali fenomeni, percepiti come libere espressioni di consumo, non è un caso che abbia destato scandalo mondiale quando lo scorso maggio il governo del presidente venezuelano Hugo Chávez non ha rinnovato la licenza al canale commerciale RCTV che indulgeva alla diffusione del Reggaeton, il più volgare e consumista dei generi musicali, dove la donna è rappresentata come puro oggetto di consumo sessuale, per sostituirlo con il canale pubblico TVES (che in spagnolo suona grosso modo “ti vedi”). Questo per la prima volta dava spazio alla cultura afrodiscendente, alla quale appartiene la maggioranza dei venezuelani. Tale cultura, nella storia mediatica del paese, non aveva mai trovato alcuno spazio, se non gregario, nel sistema televisivo commerciale. In questo contesto non sorprende che TVES sia stato immediatamente bollato dalla raffinatissima (sic!) opposizione come il “canale dei negri”.

Spostiamoci in Messico. Un altro sociologo, Carlos Pineda, sostiene che il 99% degli spot pubblicitari del sistema televisivo messicano, basato su di un duopolio privato tra i due grandi network Televisa e Tv Azteca, sia macchiato da un pregiudizio razziale che definisce “rancido”. Per Pineda ogni singolo spot pubblicitario contiene il messaggio, a volte subliminale ma quasi sempre esplicito, che la felicità e il successo nelle società latinoamericane siano riservati a persone dalla pelle bianca. Ovvero il messaggio che scaturisce dalla pubblicità sarebbe che il benessere materiale sia legato a una determinata appartenenza etnica che discrimina e scarta chiunque abbia un colore di pelle diverso.

Ogni singolo spot – sostiene Pineda – pone al centro del mondo il güero[1]. I meticci, 80 milioni di persone e quindi di consumatori in Messico, sono sistematicamente ignorati, a meno di non essere destinatari di messaggi rassicuranti, pubblicità governativa o pubblicità progresso per sostenere che viviamo nel migliore dei mondi possibili.

In questo contesto Pineda ritiene che nel linguaggio pubblicitario esistano ruoli predefiniti per ogni gruppo razziale del continente. Gli indigeni vengono presentati in maniera esclusivamente paternalistica, sempre affiancati o sorretti da un bianco che ha il compito di incamminarli nella vita. I meticci, che in un modo o nell’altro rappresentano i tre quarti dei messicani, sono sostanzialmente ignorati. Non esistono o esistono solo in ruoli subalterni, com’è spesso, ma molto meno sistematicamente, nella società. Il creolo, ma con lui anche lo straniero bianco, invece viene rappresentato sempre in ruoli e comportamenti positivi. È amorevole, gentile, generoso, avvolto nel calore di una famiglia meravigliosa e di una casa accogliente. Affetto, amore, dolcezza, sono le caratteristiche del bianco negli spot pubblicitari. Se altri gruppi razziali vengono rappresentati, tali caratteristiche positive non vengono al contrario esplicitate.

Non c’è nulla di meglio di una bella famiglia bianca – un passo in più di una semplice famiglia benestante – per rappresentare l’appetibilità di un prodotto. Alcuni prodotti poi, pensiamo a prodotti tipici del neoliberismo reale come le assicurazioni sanitarie private, sono venduti a famiglie meticce rappresentando loro la famiglia bianca riunita ed apparentemente in ottima salute. Come se l’idea stessa di salute potesse associarsi ad una specifica appartenenza etnica. Come se star bene voglia dire sentirsi più bianchi.

Anche prodotti come le automobili sono rappresentate come uno status symbol non solo di classe ma anche razziale. Nonostante centinaia di migliaia di meticci abbiano il potere d’acquisto per potersi permettere auto di grossa cilindrata, e infatti le comprano, nessuna pubblicità li rappresenterà nell’atto dell’acquisto o alla guida. E se nello spot l’automobile di lusso si ferma ad una pompa di benzina, alla guida ci sarà certamente un bianco mentre chi tergerà il lunotto o controllerà la pressione delle gomme sarà sicuramente un meticcio.

In pratica, nella logica delle agenzie pubblicitarie messicane e latinoamericane, il bianco si trasforma in una sorta di testimonial. Usare un attore bianco, una famiglia bianca, un consumatore bianco servirebbe a vendere meglio un prodotto anche a consumatori che bianchi non sono.

La rappresentazione inversa, un meticcio alla guida di un’automobile di lusso servito alla pompa di benzina da un bianco, sarebbe infatti considerata provocatoria, frutto di un inaccettabile ideologismo e senz’altro non appropriata a rappresentare un immaginario collettivo nel quale il successo è sinonimo dello sbiancamento razziale. È come per TVES, la TV dei negri di Chávez. Mentre in un paese popolato da neri e meticci è considerato del tutto normale che tutte le televisioni commerciali e generaliste siano proprietà di bianchi, dirette da bianchi e con programmi e pubblicità popolati da bianchi (e dove i bianchi sono rappresentati positivamente), è considerato intollerabile e perfino un vulnus alla libertà di espressione che una sola televisione possa essere prodotta da afrodiscendenti ed orientata ad un pubblico afrodiscendente.

A cosa sono dovute tali caratteristiche e l’accentuarsi di tali caratteristiche nel corso del tempo? È evidente, come già detto in precedenza, che l’ambiente nel quale nascono le campagne pubblicitarie è di dominio assoluto delle élite bianche. L’evoluzione stessa della produzione pubblicitaria ha favorito tale tendenza. Nel corso del tempo vi è stata una separazione pressoché totale tra produzione televisiva e produzione degli spot pubblicitari. Fino agli anni ’70, come in Italia per “Carosello”, erano le televisioni a produrre gli spot. Col tempo si è affermato un modello nel quale le agenzie pubblicitarie, in sinergia con i clienti, in genere anche questi bianchi sia creoli che stranieri, hanno cominciato a produrre in proprio gli spot che poi fornivano al sistema televisivo.

Se la televisione ha comunque dovuto sforzarsi di rappresentare la società in maniera più proporzionata rispetto alla realtà, la pubblicità ha potuto far leva sulla propria peculiarità e si è potuta permettere di forzare la mano, rappresentando la società come i padroni di quell’industria la vedono nei quartieri per bianchi dove vivono e/o desiderano che sia. Non è un caso che in Messico il più celebrato guru pubblicitario, Carlos Alazraki, sia anche considerato uno dei maggiori esperti di comunicazione politica e che abbia lavorato come spin doctor nelle campagne elettorali di vari candidati conservatori, tutti ovviamente bianchissimi.

Lo stesso pubblicitario Alazraki, dopo il massacro di Atenco, dove furono violati i diritti umani di centinaia di cittadini meticci o indigeni, e più di 40 donne furono stuprate dalla polizia, si vantò di aver inventato per il governatore dello stato del Messico[2], Arturo Montiel, il tristissimo slogan: «i diritti umani sono per gli esseri umani, non per i topi di fogna[3]».

Tornando al Perù, dal quale siamo partiti in questo breve percorso attraverso il contesto discriminatorio del mondo pubblicitario in America latina, nel 2005 il “Coordinamento per i diritti umani” assegnò un simbolico premio “alla discriminazione” ad una delle più importanti agenzie pubblicitarie peruviane, la Gloria S.A.. Questa, nell’anno 2004, in tutte le decine di campagne pubblicitarie realizzate per molteplici prodotti, diretti ovviamente a consumatori multirazziali, non aveva mai utilizzato né andini né meticci, ovvero il 90% della popolazione peruviana, ma solo ed esclusivamente attori bianchi. «Campagne pubblicitarie che utilizzano sistematicamente solo una razza sono evidentemente campagne razziste» è stata la conclusione del “Coordinamento per i diritti umani”. Secondo uno dei responsabili, Wilfredo Ardito Vega, la cosa particolarmente grave è che la Gloria S.A. è specializzata in campagne destinate ai bambini: «[…] ci sono evidenze di gravi danni all’autostima dei piccoli peruviani. Se tutte le campagne collegate a modelli di felicità e di successo li vedono sistematicamente esclusi, penseranno che per il non essere bianchi non riusciranno mai a realizzarsi nella vita[4]».

La Gloria S.A. ha sempre evitato qualunque commento per il premio ricevuto e non risulta che nel 2005, 2006 e 2007 si sia preoccupata di uscire dal ghetto per bianchi nel quale si è rinchiusa.


[1] Biondo in messicano, creolo di pelle chiara e occhi azzurri.

[2] Lo Stato del Messico è uno degli stati che compongono la federazione messicana, solo omonimo del nome del paese.

[3] C. Monsivais, De la impunidad como anestesia cívica, “El Universal”, Città del Messico, 21 maggio 2006.

[4] A. García, Activistas de derechos humanos dan ‘premio’ a publicidad racista, “La República”, Lima, 22 marzo 2005.

 

Giornalismo partecipativo