La nonviolenza e' in cammino. 800



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 800 del 5 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Elie Wiesel: Quelle vittime innocenti
2. Angela Dogliotti Marasso: Due chiare consapevolezze
3. Angela Giuffrida: La violenza delle donne
4. Rocco Altieri: Un conflitto irrisolvibile? (parte prima)
5. Elena Buccoliero: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
6. Massimiliano Pilati: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
7. La rivista di Aldo Capitini e Pietro Pinna
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. ELIE WIESEL: QUELLE VITTIME INNOCENTI
[Dal sito del quotidiano "La repubblica" (www.repubblica.it) riprendiamo
questo articolo di Elie Wiesel, pubblicato il 30 dicembre 2004. Elie Wiesel,
nato nel 1928 a Sighet in Transilvania, venne deportato ad Auschwitz e
Buchenwald. Dopo la guerra e' stato giornalista, scrittore, testimone
impegnato per i diritti umani, premio Nobel per la pace. Tra le opere di
Elie Wiesel si vedano in particolare i due volumi delle memorie Tutti i
fiumi vanno al mare, Bompiani, Milano 1996; ... E il mare non si riempie
mai, Bompiani, Milano 1998, 2003. Tra i suoi molti libri e' indispensabile
leggere innanzitutto almeno La notte, Giuntina, Firenze 1980. Segnaliamo
anche almeno il colloquio tra Jorge Semprun ed Elie Wiesel, Tacere e'
impossibile, Guanda, Parma 1996]

Quelle foto di bambini a brandelli, vittime innocenti e indifese di una
natura crudele e scatenata le guardo perfino nel mio sonno agitato, e so che
non dovrei guardarle troppo.
Sono morti, ed e' indecente e pericoloso guardarli troppo. Se almeno si
potesse, con lo sguardo, fare qualcosa per loro; se, per miracolo, si
potesse far loro il dono di un giorno di vita, di un'ora di tenerezza, o
almeno piangere con loro e per loro, dire loro parole di malinconia e
consolazione. Ma non si puo'.
Non si puo' fare piu' niente per questi bambini dal volto cosi' calmo, cosi'
sconvolgente, rifiutati dalla vita, rigettati da un mare infuriato e da un
cielo impietoso.
Certo, abbiamo il diritto di porci delle domande. Avremmo potuto, con i
mezzi scientifici appropriati, evitare la catastrofe con i suoi oltre
centomila morti? Il mondo dei ricchi ha dato prova di iniziative di
generosita' sufficienti verso le povere famiglie d'Asia, aiutando i loro
governanti a installare il meccanismo adeguato per dare l'allarme in tempo?
Ogni corpo muto di bambino ci interpella attraverso la domanda che incarna.
E questo vale per ogni bambino che ha portato con se', nella morte, il suo
futuro, ogni piccolo essere a cui sono stati rubati anni di gioia e
felicita'.
Una societa' e' sempre definita e giudicata dal suo atteggiamento verso i
bambini. Che dire della nostra?
Di fronte a una tragedia umana dalle dimensioni quasi bibliche, davanti a
una tale incommensurabile ingiustizia si cerca invano la forza per esprimere
il lutto e il dolore con parole.
Posso soltanto guardare, ancora e ancora, le immagini insostenibili di quei
bambini sventurati, abbandonati nei villaggi devastati, sparsi sulla sabbia.
Feriti, sfigurati, esangui, domandano molto poco: essere riconosciuti da un
genitore, un fratello, una sorella o un amico amati, per trovare la pace
nella terra.
Io so, tutti noi lo sappiamo, che morendo cosi' piccoli, cosi' giovani,
cosi' fragili, la loro fine prematura diventa, a questo livello, una sorta
di protesta: quando un bambino muore, sempre e dovunque, tutti noi, in
qualche modo, ne siamo, poco o molto, responsabili.
Che dire, allora, di centomila bambini di cui ci restano solamente delle
immagini?
E Dio, in tutto questo?

2. RIFLESSIONE. ANGELA DOGLIOTTI MARASSO: DUE CHIARE CONSAPEVOLEZZE
[Ringraziamo Angela Dogliotti Marasso (per contatti: maradoglio at libero.it)
per questo intervento. Angela Dogliotti Marasso, rappresentante
autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del
Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il
Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di
educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa
e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della
nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente
Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su
Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia -
Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999; e il recente volume in
collaborazione con Maria Chiara Tropea, La mia storia, la tua storia, il
nostro futuro, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003]

Gli interventi raccolti ne "La domenica della nonviolenza" del 2 gennaio mi
hanno stimolato diverse riflessioni. Provo ad esprimerne alcune.
Mi pare che da tutti gli interventi emergano due chiare consapevolezze, che
mi sembrano molto importanti come patrimonio comune.
*
La prima riguarda la fine dell'illusione circa l'estraneita' femminile
rispetto alla violenza e anche rispetto alla guerra, come non solo le
Lynndie England o Sabrina Barman, ma anche le tante aspiranti "soldate"
mettono in evidenza, rivelando tutti i limiti di quella che Lidia Menapace
chiama l'"emancipazione imitativa", che omologa e assimila le donne "al
peggio della storia maschile" (Dominijanni).
Non riprendo dunque questo aspetto, ampiamente trattato da diversi
interventi con varie sfumature, ma vorrei sottolineare un punto. Ida
Dominijanni, a proposito della terribile immagine di Lynndie con il
prigioniero iracheno al guinzaglio, scrive che essa parla "di un immaginario
post-femminista sul femminismo, che trasfigura quello che e' stato e resta
un movimento di liberta' dalla fissita' dei ruoli sessuali in una
competizione per il potere e per la sopraffazione, in un gioco di rivalsa
dell'ex-sesso debole sull'ex-sesso forte...".
E' l'esito estremo di questo processo di "emancipazione imitativa",
certamente, ma anche uno degli effetti di una interiorizzazione di quello
che Pat Patfoort ha identificato come il "modello Maggiore-minore", una
modalita' di relazione che sta alla radice della violenza culturale (la piu'
profonda e radicata delle forme di violenza), perche' ne perpetua e alimenta
il ciclo. In questo quadro, infatti, chi e' stato vittima puo' a sua volta
diventare carnefice, se introietta il modello di relazione basato sul
dominio e sulla difesa violenta, e non riesce a trovare una strada
alternativa per "difendersi senza attaccare" (v. Pat Patfoort,  Se defendre
sans attaquer, Boeckens, 2004, gia' citato sul n. 797 de "La nonviolenza e'
in cammino").
*
La seconda riguarda la necessita' di trovare e praticare, appunto, una
alternativa, che freni la "regressione antropologica" e apra la strada verso
una civilta' "altra".
Questa strada, a me pare, e' gia' stata tracciata: e' quella della
nonviolenza che, come scrive Lidia "non uccide ne' forza ma cambia tutto: il
mondo, le relazioni, le coscienze".
E che, ponendo in stretta relazione mezzi e fini, mette definitivamente in
discussione che un mezzo malvagio sia (legittimo e) idoneo a raggiungere uno
scopo positivo, ovvero che si possa utilizzare la guerra per ottenere la
pace, la tortura per combattere il terrorismo ecc.
Chi ha percorso questa strada in modo piu' consapevole e pieno e' stato
forse il Mahatma Gandhi, ma nella vita quotidiana, cosi' come negli scritti
e nelle parole di molte donne che hanno lasciato traccia di se' o che sono
rimaste sconosciute, ci sono infiniti esempi, spunti e riflessioni in questa
direzione.
Cercare, portare alla luce, far emergere questo patrimonio di nonviolenza
presente nella cultura e nell'esperienza di tante donne per farlo diventare
una nuova cultura comune potrebbe essere un lavoro utile per provare ad
uscire dalla logica del dominio e per fare quel salto antropologico che
appare sempre piu' necessario per il futuro di tutti.
E', questa, una direzione che mi pare gia' fortemente presente nel lavoro di
tante studiose femministe in diversi ambiti, soprattutto nell'ultimo
decennio. Ed e' quello che stiamo cercando di fare anche a Torino, con un
gruppo di donne del Centro studi "Sereno Regis", della Casa delle donne,
delle Donne in nero, tentando di elaborare un percorso che recuperi e
valorizzi parte di questo patrimonio di nonviolenza al femminile, per
divulgarlo e farlo conoscere il piu' possibile.

3. RIFLESSIONE. AGELA GIUFFRIDA: LA VIOLENZA DELLE DONNE
[Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per questo
intervento. Angela Giuffrida e' docente di filosofia ed acuta saggista; tra
le sue pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva edizioni, Roma 2002]

Intendo dare il mio contributo al dibattito sulla violenza al femminile a
cui "La nonviolenza e' in cammino" ha dato tanto spazio.
A me pare che lo stupore suscitato nella pubblica opinione dai fatti di Abu
Ghraib e, in generale, da tutti gli episodi di violenza di cui sono
protagoniste le donne, testimoni ampiamente e da solo la diffusa estraneita'
del genere femminile alle violenze a cui assistiamo quotidianamente, sia di
persona che attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
Credo che nessuno possa ragionevolmente mettere in dubbio la veridicita'
dell'assunto di Ida Dominijanni secondo cui "per una che tortura, ce ne sono
milioni che lavorano ogni giorno e dappertutto, a ovest e a est, per aprire
il presente a un salto di civilta'"; inoltre studi recenti hanno dimostrato
che "non si conosce al mondo societa' umana nella quale il numero di atti di
violenza letale compiuti dalle donne si avvicini anche solo lontanamente al
numero di atti di violenza compiuti dagli uomini" (Daly e Wilson).
*
Ma, obietta Giancarla Codrignani, "dai tempi delle tragedie greche fino a
Freud e' apparso chiaro che le donne non sono prive di aggressivita' e
possono trascendere a violenze efferate", mentre Ida Dominijanni sostiene
che  di avvenimenti analoghi a quelli di Abu Ghraib "la storia e'
sinistramente lastricata dalle kapo' in giu'".
Ora, essendo la drammaturgia greca un parto della mente maschile, non puo'
essere seriamente considerata una testimonianza affidabile dell'essere e
dell'agire delle donne, come non lo e' l'inconscio femminile descritto da
Freud (la teoria dell'invidia del pene ne e' la riprova, dato che deriva
dalla proiezione sulla bambina di sentimenti di invidia per la potenza del
sesso femminile, profondamente radicati nella psiche degli uomini). Ne' e'
possibile sostenere ragionevolmente che la storia sia "lastricata" di donne
aguzzine, dato che possiamo nominarle agevolmente, mentre e' impossibile
nominare la serie infinita di uomini che commettono atrocita', in pubblico
come in privato, anche perche' l'efferatezza maschile governa il mondo.
Sono maschili, infatti, le categorie che da millenni strutturano ad ogni
livello e in ogni parte sistemi sociali in cui la vita non conta nulla e la
sua cura e' cosa insignificante e servile.
Stando cosi' le cose, la domanda che dovremmo porci non e' come mai alcune
aderiscano all'ordine simbolico dei padri, in cui vivono immerse dalla
nascita alla morte, ma come mai la quotidianita' della stragrande
maggioranza delle donne nel mondo sia senza ombra di dubbio razionale e
civile.
*
Lidia Menapace constata che "negli anni del primo femminismo l'idea che le
donne siano pacifiche  e buone per 'natura' o per 'maternita'' fu rifiutata,
e del resto non e' vera". Giancarla Codrignani rincara la dose: "Tranne chi
pensa che la differenza uomo/donna sia fondata biologicamente o addirittura
ontologicamente, non dovrebbe essere possibile continuare con la storia che
'le donne sono piu' buone' e avvalersi dell'angelismo femminile per ricreare
i presupposti della segregazione. Non siamo piu' buone, siamo 'diverse'". E
Ida Dominijanni: "La differenza fra i sessi non e' un dato: e' un progetto".
Ma se non si radica nella natura, da dove deriva l'inclinazione femminile a
riconoscere l'altro e a prendersene cura? Da dove trae origine il progetto
della differenza "che rema contro la tendenza globale... a omologare,
parificare, assimilare le donne al peggio della storia maschile, dei suoi
miti e dei suoi riti"? Il concetto aristotelico della fissita' delle specie,
costituite una volta per tutte, non e' mai stato superato dal sistema di
pensiero dominante, nonostante l'evoluzionismo darwiniano, cosi', associato
all'indebita assolutizzazione ed entizzazione del bene e del male, da'
origine all'idea di una natura buona in se' o in se' cattiva.
Ma se e' giusto criticare l'idea peregrina di una natura buona o cattiva in
se', non e' altrettanto corretto ritenere che con lo sviluppo della mente la
natura non abbia nulla a che fare.
*
Dice Lidia Menapace: "Una donna pu' essere qualsiasi cosa e solo la
coltivazione della coscienza e della soggettivita', la costruzione e
trasmissione di una cultura critica comune, puo' essere un argine, una
difesa, una speranza".
La coscienza, pero', non e' un assoluto, e' sempre coscienza di qualcosa;
rimanda percio' all'esperienza e ad un corpo che puo' esperire, quindi ad un
corpo biologico. Tuttavia l'organismo e' praticamente assente nel pensiero
filosofico e, cosa ancor piu' strana, lo e' anche nella biologia (lo stesso
Darwin attribuisce in definitiva all'ambiente e non agli organismi il merito
di operare la selezione naturale) e nelle neuroscienze.
L'innaturale oblio di cio' che noi veramente siamo, cioe' organismi viventi
e senzienti, e del fatto palese che dobbiamo proprio all'appartenenza al
mondo della natura vivente la possibilita' di pensare (non si sono mai viste
entita' incorporee o macchine ragionare per virtu' propria), e' dovuta alla
dicotomia corpo-mente e alla inferiorizzazione del corpo.
Quest'ultimo viene percepito, insieme alla dimensione affettiva, come
un'inutile zavorra che impedisce la realizzazione degli alti valori prodotti
autonomamente da una ragione, di cui non si sa la provenienza, ne' che cosa
sia esattamente e da dove tragga il suo humus.
Il dualismo natura-cultura esprime in modo autoevidente tale scissione e
spiega la tensione maschile verso un sopramondo, quello dello spirito, senza
nessi e radici nel mondo organismico. Essendo la spiritualita' il portato
dell'esperienza del corpo biologico, il disprezzo per la natura e per le
attivita' volte a sostenere la vita, ha significato il taglio della linfa
vitale capace di fornire il nutrimento adeguato all'evoluzione razionale
della mente.
Questo e' il motivo per cui gli uomini non riescono in alcun modo a portare
i nobili ideali, ai quali dicono di ispirarsi, dalla teoria alla pratica
della vita quotidiana.
*
Dovendo superare la relegazione della donna nel mondo opaco ed ottuso della
natura, il femminismo ha finito in genere per inseguire il pensiero
maschile, negando il valore conoscitivo delle straordinarie esperienze che
le donne fanno nel mondo. Siccome le donne hanno comunque continuato a
protrarre la vita e a sostenerla, pena l'estinzione  della specie, hanno
conservato il loro approccio cognitivo al reale che, in sintonia con
l'esperienza del corpo, e' contenitivo e costruttivo.
La veridicita' di queste affermazioni e' stata clamorosamente confermata
dalle ricerche condotte in tutto il mondo da neuroscienziati, per lo piu'
maschi, che hanno constatato il superiore sviluppo, equilibrio e plasticita'
dell'encefalo femminile.
La diversita' delle donne, altrimenti inspiegabile, dipende da un diverso
sguardo sul mondo, ampio e connettivo, capace di sopportare la complessita'
del reale, e tale sguardo si radica nell'esperienza del loro corpo
biologico.
D'altronde anche lo sguardo maschile, focalizzato su un singolo dato e
sull'opposizione, ha la stessa origine.
La natura c'entra nel senso che, strutturando i corpi in un certo modo,
permette a donne e uomini di fare esperienze diverse che determinano un
differente punto di vista sul mondo; ma essa non ha imprigionato i viventi
nell'ambito di un  determinismo cosi' rigido come gli uomini lo immaginano,
ha assicurato, invece, agli organismi la plasticita' che consente agli
stessi di evolversi per sopravvivere. Lo sviluppo della mente umana e'
dovuto a questa speciale qualita' dei viventi che caratterizza il loro
divenire.
In conclusione, gli uomini non sono stati condannati da una natura matrigna
alla cecita' permanente su se stessi e sul mondo, ma possono allargare il
loro orizzonte conoscitivo se riconosceranno di essere i figli delle donne
che, in qualita' di madri, hanno sviluppato un sapere altro, piu' vasto e
comprensivo, capace di permettere la sopravvivenza della specie, ora come
allora.
Dal canto loro le donne potranno recuperare consapevolmente il loro punto di
vista sul mondo ed uscire dalle mille trappole del pensiero maschile, solo
se riconosceranno il valore della corporeita'. Se invece continueranno a
sostenere un sistema di pensiero contrario alla vita, indirettamente
attraverso la semplice permanenza al suo interno, o direttamente come le
aguzzine di Abu Ghraib, un inesorabile destino di morte ci attende, dato che
il rifiuto del corpo vivente e della dimensione affettiva equivale
semplicemente e tout court al rifiuto della vita stessa.

4. RIFLESSIONE. ROCCO ALTIERI: UN CONFLITTO IRRISOLVIBILE? (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo Rocco Altieri (per contatti: roccoaltieri at interfree.it) per
averci messo a disposizione questo suo saggio apparso nel vol. 5 del giugno
2004 dei "Quaderni Satyagraha" da lui diretti, volume monografico dedicato
al tema "Nonviolenza per Gerusalemme". Rocco Altieri e' nato a Monteleone di
Puglia, studi di sociologia, lettere moderne e scienze religiose presso
l'Universita' di Napoli, promotore degli studi sulla pace e la
trasformazione nonviolenta dei conflitti  presso l'Universita' di Pisa,
docente di Teoria e prassi della nonviolenza all'Universita' di Pisa, dirige
la rivista "Quaderni satyagraha". Tra le opere di Rocco Altieri segnaliamo
particolarmente La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale
di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998. Per abbonarsi ai
"Quaderni Satyagraha" (per contatti: tel. 050542573, e-mail:
roccoaltieri at interfree.it, sito: pdpace.interfree.it): abbonamento annuale
30 euro da versare sul ccp 19254531, intestato a Centro Gandhi, via S.
Cecilia 30, 56127 Pisa, specificando nella causale "Abbonamento Satyagraha".
Abbiamo omesso le note che accompagnavano il saggio, puntuali e preziose,
per le quali rinviamo tout court alla rivista. Come e' ovvio, su un tema
cosi' delicato vi sono interpretazioni e opinioni molto diverse e fin
contrapposte. Crediamo che ragionarne pacatamente, nel rispetto della
sensibilita' di ogni persona, sia un modo per sostenere quanti tra gli
israeliani e tra i palestinesi si stanno impegnando per il dialogo, la pace,
la giustizia, la verita', la solidarieta', la convivenza]

Il conflitto israelo-palestinese dura da piu' di un secolo e ha provocato
centinaia di migliaia di vittime, immani distruzioni e lo sperpero folle di
risorse che avrebbero potuto in realta' beneficiare i due popoli.
L'aver deciso di approntare un numero monografico sul complesso e difficile
conflitto che insanguina la Terra Santa e' stato, per il progetto editoriale
dei "Quaderni Satyagraha", una sfida temeraria e, forse, prematura.
Ma non era possibile, proponendosi di trattare di nonviolenza, non misurarsi
con la drammatica attualita' di una contesa lacerante che nel Vicino Oriente
ha raggiunto in questi mesi i picchi di un'escalation inaudita di violenza,
in un vortice drammatico di attacchi e di contro-attacchi, di "attentati
suicidi" e di "esecuzioni mirate", con l'inasprirsi dell'occupazione
militare israeliana, fatta di punizioni collettive nei confronti della
popolazione palestinese, di bulldozer che radono al suolo le abitazioni e
sradicano gli uliveti, fino a concepire la costruzione di un muro che divide
i territori e le popolazioni.
Di fronte a tali scenari, nel senso comune la nonviolenza appare annichilita
e la pace un sogno irraggiungibile. La guerra che infuria in Medio Oriente
sembrerebbe dar ragione ai tanti teorici del "realismo" che affermano come
la politica sia sottomessa alla logica del piu' forte, rinnovando le parole
senza speranza che Bernanos scrisse negli anni della guerra civile in
Spagna: "Dicono le voci: 'Sciagura ai popoli! Siano maledetti gli infermi!
La terra sara' posseduta dai forti. Coloro che piangono sono deboli. E non
saranno mai consolati. Chi ha solo fame e sete di giustizia va a pescare la
luna e a pascolare il vento'".
Una tale visione di un pessimismo storico "anti-evangelico" sconcerta, ma
non puo' indurre alla rassegnazione o alla disperazione. Come ha ammonito,
col peso della sua autorita' morale, Giovanni Paolo II: "Nessuno puo'
abbandonarsi alla tentazione dello scoramento o della ritorsione: il
rispetto della vita, la solidarieta' internazionale, l'osservanza della
legge devono prevalere sull'odio e sulla violenza. (...) In realta', non di
muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti! Senza riconciliazione degli
animi non ci puo' essere pace".
*
La violenza come peccato originale
In realta', i conflitti diventano ostinati e irrisolvibili proprio a causa
del ricorso alla violenza come strumento per imporre soluzioni unilaterali.
La violenza che si protrae da decenni nella regione storica della Palestina
mostra in tutta evidenza gli effetti nefasti della sua azione e la sua
totale inefficacia rispetto agli obiettivi che vorrebbe conseguire:
sicurezza, giustizia, pace, liberta'. A causa della guerra, invece, le
fratture sociali si fanno sempre piu' profonde e ingestibili, minacciando i
bisogni umani fondamentali, quelli dell'identita' e della sicurezza,
innanzitutto.
C'e' un peccato di origine che spiega la violenza irriducibile che pervade
oggi la quotidianita' della gente che vive in Palestina. Esso va individuato
nel modo in cui si ando' a fondare il nuovo Stato, facendo ricorso alla
scontro e alla violenza, piuttosto che a un soluzione concordata con gli
arabi nell'ambito delle Nazioni Unite, come chiedevano alcune voci ebraiche
della nonviolenza, Judah L. Magnes, Martin Buber, Hannah Arendt, Albert
Einstein, Erich Fromm che come autentici, moderni profeti misero in guardia
il popolo di Israele dal cadere nella tentazione della violenza, facendosi
appoggiare dalle potenze imperialistiche del tempo, cosi' determinando per
il nascente Stato un futuro di guerra permanente.
Questi grandi intellettuali ebrei, fautori di una scelta  nonviolenta, si
impegnarono senza sosta per favorire l'amicizia arabo-ebraica e
considerarono una sciagura l'imposizione di una soluzione nazionale
unilaterale, sostenendo la proposta alternativa di una federazione per i due
popoli, perche', come scriveva Hannah Arendt "la presenza degli arabi in
Palestina era, tra tutte, la sola realta' stabile, una realta' che nessuna
decisione avrebbe potuto modificare - con l'eccezione, forse, della
decisione di uno Stato totalitario, attuata in virtu' della sua fama di
forza spietata".
Cosi' la Arendt ammoniva gli ebrei nel maggio 1948, al momento della
dichiarazione unilaterale di fondazione dello Stato di Israele: "L'idea di
una cooperazione arabo-ebraica, benche' non si sia mai realizzata a nessun
livello e appaia oggi piu' lontana che mai, non e' una fantasticheria
irrealistica, ma una fondata constatazione del fatto che senza di essa
l'intera impresa ebraica in Palestina e' destinata a fallire. Ebrei e arabi
potrebbero essere indotti dalle circostanze a mostrare al mondo che tra i
due popoli non esistono differenze che non possano essere superate. In
effetti, la realizzazione di un tale modus vivendi potrebbe alla fine venir
presa a modello per neutralizzare le pericolose tendenze di popoli un tempo
oppressi: escludersi dal resto del mondo ed elaborare complessi di
superiorita' nazionalistici.
Molte opportunita' di fondare un'amicizia arabo-ebraica sono gia' state
sprecate, ma nessuno di questi insuccessi puo' cambiare il fatto
fondamentale che l'esistenza degli ebrei, in Palestina, dipende da
quell'amicizia".
*
Le correnti nonviolente del Sionismo
Il successo del sogno nazionalistico di Herzl, concretizzatosi con la
nascita dello Stato di Israele, ha oggi oscurato completamente il ricordo di
quelle tendenze anti-sciovinistiche e nonviolente che furono elementi ben
presenti nella nascita e nello sviluppo  del movimento sionista
internazionale: lo spirito di tolleranza e di apertura, la ricerca della
verita', l'impegno per la giustizia.
Hannah Arendt ci racconta delle due correnti, una culturale, l'altra
sociale, di questo sionismo nonviolento, che furono estremamente originali e
creative, ma che oggi sono state rimosse e dimenticate a causa dell'imperio
assoluto della violenza.
La prima va individuata nel progetto culturale che porto' alla nascita
dell'Universita' Ebraica e che deve molto alla straordinaria personalita' di
Ahad Haam, contemporaneo di Herzl e attivissimo nel sostegno al movimento
sionista mondiale. Gia' nei suoi primi scritti, risalenti agli anni novanta
del XIX secolo, Haam affermava il rispetto per la popolazione araba e
l'impegno a mantenere con questa relazioni di pace. Il suo progetto  mirava
a fare della Palestina il faro culturale che avrebbe illuminato gli ebrei di
tutto il mondo, attraverso l'istituzione di un centro di alti studi
universitari, che sarebbe stato un elemento piu' importante per la rinascita
ebraica della creazione di uno Stato, come invece propugnavano i seguaci di
Herzl, anche al prezzo di una guerra con gli arabi.
L'opzione culturale di Ahad Haam richiama alla mente l'antica leggenda di
Rabban Johanan ben Zakkaj, il dotto ebreo che, uscito nascostamente da
Gerusalemme assediata, va incontro all'imperatore romano e gli chiede di
concedergli di fondare una scuola nella citta' di Jamnia (Jabneh), dove
poter continuare l'insegnamento della Torah. Dal disastro della caduta di
Gerusalemme del 70 d. C., con la distruzione del Tempio, Israele riusci' in
realta' a salvare il suo bene piu' prezioso: la tradizione del suo Libro
sacro. Questa antica leggenda riportava, secondo Tolstoj, l'ebraismo alla
sua piu' profonda essenza religiosa, perche' non e' la terra ad essere sua
patria, ma il libro.
La seconda corrente e' quella sociale che produsse l'esperimento degli
insediamenti collettivi, i kibbutzim, in cui, secondo le idee rivoluzionarie
provenienti dalla Russia, si sarebbe dovuta realizzare una nuova forma di
proprieta', di vita sociale, di cooperative di lavoratori, senza piu' alcuno
sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Questi pionieri si alimentavano
dell'aspirazione populista e tolstoiana alla coltivazione della terra e a
una rinnovata vita comunitaria. Vivevano del mito che la loro sarebbe stata
l'unica impresa di colonizzazione senza spargimento di sangue, perche' il
proposito non era quello di cacciare gli arabi, ma di coinvolgerli in un
progetto comune di sviluppo rurale che doveva avere come obiettivo, dopo un
millenario processo di sfruttamento e desertificazione, il ridare fertilita'
a quella terra storicamente tanto amata, trasformandola in un giardino, un
nuovo Eden, ospitale per tutti, nessuno escluso.
Le due "utopie", la culturale e la sociale, che mossero i pionieri ebrei
verso la alyia (la salita) in Palestina, furono gravemente tradite dagli
svolgimenti violenti che hanno accompagnato la nascita e l'esistenza dello
Stato di Israele.
*
La sconfitta dell'opzione nonviolenta
La corrente nonviolenta del sionismo trovo' un ulteriore eccezionale impulso
culturale e politico nella figura di Judah Magnes, nato a San Francisco nel
1856 e trasferitosi successivamente in Palestina, dove nel 1925 fondo'
l'Universita' ebraica di Gerusalemme, diventandone per molti anni il
rettore.
Per piu' di trent'anni il professor Magnes si dedico' indefessamente
all'opera di dialogo e di pacificazione tra ebrei e arabi, guadagnandosi in
breve l'appellativo di "Gandhi ebreo".
Allo scopo di promuovere la cooperazione arabo-ebraica diede vita nel 1925
all'associazione B'rith Shalom (Patto di Pace), e, con gli stessi intenti,
nel '42 fondo' il partito Ikhud ( Unita').
La sua lucidita' politica lo porto' a prevedere subito gli effetti nefasti
delle strategie allora prevalenti nel sionismo mondiale, e lo indusse a
prendere posizioni coraggiose nel denunciare la miopia di certe scelte.
A differenza della gran maggioranza degli ebrei che salutarono con
entusiasmo la Dichiarazione di Balfour del 1917, il primo riconoscimento
internazionale delle aspirazioni del popolo ebraico ad avere un focolare
nazionale in Palestina, Magnes critico' duramente e ripetutamente una tale
presa di posizione politica, che ritenne errata, tale da indurre gli ebrei
sulla strada sbagliata dell'alleanza con l'imperialismo britannico e di
ostilita' verso gli arabi. Magnes riteneva che, in realta', gli Inglesi non
avessero alcun diritto di promettere la Palestina a chicchessia e che agli
ebrei non conveniva legarsi all'imperialismo, che voleva strumentalizzare
gli ebrei per acquisire una posizione influente in un punto nevralgico del
Medio Oriente. Uno Stato, nato con l'appoggio dell'imperialismo britannico e
americano, avrebbe costretto gli ebrei a vivere l'incubo di una guerra
infinita con i vicini arabi.
In alternativa Magnes propose la fondazione in una Palestina autonoma, con
uno Statuto bi-nazionale, dove ne' agli arabi, ne' agli ebrei sarebbe stata
concessa una condizione di minoranza, avendo tutti riconosciuti una
cittadinanza con uguali diritti.
Gli scontri violenti che scoppiarono nel '29, la rivolta araba dell'aprile
1936, le ripetute violenze dal '37 fino all'estate del 1939, misero in serie
difficolta' l'opera di riconciliazione propugnata da Magnes. Ma nonostante
il montare della violenza, la visione di Magnes per uno Stato bi-nazionale
raccolse l'appoggio di intellettuali prestigiosi, tra gli altri Martin
Buber, Ernest Simon, Hannah Arendt, David Riesman, Erich Fromm, Albert
Einstein, che insieme dettero vita a una Lega per l'incontro e la
cooperazione tra Ebrei ed Arabi.
L'11 novembre del 1946 la Lega firmo' un accordo con Falastin el iedida' (la
nuova Palestina) un'associazione di arabi guidata da Fawzi El-Hussein, che
dopo aver aderito al movimento nazionalista arabo, si era  persuaso che
l'unica soluzione al problema palestinese fosse una sincera cooperazione con
gli Ebrei, dando vita a uno Stato bi-nazionale indipendente, parte di una
federazione piu' ampia di popoli medio-orientali. "Una volta, amava
ricordare Fawzi El-Hussein, Ebrei ed Arabi vivevano in amicizia ed in
cooperazione. Vi erano Arabi ed Ebrei che erano stati allattati dalla stessa
nutrice". Percio' i due popoli, gli Ebrei e gli Arabi, potevano ritornare a
vivere in pace e ad avversare uniti le politiche imperialistiche delle
grandi potenze che volevano fomentare la divisione, riproducendo nel Medio
Oriente una situazione balcanica. Ma a causa di queste sue posizioni di
coraggiosa apertura, Fawzi El-Hussein fu assassinato da terroristi arabi il
23 novembre del 1946.
La violenza terroristica cerca sempre di affermarsi, colpendo
indistintamente i sostenitori del dialogo. Il canovaccio di chi vuole la
guerra e la radicalizzazione dello scontro vede di fatto alleati i violenti
dei due schieramenti nel proposito comune di  liberarsi innanzitutto
dell'intralcio che i fautori della nonviolenza frappongono alla
realizzazione dei piani di divisione e di guerra. Pur profondamente avviliti
per il crescere della violenza, che decimava gli interlocutori interessati
alla cooperazione arabo-ebraica, in vista dell'approssimarsi di una
sistemazione geopolitica del Medio Oriente Magnes e Riesman prepararono
ugualmente una risoluzione da sottoporre alle Nazioni Unite che scongiurasse
la spartizione e bloccasse l'ascesa al potere dei terroristi. Si chiedeva
un'amministrazione fiduciaria dei territori della Palestina da parte
dell'Onu per preparare la transizione, riconoscendo all'Ikhud (il movimento
nonviolento di Magnes) un ruolo di mediazione.
Ma il conte Bernadotte, inviato come rappresentante dell'Onu in Palestina e
principale interlocutore del gruppo di Magnes, venne assassinato a
Gerusalemme dai terroristi ebrei della banda Stern, il 17 settembre del
1948, perpetrando un atto criminale che colpiva al cuore il progetto di una
soluzione concordata secondo la proposta di una federazione arabo-ebraica.
La mattina del 27 ottobre '48 moriva anche Judah Magnes, un ulteriore evento
luttuoso che indeboliva in modo irreparabile il lavoro per il dialogo e la
cooperazione arabo-ebraica. Scrisse in quei giorni Hannah Arendt: "La morte
di Magnes e' una vera tragedia in questo momento. Non c'e' nessuno che
possegga la sua autorita' morale. Inoltre non so vedere nessuno che viva
realmente nel mondo ebraico, e che abbia una qualche preminenza in
istituzioni ebraiche, che possa avere il coraggio di alzare la voce contro
tutto quello che oggi sta accadendo".
Con la morte di Magnes il partito dell'Unita' perse forza. Nasceva una
fondazione col suo nome e con l'obiettivo di proseguirne il cammino, ma la
Arendt, che fu tra i fondatori, rifiuto' di diventarne presidente, come
molti avrebbero voluto, avendo ormai capito che in quel momento non c'erano
piu' gli spazi per una azione politica diretta che influenzasse la politica
di Israele. Preferi', cosi', stabilirsi negli Usa.
Sugli uomini di cultura, che avrebbero potuto guidare in modo illuminato la
nascita di una entita' federale israeliano-palestinese, prevalsero i
violenti e i terroristi. Costoro nell'ebbrezza della vittoria, nella
smisurata presunzione di essere eroi cha avevano vinto "in pochi contro
molti" una impossibile guerra di indipendenza, non si rendevano conto che in
quel modo, seguendo la politica del "fatto compiuto", riservavano in realta'
agli ebrei che avevano trovato in Palestina un rifugio dalle persecuzioni
naziste, un nuovo destino di paura e di violenza, una guerra quotidiana
permanente con i vicini arabi, non certo quella serenita' e quella felicita'
che avevano sognato. La violenza fu il peccato di origine  che accompagno'
la nascita di Israele e che condizionera' tutti gli avvenimenti successivi.
In un certo senso la fondazione violenta del nuovo Stato segno' la morte del
sogno nonviolento di una "patria ebraica" .
*
La catastrofe dei profughi
Ogni volta che si affacciavano segnali di riavvicinamento un nuovo atto di
violenza spingeva le parti verso la rottura e la polarizzazione violenta
delle posizioni. Sordi alle voci che invitavano allo spirito di intesa, i
terroristi precipitarono ebrei e arabi verso la guerra.
Gli scontri aperti si acuirono con la dichiarazione unilaterale di
indipendenza di Israele nel maggio '48 e cessarono nel '49 con la piu' grave
tragedia che il conflitto armato abbia lasciato in eredita' alle generazioni
successive: il 75% della popolazione palestinese fu costretta dalla guerra a
lasciare i propri luoghi di origine e ad iniziare una lunga odissea come
profughi, il cui punto di approdo e' ancor oggi lontano dall'essere visto.
Qualunque sia la spiegazione del loro esodo, una conseguenza della
propaganda araba delle atrocita' compiute, o le reali atrocita' o una
mescolanza di entrambe, il dato di fatto e' che da quel momento si e' alzato
il muro del rifiuto israeliano a riammettere i profughi nella loro terra
d'origine.
Sulla tragedia dei profughi cosi' scrisse, poco prima della morte, Judah L.
Magnes in una lettera al direttore di "Commentary": "E' una disgrazia che le
stesse persone che potrebbero addurre la tragedia dei profughi ebrei come
principale argomento a favore dell'immigrazione di massa in Palestina, siano
ora disposte, per quanto si sa, a favorire la creazione di un'ulteriore
categoria di profughi in Terra Santa".
La cosiddetta "Legge della proprieta' assente", approvata dal parlamento
israeliano nel maggio 1950, porto' immediatamente all'esproprio del 70%
delle proprieta' arabe.
Contemporaneamente la "Legge del Ritorno" del 1950 e la "Legge  della
Cittadinanza"  del 1952 diedero a qualsiasi ebreo, proveniente da qualsiasi
parte del mondo, il diritto di immigrazione in Israele, acquistandone
automaticamente la cittadinanza.
Mentre veniva sancito solennemente il diritto al ritorno degli ebrei, il
diritto al ritorno per i profughi palestinesi e i loro discendenti,
riconosciuto universalmente dal diritto umanitario internazionale, veniva
negato.
E' la disperazione reale dei campi profughi palestinesi, provocata da anni
di miseria, umiliazioni, maltrattamenti, a spingere i giovani kamikaze
nell'emulare Sansone, l'eroe biblico che, ridotto in prigione dai Filistei,
decise: "Che io muoia insieme ai Filistei" (Giudici 17, 4).
La questione dei profughi va posta al primo posto dell'agenda delle
trattative di pace e non puo' essere barattata con qualche fittizia
concessione di autonomia amministrativa in Cisgiordania e Gaza.
Qualsiasi autentico processo di pace, se vuole portare frutti effettivi e
duraturi, non puo' prescindere dal riconoscere e dal riparare alle
sofferenze passate e presenti dei profughi palestinesi, ponendo cosi' le
basi per un futuro diverso di condivisione e di riconciliazione.
*
Diritti di cittadinanza per tutti, nessuno escluso
Come osserva Kemmerling, sociologo contemporaneo dell'Universita' ebraica di
Gerusalemme: "I diritti degli ebrei in Israele sono tuttora definiti in
termini personali e collettivi, mentre i diritti degli arabi sono
riconosciuti solo in termini personali. Cioe', essi mancano dei diritti di
accesso ai beni comuni della collettivita' come la terra, l'acqua, i simboli
collettivi, feste, anniversari, commemorazioni. Questa differenziazione tra
diritti privati e diritti collettivi e' rischiosa e fa di Israele una
"etnocrazia" piuttosto che una societa' "ebraica e democratica" come
proclama di essere".
L'accesso alla terra in Israele e' regolato dallo Stato, che conserva il
controllo e la proprieta' di gran parte delle terre insieme al Jewish
National Found (Jnf). Si e' costituita la Israel Lands Administration (Ila),
un organismo governativo dominato dal Jewish National Found (Jnf) che
controlla il 94% delle terre  e mira, come sua politica principale, alla
"giudeizzazione" delle aree dove sono ancora maggioritarie le popolazioni
arabe.
Di fronte alle tante  pretese di legittimare su basi bibliche la volonta' di
appropriazione esclusiva delle risorse della terra bisogna sempre ricordare
l'ammonimento che La terra e' di Dio (Levitico, 25, 23).
Gli usi civici sulle terre comuni che i villaggi arabi esercitavano da
generazioni, sia durante l'impero ottomano che sotto il mandato britannico,
vengono oggi negati. Le richieste dei fellah, i contadini palestinesi, di
ottenere in fitto le terre coltivabili vengono accantonate a vantaggio delle
imprese ebraiche.
La stessa politica viene realizzata per l'accesso alla casa. Nonostante
l'incremento demografico della popolazione palestinese e il crescente
processo di urbanizzazione, non c'e' stato un corrispondente aumento
nell'offerta di alloggi. I palestinesi sono discriminati dal mercato delle
case, in quanto si limita l'acquisto ai soli ebrei, privilegiando i veterani
di guerra o chi ha prestato servizio militare, e questo fatto di per se'
esclude gli arabi. I palestinesi sono altresi' esclusi dai sussidi per
l'acquisto delle abitazioni o dai programmi governativi di miglioramento
delle abitazioni e delle infrastrutture. I sussidi e le agevolazioni per gli
affitti che favoriscono le giovani coppie, gli anziani e i nuovi immigrati
(che da soli ottengono il 74% dei sussidi), ancora una volta escludono le
famiglie palestinesi.
Uno degli aspetti piu' iniqui e odiosi, anche se meno noti, della politica
statale israeliana e' quello verso i beduini del Naqab (una popolazione
semi-nomade di circa 120.000 persone), ai quali si rifiuta il riconoscimento
dei loro villaggi agricoli, fatti di povere capanne di legno e di ricoveri
di animali, privandoli cosi' di ogni tipo di supporto pubblico per il
miglioramento delle abitazioni, e per l'accesso ai servizi essenziali
(acqua, elettricita', strade), avendo programmato di ricollocarli in sette
nuovi insediamenti urbani, negando in questo modo il loro sistema di vita,
stravolgendo la loro struttura di societa' di contadini e allevatori.
Contemporaneamente, avendo lo Stato il controllo della terra, esercitando il
potere di darla in affitto (leasing policy), si cerca di restringerne
l'accesso alle comunita' beduine a favore di un uso commerciale e di uno
sfruttamento piu' lucrativo delle terre.
Anche per l'acqua, risorsa particolarmente scarsa e preziosa in una regione
assediata dalla desertificazione, diventa questione cruciale nel conflitto
il controllo delle sorgenti del Golan e del bacino del fiume Giordano. I
conflitti per l'acqua nascono innanzitutto intorno alla sua destinazione tra
usi domestici, agricoli e industriali. E nella ripartizione dei consumi
appare eclatante la discriminazione nei confronti della popolazione araba e
palestinese.
La scarsita' delle risorse e' un concetto relativo, funzionale sia al
modello di sviluppo che si realizza, sia alla densita' della popolazione.
Nelle analisi del conflitto nel Vicino Oriente poca attenzione si e'
prestata finora alle questioni relative ai modelli di sviluppo, preferendo
le chiavi interpretative della geo-politica e della religione.
In Palestina lo scontro di civilta' non riguarda le religioni, bensi' il
conflitto e' tra modernita' e tradizione, tra citta' e campagna, tra modelli
di sviluppo diversi, tra un modello industriale di agricoltura e uno arcaico
basato sul lavoro umano e sugli animali. La jeep versus l'asino, il
bulldozer versus gli alberi di ulivo potrebbero essere alcune immagini di
questo conflitto paradigmatico. Modernita' e tradizione sembrano faglie
tettoniche che, movendosi da Nord e da Sud, nelle profondita' del Vicino
Oriente si urtano, provocando terremoti devastanti.
*
Una religione civile della sicurezza
Il trauma della persecuzione subita nei secoli, la catastrofe finale della
Shoah hanno fatto del tema della sicurezza il punto nevralgico della
ideologia e della politica di Israele. Questa paura di fondo ha alimentato
negli anni una concezione della sicurezza nei termini della difesa militare
del territorio, giustificando le politiche di riarmo e la stessa deterrenza
nucleare.
Il tema della sicurezza costituisce tuttora l'elemento unificante del
consenso nazionale di una societa' per altri aspetti profondamente divisa.
Tutti i problemi vengono vissuti come una sfida alla propria identita' e
alla propria sicurezza esistenziale, e a causa di cio' Ernest Simon faceva
notare gia' nel '48 come gli ebrei di Palestina rischiavano di degenerare in
una di quelle piccole tribu' di guerrieri simili a Sparta.
La violenza viene proposta e sostenuta in quanto sembrerebbe avere una sua
efficacia risolutiva, perche' Israele, come parte piu' forte nel conflitto
asimmetrico con i palestinesi, appare in grado di imporre la sua volonta' di
potenza, creando situazioni irreversibili, come e' accaduto dopo la guerra
del 1948 e del 1967, allargando il controllo del territorio fin verso i
tradizionali "confini biblici". I governi di Israele, facendosi forti della
propria potenza militare e dell'appoggio degli Usa, pretendono di praticare
la politica del "fatto compiuto", ignorando la presenza dell'altro. Ma i
leader politici come falsi profeti creano solo effimere illusioni, perche'
una tale infausta politica perpetua soltanto una guerra senza fine.
L'Intifada sta rendendo insostenibili i costi dell'occupazione, spingendo
l'economia verso il collasso. La rivolta palestinese dimostra che avere il
controllo militare dei territori non significa avere il controllo della
popolazione e, come gia' lo statista inglese E. Burke aveva considerato a
proposito delle colonie americane dell'Inghilterra, non si puo' governare a
lungo col ricorso alla violenza.
Ma la paura indotta dagli attentati terroristici dei kamikaze ha rinnovato
tuttora il consenso della maggioranza della popolazione israeliana alle
politiche repressive del governo e al progetto di costruzione del muro, con
l'illusione di trovare cosi' una soluzione definitiva alla propria
sicurezza.
Si e' diffusa tra la gente comune una prevalente cultura militaristica che
pervade tutta la societa', creando una specie di civilian militarism,
secondo l'espressione coniata dal sociologo A. Vagts.
Secondo Kimmerling benche' la societa' israeliana non sia propriamente un
modello pretoriano piu' di qualsiasi altro paese democratico, nella cultura
di settori considerevoli della sua popolazione e della leadership politica,
sia di destra che di sinistra, prevale una mentalita' di tipo militare
nell'affrontare problemi che non sono militari, giustificando cosi' il
ricorso eccessivo alla forza  e nutrendo l'aspettativa che anche in politica
i militari possano risolvere i problemi della gente. E soprattutto si
presume di poter imporre la pace con gli strumenti della guerra.
Una guerra e un conflitto entrati a far parte della routine quotidiana della
vita della gente offuscano la distinzione tra pace e guerra, plasmano le
istituzioni economiche e politiche, condizionano in modo pesante la
formazione dell'identita' di Israele e tutta la sua cultura politica,
generando appunto una forma di mentalita' militare. Inoltre, la guerra, la
sua preparazione, uno stato di occupazione permanente dei territori
palestinesi, l'instabilita' politica spingono settori crescenti della
popolazione a sostenere esplicitamente soluzioni forti, che minacciano il
regime parlamentare.
Il bisogno di sicurezza induce a idolatrare lo Stato e il suo esercito. Ma
il ricorso alla ragione di Stato per giustificare ogni crimine, introduce a
quella che in ebraico si chiama Mamlachtiut (il culto idolatrico dello
Stato). Affidarsi, poi, per la propria sicurezza agli eserciti e alla bomba
atomica, invece che a Dio, e' la peggiore di tutte le idolatrie.
(Continua)

5. STRUMENTI. ELENA BUCCOLIERO: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'...
[Ringraziamo Elena Buccoliero (per contatti: e.buccoliero at comune.fe.it) per
questo intervento. Elena Buccoliero (Ferrara 1970) collabora ad "Azione
nonviolenta" ed e' parte del comitato di coordinamento del Movimento
Nonviolento. Lavora per Promeco, un ufficio del Comune e dell'azienda Usl di
Ferrara dove si occupa di adolescenti con particolare attenzione al bullismo
e al consumo di sostanze, e con iniziative rivolte sia ai ragazzi, sia agli
adulti. A Ferrara, insieme ad altri amici, organizza e promuove la Scuola
della nonviolenza. Sara' pubblicato questo mese presso l'editore Franco
Angeli di Milano un suo libro sul fenomeno del bullismo]

Nella mia ridotta consuetudine al rapporto con i media, e dunque nella mia
poca informazione (questa e' un'ammissione, non un vanto), "Azione
nonviolenta" e' uno strumento informativo di cui mi fido, che leggo ogni
mese interamente o quasi, su cui talvolta scrivo.
La rivista mi e' stata presentata da persone per le quali ho affetto e
stima, ed altre, attraverso di essa, ho imparato a conoscere. Questo legame
con le persone e', per me, un motivo di "fedelta'" alla rivista sicuramente
importante. Attraverso di essa come attraverso gli incontri e' nato il mio
interesse per la nonviolenza e da li', dopo alcuni anni, l'adesione al
Movimento Nonviolento.
Negli interventi dei lettori che mi hanno preceduto si sono ricordati piu'
volte i quarant'anni di "Azione nonviolenta". Vorrei che fossero percepiti
come una ricchezza, non come un peso. Gli anni, in se', non
giustificherebbero la spesa: se una rivista non parla ai lettori, anche con
molta storia dietro, non ci sono ragioni per abbonarsi.
"Azione nonviolenta", pero', gli anni li porta in modo gagliardo. E' piu'
vecchia di me e io mi ci trovo bene. Sentire di essere nel solco di altre
esperienze e' un richiamo continuo ed emozionante, testimoni di nonviolenza
che, da Aldo Capitini e Pietro Pinna in poi - e oggi con Mao Valpiana ed
altri -, oltre a dare un'impronta decisiva alla rivista, hanno trasformato
la loro vita in "esperimenti con la verita'", nella normalita' di ogni
giorno e pagandone personalmente il prezzo.
Sara' per questo che ogni anno, da diversi anni, mentre rinnovo
l'abbonamento ne regalo altri, diversi, ad amici e amiche per i quali credo
che "Azione nonviolenta" possa rappresentare un incontro felice, una
scoperta, una conferma, una fonte di informazioni e di strumenti utili per
conoscere, per agire e per crescere.
C'e' un rischio, nella durata. E' che, abituati a fidare sull'esistenza
della rivista, si pensi di non dover far niente per il suo funzionamento,
come se tutto fosse scontato. "Azione nonviolenta" e' "un piccolo miracolo"
che si ripete da quarant'anni per il sacrificio personale e continuo di
alcune persone, e puo' continuare a rinnovarsi - cioe' migliorare in forma e
contenuti e naturalmente, prima ancora, continuare ad esserci - solo se
continueremo a desiderarne la presenza e a intrattenere con le sue pagine un
rapporto vivo, ognuno come vuole e puo', cominciando dall'abbonarsi e dal
farla conoscere ad altri.
Personalmente - e' il mio modo - su "Azione nonviolenta" qualche volta
scrivo e invito a scrivere perche' la rivista, per come io la conosco, e' un
crocevia accogliente che richiede nuove "aggiunte", un covo nel quale e'
facile trovare spazio, soprattutto quando il nostro scrivere e' un mettersi
al servizio degli altri e non un compiacersi di se'.

6. STRUMENTI. MASSIMILIANO PILATI: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA"
PERCHE'...
[Ringraziamo Massimiliano Pilati (per contatti: massi.pilati at lillinet.org)
per questo intervento. Massimiliano Pilati fa parte del comitato di
coordinamento del Movimento Nonviolento; e' impegnato nel nodo trentino
della Rete di Lilliput e nel gruppo di lavoro tematico "nonviolenza e
conflitti" della Rete di Lilliput; fa parte del coordinamento nazionale
della campagna "Pace da tutti i balconi"]

Leggo, sostengo e diffondo "Azione nonviolenta" per bisogno.
Avverto, infatti, un profondo bisogno di confronto, di imparare, di
"ascoltare e parlare". Sono umano e quindi mi capita di provare sentimenti
di odio, di rancore, di voglia di sopraffazione nei confronti dei miei
simili, soprattutto verso chi compie ingiustizie. "Azione nonviolenta" mi
aiuta non a sopprimere o a negare questi miei sentimenti, ma a cercare altre
vie, altre strade dove incanalarli, strade difficili, ma giuste.
"Azione nonviolenta" fa esplodere queste mie contraddizioni e mi aiuta a
conviverci, a superarle, a crescere.
"Azione nonviolenta" non mi da' risposte, ma mi insinua dubbi e mi aiuta a
trovarmele da me le risposte, magari sbagliando, ma mi sprona a provarci.
"Azione nonviolenta" e', infine, una valida compagna di viaggio verso il
"varco attuale della storia", cosi' lontano, cosi' vicino.

7. STRUMENTI. LA RIVISTA DI ALDO CAPITINI E PIETRO PINNA
"Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento fondata
da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per tutte
le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail:
azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org; l'abbonamento annuo e'
di 29 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite
bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso
BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB
11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona,
specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta".

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 800 del 5 gennaio 2005

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