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da alessandra garusi
- Subject: da alessandra garusi
- From: "Missione Oggi" <missioneoggi at saveriani.bs.it>
- Date: Mon, 10 Jan 2005 16:01:59 +0100
DA MISSIONE OGGI, GENNAIO 2005 L'Iraq rinasce dalla società civile Dalla caduta del regime di Saddam, piu' di 300 nuove associazioni sono nate e operano nel Paese mediorientale. I loro settori d'intervento sono i più vari: diritti umani, assistenza all'infanzia, alfabetizzazione di base, promozione della condizione della donna, progetti di microcredito, formazione mirata al lavoro e alla creazione di nuove opportunita' di reddito. "Molti in Italia parlano dell'Iraq, ma pochi ascoltano quello che gli iracheni hanno da dire". Con questa affermazione Fabio Alberti, fra i promotori dell'iniziativa "Costruire ponti di pace", in occasione di un incontro con esponenti della società civile irachena, tenutosi a Roma l'11 novembre scorso, ha voluto introdurre le testimonianze degli invitati mediorientali. Parole quanto mai appropriate, quelle del presidente di "Un Ponte per.", se si considera quanto sia raro, in Occidente, con tutto il gran parlare che si fa della situazione irachena, riuscire ad ascoltare una voce interna a quella difficile realtà. Di quest'ultima, troppo spesso non arriva altro che un'immagine viziata da letture parziali e monodimensionali, o perche' squisitamente in linea con le dichiarazioni propagandistiche di alcuni governi occidentali o, più semplicemente, per ignoranza, perche' e' difficile parlare con cognizione di causa di un Paese sempre più isolato, dove la logica prevalente è oramai quella dello scontro militare, e dove solo poche testate mantengono un corrispondente stabile. Un esodo, quello che ha portato tanti organi di stampa ad abbandonare l'Iraq, verificatosi parallelamente a quello seguito al precipitare della situazione militare e al moltiplicarsi dei sequestri di persona, di rilevanti settori della cooperazione internazionale. L'IMAN DELLE MARGHERITE Tuttavia, un qualche spazio per quanti non si rassegnano di fronte all' eventualita' che a parlare siano sempre di più solo le armi, e dunque anche per chi vuole fare informazione in presa diretta, deve pur esserci se e' vero che il giovane sceicco Anwar Younis, imam della comunità sciita di Sadr City, riesce a portare avanti, fra mille difficolta', diverse iniziative volte a migliorare le condizioni di vita degli abitanti del popolatissimo sobborgo alla periferia di Baghdad. Younis, che ha 27 anni, si e' presentato al pubblico del Teatro Piccolo Eliseo con le parole: "Sono un imam, uno studente, un essere umano". Da tempo collabora con alcune organizzazioni umanitarie italiane attive presso la sua comunita'; e' stata proprio la conoscenza diretta del lavoro svolto a Baghdad da un'associazione come "Un ponte per." a spingerlo, nei drammatici giorni del sequestro di Simona Pari e Simona Torretta, a chiedere pubblicamente il rilascio delle due cooperanti italiane e a regalare simbolicamente loro una margherita, il fiore divenuto poi il simbolo della campagna per la liberazione di Simona, Simona, Ra'ad e Manhaz. Il "PICCOLO IRAQ" "Sadr City, costruita alla fine degli anni '50, e' un po' un Iraq in piccolo, perche' vi sono presenti tutte le principali comunità del Paese. Fra i suoi 2 milioni e 300mila abitanti, alcuni sono curdi, altri iracheni sunniti, altri ancora iracheni sciiti. Vi è anche una presenza di iracheni di religione cristiana. Un Iraq in piccolo, ma rovesciato: i curdi, che abitano le regioni settentrionali del Paese, a Sadr City occupano la zona meridionale, mentre la numerosa comunità sciita vive nei quartieri a nord, laddove, nel resto dell'Iraq, gli sciiti si concentrano soprattutto al sud". A Sadr City, che si estende per 35Km2 ed è suddivisa in 59 circoscrizioni, l '85% per cento della popolazione è composto da bambini e ragazzi. Oltre a svolgere i suoi normali incarichi di carattere religioso, è proprio a questa massa di giovani e di bambini che si dedica - in ottemperanza a uno dei cinque pilastri dell'islam, l'aiuto ai bisognosi - l'imam delle margherite. La moschea ha infatti messo in piedi una quantità di attività formative, dall'alfabetizzazione primaria per i bambini a quella informatica per i giovani in cerca di lavoro, fino ad includere - aspetto, quest'ultimo, particolarmente interessante - lezioni che potrebbero a ragione essere definite di "divulgazione filosofica": "Cerchiamo di introdurre persone che vengono da decenni di dittatura e che si avviano a votare per la prima volta nella loro vita, a concetti cardine del pensiero politico, spiegando loro, in maniera il più possibile semplice e comprensibile, qual e' la differenza fra l'idea di societa' che hanno, per fare un esempio, un liberale e un comunista". Della necessita' di andare a votare, anche in un Paese occupato, e di farlo in maniera responsabile e meditata, Younis e' un convinto sostenitore. Più in generale, il giovane imam ritiene che oggi, dopo la fine del baathismo, a Sadr City si respiri un'aria migliore e che ci sia spazio per un progresso in positivo, grazie anche agli accordi intervenuti al momento della grandi insurrezioni della primavera 2004 fra gli americani, i gruppi di resistenza e le autorità religiose locali. Sul piano militare, il livello di scontro qui non ha mai raggiunto quello conosciuto da città come Falluja e Najaf. Ciò non vuol dire che non ci siano problemi, o che la guerra e l'occupazione non facciano sentire i loro effetti devastanti. A Sadr City, spiega lo sceicco, ci sono 4 asili nido per più di 2 milioni di abitanti. Si tratta oltretutto di strutture fatiscenti, dove i bambini giocano in mezzo a cumuli di immondizia. Nonostante Younis e i suoi collaboratori abbiano più volte fatto presente tale situazione al governo del quisling Allawi, dal ministero non e' mai arrivata risposta. Altre emergenze riguardano la mancanza cronica di medicinali e di apparecchiature mediche negli ospedali della zona, la situazione igienica e quella ambientale. D'altro lato, il reddito procapite si aggira oggi attorno ai 30 dollari al mese, mentre ai tempi di Saddam non superava i 6 e, sostiene Younis, grazie anche all'opera paziente di chi tenta con fatica di ricostruire un tessuto sociale lacerato da decenni di dittatura e di embargo prima, e da guerra ed occupazione militare poi, "ci sono oggi le condizioni per un futuro migliore". UN'ASSENZA SIGNIFICATIVA Lo sceicco Mohammed A. M. Hussein, imam sunnita della moschea di Al Zafaranya, e' anche presidente dell'associazione "Al Afadhel", nata nel 1991 per dare sostegno alle famiglie indigenti e agli orfani. Al momento, una delle campagne più importanti che l'organizzazione sta portando avanti, e' quella volta a promuovere i diritti delle donne in base alla tradizione islamica. All'incontro di Roma, un'assenza significativa è stata proprio quella degli unici due contributi al femminile previsti nel programma della giornata. Hana Edwar, coordinatrice di "Al Amal", e Saba'a Fahan, dell' "Iraqi Women Network", non sono riuscite a raggiungere Roma; ad impedirglielo e' stata la chiusura dell'aeroporto internazionale di Baghdad decretata dal primo ministro iracheno in concomitanza con l'inizio dell' attacco alla città di Falluja. Una perdita non da poco: come ogni guerra, anche quella irachena pesa soprattutto sulle spalle delle donne. Sono le donne, in definitiva, a risentire maggiormente del clima di violenza endemica creatosi nel Paese, e sono sempre loro a doversi confrontare tutti i giorni con le necessità quotidiane e materiali che la guerra rende particolarmente difficili da soddisfare. In tale situazione, le irachene hanno saputo mostrare una tenacia e una vitalità fuori dall'ordinario. Paola Gasparoli, fra gli organizzatori di "Costruire ponti di pace", ha voluto comunque testimoniare, intervenendo al posto delle due relatrici assenti, dei tanti progetti messi in campo negli ultimi mesi dal variegato mondo dell 'associazionismo femminile iracheno, progetti per lo più a carattere formativo e finalizzati, anche tramite la pratica sempre più diffusa del microcredito, alla creazione di nuove opportunità di reddito. Centinaia di organizzazioni, di reti e di associazioni sono nate in tutto il Paese per dare maggiore incisività e continuità a questi sforzi. "ABBIAMO BISOGNO DEL VOSTRO SOSTEGNO" "Noi iracheni siamo esseri umani come lo siete voi. Il mio popolo spera di vivere un giorno in pace e prosperità come ha fatto in passato". Proprio per questo, ha insistito lo sceicco Hussein, "abbiamo bisogno del vostro sostegno e che facciate pressione sui vostri governi, come già avete fatto nel febbraio 2003, affinche' comincino a lavorare per la pace e la smettano di fomentare la guerra. Senza questo tipo di solidarietà internazionale, i nostri sforzi per costruire un nuovo Iraq rischiano di rimanere vani". Non è un momento qualsiasi quello in cui il presidente di Al Afadhel ha deciso di appellarsi in questo modo alla società civile italiana e occidentale: "In queste ore, gli americani e la nuova guardia nazionale irachena, stanno massacrando la mia gente a Falluja". Falluja e' divenuta simbolo della dignità di un popolo (c'e' anche chi ha parlato di una "Stalingrado irachena"). Falluja che, secondo quanto riferito da Mohammed Alla, del Centro studi per i diritti e la democrazia che proprio in quella cittadina ha una delle sue sedi, si e' trovata costretta a trovare nell'insurrezione armata l'unica risposta possibile all'ottusita' e all' insolenza delle truppe di occupazione, colpevoli di aver disatteso gli accordi che chiedevano loro un ingresso in città e una presenza discreti, rispettosi della dignità e delle tradizioni di chi la abita. Quando, per protestare contro tale violazione, si sono verificate le prime manifestazioni di piazza, pacifiche e partecipatissime, la risposta dei cowboy non si è fatta attendere: spari sulla folla e perquisizioni a tappeto, con conseguente violazione dell'intimita' delle case, uomini umiliati, madri e bambini terrorizzati.Falluja che, per giustificare il bagno di sangue, e' stata infine accusata di offrire ospitalità e rifugio a tagliatori di teste sul cui operato il giudizio degli iracheni invitati a Roma e' sembrato unanime: "Si tratta in maggioranza di stranieri, penetrati nel Paese grazie al caos che vi domina, che nulla hanno a che fare con il nostro popolo e le nostre tradizioni, e che gettano discredito con i loro crimini su quanti legittimamente resistono all'occupazione". PROMESSE MANTENUTE Ma non e' solo Falluja; e' tutto l'Iraq a doversi confrontare giorno per giorno con gli abusi e le umiliazioni inflitti a semplici cittadini da parte delle truppe d'occupazione. Abu Ghraib, secondo Ismail Daud, dell' Associazione nazionale per la difesa dei diritti umani in Iraq, non rappresenta altro che il casuale e non previsto venire in superficie di quella che è una precisa strategia adottata dal potere angloamericano in Iraq nell'amministrare la giustizia, in barba ad ogni certezza del diritto e alle piu' elementari tutele giuridiche. Migliaia di cittadini iracheni sono privati della libertà personale e sottoposti a torture ed abusi. Molti di loro non saprebbero neanche dire perché abbiano subito un simile destino (si parla di persone arrestate per essere andate in cerca di un genitore o di un fratello a sua volta in carcere), né possono dire quando e se usciranno. Dall'altro lato, i membri della più potente macchina militare del mondo, sembrano godere di un'impunità de facto: nessuno chiederà loro conto dell' uso, che l'organizzazione di Daud ritiene, a partire da una serie di osservazioni, quanto mai verosimile, di armi vietate dalle convenzioni internazionali (è il caso ad esempio delle famigerate "bombe a grappolo"), così come nessuno chiederà mai conto del suo comportamento al soldato statunitense che, il 12 settembre scorso, a Baghdad, ha sparato sulla folla inerme. E non è neanche possibile, nell'Iraq amministrato dalla "coalizione dei volenterosi", pubblicare statistiche ufficiali sul numero delle vittime civili che il conflitto sta facendo, perché le forze d'occupazione lo impediscono. "We don't do body counts" ("non ci mettiamo a contare i corpi", ndr), aveva sentenziato all'inizio dell'avventura irachena il generale Tommy Franks. Promessa mantenuta, non c'è che dire.
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