opinionismi



Opinionismi

Sono passati dieci anni da quando parte della società civile - associazioni, partiti, gruppi ­ promosse una raccolta firme per la campagna referendaria a favore della limitazione della concentrazione delle proprietà televisive nelle mani di un solo soggetto.

Ricordo che era già finita ­ di fatto ­ la breve epoca delle tv locali che avevano perso gran parte del proprio pubblico. A suon di miliardi e, insieme, di acquisizioni pubblicitarie, si era affermato in Italia quel “duopolio di ferro” che oggi conosciamo e che negli anni si è andato rafforzando sempre più.

Una campagna referendaria impegnativa e basata - come altre volte è accaduto ­ anche sull’impegno e la passione di singole persone motivate e sensibili. Pomeriggi dedicati a contattare gente a passeggio per strada o all’uscita dai supermercati; mattine trascorse presso i tribunali a predisporre le firme per la successiva validazione, il conteggio, ecc.

La società civile si sostituiva a un parlamento che per anni ­ è storia ­ ha colpevolmente abdicato alla propria funzione legislativa. Nel merito, ha lasciato che prevalessero le urgenze sodali di decreti dei governi Craxi al posto delle precise sentenze della Corte costituzionale.

Una volta raggiunto il numero prestabilito dalla legge e approvata l’ammissibilità del quesito referendario, la parola - come sempre avviene in questi casi - è passata giorno dopo giorno, anche mediante il ruolo dei media, ai partiti politici. Quella che all’epoca era l’opposizione di centro-sinistra al primo governo Berlusconi, inviò all’indirizzo della società civile un esplicito segnale del tipo: sì, va bene il referendum, in tutti i casi però la concentrazione delle proprietà televisive è un problema che ben conosciamo e del quale ci occuperemo noi in Parlamento... Fu una prima risposta che spostava il problema e lo sottraeva alla partecipazione diretta dei cittadini.

La conseguente campagna elettorale per il voto referendario ­ per quanto mi ricordo ­ fu tranquilla, senza toni accesi. Feci caso che il maggior partito dell’Emilia-Romagna, per la prima volta in occasione di un voto politico, non dava l’idea di essere impegnato al massimo. Ad esempio, quando chiesi a degli attivisti per quale motivo nelle buchette postali della periferia di Bologna non arrivasse alcuna indicazione-sollecitazione di voto, mi fu risposto che volantini, pieghevoli, ecc erano stati sì predisposti, ma che ciascuna persona interessata poteva ritirarli presso le sezioni del Partito.

Il referendum non raggiunse il quorum.

Nel 1996, elezioni politiche anticipate; vince il centro-sinistra. Prodi forma il governo e nel contempo il Parlamento istituisce la Bicamerale (in rappresentanza di Camera e Senato) con l’obiettivo di lavorare a beneficio dell’intero Paese. Lo scopo prefissato era quello di predisporre e individuare, attraverso un intenso lavoro, delle riforme e delle ampie modifiche e/o integrazioni alla Costituzione, che fossero pertanto condivise da maggioranza e opposizione. Nei fatti, la Bicamerale diventa sede di personalità politiche di primo piano che fanno quasi da contraltare all’attività di Governo, sia difendendo l’esteso campo d’azione della stessa Bicamerale, sia ponendo veti ­ ora da parte di uno, ora da parte dell’altro - nei confronti delle proposte governative di un qualche interesse. Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, rispettivamente presidente e vice presidente della Bicamerale, acquisiscono con tali incarichi, più di altri, piena legittimità politico-istituzionale. In particolare, Berlusconi ha gioco facile nel soffocare qualsiasi voce critica, derivante dalla sconfitta elettorale, che nasceva all’interno del centro-destra e nel rimanere così, per dei mesi ancora, un primo attore della scena politico-mediale.

La Bicamerale concluse i propri lavori - come sappiamo - senza produrre alcun risultato. Il centro-sinistra approvò successivamente in Parlamento ­ solo con il proprio voto - alcune limitate modifiche costituzionali, che poi, appunto per le loro modalità di approvazione, hanno rappresentato quel precedente che giustifica gli stravolgimenti previsti dalla “devolution” e approvati pochi giorni fa dal Senato.

Era una società civile viva e vivace, quella espressa nel decennio di fine secolo. Che veniva fuori dagli anni ’80, quelli delle stragi di stato e degli agguati di terrorismo. Tornava a far politica di massa come nel ’68 e nel ’77. Una società civile cresciuta in silenzio, seguendo prima le cronache politiche della fine del “Blocco sovietico” e poi quelle giudiziarie di “Mani Pulite”.

Dopo due/tre anni di governo Prodi, Fausto Bertinotti - segretario di Rifondazione Comunista che faceva parte della maggioranza - presenta alcune richieste al governo. Nessuna viene accolta. Per un voto, il governo cade.

In pochi giorni nasce il governo D’Alema con il determinante appoggio di Mastella, Cossiga e c. Il nostro Paese prende parte alla “Guerra umanitaria” indetta da Clinton e dai governi europei di centro-sinistra (maggioranza in 13 nazioni su 15).
La Costituzione si avvia a divenire carta da riciclo.

Il successivo governo Amato, durante i lunghi mesi di campagna elettorale per le politiche del 2001, ha un atteggiamento di neutralità. Tace perfino nei confronti di una specie di “spirale del sondaggio” che raggiungerà l’obiettivo di far avverare la profezia di una maggioranza di centro-destra. Il candidato del centro-sinistra è Rutelli. L’Italia finisce nelle braccia dell’attuale governo Berlusconi.

I perché.
Perché quando c’è stata l’opportunità del voto referendario l’impegno non è stato all’altezza? Perché per un’intera legislatura la maggioranza di centro-sinistra ignora l’emergenza tv, senza risolvere nemmeno la concentrazione proprietaria delle emittenti televisive o il conflitto d’interessi?

Il maggior mezzo di svago, d’informazione, d’intrattenimento, di socializzazione e di formazione non viene disciplinato. L’Italia rimane un’anomalia unica al mondo (insieme solo alla Thailandia, dicono gli osservatori). Una situazione della quale sono a conoscenza anche i bambini.

Le risposte possono essere tante.
La più diretta è quella che prende in considerazione i nostri rappresentanti parlamentari. La tesi di Giorgio Bocca ­ se interpreto bene - è quella che ci sono delle persone e, quindi, anche dei politici comprati. Cioè, ad esempio, c’è chi ha in Berlusconi il proprio editore di fiducia, chi invece usufruisce di passaggi televisivi compiacenti che assicurano sia un rapporto diretto con la gente sia una più agevole leadership di partito, ecc.

La tesi formulata da Gino Strada - sempre se interpreto bene ­ è quella della “sintonia di casta”. Individua una maggioranza e un’opposizione ormai solo formali, nelle aule di Camera e Senato, così come nelle commissioni parlamentari. Una sorta di sedimentato gioco politico-istituzionale che produce come esito naturale sia delle leggi che delle attività di governo condivise nel grosso dei loro contenuti.

Ancora un’ipotesi - relativa al perché non è stata affrontata l’anomalia italiana - è quella di uno scenario fatto di politici non in grado di rappresentare idee e valori. Quest’ultima ipotesi si basa sull’assunto che è la stessa società civile ­ a dire il vero - a far fatica a esprimere idee e valori. Ne consegue una politica del “giorno per giorno”. Parlamenti e governi attenti unicamente all’agenda prodotta dagli eventi quotidiani. Vengono affrontati così i problemi economici, politici, naturali, ecc. Secondo tale tesi, ci troveremmo di fronte una quantità di politici che ha ormai interiorizzato quale proprio obiettivo primario la soluzione delle emergenze. Si pensi ad esempio alle norme antiterrorismo e quindi alle sempre più diffuse forme di controllo che, senza alcuna discussione nel merito, hanno sempre più il sopravvento sulle decennali conquiste di diritti e libertà.

Poi, ancora, nel Parlamento come nella vita, c’è chi per carattere preferisce non occuparsi di problemi scottanti o chi non se la sente più di essere in prima linea.

Ci saranno certamente state infine anche prevedibili diversità di vedute all’interno dell’ex maggioranza di centro-sinistra in merito a come risolvere l’anomalia italiana. Divergenze fra coloro che si son battuti e che si battono al fine di rendere l’Italia quanto meno normale.

La storica reticenza ad affrontare tale problema è il prodotto di una serie di motivazioni; quelle descritte e, insieme, quant’altre ancora.

Opinionismo.

Le righe scritte fin qui rappresentano un punto di vista.

Uno scritto privo di riferimenti bibliografici e di ben precise citazioni. Un documento che in parte è redatto sulla base dell’esperienza politico-sociale di chi scrive e in parte su libere interpretazioni e rievocazioni. Le righe precedenti sono quindi volutamente scritte senza andare a rivedere giornali dell’epoca o materiali. Un opinionismo - il mio - un po’ romantico; il prodotto di miscuglio fatto di notizie in memoria e di qualche inevitabile errore. Un documento che parte e arriva allo stesso punto. Lascia le cose come le trova; non incide. Non stimola all’approfondimento e, magari, a cambiare posizioni e ad agire.

Ci troviamo di fronte a un’indistinta “cronaca di fondo”. Un’informazione che ha come unico scopo quello di riprodurre l’opinione del media stesso. Fatta ad esempio per mezzo di inviati di guerra che quando sono incastonati in un telegiornale, si fanno portatori di un tipo di notizie e di opinioni che chiude, che serra; nel momento in cui, invece, scrivono un libro, riproducono uno scenario ben diverso, che solo a quel punto prova a recuperare la professionalità di un giornalismo che scava, che apre.

“I media creano il loro mondo e questo diventa più importante di quello reale”, scrive R. Kapuscinski (2000).

Secondo F. Mozzi (2005), in Italia ci troviamo di fronte a quotidiani che sempre più optano sia per la personalizzazione degli eventi (le guerre raccontate attraverso storie personali, lo sport mediante vicende biografiche dei suoi eroi, ecc) sia per il commento a più voci anziché per l’approfondimento. Si offrono al lettore notizie non più giustapposte, accostate semplicemente l’una all’altra, ma tematizzate, cioè inserite in una cornice tematica, spesso data proprio da uno spunto narrativo, dalla storia che si sta raccontando, capace di offrire al lettore uno strumento per l’interpretazione del mondo, non semplicemente l’aggiornamento sui fatti.

Il giornalismo viene così qualificato in svariati modi; della settimanalizzazione, narrativizzazione, tematizzazione, spettacolarizzazione, velocizzazione, sensazionalizzazione, autoreferenzialità, dell’infotainment (trasmissioni che vogliono unire informazione e intrattenimento, trattando la prima secondo gli schemi del secondo), della forte drammatizzazione (trasmissioni che insistono su aspetti emotivo-passionali). Non è giornalismo. E’ opinionismo che, nel caso in cui è prodotto bene, può al massimo arricchire e rafforzare i punti di vista. Nel caso contrario, si ha un giornalismo come quello che rileva P. Ottone (1996), dove “tutto è esagerato, tutto diventa iperbole. Un dissenso fra due personaggi è inevitabilmente rissa; un’istituzione che attraversa qualche difficoltà si trova nella bufera; se c’è un contrasto fra due gruppi di persone, il partito si spacca. Ogni contraddizione fra due diverse versioni di un fatto è un giallo. La lira, quando perde due punti, crolla e il marco va alle stelle”... “La sofisticazione è clamorosa quando si mettono fra virgolette, nei titoli, frasi mai pronunciate in quella forma: il disprezzo per la verità in questi casi è totale”...”Poiché ogni pagina deve avere, preferibilmente, un grande titolo in testa, accade spesso che un fatto di scarso rilievo, se è l’unico disponibile in quella particolare giornata, sia presentato in modo altisonante: la neonata abbandonata sull’uscio di una chiesa, o più modernamente di un ospedale, riceve un titolo a otto colonne, clamoroso come il titolo sul bombardamento di Sarajevo nella pagina precedente”.

Se più di 80 anni fa W. Lippmann (1992) scriveva: “senza una standardizzazione, senza degli stereotipi, senza giudizi precostituiti, senza una noncuranza spietata per le sottigliezze, il redattore morirebbe ben presto di agitazione”; oggi, con l’avanzare dell’informazione-spettacolo come un bulldozer che fa dell’oblio la sua leva principale, J. Baudrillard (1993) sentenzia: “l’informazione è la pattumiera attuale della storia”, “la produzione escremenziale dell’evento come rifiuto”.

La notizia in sé svanisce. Si perde fino a diventare “una scusa per” o “un sentito dire”. R. Fisk (2005), ad esempio, ci racconta del giornalismo d’albergo. Giornalisti occidentali che durante tutta la loro permanenza a Baghdad non escono mai dalla stanza dell’albergo; si servono di “corrispondenti iracheni”, giornalisti part-time che rischiano la vita per realizzare interviste per i giornali americani e britannici.

F. Tonello (1995), analizzando il giornalismo americano, sottolinea: “la novità più importante degli ultimi anni è stata il consolidamento di un importante settore politicizzato in senso conservatore, che rifiuta esplicitamente l’ideale dell’obiettività”. Se questo è quanto avviene in casa dell’unica superpotenza mondiale, probabilmente non ha più alcun senso parlare di criteri di notiziabilità.

A parere di chi scrive, il problema non è come aggettivare nel modo migliore il termine giornalismo ma è quello che ci troviamo di fronte a qualcosa che non è più il giornalismo così come è stato a partire dal caso Dreyfus.


Come rileva M. Candito (2005), “oggi a questa nuova forma di giornalismo corrisponde una forma di società che è anch’essa diversa da quella fin qui conosciuta”.

E’ e sarà: altro.


20/4/5 ­ Bruno Leopoldo

Materiale di riferimento:

Baudrillard Jean, L’illusione della fine, Anabasi, 1993, pag. 109;
Candito Mimmo, intervento in occasione del 5° Human Rights Nights, Diritti Umani e Giornalismo, Incolumità dei Reporters e Rappresentazione dei Conflitti, Alma Mater Studiorum ­ Università di Bologna - Dipartimento di Scienze della Comunicazione, 9/4/05;
Fisk Robert, Iraq e giornalismo d’albergo, da The Indipendent, 17/01/05;
Kapuscinski Ryszard, Il cinico non è adatto a questo mestiere, edizioni e/o, 2000, pag. 109;
Lippmann Walter, trad. it. L’opinione pubblica, Donzelli, 1999;
Mozzi Francesca, Stili e tendenze del racconto giornalistico, da Dossier giornalismo, a cura degli allievi della Scuola Superiore di Giornalismo di Bologna e del Corso di laurea di Scienze della Comunicazione, La Bottega dell’Elefante, 2005, pag. 82;
Ottone Piero, Preghiere o Bordello, Longanesi, 1996;
Tonello Fabrizio, Il giornalismo americano, Carocci, Le bussole, 2005, pag. 135.