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La nonviolenza e' in cammino. 754
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 754
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 8 Dec 2003 21:20:18 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 754 del 9 dicembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Nanni Salio: un movimento per fermare le guerre e costruire la pace 2. Maria Luisa Boccia: un altro ordine di senso e di esperienza 3. Giuliana Sgrena: una testimonianza sulla strage di Samarra 4. Elena Laurenzi: un profilo biografico di Maria Zambrano 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. NANNI SALIO: UN MOVIMENTO PER FERMARE LE GUERRE E COSTRUIRE LA PACE [Ringraziamo Luca Kocci (per contatti: lkocci at tiscali.it), curatore dell'edizione di quest'anno dell'Annuario della pace (l'utilissimo strumento di lavoro promosso dalla Fondazione Venezia per la pace e pubblicato presso il benemerito editore Asterios, Trieste 2003, in questi giorni in libreria) per averci messo a disposizione il contributo di Nanni Salio che nel volume appare. Nanni Salio (per contatti: regis at arpnet.it), torinese, segretario dell'Ipri (Italian Peace Research Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli della nonviolenza in Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con Antonino Drago), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1982; Ipri, Se vuoi la pace educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Ipri, I movimenti per la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991; Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001. Per contatti: Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122 Torino, tel. 011532824, fax: 0115158000, e-mail: regis at arpnet.it, sito: www.arpnet.it/regis] La storia sembra ripetersi sempre la stessa: in prossimita' di una guerra, annunciata o combattuta, si creano comitati e movimenti spontanei che cercano di opporsi a una macchina ben oliata, che funziona ventiquattr'ore su ventiquattro, alimentata da un trilione di euro all'anno, tre miliardi al giorno. L'esito e' praticamente scontato: tranne in rari casi, molto particolari, la macchina non si arresta. E' quanto e' successo, ancora una volta, con la guerra di aggressione degli Usa contro l'Iraq, nonostante la straordinaria opposizione di un imponente movimento contro la guerra, forse il piu' grande nell'intera storia umana. Per quali ragioni questo movimento non e' stato in grado di impedire la guerra? In realta', questa domanda potrebbe essere intesa in un senso piu' ampio. Non c'e' solo la guerra contro l'Iraq, ma molte altre piu' o meno dimenticate o trascurate, che il movimento per la pace non e' stato in grado, e non lo e' tuttora, di impedire o di contrastare con sufficiente visibilita' ed efficacia (Colombia, Congo, Sri Lanka, Israele-Palestina, Cecenia, e tante altre). * Obiettivi generali Si puo' tentare di rispondere a questo angosciante interrogativo individuando gli obiettivi generali che un movimento per la pace dovrebbe proporsi di conseguire e le cause profonde che stanno alla base del fenomeno guerra. Gli obiettivi generali essenziali sono tre, tutti quanti di grande portata e relativi alla struttura del sistema socio-politico nel quale siamo inseriti: trasformare gli attori sociali violenti, trasformare le strutture violente, trasformare le culture violente. Oggi siamo in presenza di attori, strutture e culture violente in un circolo vizioso che si autoalimenta e che occorre spezzare. A ciascuna di queste tre componenti (attori, strutture, culture) corrisponde una o piu' forme di potere, inteso come dominazione. Gli attori sociali violenti dispongono del potere politico, le strutture violente sono create e mantenute dal potere economico e militare, le culture violente si manifestano attraverso il potere culturale (mediatico, religioso, della tecnoscienza, dell'immaginario artistico, dei miti, dei traumi e della narrazione storica). Una ipotesi di lavoro dalla quale partire e' che a questi poteri dall'alto occorre contrapporre e/o sostituire il "potere dal basso" fondato sulla nonviolenza. Ma questo potere, che ha una dimensione sia personale, basata sulla "forza interiore", sia collettiva, dev'essere costruito pazientemente, non puo' essere improvvisato. * Teorie e forme del potere Mentre le quattro forme principale di potere dall'alto (politico, economico, militare e culturale) sono alimentate costantemente, pianificate e sorrette giorno dopo giorno dal circolo vizioso attori-strutture-culture, nulla di tutto cio' esiste, se non in uno stato embrionale, per quanto riguarda il "potere dal basso". Basti pensare alle dottrine e politiche militari, sorrette da una gigantesca spesa militare, da un apparato burocratico costituito da decine di milioni di persone che operano a tempo pieno e da un consenso ampiamente generalizzato. Quante sono le persone che operano a tempo pieno nei movimenti per la pace, per esempio in Italia? A essere generosi si possono approssimare a poche centinaia, realisticamente ancor meno. Con quali risorse? Pressoche' nulle. E' pensabile che in questo modo si possano contrastare scelte e decisioni come quelle che hanno portato alla guerra contro l'Iraq? No di certo. Questo non significa che ci siano facili ricette che si possono costruire a tavolino, con risultati sicuri e immediati. Si puo' tuttavia pensare a un ragionevole insieme di politiche e di iniziative che, in modo sistemico e complesso, possano avviare un processo di inversione di tendenza che puo' portare nel corso degli anni a conseguire risultati apprezzabili. Un punto centrale che paradossalmente e' stato largamente trascurato e' la critica radicale agli attuali modelli di difesa e di sicurezza e, piu' in generale, la critica alle dottrine militari. Quello che si attiva normalmente su larga scala e' piu' un movimento contro la guerra (una specifica guerra, uno specifico sistema d'armi, come quelle nucleari oppure le mine antiuomo) che un vero e proprio movimento per la pace. Molti di coloro che hanno manifestato contro la guerra di Bush all'Iraq erano al tempo stesso favorevoli a mantenere gli eserciti, senza minimamente essere consapevoli delle dinamiche e delle conseguenze che questa scelta comporta. E' proprio questa ambiguita' che impedisce di uscire dal circolo vizioso della guerra. Con il nostro assenso a una difesa militare, peraltro altamente aggressiva e offensiva, consentiamo che le elite che governano le grandi potenze proseguano indisturbate nella loro logica di dominio e nella sfrenata corsa agli armamenti, in corso da oltre mezzo secolo. E quando decidono di ignorare e stracciare anche quel poco di accordi e di diritto internazionale che faticosamente si e' riusciti a costruire, ci ritroviamo totalmente impotenti. Ma non siamo innocenti: abbiamo consegnato il nostro potere nelle mani criminali di chi ci governa. L'alternativa alla difesa militare dev'essere pertanto chiara e netta, anche se nel breve periodo puo' comportare una fase di transizione, di transarmo, un piccolo compromesso che vedra' convivere elementi residuali di un modello di difesa difensiva, ma non offensiva, con il costruendo modello di difesa popolare nonviolenta. Ma al momento questa ipotesi progettuale non e' stata esplicitamente recepita neppure dal movimento per la pace, che rischia di ripetere solo slogan retorici e inefficaci. * Tecniche e metodi di lotta della nonviolenza politica Uno dei lavori di riferimento per chiunque voglia comprendere i fondamenti della nonviolenza politica, superando schemi riduttivi e di banale contrapposizione tra i fautori del realismo e i persuasi della nonviolenza, e' quello di Gene Sharp, La politica dell'azione nonviolenta (tre volumi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1997). I punti salienti del lavoro di Sharp sono i seguenti: la nonviolenza politica si basa su una diversa teoria del potere, che ha avuto modo di dimostrare la sua efficacia nel corso della storia in svariati e numerosi casi, in ogni latitudine e sotto ogni tipo di governo, democratico e/o totalitario, compreso il nazifascismo; i casi di studio sono talmente significativi che soltanto una pigrizia intellettuale, un permanere di concezioni teoriche errate, una narrazione storica miope e un insieme di interessi contingenti e limitati hanno impedito sinora che le tecniche e i metodi della nonviolenza si diffondessero piu' di quanto e' gia' avvenuto. Purtroppo, questa critica vale anche per il movimento per la pace, che sinora non ha saputo fare propria la cultura della disobbedienza civile, del ju-jitsu politico, della noncollaborazione, del boicottaggio e di quella molteplicita' di tecniche (Sharp ne ha classificate ben 198, ma nei trent'anni trascorsi da quando ha pubblicato il suo lavoro se ne sono aggiunte altre) indispensabili per rendere efficace la lotta nonviolenta. La disobbedienza e' "civile" e non "incivile" quando si accetta il prezzo da pagare, anzi quando si fa leva su questo prezzo per scardinare un sistema basato su leggi ingiuste. "Riempire le carceri" e' sempre stata l'indicazione politica dei maestri della nonviolenza, da Gandhi a Mandela. Bloccare i treni che trasportano armi, non pagare le tasse che servono per finanziare la guerra e l'apparato bellico, non accettare leggi ingiuste come la Bossi-Fini sull'immigrazione, richiedono il coraggio e la determinazione della disobbedienza creativa, che puo' mettere in difficolta' estrema anche il potere apparentemente piu' forte e monolitico e farlo cadere come un fragile castello di carte. Ma la scansione delle azioni dev'essere organizzata, pianificata, gestita politicamente secondo tempi e modalita' che permettano di continuare la resistenza e la disobbedienza su tempi lunghi. Gli esempi storici delle lotte guidate da Gandhi e da Martin Luther King sono emblematici a tale riguardo. Il movimento per la pace e' stato capace sinora di agire solo sui primi livelli dell'azione, quelli della sensibilizzazione, delle manifestazioni di massa, ma non e' riuscito a passare alla fase successiva della disobbedienza. Per far questo e' necessario un impegno continuativo di formazione all'azione diretta nonviolenta, come e' avvenuto nei casi migliori della storia dei movimenti (1). Solo cosi' potremo sperare di avere gruppi di attivisti capaci, preparati e pronti a intervenire tempestivamente e coerentemente secondo le tecniche della nonviolenza. Tutto cio' non si improvvisa all'ultimo momento. Per raggiungere questi obiettivi, ambiziosi e impegnativi ma tutt'altro che irrealistici, il movimento deve affrontare anche due altri ordini di problemi interni: 1. la totale carenza delle strutture logistiche e organizzative, da consolidarsi mantenendo una rigorosa indipendenza rispetto alle forze politiche partitiche, pur nella ricerca di un costante dialogo aperto di confronto e di critica costruttiva; 2. democrazia interna, partecipazione, modalita' decisionali consensuali, ruolo crescente della componente femminile, autogestione. Dal punto di vista organizzativo, la forma migliore e' probabilmente quella di una struttura a rete, decentrata ma stabile, che consenta al tempo stesso di valorizzare la grande ricchezza delle diversita' ("uniti e diversi") e di condurre un'azione politica incisiva e attiva (anzi pro-attiva), non soltanto spontaneista e reattiva, che superi le emergenze e duri nel tempo, capace di elaborare progetti, realizzare esperienze, produrre cultura della nonviolenza e trasformare man mano la realta'. Occorre radicarsi stabilmente nei luoghi, essere tenaci e determinati, progettuali e creativi. Moltissime esperienze in corso permettono gia' di intravedere che cosa intendiamo per societa' nonviolenta e quali sono le direzioni verso le quali dobbiamo procedere, ma non abbiamo ancora raggiunto una massa critica sufficiente per conseguire risultati piu' stabili e visibili. * Paradossi e limiti della democrazia Ci sentiamo sovente dire che la nonviolenza e' possibile ed efficace solo nei contesti democratici. Questo non solo non e' vero, come dimostrano molteplici casi storici (resistenza civile al nazifascismo, caduta di regimi dittatoriali nelle Filippine nel 1986 e nell'Europa dell'Est nel 1989), ma siamo ormai in presenza di un evidente paradosso: e' molto piu' difficile lottare dentro una democrazia che non contro un potere dittatoriale (2). Intendiamoci, e' vero che nella democrazia ci sono spazi e margini di manovra che, in prima istanza, sembrano piu' facili da attivare. Ma i risultati sono spesso modesti, quando non addirittura nulli. Proteste su larghissima scala come quelle del 15 febbraio 2003 che hanno coinvolto decine di milioni di cittadini/e non hanno impedito che il potere politico si comportasse con la ben nota tecnica del "muro di gomma". Analogamente, per i principali problemi che abbiamo di fronte (dalla poverta' di massa agli squilibri ambientali, dalla crescente disoccupazione e precarizzazione ai drammi dell'immigrazione) i poteri dominanti presenti nelle democrazie si comportano seguendo strategie ben note, che di fatto stanno svuotando la democrazia del suo piu' autentico significato. Un 20% della popolazione e' in grado di conseguire un risultato elettorale vincente, contro un altro 20% che vi si oppone e un 60% per lo piu' indifferente, terreno di caccia per gli indispensabili margini di manovra. Come e' stato brillantemente evidenziato da vari autori (3), le democrazie occidentali stanno diventando sempre piu' delle oligarchie, capaci di rendere inefficace la protesta e il dissenso, se questo si limita alle forme piu' tradizionali di azione e non sa compiere il passaggio verso la disobbedienza civile. La trappola e' ben congegnata: se l'oppositore ricorre alla violenza, viene schiacciato e messo nell'angolo; se invece si limita alla protesta verbale, la sua azione risulta inconcludente. L'alternativa necessaria e possibile e' la disobbedienza civile su larga scala, organizzata nella forma della resistenza, dell'obiezione e del boicottaggio. A tutto cio' occorre aggiungere la capacita' di elaborazione di un programma costruttivo basato sul cambiamento delle strutture di potere militare, passando dalla difesa armata a quella nonviolenta, e delle strutture economiche trasformando l'attuale folle e distruttivo modello della crescita e dei consumi illimitati in un altro basato sulla scelta della semplicita' volontaria e sulla riscoperta di stili di vita che ci permettano di vivere in maniera piu' ricca, intensa e armoniosa le nostre relazioni intra e inter-personali. Sono cambiamenti parzialmente gia' in corso, che bisogna sostenere, rendere visibili, tradurre anche in programmi politici. * Una modesta proposta: una politica del 5% Quando si delineano scenari globali, si rischia di cadere in una sindrome di disperazione che e' bene contrastare osservando che il bicchiere non e' mai tutto pieno o tutto vuoto, ma di solito mezzo pieno e mezzo vuoto. Accanto alle denunce, e' necessario vedere e far conoscere le molteplici esperienze positive in corso in ogni angolo del mondo. Stanno crescendo la quantita' di persone, i movimenti, le iniziative, la cultura, la sensibilita' di coloro che si rendono conto che un mutamento e' possibile, oltre che necessario. Ci sono tutte le premesse e forse stiamo gia' assistendo agli "ultimi giorni dell'impero americano", come recita il titolo di un bel libro di Chalmers Johnson (Garzanti, Milano 2001, e ristampa aggiornata 2003). E' una tesi condivisa da molti altri autorevoli studiosi, tra cui Immanuel Wallerstein (4), Johan Galtung (5) e il gia' citato Emmanuel Todd. Perche' questa transizione avvenga, c'e' bisogno che l'attuale struttura imploda e si dissolva, il meno violentemente possibile, come e' implosa l'altra superpotenza, dopo la straordinaria stagione di lotte nonviolente del 1989. Non abbiamo bisogno di superpotenze, se non di quella disarmata e nonviolenta del movimento per la pace transnazionale. Un obiettivo minimo ma concreto di questo movimento puo' essere quello di una politica "del 5%": proporre alle forze politiche, nelle prossime tornate elettorali, la riduzione delle spese militari del 5% all'anno per tutta la legislatura, con l'utilizzo di queste risorse per la costruzione di una alternativa nonviolenta (corpi civili di pace, forze nonviolente, caschi bianchi) e in parallelo la riduzione programmata annua del 5% dei consumi di energia fossile (in particolare il petrolio) con la crescita, nella stessa misura, della produzione di energie rinnovabili. In una sola legislatura otterremmo risultati concreti e straordinari, che ci avvicinerebbero a traguardi ancora piu' ambiziosi. Ma troveremo una forza politica che abbia il coraggio di assumere un simile programma? Sta al movimento per la pace attivarsi perche' tale proposta non rimanga nel cassetto dei sogni. * Note 1. Si veda ad esempio il sito www.ruckus.org curato dalla Ruckus Society, uno dei gruppi internazionali piu' specializzati in questo campo. 2. Si vedano in proposito le riflessioni di Brian Martin, Nonviolence versus capitalism, www.uow.edu.au/sts/bmartin/pubs/01nvc 3. Si veda in particolare Emmanuel Todd, Dopo l'impero, Marco Tropea, Milano 2003. 4. Il declino dell'impero americano, www.iai.it/pdf/Wallersteintrad5.PDF 5. The fall of the empire, www.transcend.org 2. RIFLESSIONE. MARIA LUISA BOCCIA: UN ALTRO ORDINE DI SENSO E DI ESPERIENZA [Ringraziamo Maria Luisa Boccia (per contatti: maluboccia at libero.it) per averci messo a disposizione questo suo intervento apparso sulla sempre stupenda rivista "Via dogana", nel n. 66 del settembre 2003. Maria Luisa Boccia e' nata il 20 giugno 1945 a Roma, dove vive. Dal 1974 lavora all'Universita' di Siena, e attualmente vi insegna Filosofia politica. Dagli anni '60 ha preso parte alla vita politica del Pci e dei movimenti, avendo la sua prima importante esperienza nel '68. Deve alla famiglia materna la sua formazione politica comunista, e al padre, magistrato e liberale, la sua formazione civile, l'attenzione per l'esistenza e la liberta' di ciascun essere umano. Ad orientare la sua vita, la sua mente, le sue esperienze, politiche e umane, e' stato il femminismo. In particolare e' stato il femminismo a motivare e nutrire l'interesse alla filosofia. La sua pratica tra donne, cominciata nel 1974 a Firenze con il collettivo "Rosa", occupa tuttora il posto centrale nelle sue attivita', nei suoi pensieri, nei suoi rapporti. Ha dato vita negli anni a riviste di donne - "Memoria", "Orsaminore", "Reti" - ed a diverse esperienze di gruppi, dei femminili tra i quali ricordare, oltre al suo primo collettivo, dove iniziano alcune delle relazioni femminili piu' profonde e durevoli, "Primo, la liberta'", attivo negli anni della "svolta" dal Pci al Pds; "Koan", con alcune allieve dell'universita'; "Balena", nato dal rifiuto della guerra umanitaria in Kosovo e tuttora felicemente attivo. E' stata giornalista, oltre che docente, partecipa dagli anni '70 alle attivita' del Centro per la riforma dello Stato, ha fatto parte della direzione del Pci, poi del Pds, ed ha concluso questa esperienza politica nel 1996. Vive da molti anni con Marcello Argilli, scrittore per l'infanzia, e non ha figli. Ha scritto articoli, saggi, ed elaborato moltissimi interventi, solo in parte pubblicati, per convegni, incontri, iniziative. Tra i suoi scritti recenti: Percorsi del femminismo, in "Critica marxista" n. 3, 1981; Aborto, pensando l'esperienza, in Coordinamento nazionale donne per i consultori, Storie, menti e sentimenti di donne di fronte all'aborto, Roma 1990; L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990; con Grazia Zuffa, l'eclissi della madre. Fecondazione artificiale, tecniche, fantasie, norme, Pratiche, Milano 1998; La sinistra e la guerra, in "Parolechiave" nn. 20/21, 1999; Creature di sabbia. Corpi mutanti nello scenario tecnologico, in "Iride" n. 31, 2000; L'eredita' simbolica, in Rossana Rossanda (a cura di), Il manifesto comunista centocinquanta anni dopo, Manifestolibri, Roma 2002; Miracolo della liberta', declino della politica. Rileggendo Hannah Arendt e Simone Weil, in Ida Dominijanni (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Miano 2001; La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002] In una situazione segnata della guerra in Iraq ho sentito formulare da parte di donne che da decenni sperimentano una politica non centrata sul potere e sulla legge, un dubbio sfiduciato sulla possibilita' che questa riuscisse ad affermarsi rispetto a quello che appare un irresistibile e sempre rigenerato predominio della forza. Per lo piu' queste donne non sembrano disposte a ricorrere a metodi e linguaggi basati sulla forza. Tendono pero' a considerare troppo ampio il divario tra le loro pratiche e quello che appare il nocciolo aspro ed ineludibile della politica istituzionale, fino a ritenerle tra loro incommensurabili. Viceversa da parte di molti uomini il netto ripudio della guerra si accompagna ad un esplicito richiamo di questa idea. Il problema e' quale forza opporre a quella scatenata dal potere dominante, e non gia' se si possa agire, e come, una diversa politica. In particolare Pietro Ingrao ha richiamato il valore di resistere "nel concreto dello scontro armato e della prova di forza": "amo la pace - scrive - ma bisogna pur rispondere alla violenza". Se questa e' la priorita', agire politicamente richiede di pesare "sulla trama dei poteri che variamente pervadono il pianeta", sapendo, tuttavia, che di questa trama la dottrina della forza e' "ancora parte: una parte armata, violenta, ma tuttora controversa". Incidere sul nesso stringente tra forza, potere e politica e', per Ingrao, il problema lancinante e urgente del "che fare", non affrontato dal movimento della pace e sul quale manca una riflessione pubblica. Significativamente il discorso si chiude con un richiamo alla possibilita', indicata da Luisa Muraro, di "cercare salvezza in un altro ordine di rapporti", strappandosi dal terreno dei rapporti di forza. "E' un altro orizzonte", osserva Ingrao, che "scavalca", ma non modifica i suoi ragionamenti e che gli fa annotare "la diversita' (e forse il limite) della mia esperienza di maschio". * Questa presa d'atto della differenza, come di due orizzonti, mi appare speculare alla sfiduciata constatazione, di parte femminile, del divario tra la propria pratica politica e quella, rispondente al maschile, che struttura il sistema dei poteri. Entrambe segnalano una difficolta' di relazioni nella differenza. Come se tra uomini e donne non potesse infrangersi la regola della complementarieta' di sguardi ed orizzonti, di identita' e compiti, di appartenenze ed ambiti di vita e di mondo. Eppure non e' piu' cosi', dal momento che le donne tagliano ed attraversano con il gioco libero della differenza tutte le identita' ed appartenenze, tutti gli orizzonti possibili e tutti gli ambiti di esperienza. La difficolta' tuttavia c'e' e si fa sentire e impedisce di vedere che c'e' altro dalla legge della forza, e questo altro e' l'essenziale proprio per la politica. Anche per contrastare la dottrina della guerra preventiva. Mi ha aiutato a misurarmi con essa una frase, recitata ritualmente nelle corrispondenze dall'Iraq: "la vera posta in gioco e' la conquista dei cuori e delle menti". Per la quale, si lasciava intendere, le armi possono essere controproducenti. E lo si vede bene in questo tormentato, presunto, dopoguerra. Comunque, nell'ascoltare quelle parole, mi sono detta che se armi e strategie militari sono per me intangibili, viceversa la politica che ho fatto in tanti anni si e' rivelata tutt'altro che inadeguata a comunicare con i cuori e le menti. Se e' vero che nessun sistema di rapporti puo' affidarsi solo all'esercizio della forza, mi chiedo perche' dovremmo combattere frontalmente il dominio, facendo propria la sua stessa logica? Non e' forse questo il terreno piu' congeniale al riprodursi del dominio stesso? E non si finisce cosi' per coltivare l'illusione che vincere sul piano della forza sia la premessa per conquistare i cuori e le menti? Non e' piuttosto necessario "muoversi su un altro piano", come a molte di noi ha mostrato Carla Lonzi? Mi chiedo se resistere non voglia dire, innanzitutto, tenere vivo ed operante un altro ordine di senso e di esperienza, anche nel conflitto, anche nella guerra, proprio per impedire all'aggressore di insediarsi nei nostri cuori e nelle nostre menti. * Dal piano che si sceglie dipendono differenti prospettive politiche. Per fare un esempio attuale, riguardo all'Europa. Dobbiamo augurarci che divenga una potenza militare, in grado di competere con gli Usa, e dunque di far valere, anche con la forza, i suoi giudizi politici sull'ordine di rapporti nel mondo? O, viceversa, va scritto nella Costituzione europea il ripudio della guerra, quale impegno scaturito dalla sua storia drammatica e violenta, e si deve puntare sull'impotenza dell'Europa - in termini di disarmo e non solo - per renderla credibile ed autorevole nei confronti di chi non puo' (o non vuole) competere per il potere dominante. Senza dimenticare che in questa posizione sara' sempre la piu' grande parte del mondo. Ovviamente per ritenere quest'ultima una politica possibile ed incisiva va prestata attenzione a quale parte della realta' l'una o l'altra posizione privilegiano, e quale parte, invece, lasciano nell'insignificanza. E' qui che la differenza parla e va ascoltata. Voglio, allora, ricordare alcune voci che mi hanno aiutato a non sentirmi troppo in balia dell'accaduto, e grazie alle quali immagino un intreccio possibile di relazioni nella differenza. Da Alberto Olivetti ho ascoltato un giudizio di Marc Bloch, del 1921, secondo il quale sebbene la guerra sia spesso frutto di un errore, se questo errore ha fatto versare sangue viene definitivamente consolidato e da qui si riparte, ipotizzando di costruire una vita nuova e diversa. Per Olivetti il "che fare" dovrebbe rispondere all'esigenza primaria di spezzare questa ripetizione. Serve per questo accorciare la distanza, raccontare di volta in volta i gesti consuetudinari stravolti, che rischiano di sparire nella cristallizzazione della guerra in generale. Me lo ha suggerito Bernardo Valli con le sue corrispondenze da Baghdad. Nella realta' quotidiana, osserva Valli, le guerre sono umilianti, mentre la rappresentazione dell'orrore e' purificata di questo carattere, e questo ha una funzione immunizzante sulla nostra coscienza. Serve a depurare ogni discorso sul conflitto, ogni ragione di lotta, ogni espressione di ostilita' dell'inimicizia nei corpi e tra i corpi. Judith Butler ha descritto le pratiche metaforiche - lasciarsi cadere come morti, tracciare le sagome sul terreno, in modo che restino, per non dimenticare le vittime dell'aggressione - con le quali i pacifisti negli Usa hanno reinserito nel linguaggio politico, nel simbolico, l'esperienza di quello che l'odio puo' fare ai corpi. E' un modo per non rimuovere questo aspetto del conflitto, dal lato dell'offesa, senza schiacciarlo sulla distruttivita'. * Per gli uomini, lo ha detto Manuela Fraire in una riunione di "Balena", non poter reagire direttamente all'offesa equivale a non poter vivere e pensare il conflitto. Questo spinge chi e' offeso a desiderare di essere forte come il nemico; ma in tal modo la sua differenza dall'aggressore verra' negata in profondita'. Anche per noi donne non poter rispondere all'offesa adombra l' impotenza, ma la conflittualita' con l'altro oscilla sempre tra odio e amore, non possiamo concentrarci solo su uno dei due poli. E conosciamo troppo bene la spinta ma anche il costo e le disillusioni del desiderio di essere come l'altro. Ha scritto Luisa Muraro che, nonostante il loro strapotere, dopo l'11 settembre si avverte forte negli Usa un bisogno di amore, e ha ricordato che la maggioranza delle donne da' priorita' all'amore, mentre la gran parte degli uomini sembra ignorarlo. Tenere conto del bisogno di amore da parte dell'altro, potenzialmente nemico, e' per me una condizione per non intendere la pace come un bene assoluto, destinato a prender forma dove finisce la conflittualita', e dunque a restare un fine ultimo, irrealizzabile, dell'agire politico, ma non ad esserne introiettato, a determinarne le possibilita' ed i mezzi. Viceversa, tener conto dell'odio mi sembra necessario per recuperare la funzione positiva della conflittualita', sganciandola dall'opposizione distruttiva tra amico e nemico. Non vedo altro modo di sfuggire all'alternativa tra una pace impolitica ed una politica guerriera. E non vedo come si possa farlo se donne ed uomini non mettono in gioco la differenza sessuale, sottraendola a posizioni speculari che troppo ancora la irrigidiscono. 3. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: UNA TESTIMONIANZA SULLA STRAGE DI SAMARRA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 dicembre 2003. Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma); e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso, ed e' stata nuovamente in Iraq nei giorni scorsi] La precisione con cui il colonnello Usa Bill MacDonald aveva riferito dell'uccisione di 54 "combattenti nemici" negli scontri di domenica scorsa a Samarra, aveva destato subito dei sospetti. Non solo perche' il comunicato americano contrastava con la versione irachena che parlava di una decina di vittime, tutte civili, ma anche perche' i cinquanta cadaveri di presunti feddayn non erano mai stati trovati e tutte le immagini mostravano invece civili morti e soprattutto feriti - molti - comprese donne e bambini. La verifica delle notizie sul massacro piu' pesante commesso dalle truppe americane da quando il presidente Bush ha dichiarato finita la guerra, il primo maggio, si presentava difficile. Ma la prima sconfessione della versione del Pentagono e' arrivata attraverso un sito internet aperto da un veterano della guerra del Vietnam (di cui ancora porta come ricordo una pallottola conficcata nella gamba sinistra), pluridecorato, il settantaduenne colonnello in pensione David Hackworth, ripreso ieri dal quotidiano britannico "The Independent". Sul suo sito (www.hackworth.com) Hackworth, che abbiamo avuto modo di incontrare alla vigilia della guerra, ha pubblicato la testimonianza ricevuta da un soldato della Quarta divisione di fanteria (firmato: a combat leader) - che il colonnello assicura di conoscere e per il quale garantisce - che ha partecipato agli scontri di Samarra. Si legge nella testimonianza "... la maggior parte delle vittime erano civili, non ribelli o criminali... La risposta alle imboscate ben coordinate era quella che ci si aspettava. Il convoglio e' andato avanti sparando a qualsiasi target che poteva apparire come una possibile minaccia. Quando un Rpg ha sparato da una casa, il carro armato ha distrutto la casa... Le Roe (regole di ingaggio) per 'Pugno di ferro' sono tali che i soldati Usa considerano edifici, case, macchine come ostili se il fuoco nemico parte da li' (senza considerare coloro che si trovano all'interno)... La logica e' di rispondere a un attacco con la nostra superiorita' di fuoco per uccidere i ribelli... Non tutta la gente in questa citta' era ostile, ma abbiamo visto molte persone che sembravano civili sparare dai tetti e dalle strade, non erano i feddayn di cui ha parlato la stampa... Stiamo inducendo molti iracheni a ribellarsi contro di noi e sono spaventato perche' invece di uscire dal buco, stiamo sprofondando sempre piu'". Vengono cosi' chiariti molti dei dubbi sulla domenica di sangue a Samarra che era coincisa con la fine del mese di novembre,il piu' sanguinoso anche per gli americani con 79 soldati uccisi. * L'ostilita' e' destinata ad aumentare con l'atteggiamento sempre piu' brutale adottato dagli americani nei confronti della popolazione con le punizioni collettive che rendono ancora piu' drammatiche le condizioni di vita. Tra l'altro continua a mancare la benzina in Iraq, il paese al secondo posto al mondo per le sue riserve di petrolio! E continuano gli attacchi alle truppe americane e spesso a pagarne il prezzo sono anche gli iracheni. E' successo anche ieri a Baghdad: una mina con comando a distanza e' esplosa al passaggio di un convoglio uccidendo un soldato e quattro iracheni, almeno venti i feriti, tre militari Usa e gli altri civili iracheni tra cui due donne e un bambino. Lo scoppio dell'ordigno, piazzato su una via commerciale di Baghdad e poco lontano da una moschea sunnita affollata all'ora della preghiera, ha colpito anche un pullmino che sopraggiungeva sul lato opposto rispetto a quello del convoglio militare. Sale cosi' a 190 il numero dei militari americani uccisi dopo la "fine" della guerra. * Mentre in Iraq si muore, Bush e alleati sono preoccupati del business della ricostruzione che tarda a decollare, per problemi di sicurezza e per l'ipoteca rappresentata da un debito estero di circa 130 miliardi di dollari, di cui il presidente della Banca mondiale James Wolfensohn auspica la cancellazione, se non di tutto almeno di due terzi. Intanto Bush ha nominato l'ex segretario di stato James Baker suo inviato personale per la questione del debito in l'Iraq. Baker, amico di famiglia oltre che sostenitore della prima guerra del Golfo e artefice della vittoria elettorale di Bush in Florida, dopo il caos delle schede, ora si occupera' della ristrutturazione del debito iracheno. Proprio mentre a Roma e' stato firmato ieri dalle Agenzie di credito all'esportazione di sedici paesi interessati alla "ricostruzione" in Iraq, dalla Coalition provisional authority (Cpa) e dalla Trade bank of Iraq, un accordo quadro che permettera' il finanziamento di esportazioni in Iraq di beni e servizi per un valore di 2 miliardi di euro. Per quanto riguarda l'Italia, la Sace offira' garanzie a breve per 250 milioni di euro per l'export di beni di consumo. In mancanza delle condizioni necessarie per programmi di ricostruzione e per evitare di mandare lavoratori italiani in un ambiente a rischio, l'Italia si limitera' per ora ad invadere il mercato iracheno, senza rischiare nulla. Le garanzie dell'export saranno coperte dai ricavi della vendita del petrolio. Questo e' il futuro della Oil for food, passata a novembre sotto gestione americana. 4. MAESTRE. ELENA LAURENZI: UN PROFILO BIOGRAFICO DI MARIA ZAMBRANO [Ringraziamo Elena Laurenzi (per contatti: laurenzi_elena at dada.it) per averci messo a disposizione questo suo testo apparso alcuni anni fa sulla rivista "Elle". Elena Laurenzi e' nata nel 1961. Si e' laureata in filosofia presso l'Universita' di Pisa. Dal 1988 al 1993 ha vissuto a Barcellona in Spagna, dove nel 2001 ha ottenuto il dottorato in filosofia con una tesi sulla filosofa spagnola Maria Zambrano. E' membro del seminario permanente "Genere e Filosofia" dell'Universita' di Barcellona. Dal 1993 vive a Firenze. Ha pubblicato vari saggi, tra cui: I mostri della ragione. Il Frankenstein di Mary Shelley e l'utopia scientifica del secolo XIX, in AA. VV., Filosofia, donne, filosofie. Atti del convegno internazionale, Milella, Lecce 1994; I nervi sensibili della realta'. Una lettura delle "Riflessioni su Christa T." di Christa Wolf, in "Duoda. Revista d'Estudis Feministes" n. 6, 1994, Barcelona; La filosofia ligera de Maria Zambrano, in AA. VV., Actas del secundo congreso internacional sobre la vida y la obra de Maria Zambrano, Fundacion Maria Zambrano, Velez Malaga 1998; Il cammino in salita della memoria, in "Aut Aut" n. 279, maggio-giugno 1997; Il sapere dell'anima, in "Iride" n. 22, dicembre 1997. Ha curato la selezione e la traduzione dei testi di Maria Zambrano per il numero monografico di "Aut Aut", Maria Zambrano pensatrice in esilio, n. 279, maggio-giugno 1997. Ha tradotto e curato i saggi di Maria Zambrano: Dell'aurora (Marietti, Genova 2000); All'ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima (Il Saggiatore, Milano 1996), Le parole del ritorno (Citta' Nuova, Roma 2003). Fa parte del seminario internazionale "Donne contro i fondamentalismi" promosso dalla Associazione Testarda, e dirige il sito web "Women for Women, donne contro i fondamentalismi" (www.wforw.it). Ha collaborato ai testi della mostra "Afghanistan conteso" a cura di Pia Ranzato, e del catalogo omonimo. Sull'esperienza delle donne afghane di "Rawa" ha scritto il saggio 8 marzo con Rawa, pubblicato in "Quaderni del Fondo Moravia", 2002. Maria Zambrano, insigne pensatrice spagnola (1904-1991), allieva di Ortega y Gasset, antifranchista, visse a lungo in esilio. Tra le sue opere tradotte in italiano cfr. almeno: Spagna: pensiero, poesia e una citta', Vallecchi, Firenze 1964; I sogni e il tempo, De Luca, Roma 1964; Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano 1991; I beati, Feltrinelli, Milano 1992; La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, La Tartaruga, Milano 1995; Verso un sapere dell'anima, Cortina, Milano 1996; La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997; All'ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997; Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998; Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998. L'agonia dell'Europa, Marsilio, Venezia 1999. Dell'aurora, Marietti, Genova 2000; Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000; L' uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001; Le parole del ritorno, Citta' Nuova, Roma 2003. Opere su Maria Zambrano: un buon punto di partenza e' il volume monografico Maria Zambrano, pensatrice in esilio, "Aut aut" n. 279, maggio-giugno 1997] "Rosa cara, ho sempre creduto in te... tu possiedi il sapere di tante donne geniali che non hanno scritto: Diotima di Mantinea, mia madre, certe domestiche... e quando questo si verifica in una donna che sa scrivere, allora, Rosa cara, bisogna proprio scrivere. Si', devi farlo". Il desiderio di restituire voce e dignita' al sapere femminile che emerge in questa lettera diretta alla amica e romanziera Rosa Chacel, anima profondamente la filosofia di Maria Zambrano. Tra le grandi pensatrici del secolo XX - Simone Weil, Hannah Arendt, Edith Stein-, Maria Zambrano e' quella che con piu' nettezza rivendica il fatto di essere una donna filosofa, e che a partire da questa consapevolezza denuncia i limiti del pensiero occidentale e concepisce un modo diverso di fare filosofia. La grandezza e l'originalita' della sua opera sta nella capacita' di riunire filosofia e poesia, pensare e sentire, intelletto e cuore. "Non pensiamo che la donna debba diventare uguale all'uomo; per certi aspetti dovrebbe essere il contrario" scriveva in un articolo giovanile. * Maria Zambrano nasce il 22 aprile del 1904 a Velez Malaga: un piccolo paesino del sud della Spagna cullato dalle note profonde del "Cante Jondo" e bagnato dalla luce andalusa, il cui ricordo la accompagnera' per tutta la vita. Suo padre don Blas Zambrano e' direttore della scuola elementare del paese. Grande pedagogo ed attivista repubblicano, e' per lei "il primo maestro di filosofia": colui che le insegna a pensare e a cercare la verita'. La madre, dona Araceli Alarcon, e' maestra: e' una creatura dotata di una sensibilita' speciale, e i suoi "grandi occhi chiari" diventano verdi, "quasi fosforescenti", quando, di fronte ad episodi apparentemente insignificanti dell'attualita', si abbandona a visioni premonitrici. Da lei Maria apprende la conoscenza che nasce dal sentire, dall'intuizione, dalla memoria. Fin da piccola dimostra una intelligenza e una sensibilita' fuori dal comune, spesso scomode. Affascinata dal monumento dei Templari di Segovia - dove trascorre l'infanzia e l'adolescenza - vuole entrare nell'ordine. Suo padre e' costretto a spiegarle che esistono ambiti inaccessibili per una donna. E' una questione che le rimane "in sospeso nell'anima": "perche' io non volevo rinnegare la mia condizione femminile, ma volevo renderla compatibile con l'essere un cavaliere, e precisamente un templare". Si manifesta gia', in questa crisi infantile, la volonta' di sfuggire al bivio mortificante che obbliga le donne a scegliere tra una "infelice maternita'" e un "banale tentativo di emancipazione" che le assimila tout court al modello maschile. Maria e' estranea ad ogni ortodossia, anche nella religione. Ha cara la tradizione cattolica in cui e' cresciuta: legge Sant'Agostino, Pascal, i grandi mistici del Seicento. Ma la sua ricerca spirituale si estende al Corano, alle Upanisad, ai mistici sufi. Prega piu' "sentendo la poesia, il pensiero, l'amore" che andando in chiesa. E dichiara in una intervista: "non mi interessa Dio quando me lo nominano cosi', brutalmente, come se mi tirassero una pietra in faccia: e' il divino nell'uomo che mi affascina...". La decisione di studiare filosofia e' anch'essa una scelta di rottura. Una filosofa, nella Spagna degli anni '30 e' quasi una curiosita' da circo. Solo da pochi anni l'universita' ha aperto le porte alle donne e, soprattutto nelle provincie, l'ambito degli studi superiori resta prevalentemente maschile: quando Maria si iscrive al liceo di Segovia, e' l'unica ragazza del suo corso. * I primi approcci con la filosofia non sono facili, e piu' di una volta e' tentata di abbandonare gli studi. Si sente smarrita di fronte alle astrazioni del pensiero "puro", e avverte con preoccupazione che le verita' filosofiche restano quasi sempre "dure, invulnerabili, sterili e impotenti", di fronte alle inquietudini dell'esistenza. A poco a poco decide che la soluzione non e' abbandonare la filosofia, ma trasformarla dal di dentro: concepire una filosofia "misericordiosa", che sia cammino di vita per l'essere umano, e lo aiuti a vivere autenticamente "decifrando cio' che sente": "Io non ho vissuto di idee, ma di esperienze: non conosco niente che non abbia al tempo stesso sofferto e patito". Questa sua "pietas" profonda, questo sapere dell'esperienza, e' il segreto del suo carisma. Cioran, che la conosce ancora studentessa a Madrid, la ricorda per la sua conversazione che "ci riporta a noi stessi, alle nostre mal definite preoccupazioni, alle nost re perplessita' virtuali... ognuno di noi desidererebbe consultarla arrivando a un bivio della nostra vita... perche' lei ci riveli e ci spieghi a noi stessi, riconciliandoci con le nostre impurita', con le nostre indecisioni, con i nostri stupori". A Madrid Maria frequenta i corsi del filosofo Jose' Ortega y Gasset. E' un'allieva brillante che comincia presto a pensare con la propria testa. Nel suo primo articolo per la rivista diretta da Ortega sostiene che la filosofia deve rompere l'egemonia della mente per farsi carico dell'essere umano nella sua interezza, e denuncia l'assenza, in ambito filosofico, di un "sapere dell'anima" capace di comprendere le "ragioni del cuore". Ortega, pur pubblicandolo, accoglie con freddezza il saggio, accusandola di mancanza di obiettivita'. Ma e' soprattutto l'audacia della allieva che sembra colpirlo: "Noi siamo ancora qui e lei ha voluto fare il salto al di la'", e' la sua obiezione. * La filosofia convive in lei con la politica, intesa in senso ampio come preoccupazione per il mondo condiviso. Ancora in Spagna, negli anni dell'universita', partecipa alla fondazione della Lega di Educazione Sociale che riunisce studenti, cattedratici ed intellettuali liberali nella lotta contro la dittatura di Primo de Rivera. Tiene comizi, scrive, partecipa alle rocambolesche Missioni Pedagogiche volte ad istruire e sensibilizzare le popolazioni delle montagne: "le persone attorno a me mi chiedevano di scegliere tra la filosofia e la politica. Io non potevo. La filosofia era irrinunciabile per me, ma piu' irrinunciabili ancora erano la vita, il mondo...". Tuttavia, quando la Repubblica viene proclamata, rifiuta l'offerta di candidarsi al parlamento per continuare a insegnare filosofia. Ma alla notizia dello scoppio della guerra civile rientra precipitosamente dal Cile con il marito, lo storico Alfonso Rodriguez Aldave, per partecipare alla difesa della Repubblica. "Rientrai - sottolinea - benche' sapessi che la guerra era persa; o meglio proprio perche' la guerra era persa". E' un atto estremo di presenza, la risposta all'appello di una circostanza storica che esige di schierarsi. Partecipa alla resistenza come Consigliera della Propaganda e come Consigliera della Infanzia Evacuata. Con la vittoria definitiva del dittatore Franco e' costretta alla fuga. Varca la frontiera spagnola il 28 gennaio 1939, sotto un cielo plumbeo, nel fiume interminabile e spettrale dei profughi che lasciano, alcuni per sempre, il suolo spagnolo. * Per lei e' l'inizio di un esilio che durera' oltre 45 anni. E benche' dichiari di non essersene in realta' mai andata, benche' affermi la sua intima appartenenza alla Spagna, si rifiuta categoricamente di tornare in patria anche solo per impartire una conferenza, finche' la dittatura rimane in piedi. E tuttavia si proibisce la nostalgia, diversamente da tanti esuli spagnoli che per anni non disfano la valigia, in attesa di un prossimo ritorno. Lei, come una chiocciola, porta con se', nelle sue peregrinazioni, solo i suoi libri, e il suo lavoro: una massa enorme di scritti, appunti, materiali inediti. L'esilio e' una condizione cui aderisce con tutto il suo essere, resistendo alla tentazione di rifarsi una nuova vita, una nuova normalita', una nuova patria. Si converte dunque in una esiliata, una presenza errante, indefinibile, scomoda. Sceglie di vivere a Cuba, rifiutando gli inviti di altri paesi come il Messico o l'Argentina dove pure la vita intellettuale e' piu' vivace e mondana, e dove le sarebbe piu' facile ottenere riconoscimenti accademici. La piccola isola caraibica, sospesa tra cielo e terra, la colpisce come un amore "ancestrale, vecchissimo". In essa riconosce una sorta di "patria prenatale". E' a causa della luce, che si posa sulla terra dolcemente per poi penetrarvi, e che le ricorda l'Andalusia della sua infanzia; ma e' soprattutto grazie all'amicizia e la solidarieta' di tanti cubani - tra cui Jose' Lezama Lima e i poeti della rivista "Origenes" - solidali con la causa repubblicana. Vive di espedienti, di lezioni private, di collaborazioni, dell'aiuto di amiche e collaboratrici del "Lyceum Club", un attivo circolo femminile dell'Avana. Non ha - e non avra' mai - una cattedra all'universita', ma tiene numerosissimi seminari e conferenze. Il ricordo di lei e' rimasto vivo nei suoi allievi di allora che rievocano il suo inseparabile bocchino e la sua voce sottile come un filo, che arrivava fin negli angoli piu' remoti della stanza, e penetra fino in fondo, fin nell'intimo, dice il poeta cubano Cintio Vitier. * All'Avana, nel 1950, la raggiunge la sorella Araceli, che nell'inferno dell'Europa in guerra ha sofferto - esule spagnola in Francia - le sevizie e le torture delle SS, perdendo il marito e la madre. Le due sorelle iniziano una relazione simbiotica. Araceli - "il piu' bel regalo della mia vita, da cui ho appreso l'insegnamento piu' importante, quello della sorellanza" - e' per Maria una spalla, una compagna, una forza. "Maria e' Maria, ma Araceli le permette di essere", riflette un'altra delle sue allieve cubane, Bella Garcia Marruz. E' Araceli che la spinge fisicamente nella sala delle conferenze, obbligandola a superare quella resistenza che Maria non manca di provare di fronte al pubblico, sia esso composto da un solo studente o dalla intellettualita' piu' insigne. "Accompagnata da Araceli, Maria non teme ne' il gelo ne' il fuoco" recita una poesia dell'amico Lezama Lima. Ed e' accompagnata da Araceli che Maria fa ritorno in Europa. A Roma, dal 1953 al 1964, vive in un piccolo appartamento in Piazza del Popolo pieno di gatti; collabora attivamente con la rivista "Botteghe Oscure" diretta da Elena Croce, e stringe amicizia con Cristina Campo ed Elemire Zola. Nel '64 Maria e Araceli si trasferiscono nella piccola localita' di La Piece, in Svizzera, dove conducono una esistenza felice in una casetta al limitare del bosco. La' Maria scrive alcune tra le sue pagine piu' intense, che confluiranno poi in Dell'aurora: un libro che e' quasi un compendio della sua filosofia e al tempo stesso una sorta di testamento spirituale. Perche' oltre a essere una chiave di lettura della realta' e tema ricorrente nella sua opera, l'aurora e' per Maria un'esperienza di vita: "All'Avana, uscivo presto la mattina per attendere, stesa sulla sabbia, l'arrivo dell'aurora... ho sempre camminato cercando l'aurora, mai il tramonto; ed ho sofferto per tante aurore gettate in pasto all'occaso". Favorita dalla sua insonnia perpetua scrive di notte, e i manoscritti spesso riportano le ore e la luce che li ha visti nascere. Di giorno e' troppo occupata a cercare una soluzione ai suoi eterni affanni economici e a curare Araceli, la cui salute fisica e psichica precipita velocemente. Per mesi non abbandona la sorella nella sua lentissima agonia, finche' questa la supplica: "Maria, lasciami andare che ti sento avviluppata a me come una serpe!". La morte di Araceli rappresenta per Maria un colpo durissimo, ed apre un periodo estremamente difficile. * Le sue condizioni di salute diventano precarie, e di conseguenza anche quelle economiche peggiorano. Perde progressivamente la vista, e ha bisogno dell'assistenza costante di qualcuno. Nel 1975 muore il dittatore Franco. Ma per il ritorno in patria, tanto atteso, dovra' attendere ancora dieci anni, quando, in seguito ai riconoscimenti ufficiali e alle menzioni d'onore che ottiene, il governo socialista si risolve ad assegnarle un vitalizio e una casa a Madrid, dove poter tornare. Torna nella sua Spagna il 20 novembre del 1984. Ad accoglierla all'aereoporto di Madrid, per sua esplicita richiesta, non c'e' nessun ricevimento ufficiale, solo la presenza di alcuni amici. Il rientro in Spagna segna l'inizio di un nuovo periodo felice. Maria lo vive come una grazia. Riceve le visite di amici vecchi e nuovi, tra cui quelle di numerosi giovani poeti che avviano con lei rapporti di amicizia e di collaborazione. Riprende in pieno la sua attivita' letteraria. Pubblica nuovi articoli, che detta in un registratore, perche' non e' piu' in grado di scrivere. E, aiutata da collaboratori ed amici, lavora intensamente alla rielaborazione e alla pubblicazione delle sue numerose note, frammenti e scritti rimasti inediti o divenuti irreperibili. Nel 1987 si costituisce, a Velez Malaga, la Fondazione Maria Zambrano. Nel 1988 riceve il prestigioso Premio "Miguel de Cervantes": e' la prima donna ad esserne insignita. Il precipitare delle condizioni di salute, che le procurano assenze prolungate, non le impedisce di dettare ancora, in momenti di calma lucida e gioiosa, alcuni articoli. L'ultimo, pubblicato nel novembre 1990, e' "Pericoli per la pace": un testamento per la pace, un ultimo atto di speranza, composto di fronte all'orrore della guerra nel Golfo Persico. A mezzogiorno del 6 febbraio del 1991 Maria Zambrano muore, nell'ospedale "La Princesa" di Madrid. E' seppellita a Velez Malaga, nel piccolo cimitero locale, in una casetta tra un arancio e un limone, costantemente visitata dai gatti. La lapide, per suo volere, porta incisa una frase del Cantico dei cantici: "Surge, amica mea, et veni". 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it, angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 754 del 9 dicembre 2003
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