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da alessandra garusi: anticipazioni dal numero di marzo 2005 di missione oggi
- Subject: da alessandra garusi: anticipazioni dal numero di marzo 2005 di missione oggi
- From: "Missione Oggi" <missioneoggi at saveriani.bs.it>
- Date: Tue, 22 Feb 2005 12:32:44 +0100
Ecco il secondo pezzo tratto dal numero di marzo 2005 di Missione Oggi. Riprendete pure liberamente. Grazie mille e a presto Alessandra Garusi (per la redazione) ----------------------------------------------------------------------- "AVRÒ PIÙ TEMPO PER LEGGERE". IN QUESTA FRASE, DETTA COL SORRISO, C'È LUI, ZOHAR MILCHGRUB, 24 ANNI, ISRAELIANO DI GERUSALEMME. AVRÀ PIÙ TEMPO PER LEGGERE, QUANDO SARÀ INCARCERATO PER AVER RIFIUTATO DI PRESTARE DI NUOVO SERVIZIO MILITARE NEL SUO PAESE. Zohar L'obbedienza non è più una virtù Lo abbiamo incontrato durante un suo passaggio in Italia, dopo otto mesi trascorsi in India, meta frequente dei suoi giovani connazionali che si recano sulle spiagge di Goa e inseguono il mito dell'oriente, spesso per evitare la leva. Zohar, in quei mesi, ne ha incontrati tanti, su e giu' per il subcontinente indiano. E a tutti allungava un volantino: quello di Yesh Gvul, l'associazione che raggruppa i "refusnik", di cui lui è il più giovane esponente. Ecco, in breve, la sua storia. "A dieci anni ho iniziato ad avere un pensiero politico, dopo che io e i miei genitori siamo rientrati dal Venezuela, dove avevamo vissuto per due anni. È stato allora che ho sentito per la prima volta parlare del conflitto. Davanti a quello che accadeva, alle notizie della televisione, chiesi a mia madre: 'Perche' semplicemente non restituiamo i Territori occupati?' Crescendo, sono diventato più attivo: a 13 anni ero in un gruppo giovanile, giravamo a distribuire adesivi e a sensibilizzare. Erano gli anni di Oslo e le cose sembravano migliorare". Poi e' arrivata l'ora fatidica, la chiamata alle armi. "A 19 anni sono entrato nell'Esercito. L'allora primo ministro era Ehud Barak: avevo qualche dubbio, ma in quel momento sembrava che la pace fosse dietro l'angolo. E poi pensavo di dover fare il mio dovere. Venni assegnato alla missione nel sud del Libano. Uno dei migliori giorni della mia vita è stato quando i carri armati si sono ritirati da lì: finalmente, il silenzio regnava sul confine. Ma la gioia è durata poco: dopo quattro mesi, è iniziata la seconda Intifada". "Dopo il Libano, mi hanno mandato a un check point nella valle del Giordano, dove era il comandante ad autorizzare il passaggio. Per fortuna, non era un periodo particolarmente teso. Non ho dovuto sparare a nessuno e nessuno mi ha sparato. La mia intenzione era di aiutare la popolazione, ma ciò non era possibile. E alla fine del 2001 mi sono ritrovato a combattere. Le decisioni ai check point venivano prese da giovanissimi: per "evitare attacchi terroristici", stava a loro e alla loro discrezione stabilire se le macchine potevano passare. C'erano persone che avevano il doppio o il triplo dei miei anni e io avrei dovuto mandarle indietro? Cercavo di far passare tutte le macchine. Ma i superiori mi dicevano: "Se questo passa e fa un attacco, dobbiamo sparargli alle spalle". Una presa di coscienza graduale, quella di Zohar. "La prima volta che ho dubitato è stato quando mi hanno mandato nella Striscia di Gaza, a Nablus, in un insediamento isolato, completamente circondato: c'era un'intera unita' dell'Esercito a sorvegliarlo". Ora, senza mezzi termini, dice: "Ci troviamo a combattere una guerra non necessaria". E spiega: "Man mano che andavo avanti a leggere, a cercare di capire, volevo sempre meno essere nell'Esercito. Arrivato alla fine, ero certo che non ne avrei più fatto parte, per quello che avevo visto, e che avrei fatto del mio meglio anche per informare gli altri e dissuaderli. Se sei contro l'occupazione, ma sei dentro il sistema, con una divisa e un fucile, non lo puoi cambiare". "Un giorno - prosegue Zohar - quando ero alla fine dei tre anni di servizio militare e ormai avevo messo in discussione tutto, mi trovavo alla stazione centrale di Gerusalemme: lì mi è stato consegnato un volantino di Yesh Gvul (che in ebraico significa "C'e' un limite") e mi sono accorto che condividevo quello che dicevano. E che c'era qualcuno che portava avanti le cose che pensavo". Prima di allora, Zohar non sapeva dell'esistenza di Yesh Gvul e delle altre associazioni di refusnik. "Avevo chiaro che non avrei più prestato servizio ai check point. Mio fratello e i miei figli non lo faranno, non saranno soldati d'occupazione. Un mese dopo aver ricevuto quel volantino, mi sono unito a Yesh Gvul". È l'aprile 2002 e Zohar ha appena terminato i suoi tre anni di servizio militare. IL CORAGGIO DI DIRE DI NO Ma come agiscono gli attivisti di Yesh Gvul? "Tentiamo di informare che uomini e donne possono dire di no. Una volta al mese teniamo una dimostrazione davanti alle prigioni, dove sono detenuti i refusnik". Infatti, lo Stato d'Israele non riconosce il diritto all'obiezione di coscienza e al "rifiuto selettivo"; e chi lo fa, puo' finire in carcere. "Inoltre, poiché i refusnik stando in carcere non possono lavorare, cerchiamo finanziamenti per evitare che i giovani rinuncino all'obiezione per motivi economici. Ogni refusnik che va in prigione, quando esce può venire alla sede di Yesh Gvul e chiedere un'indennita'". Nel gennaio 2003, Zohar e' partito per l'India. Ha preso parte al World Social Forum, come rappresentate di Yesh Gvul. Poi ha girovagato per alcuni mesi: "L'India e' infestata dai viaggiatori israeliani. Eppure, mi sono reso conto che a Mumbai, al Wsf, c'era tantissima gente, ma noi eravamo pochissimi. Da allora, ho cominciato a distribuire volantini ai viaggiatori israeliani che incontravo". Sorride, Zohar: "Sono diventato il primo attivista in India per Yesh Gvul". Gli chiediamo come e' vista la sua scelta dagli altri, amici, parenti, conoscenti. "Molti sono contro l'occupazione, ma quelli che sostengono i refusnik sono pochi. Io provengo da una famiglia di sinistra: mi sostengono, ma nessuno di loro si unisce a me". Quando lo incontriamo, per Zohar e' prossimo il rientro in Israele: "Sto per tornare, so che sarà dura. E' più facile parlare in Europa, in Israele sembra non vogliano capire. La maggioranza della gente mi ignora, e questo fa male. Di noi i mass media non parlano; e se lo fanno, quasi sempre danno la versione negativa. Prendiamo l'esempio più noto: quando i piloti si sono uniti a Yesh Gvul, per due giorni se ne è discusso, ma la cosa si è chiusa lì e le tv hanno dipinto il fatto come molto negativo. 'A political refusnik ' ci definiscono ora sui giornali, con un'accezione tutt'altro che positiva" . A proposito del futuro dice: "Sono ottimista. Devo esserlo, se voglio cambiare la situazione. Il mio gruppo trova sempre maggiore supporto. Siamo anche attivi contro il muro, ed e' uno dei casi in cui i gruppi pacifisti israeliani stanno collaborando con quelli palestinesi". Si tratta di un punto cruciale, questo. Ma anche chi e' animato dalle migliori intenzioni, ancora fatica a creare relazioni tra i due popoli. "Non ho amici palestinesi", conferma Zohar. "Ci sarebbero dei luoghi dove incontrarsi, ma nessuno lo fa. Crossing the lines is dangerous". E' ancora "pericoloso", fa ancora paura attraversare il confine non marcato da muri visibili, eppure così evidente, tra le persone. "Vivo a dieci minuti da Betlemme e a dieci da Ramallah. Eppure, l'ultima volta che sono stato a Betlemme avevo cinque anni: ci andavo perché solo là arrivavano gli ovetti kinder e li andavo a comprare. A Ramallah, invece, non sono mai stato". ASPETTANDO L'EVACUAZIONE DI GAZA Della società israeliana dice: "Sta diventando sempre più violenta, ed e' una delle ragioni che mi spingono ad agire: sono questi gli effetti dell' essere popolo occupante". Ma non ha paura, Zohar? La sua non è una scelta da poco. "A volte sono un po ' preoccupato di quello che potrebbe succedere alla mia famiglia, ma sono solo momenti. Sono sereno. So che se mi richiamano e rifiuto, andro' in prigione, ma spero di poter finire gli studi. Ciò che mi spaventa, è il futuro dei nostri popoli: l'odio sta crescendo in Medio Oriente, ma questa deve essere la ragione per trovare nuova speranza". "Non sono religioso, non seguo i rabbini", spiega Zohar. "Anzi, prima del mio viaggio in India avevo sempre considerato la religione come un fattore negativo. Nel conflitto, infatti, e' un elemento molto forte: in Israele i religiosi sono tutti estremisti; esiste una sola organizzazione di sinistra, Rabbini per la pace. Ma io non mi sento 'eletto', non mi sento parte di un 'popolo scelto da Dio': questo e' parte del problema". Eppure, scegliere di essere un refusnik e' una questione di coscienza, attiene fortemente alla dimensione etica della persona. Una caratteristica di molti refusnik e' il "rifiuto selettivo": non tutti sono obiettori di coscienza come li consideriamo noi, non tutti sono pacifisti a oltranza. Il limite per un refusnik e' soggettivo, ciascuno sceglie in coscienza a quali ordini obbedire e a quali no. "Ciascuno ha il proprio limite", ripete Zohar. "Vogliamo innanzitutto che la gente ci pensi. Per quel che mi riguarda, diro ' di no ad ogni richiamo, a meno che non si tratti di evacuare Gaza. Lì sarei davvero felice di partecipare". GIUSY BAIONI L'appello di Yesh Gvul: Fermate il massacro Soldato: l'occupazione compromette il futuro del nostro Paese. Siamo tutti preoccupati per il benessere dello Stato di Israele. Tutti vogliamo che esso investa di più in istruzione, servizi sociali, salute. Mentre spende miliardi per il mantenimento dell'Esercito nei Territori e negli insediamenti, soprassedendo su tutto il resto. L'occupazione, e la violenza che essa causa, trascina l'economia verso la recessione. Gli investitori se ne vanno, i turisti stanno alla larga, interi settori dell'economia sono sull'orlo del baratro. Non sarebbe meglio usare il denaro per rafforzare le nostre strutture sociali? Ferma l'occupazione, denaro pubblico per i più deboli, non agli insediamenti. Soldato, l'occupazione e' dannosa all'Esercito. L'addestramento e' inesistente, poiché i soldati trascorrono molto tempo nei Territori con compiti di routine: fare la guardia alle colonie, proteggere le autostrade e realizzare incursioni nelle città e nei villaggi palestinesi. I soldati sono costretti a servire il proprio Paese in condizioni disumane. Fonti militari ammettono che gli obblighi nei Territori portano i soldati all'esaurimento e causano incidenti. Non sarebbe meglio dedicare il tempo ai bisogni reali di difesa del Paese? Soldato: ci sono atti che la gente decente non commette, anche se sono degli ordini. Le persone decenti non demoliscono le case, non uccidono i bambini, donne e neonati, non affamano il popolo vicino e non negano le cure mediche. Questa condotta indebolisce la fibra morale del nostro Paese. Questi atti sono pericolosi, anche se ci è stato detto di farli "per scopi di sicurezza" . Ogni "liquidazione" (uccisione) provoca un attentato suicida. Il bambino che tu hai ferito oggi, sarà il terrorista di domani. Soldato: tocca a te decidere. Non abbiamo una ricetta "sicurezza". Cambia idea, guidato dalla tua coscienza. Non possiamo decidere per te. Possiamo solo dirti che moltissimi soldati hanno detto di no ai crimini di guerra. Dalla guerra del Libano, fino all'attuale Intifada migliaia di soldati, coscritti e riservisti, hanno trovato il coraggio di dire di no. Qualunque persona decida di rifiutarsi, lo decide da solo. Ma quando quella persona cambia idea, troverà noi a dargli una mano.
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