Oaxaca, le ore più difficili per la APPO



Oaxaca, le ore più difficili per la APPO
Le cose sono cambiate a Oaxaca. Di fronte alla dura repressione del governo statale e del governo federale, il movimento di Oaxaca si è ritrovato in un angolo. Ci sono centinaia di incarcerati, alcune migliaia di persone sono nascoste dalle comunità indigene, al limite della clandestinità. Molti sono stati vinti dalla paura. Eppure domenica circa 15.000 persone sono tornate in piazza per esigere la liberazione dei prigionieri politici e le dimissioni del governatore.
 

OAXACA - Tornare a Oaxaca, dopo due settimane, è traumatico. Il 25 novembre, il giorno degli scontri più duri con la Polizia Federale Preventiva messicana (PFP), ha fatto da spartiacque per il movimento sociale e popolare di questo stato del sud del Messico. Se la storia terminasse oggi, sarebbe la storia di una sconfitta. Oggi l’ordine –ed una calma apparente- regna su Oaxaca. Già dal cammino che va dall’aeroporto al centro della città, tonnellate di pittura, su ogni muro, in ogni spazio, in ogni angolo, hanno cancellato le scritte che fino a poche ore prima dicevano “Uro vattene” in tutte le sfumature possibili. Uro è Ulisses Ruiz, il governatore dello stato del quale la Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca esige le dimissioni come unico punto fermo del proprio programma. Perfino troppo fermo secondo alcuni, visto che, di fronte al rifiuto di Uro di dimettersi, non resta che il muro contro muro. E’ lo stesso muro contro muro che caratterizza oramai ogni spazio della politica messicana e che ritroviamo a livello nazionale, con Andrés Manuel López Obrador (PRD, centrosinistra) che rifiuta pervicacemente di riconoscere il governo reale di Felipe Calderón (PAN, destra) e si proclama presidente legittimo.

Hanno cancellato la APPO, è la prima conclusione del viaggiatore che ritorna a Oaxaca. E’ come se sei mesi di storia, manifestazioni che hanno riunito fino ad 800.000 persone in uno stato di tre milioni di abitanti, la creazione di un’assemblea popolare espressione di tutte le realtà civili, sociali e del movimento indigeno dello stato, fossero sparite sotto una mano di pittura. Specialmente in centro hanno ridipinto completamente interi isolati. La città sembra nuova, rinfrescata nel suo splendore. Oaxaca è bellissima, anche così, invasa, violata, occupata militarmente. Fuori dal centro, specialmente nei quartieri popolari, hanno solo cancellato le scritte, hanno rappezzato, il che fa ancora più evidente che lì c’era qualcosa che è stato rimosso: Uro vattene, viva la APPO.

Ti avvicini al centro e al posto delle barricate c’è il traffico normale di una città che si avvicina al milione di abitanti. Solo nel centro storico, la chiesa di Santo Domingo, l’Alameda, lo Zócalo, ogni strada è ancora chiusa dalla PFP. Migliaia di uomini in tenuta antisommossa, Le zone esterne sono pesantemente pattugliate. Passano continuamente fuoristrada; a bordo otto uomini armati fino ai denti. Fino a 15 giorni fa non si azzardavano. Adesso girano, girano.

NO PASARÁN, PERO PASARON La Comune di Oaxaca, come con un po’ di fantasia l’aveva definita il quotidiano La Jornada, per ora ha ripiegato le sue bandiere. Due blindati bloccano ogni angolo, eppure il clima appare rilassato. E’ Valencia il primo aprile del 1939, oppure Napoli o Parigi alla Liberazione: sigarette, cioccolata, voglia di dimenticare. I soldati, quelli di guardia, sono sempre pronti ad uno scontro che per ora non verrà: elmetto in testa, la visiera abbassata, lo scudo, il manganello, i lacrimogeni col colpo in canna. Così hanno ammazzato un infermiere il mese scorso. Oggi hanno il completo controllo del territorio, ma a fine ottobre furono loro a ripiegare di fronte alla marea di popolo che difendeva la barricate. Gli altri si lasciano corteggiare dalle ragazze, ragazzine, alcune minorenni, commesse del centro, che arrivano a frotte. Li vedi in ogni angolo, gli ufficiali lasciano fare: sono nati molti amori tra i milicos –così in America si chiamano spregiativamente i militari- che sono ridiventati soldatini, e le ragazze di Oaxaca.
I commercianti, le ragazze, i camerieri: raccontano un’altra storia, incredibile e inconciliabile rispetto a quella che tu conosci: la APPO è passata, non è successo niente di importante, erano guerriglieri centroamericani, non era gente di qua. Ma ci sono molte persone di Oaxaca in galera: non sono di qua. Oppure usano la raggelante formula con la quale metà di questo continente ha accolto passivamente oltre mezzo milione di desaparecidos vittime delle dittature fondomonetariste negli anni ’70: “qualcosa avranno fatto”. Le ragazze, i commercianti, Oaxaca ha già la sua memoria divisa e inconciliabile. Hanno comprato l’idea della normalità della quale l’industria turistica ha bisogno come il pane, che Uro ha venduto loro e loro ripetono al presunto turista che hanno di fronte. In molti incroci sono apparsi degli striscioni surreali: “la gente del quartiere ringrazia il Governatore per le migliorie nella viabilità”. Il nuovo Messico, dove il vecchio PRI fa da ruota di scorta del PAN, e dove la vecchia e la nuova razza padrona hanno bisogno l’una dell’altra, il Messico che ha come simboli Uro e Fecal (Felipe Calderón), mostra così la sua sinistra normalità “for export”.

LA REALTÀ È ALTRA Ho una lista di contatti, 15-20 persone, dirigenti e militanti della APPO o di organizzazioni vicine. La maggior parte li ho già conosciuti e non prendo troppo sul serio quell’avviso ripetuto da troppi: non andare, é pericoloso e non troverai più nessuno. Il ragazzo dell’Internet point dove si riunivano quelli di Indymedia e di altri media alternativi, ammazza qualche marziano sullo schermo: “sono giorni che sono andati via tutti”. Non sarebbe generoso criticarli, il prezzo pagato con la morte di Brad Will –il cameramen di Indy ucciso a fine ottobre- è atroce. Ma hanno seguito la logica dei media commerciali: con la marea sono arrivati, con il riflusso se ne sono andati, lasciando sola la gente di Oaxaca. Il mio telefono continua a chiamare a vuoto. Evaporati. Adelfo Regino è clandestino: nascosto è il termine tecnico. Eppure appare improvvisamente in un video nel museo di Storia regionale, in quanto professore di culture indigene nella locale università. Un pezzo da museo è entrato in clandestinità! Nel video, lui, il clandestino, il terrorista, illustra pacatamente le caratteristiche della cultura mixteca, alla quale appartiene. Miguel Ángel Vázquez è la memoria storica del movimento popolare oaxaqueño. La Radio Ciudadanía -la voce dell’ultradestra che ha occupato per giorni le frequenze che erano state di Radio Universidad quando questa fu occupata e chiusa dalla PFP- ha chiamato apertamente a linciare Miguel Ángel e i compagni di EDUCA, l’istituzione che dirige: “Ancora non abbiamo deciso se denunciarli formalmente perchè non abbiamo fiducia nella procura di Oaxaca e perchè abbiamo bisogno di appoggio per poter fronteggiare le ulteriori minacce che sicuramente arriverebbero”. Triste ma prudente. Ricevo un email: “non sono più a Oaxaca, sono a Città del Messico. Per tutto quello che è successo dal 25 in avanti, con le detenzioni arbitrarie molta gente è stata costretta ad uscire, emigrare o esiliarsi da Oaxaca. Molti sono qui nel DF, altri a Sud, altri chissà dove. Per adesso il movimento a Oaxaca si è dovuto calmare”.

Chi sicuramente è in galera è Flavio Sosa. Era uno dei 260 dirigenti della APPO, un organismo assembleare che, come nel diritto comunitario indigeno, non riconosce leader. Flavio Sosa ha una storia politica controversa. Avrebbe vissuto per tutta la vita nella zona grigia tra la politica e il clientelismo e per un periodo appoggiò Vicente Fox. Somaticamente indigeno –cosa che in questo paese continua a non favorire- è grasso e brutto e somiglia molto ad Abimael Guzmán, il capo di Sendero Luminoso sepolto nel carcere del Callao, in Perú. Molti affermano che Sosa fosse il leader perfetto perchè i nemici della APPO potessero denigrare la APPO stessa. I media avrebbero cominciato a corteggiarlo ed a trattarlo come il capo proprio a causa di queste sue presunte caratteristiche negative, che permettevano di presentare la APPO come un’organizzazione di marginali della politica alla ricerca di vantaggi personali. Quello che è sicuro è che adesso che Sosa è caduto nella trappola –è stato fatto arrestare come un delinquente mentre andava a Città del Messico, chiamato dallo stesso governo a negoziare- è la faccia visibile di un movimento che, con l’arresto del capo della banda, viene presentato come sconfitto.

PERICOLOSA DELINQUENTE - E Bertha Muñoz, medica e professoressa ordinaria nell’Università Benito Juarez? Era una delle voci della Radio Universidad. E’ in galera, ma nessuno può confermarlo. Provo ad arrivare al carcere dove sarebbe detenuta, sulla Panamericana a 30 km da Oaxaca. Il tassista già per strada mi spiega quanto è pericolosa questa donna. Glielo ha raccontato per settimane la stampa locale e la voce della strada: “dicono che c’entrasse perfino con il ’68!”. Arrivando al carcere ci si trova con uno smisurato dispiegamento di almeno una decina di blindati, un posto di blocco che taglia in due l’autostrada più importante d’America e una pattuglia che non permette di avvicinarsi: “gliel’avevo detto che è una donna veramente pericolosa” commenta trionfante il tassista. Chissà di cosa è accusata Bertha, la voce di Radio Universidad. Il fatto che venga considerata alla stregua di una Osama Bin Laden testimonia quanta paura faccia il pluralismo informativo. Chiusa la radio, adesso la APPO non ha più voce.

Far passare come una delinquente pericolosa una signora borghese di oltre 60 anni è però uno dei miracoli ottenuti il 25 novembre. Allora la APPO, per la prima volta, è stata direttamente coinvolta in pesanti scontri con le forze dell’ordine. Ancora in ottobre, all’arrivo della PFP, l’intera città l’aveva affrontata pacificamente e costretta a ripiegare facendo un uso prudente della forza. Un numero importante di infiltrati –questo paese è pieno di ex del PRI, il partito di Uro, che non sono così ex- e alcuni settori di ultrasinistra, hanno facilitato gli scontri, le violenze e gli incendi del 25, tutti attribuiti alla APPO e serviti a giustificare la caccia all’uomo che ne è seguita. Dopo il 25 finalmente si poteva dire che la APPO era violenta. Tuttavia, Luís Hernández Navarro, nella Jornada del 12 dicembre, denuncia che molte delle violenze attribuite alla APPO rispondano in maniera non semplicemente politica agli interessi di Ruiz. Come si può spiegare –denuncia Hernández Navarro- che la APPO sia andata a dar fuoco proprio agli uffici tributari dove sono state bruciate molte delle prove dei maneggi e della corruzione per la quale la APPO stessa accusa il governatore? Lo scorso 25 novembre Oaxaca potrebbe aver vissuto il suo “incendio del Reichstag” con il quale nel marzo 1933 si installò il terrore nazi in Germania.

TERRORISMO DI STATO Sara Méndez è la Segretaria tecnica della Rete Oaxaqueña per i Diritti Umani (RODH). In queste settimane di numeri incontrollabili –alla diffusione dei quali anche l’APPO ha contribuito- le informazioni della RODH si sono sempre dimostrate le più attendibili. La situazione che descrive Sara è così grave che non c’è bisogno di accrescere le cifre. E’ impossibile conoscere il numero effettivo di arrestati: mette un tetto intorno a 300. Quello che la preoccupa è la forma della repressione scatenata dal 25 in avanti. “Ci sono stati casi di maestri portati via dalle classi mentre facevano lezione. Tra il 28 e il 30 novembre c’è stata una chiara strategia del terrore, diffondere il panico. I presidenti municipali del PRI –senza avere alcuna autorità per farlo- hanno compilato liste di proscrizione e con quelle sono stati fatti gli elenchi –segreti- dei mandati di cattura”. E’ una resa dei conti sotto forma di persecuzione politica che non ha nulla a che vedere con le violenze attribuite alla APPO. Nelle liste e tra i prigionieri politici si trovano persone di tutte le classi, condizioni ed età, compresi alcuni minori. Spesso sono persone che non hanno mai partecipato a manifestazioni o che solo hanno partecipato portando cibo alle barricate. Perfino Ruiz ammette che tra gli arrestati ci sarebbe una maggioranza di estranei ai fatti. E’ un’ammissione tattica per ottenere la non belligeranza dei familiari, ma è significativa. Tuttavia, anche gli estranei, i passanti, sono stati percossi e quasi sempre torturati. Le donne arrestate, circa 35, sono state tutte rapate a zero in maniera umiliante. Ci sono casi sicuri di stupri, anche se non sistematici come ad Atenco, la località dove a maggio la polizia fu lasciata libera di stuprare oltre 40 donne. Non si denunciano pubblicamente, per vergogna, paura e i mille motivi ancestrali di sempre, ma anche a Oaxaca ci sono stati stupri ed abusi sessuali. Il clima di paura invade la città. Dall’inizio del conflitto, sicari, poliziotti, paramilitari, apparati dello stato, hanno assassinato almeno 20 persone, quasi tutte legate alla APPO. Si denuncia un numero imprecisato di desaparecidos, 1-2 o alcune decine. L’uso generalizzato di detenzioni arbitrarie, l’uso sistematico della tortura, la persecuzione politica e personale, la demonizzazione e criminalizzazione dell’opposizione sulla base di prove false, l’uso di infiltrati ed autoattentati, gli omicidi da parte di sicari, possono essere riassunti con un solo termine: Terrorismo di Stato.

A Oaxaca, afferma Edgar Cortés, della Rete Messicana in difesa dei Diritti Umani, vengono violati contestualmente i cinque punti più deboli dell’intera situazione dei diritti umani nel paese: la tortura sistematica, l’accessibilità della giustizia, la connessione con i crimini del passato, i tribunali militari, che impediscono di giudicare i crimini di questi ultimi da parte di tribunali civili e la violazione dei diritti collettivi delle comunità indigene. Sara aggiunge che il diritto alla libertà di espressione è specialmente violato a Oaxaca: perciò hanno ucciso Brad Will, Bertha Muñoz è considerata una delinquente pericolosa, la Radio Universidad era diventata un simbolo e oggi la APPO non ha media dai quali parlare. L’ultima persecuzione è proprio ai difensori dei diritti umani vittime di sistematiche campagne di discredito personale e di diffamazione: difendono i terroristi.

Joel Aquino, studioso e rappresentante delle comunità indigene analizza i metodi repressivi utilizzati da Ruiz, e dall’appena insediato Felipe Calderón. Nota che sono gli stessi utilizzati dalle dittature militari e qui in Messico dalla dittatura di Porfirio Díaz (1876-1910): allontanamento dai luoghi di residenza, isolamento, trappole che rendono difficile la difesa. Il punto più caldo è la questione di Nayarit, la località tra gli stati di Jalisco e Sinaloa, a 16 ore di autobus da Oaxaca dove 140 prigionieri politici sono stati trasferiti immediatamente dopo l’arresto tra il 25 e il 28 ottobre. Solo poche decine tra i familiari hanno potuto affrontare un viaggio così oneroso. Solo l’autobus costa 500 pesos (circa 35 Euro, una fortuna a Oaxaca, il secondo stato più povero del paese) e inoltre bisogna mantenersi nell’accampamento creato fuori al carcere. Tutto conosciuto: allontanare i prigionieri politici dalla loro comunità con un viaggio massacrante, persecutorio, inutile e traumatico. Allontanarli dai familiari, rendere difficile la difesa per fare in modo che la questione dei prigionieri politici –in realtà, viste le ammissioni dello stesso Uro potremmo parlare di ostaggi del governo neofalangista di Calderón- diventi il primo e unico punto di ogni negoziato, lasciando alle spalle i motivi del conflitto.

EPPURE LA APPO VIVE Quindici giorni fa, in un muro della città di Oaxaca, c’era ancora questa scritta: Il fascismo è repressione delle lotte dei popoli e delle loro organizzazioni, controllo dei mezzi di comunicazione, favorire i grandi monopoli sfruttatori, discriminazione razziale, sessuale, uso permanente della menzogna e odio, molto odio. Come storico la definizione è discutibile, almeno facendo riferimento al fascismo classico. Ma il fatto che oggi questa scritta, come migliaia di altre, sia stata fatta cancellare, conferma che potrebbe essere una definizione precoce per il “fascismo del secolo XXI”, del quale il governo di Felipe Calderón –che si è insediato appena due settimane fa scegliendo un riconosciuto torturatore come Francisco Ramírez Acuña come Ministro degli Interni- vuole esser un archetipo. L’hanno affogata sotto un’alluvione, litri di pittura, quella scritta. Ma questo è successo ad inizio settimana, i giorni più tristi e solitari di Oaxaca. Domenica 10, la città si sveglia in attesa della manifestazione. La APPO sa di dovere uscire dall’angolo nel quale si trova dal 25 novembre. Per le strade il pattugliamento è pesantissimo, per accedere al centro per la prima volta ci vuole il passaporto. Ma c’è anche un’altra novità. Una mano, cento mani, mille mani nella notte hanno riconquistato una, cento, mille pareti che fino alla sera prima erano immacolate con una sola scritta: LA APPO VIVE, LA LUCHA SIGUE, L’Appo vive, la lotta continua.

Con questa effervescenza grafica stradale e con il reclamo della liberazione dei prigionieri politici, la base della APPO si è ritrovata in piazza domenica. E’ stata una manifestazione di medio calibro, circa 15.000 partecipanti secondo gli stessi organizzatori, nessun incidente. Sono emersi fatti negativi e positivi. Di fronte alla durezza della repressione, il movimento vive un evidente logoramento, alimentato dal fatto che nella fase finale una rete di organizzazioni di base si era vista caratterizzare mediaticamente da leader poco affascinanti –Flavio Sosa ma non solo- che è stato facile criminalizzare ed eliminare.

L’emersione tardiva di capi modificava inoltre le caratteristiche comunitarie di origine indigena che hanno fatto la APPO fin da prima che si chiamasse APPO, con il conflitto sindacale dei maestri che a maggio ha dato origine a tutto. Allora i maestri furono appoggiati da tutto un popolo anonimo. Poi, quando i maestri raggiunsero la maggioranza delle loro rivendicazioni –divide et impera è stata la politica di Uro che ha sempre temuto i maestri più della APPO- questi continuarono ad appoggiare il movimento. Oggi ci sono maestri in carcere, maestri che si sono dovuti nascondere, maestri che hanno perso il loro posto di lavoro perchè i presidenti municipali del PRI li hanno sostituiti con clienti del partito senza titolo.
La questione dei prigionieri politici lascia Oaxaca intera nell’incertezza e nel pericolo adesso che i pallidi riflettori della stampa internazionale si sono spenti. Ma ancora di più è la questione dei militanti che si sono dovuti nascondere, quadri, ma anche giovani, studenti, lavoratori, gente comune, quella che preoccupa. Reincontro Sara alla manifestazione: “c’è molta gente che è nascosta o che è addirittura uscita dallo stato. Calcolo che siano tra le mille e le quattromila persone e non escludo che alcuni si considerino già di fatto clandestini. Quello che è sicuro è che, se non ci sarà una soluzione politica che permetta a queste persone di ritornare in sicurezza alle loro case, il problema della clandestinità diverrà esplosivo”. Oaxaca si trova geograficamente tra il Chiapas e Guerrero e appena nel 1996 ha visto l’ultimo fuoco guerrigliero significativo con l’EPR. Tutte le associazioni coincidono con preoccupazione che in un paese dove ancora esistono circa 70 piccoli gruppi guerriglieri attivi, l’attuale fase repressiva imposta dal governo di Felipe Calderón, rappresenta un momento di chiara accumulazione di forze per le organizzazioni armate.

Eppure il bilancio di domenica non è negativo. La manifestazione ha dimostrato che la strategia della paura e della criminalizzazione non hanno sradicato la APPO da Oaxaca e dal suo territorio, specialmente nei settori popolari e indigeni, maggioritari nella manifestazione del giorno 10. “Quelli che possono essere sconfitti –analizza con acume una militante- sono i cosiddetti quadri, i capi, le facce visibili che non si sa neanche come sono stati nominati. Ma la APPO come base, come movimento orizzontale e rete di movimenti è di nuovo scesa in piazza. E costerà molto sradicarla dal tessuto sociale di questa città”.

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