[tradenews] Make G8 History



TradeWatch - Osservatorio sul commercio internazionale

Make G8 History

Si apre domani, 6 luglio 2005, a Gleneagles in Scozia, l'incontro annuale
fra gli otto principali paesi industrializzati della terra.
Nel menù preparato da Tony Blair spiccano due temi di primaria importanza: i
cambiamenti climatici e l'Africa.
Il continente nero è oggetto da tempo di particolari attenzioni in Gran
Bretagna, Blair ne ha fatto un cavallo di battaglia nelle recenti elezioni
ed il governo inglese era giunto a criticare apertamente la strategia della
commissione europea nel negoziato con i paesi ACP (Africa, Caraibi e
Pacifico) per la definizione di nuovi accordi di libero scambio (noti come
EPAs, Economic
Partnership Agreements). Nel mese di maggio aveva fatto rumore (sui giornali
inglesi) l'invito rivolto da Peter Mandelson (commissario al commercio) al
proprio governo perché cambiasse l'approccio agli EPA.

Le performance musicali di questi giorni (che hanno visto le più affermate
rock star internazionali fare festa all'Africa senza africani), amplificate
dai mass media del "piccolo villaggio globale", sembrano aver creato una
aspettativa che i capi di governo dei paesi del G8 non possono deludere.
Riusciranno a farlo?
Se si guarda ai precedenti meeting la risposta non può essere che un secco
no.
Nessuna delle promesse formulate nel corso degli incontri del G8 si è
materializzata. Ad esempio a Genova venne annunciato il Fondo Globale per la
lotta all'Aids, alla malaria e alla tubercolosi e i 7 paesi proponenti
promisero di versarvi a regime 10 miliardi di dollari l'anno. Ma sinora in
tutto ne sono stati versati 3 e l'Italia brilla (negativamente) per aver
messo in bilancio 2005 la sua quota  di 100 milioni non versata nel 2004,
riducendo a 80 quella di quest'anno (anche se a breve partirà una campagna
pubblicitaria per sensibilizzare i cittadini italiani sulle attività di
questo fondo).

Ma il problema non è solo di incapacità a mantenere le promesse, il problema
è che aiutare l'Africa e in senso più generale, aiutare tutti coloro che
faticano a sopravvivere nel nord e nel sud del mondo, è una missione che
appare impossibile per i nostri attuali leader politici.
Non si tratta infatti di destinare più fondi agli aiuti, aumentando ad
esempio quel misero 0,15% del PIL che l'Italia vi destina.
"Make poverty history", fare della povertà un ricordo del passato come
recita la campagna internazionale lanciata anni fa da Oxfam, richiede che
alcune regole oggi applicate in economia siano cambiate; richiede che si
smetta di considerare il PIL come sistema di misura del benessere, richiede
nuove regole per il commercio internazionale.
In estrema sintesri richiede che prima degli aiuti si persegua una maggior
giustizia.
Ma la "trade justice" concepita dai nostri capi di governo è una giungla in
cui le regole non sono affatto uguali per tutti, tenuto conto che  non è
neppure giusto che lo siano fra parti così diseguali.
Sono più di vent'anni che viene ripetuto come un mantra che la
liberalizzazione dei mercati e la progressiva riduzione del potere
regolamentativo degli stati sono il mezzo milgiore per ridurre la povertà.
Addirittura l'attuale ciclo di negoziati gestito dall'Organizzazione
mondiale del commercio ha formalmente come obiettivo proprio quello di
aiutare i paesi più poveri ad integrarsi nell'economia mondiale ed uscire
dalla loro condizione di miseria.

Ma l'esperienza insegna che la liberalizzazione non è una buona politica che
purtroppo ha sfortunate conseguenze per una minoranza di persone nei primi
anni di applicazione, come ci raccontano da anni diversi economisti.
Gli effetti collaterali dell'apertura del mercato tessile le abbiamo
comprese (forse) anche noi italiani e se USA ed UE hanno potuto correre ai
ripari facendo leva sul loro potere, chi è in povertà e avrebbe più bisogno
di aiuto deve solo arrangiarsi.
Le politiche di liberalizzazione dei mercati, così come sono state attuate,
sono politiche imposte dai paesi sviluppati e dalle istituzioni
internazionali per difende i rapporti di forza esistenti, mantenendo le
popolazioni più povere nella loro condizione e sottraendo loro
l'opportunità di cambiare.

Lo ha ben evidenziato anche uno studio commissionato da Christian Aid,
redatto da alcuni esperti di econometria che hanno elaborato un modello
economico per simulare che cosa sarebbe successo a 32 paesi tra i più poveri
del pianeta se non avessero liberalizzato il loro mercato interno durante
gli anni '80 e '90.
Lo studio afferma che ai paesi dell'Africa sub-sahariana la liberalizzazione
del commercio è costata 272 miliardi di dollari in venti anni perché le
importazioni sono cresciute molto più delle esportazioni ed hanno portato
alla chiusura di molte attività imprenditoriali aumentando la
disoccupazione. Questo ha significato meno opportunità per l'educazione, per
la sanità, per gli investimenti infrastrutturali e per la creazione di nuove
industrie. Ciò che questi paesi hanno visto aumentare è stata solo la
povertà.
Il costo del libero commercio è ricaduto sulle fasce di popolazione più
povere.
Nel 2000, l'Africa Sub-Sahariana ha perso circa 45 dollari pro-capite a
causa delle politiche di liberalizzazione. Nello stesso anno, i paesi del
continente nero hanno ricevuto un equivalente di 20 dollari pro-capite in
aiuti. Un saldo negativo!
Ma piuttosto che aumentare gli aiuti coprendo il buco dei 25 dollari
mancanti al pareggio dei conti non è molto meglio evitare i 45 dollari
totali di perdita?
La vera soluzione non è aumentare gli aiuti, quanto piuttosto smetterla con
l'imposizione di regole che contribuiscono a perpetrare la povertà.
Per questo la battaglia decisiva per aiutare l'Africa e l'intero pianeta si
sta giocando nei negoziati in corso a Ginevra, per questo sarà decisivo
l'incontro ministeriale del WTO in programma  a dicembre ad Hong Kong. Il
futuro del continente africano si gioca più nel Doha round che nell'incontro
scozzese del G8.

Ma è vero che i leader del G8, eccetto la Russia, sono i membri più
influenti dell'organizzazione di Ginevra e potrebbero da domani decidere di
cambiare.
Potrebbero annunciare l'impegno immediato a cancellare i sussidi agricoli
all'esportazione che impediscono una vita dignitosa a donne come Abiba
Gyarko, coltivatrice di pomodori nel Ghana che deve confrontarsi con la
concorrenza dei pomodori in scatola made in Euope (vedi Internazionale 1/7
luglio 2005).
Potrebbero, quelli europei, annunciare la riforma di una politica
saccarifera che premia le grandi aziende in un mercato "feudale" di quote
che ostacola paesi africani dove la canna da zucchero cresce senza fatica.
Potrebbero smettere ogni genere di pressione per ridurre i dazi sui prodotti
industriali dei paesi poveri e cancellare regimi tariffari che favoriscono
l'import di materie prime come il cacao, ostacolando prodotti processati,
come il cioccolato.
Potrebbero rendere operativo quanto promesso nel 2001 a Doha in modo che
l'accordo sulla proprietà intellettuale, (il famoso TRIPS), diventi carta
straccia quando la gente non ha medicinali con cui curarsi.
Potrebbero dire che l'agricoltura è un argomento che è meglio sia tolto
dalla camicia di forza del WTO.
Potrebbero annunciare che nel negoziato sui servizi, a nessun paese sarà
chiesto con insistenza di liberalizzare settori vitali come la distribuzione
dell'acqua potabile, le scuole e i servizi sanitari.
Potrebbero rinunciare, nel medesimo negoziato, a continuare a premere per
liberalizzare i mercati finanziari, accettando piuttosto che i diritti di
movimento accordati ai capitali siano concessi ai lavoratori.

Dovrebbero rinunciare all'ipocrisia degli annunci retorici spiegando
all'opinione pubblica che "make poverty history" chiede a tutti di cambiare
qualcosa nel proprio stile di vita.

Ma state tranquilli, non lo faranno.

Roberto Meregalli
Beati i costruttori di pace - Rete Lilliput

TradeWatch, osservatorio sul commercio internazionale promosso da Campagna
Riforma Banca Mondiale, Crocevia, Fondazione Culturale Responsabilità Etica,
Gruppo d'Appoggio al Movimento contadino dell'Africa occidentale, Mani Tese,
Rete Lilliput e ROBA dell'Altro mondo fair trade.

Le opinioni espresse non corrispondono necessariamente a quelle delle
organizzazioni promotrici di Tradewatch.