Un nuovo mondo possibile nasce al Sud



Un nuovo mondo possibile nasce al Sud

Era tempo che il movimento operaio mondiale non festeggiava un primo maggio di conquiste e non di mera resistenza. Le notizie positive vengono dall’America, dall’Ecuador, dalla Bolivia ma soprattutto dal Venezuela dove il riformismo redistributivo del governo bolivariano si fa sempre più progressivo.
di Gennaro Carotenuto

Stante anche l’arrivo di Nicolas Sarkozy all’Eliseo, in Europa le 35 ore di lavoro sono passate dalla sfera delle speranze a quella dei sogni. Nel resto del mondo, nelle maquilladoras che producono beni di consumo, da Ciudad Juárez a Guangzhou a Timisoara, l’orario di lavoro a cottimo continua ad allungarsi e si ritorna a condizioni di lavoro comparabili alla Manchester descritta da Carlo Marx. Ma c’è un continente, soprattutto un paese, il Venezuela, sottoproletarizzato dai governi neoliberali, dove fino a dieci anni fa il 70% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno, dove la prospettiva della liberazione dal lavoro non è stata abbandonata e continua ad essere prassi politica. Ha fatto scalpore, ed è stata ovviamente bollata come propagandistica e irrealizzabile, l’approvazione di un progetto di legge costituzionale che limiti la giornata lavorativa a sei ore dalle attuali otto, e la settimana lavorativa a 30 ore. E’ un salto di qualità importante. A partire dal primo maggio 2010, mancano solo tre anni, la giornata tipo del lavoratore venezuelano vedrà sei ore per lavorare, sei ore per riposare, sei ore per divertirsi e sei ore per formarsi, una necessità assoluta in un paese descolarizzato. Le classi lavoratrici europee sapranno far loro questa battaglia?

Se quello sulle trenta ore è al momento solo una legge da realizzare, altre conquiste dei lavoratori sono già concrete. Il salario minimo, che in America è un indice importante anche per il settore informale che assorbe –in nero- buona parte della popolazione, è da oggi il più alto del continente, arrivando alle soglie dei 300 dollari mensili. Negli otto anni di governo bolivariano si è passati da circa 50 a 300 dollari, un aumento del 600%. Vista la radicale riduzione dell’inflazione, il recupero di potere d’acquisto per i lavoratori è ancora più ingente. Oscar Giannino o Nicola Rossi insorgeranno, ma da quest’anno in Venezuela hanno anche “inventato” le pensioni sociali. Anche gli anziani che mai in vita loro hanno potuto versare contributi hanno da oggi diritto a una pensione pari al 60% del salario minimo, poco meno di 200 dollari. Populismo, clientelismo e demagogia. Ovviamente. Ma c’è chi osa chiamarli più semplicemente “diritti” e i nonni venezuelani, tra loro anche molti italiani, perché i nostri immigrati in Venezuela non sono tutti miliardari, né tutti antichavisti, avranno una vecchiaia più dignitosa. O dignitosa, visto che prima non lo era.

Come si può arrivare a ciò? Solo il 3 dicembre 2006, per le elezioni presidenziali, Hugo Chávez ha chiesto il voto ai suoi elettori con un progetto di paese dichiaratamente socialista. Tale progetto è possibile attraverso due passaggi fondamentali: il ristabilimento della sovranità economica ed il recupero di quella petrolifera. Dal primo di maggio il governo bolivariano è passato da una quota generalmente del 30% ad una stabile del 60% nella gestione dei pozzi petroliferi della fascia dell’Orinoco, dove si addensano tra le maggiori riserve mondiali di greggio. Alle multinazionali conviene lo stesso e, dalla francese Total, alla norvegese Statoil alle statunitensi Chevron-Texaco e Exxon Mobil, alla BP fino alle cinesi Petrocina e Sinopec, tutte hanno preferito accordarsi con il governo. Continua ad essere conveniente.

Nel 1989, l’anno del grande massacro voluto dal governo fondomonetarista di Carlos Andrés Pérez, passato alla storia come Caracazo, il Venezuela era indebitato fino al collo. Doveva 25 miliardi di dollari al Banco Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. Le vestali del fondomonetarismo dovrebbero spiegare perché in quella che chiamavano “Venezuela saudita” il paese affondava nel debito e nell’indigenza. Oggi il Venezuela non solo ha saldato i debiti non deve più nulla a questi organismi, ma esce da queste stesse istituzioni. “Si mettono in una strada senza uscita” ha commentato il governo degli Stati Uniti. “Ma il Venezuela non ha alcun bisogno di BM e FMI” ha risposto non Chávez, ma la London School of Economics, nella persona del Professor Francisco Panizza.

E infatti il governo bolivariano non sembra curarsi delle preoccupazioni di Washington. Dopo aver aiutato grandi paesi come l’Argentina e il Brasile a saldare i loro debiti con queste stesse istituzioni (“non vogliamo più i vostri consigli interessati” tuonò il presidente brasiliano Lula nel febbraio 2006), i tre paesi chiave del Sudamerica stanno lavorando insieme al Banco del Sud, l’organismo che supererà Bretton Woods e dovrà fare da creditore di ultima istanza per i paesi in via di sviluppo sottraendoli ai diktat fondo monetaristi.

Con i tre grandi faranno parte del Banco del Sud l’Ecuador di Rafael Correa, la Bolivia di Evo Morales e il Paraguay di Nicanor Duarte mentre tre paesi, il Cile, la Colombia e il Perù hanno rifiutato di negoziare per essere tra i fondatori della nuova istituzione. Buon per loro, si trovano bene con l’FMI. Ricorda il Ministro dell’Economia ecuadoriano, Ricardo Patiño che oggi Brasilia, Buenos Aires, Caracas, Quito, Asunción e La Paz hanno riserve per 164 miliardi di dollari depositati presso banche di Stati Uniti e Europa. Riportandoli a casa e gestendoli noi –il calcolo per il Ministro è semplice- risparmieremo immediatamente un 12% di interessi. Il presidente boliviano Evo Morales, si è già spinto a dare un nome ad una nuova moneta: il Pacha, come la Pachamama, la madre terra. C’è tempo ma per un paese come l’Ecuador di Rafael Correa, che ha da poco eletto un’assemblea costituente che disegnerà la nuova costituzione partecipativa, una moneta continentale sarebbe l’unica speranza di uscire dalla dollarizzazione, il grande tabù del dibatto politico a Quito, perfino per un dirigente politico considerato tra i più radicali come il neopresidente Correa. Infatti, è evidente che la dollarizzazione ha completato la distruzione neoliberale dell’Ecuador, ma nessuno sa realmente come uscirne. In meno di dieci anni, l’inflazione portata dall’utilizzare una delle monete più forti del mondo ha moltiplicato per 1.000 il costo della “canasta familiare basica”, spazzato via la piccola e media impresa, accresciuto l’emigrazione e polarizzato le entrate. Ma lo stesso Correa, né in campagna elettorale, né nell’ambito costituente ha avuto il coraggio di affrontare il tema.

Sopravviverà l’FMI all’uscita di tutti i grandi debitori? Meno di dieci anni fa –all’epoca dell’ortodossia monetarista e del Consenso di Washington- una tale domanda era improponibile. Ma da quando Argentina, Brasile ma anche Indonesia e Filippine hanno saldato i loro conti, rivolgendosi a creditori meno invadenti, l’istituzione che ha tenuto in vita dittature come quella di Mobutu in Congo, Somoza o Pinochet o Videla in America Latina, Ferdinando Marcos nelle Filippine o Suharto in Indonesia sta vivendo una vita grama. E l’attenzione soprattutto del Brasile di Lula, che è pienamente parte del progetto della Banca del Sud, nonostante la stampa mainstream millanti disaccordi, fa pensare che le ristrettezze per il Fondo continueranno e che il mondo disegnato a Bretton Woods possa non sopravvivere al presente decennio.

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