La nonviolenza e' in cammino. 753



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 753 dell'8 dicembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Da Verona a Venezia
2. Severino Vardacampi: Europa antifascista, Europa nonviolenta
3. Maria Luisa Boccia: ripensare la politica per pensare politicamente il
mondo
4. Amelia Crisantino: globalizzazione e questione meridionale. Una
riflessione in Sicilia
5. Due note sull'azione diretta nonviolenta
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. DA VERONA A VENEZIA
Il giorno 8 dicembre 2003 a Venezia muove un passo ulteriore la proposta,
formulata da tempo da Lidia Menapace e dalla "Convenzione permanente di
donne contro le guerre" e tradotta in appello lo scorso 8 novembre a Verona,
di un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e
nonviolenta.
Una proposta aperta e inclusiva che vuole chiamare l'intero "popolo della
pace" europeo ad uscire dalla subalternita' e dalle ambiguita', a non
delegare piu' a ristrette oligarchie le decisioni che tutti riguardano, ad
essere soggetto attivo non solo culturale e sociale, ma politico in senso
pieno e forte: a prendersi la responsabilita' di dire quale Europa vogliamo
costruire, con quali regole e quali strutture, quali programmi e quali
istituti; a prendersi la responsabilita' di fare della nonviolenza una
scelta decisa e decisiva, non solo assiologica e metodologica, ma politica e
giuriscostituente; a proporre un proprio programma costruttivo nonviolento
per l'Europa su cui chiamare alla riflessione e al dialogo e alla lotta, su
cui costruire un confronto con tutti gli altri soggetti - politici ed
istituzionali, su cui spostare i rapporti di forza verso la scelta della
pace con mezzi di pace, verso la scelta dell'affermazione di tutti i diritti
umani per tutti gli esseri umani, verso la scelta della nonviolenza.
*
Un'Europa neutrale e attiva: vale a dire che rifiuti la belligeranza, ripudi
ogni guerra, ed a tutte le guerre si opponga, si opponga attivamente con
politiche, istituti e interventi di pace.
Un'Europa disarmata e smilitarizzata: poiche' senza disarmo e senza
smilitarizzazione non si contrasta la guerra, non si sconfigge il
terrorismo, non si difende la democrazia, non si salva l'umanita' dalla
catastrofe.
Un'Europa solidale e nonviolenta: che accolga tutti, che cooperi con tutti,
che dialoghi con tutti, che a tutti offra ascolto e aiuto, a tutti riconosca
diritti, informi il suo agire alla solidarieta'; che si impegni per
relazioni internazionali e un diritto internazionale cosi' come definiti nel
preambolo della carta delle Nazioni Unite - le Nazioni Unite dei popoli, e
nella Dichiarazione universale dei diritti umani; che faccia della
nonviolenza il principio informatore delle sue enunciazioni giuridiche ma
anche delle sue strutture operative e della sua politica concreta.
*
Un'Europa spazio politico di donne e di uomini di volonta' buona, della
partecipazione di tutti al bene comune, della difesa della biosfera, del
rispetto dei diritti delle generazioni presenti e di quelle future (e
dell'eredita' delle passate), di relazioni coi popoli e le culture del sud
del mondo non piu' fondate sulla rapina e la denegazione, ma sulla
restituzione di quanto sottratto e sperperato lungo secoli e secoli, e sul
riconoscimento della comune preziosa irriducibile inalienabile umanita'.
Un'Europa della democrazia e dell'umanesimo integrale. Della gestione e
risoluzione nonviolenta dei conflitti. L'Europa della difesa popolare
nonviolenta e dei corpi civili di pace. L'Europa della scelta socialista e
libertaria che presagi', penso', propose Aldo Capitini, e con lui, come lui,
alcune delle figure piu' belle - piu' nitide e piu' luminose - della
contraddittoria storia di questo martoriato continente: da Rosa Luxemburg a
Simone Weil.

2. RIFLESSIONE. SEVERINO VARDACAMPI: EUROPA ANTIFASCISTA, EUROPA NONVIOLENTA
Nell'usura e nello svuotamento del linguaggio che consente anche ai
neofascisti di dirsi antifascisti, anche ai golpisti di dirsi legalitari,
anche ai totalitari di dirsi liberali, anche ai rapinatori di dirsi
socialisti, l'appello "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e
smilitarizzata, solidale e nonviolenta", ha un merito grande, anzi due.
Il primo merito: la chiarezza del linguaggio, il rigore delle idee, la
concretezza e inequivocabilita' delle proposte. Non e' casuale che questa
riflessione e questo progetto nascano dal pensiero e dalla pratica del
movimento delle donne, ed abbiano trovato la principale elaboratrice e quasi
figurale individuazione in Lidia Menapace, che della storia dei movimenti di
liberazione in Italia - dalla Resistenza al movimento delle donne - e' una
sorta di monumento vivente (che alla monumentalita' sa sottrarsi con
l'ironia e la leggerezza, la tenerezza e l'agilita' con cui sa porsi
all'ascolto e rimettersi in gioco, sempre costruendo ponti e relazioni,
aprendo spazi di liberta' ed incontro, nuovi suscitando movimenti e pensieri
nuovi suscitando).
Il secondo merito: l'eredita' piu' rilevante dell'antifascismo, ed il suo
piu' nitido inverarsi - lo si avverte con sempre maggior chiarezza - e' la
nonviolenza. La nonviolenza e' il cuore della Resistenza che si prolunga in
processo-progetto di liberazione asintotico e aperto, cogente e creativo: e
non e' casuale che Aldo Capitini - l'antifascista apostolo della nonviolenza
in Italia - sia stato all'origine e nel cuore di una delle esperienze piu'
limpide e preziose dell'antifascismo, e non e' casuale che nell'Italia
repubblicana volle proporre ancora altre vie, altre forme, altri varchi di
partecipazione popolare, di inveramento degli ideali dell'antifascismo e
della Resistenza, di spinta al passaggio dalla mera cornice formale della
democrazia all'integrale espressione di essa nella concretezza e nella
pienezza del "potere di tutti". Questa nonviolenza non solo e' la
"nonviolenza del forte" di gandhiana memoria, e' anche la nonviolenza che ci
piace chiamare giuriscostituente: ovvero un progetto e una ricerca e
un'azione - una scelta logica e morale e un movimento storico - non solo
testimonale, pedagogica, sociale, ma anche propriamente politica nel senso
piu' ampio e piu' forte: capace cioe' di essere fondativa non solo di
generica socialita' ma anche di costumi, e di leggi, e di istituzioni: quel
che forma la civile convivenza, il libero federarsi delle persone e delle
comunita', l'ordinamento giuridico nel senso piu' universale.
Ci pare che la proposta di Lidia Menapace abbia il merito quindi di cogliere
e proporre questo significato della nonviolenza, e di tradurlo in proposta
ed azione politica con un riferimento concreto: l'Europa, che oggi si trova
davvero ad un bivio. Come Ercole in quel luogo classico.
*
Ed ineludibili vi sono oggi tre questioni che costituiscono altrettante
sfide cui le persone amiche della nonviolenza sottrarsi non possono:
- l'azione affinche' si ottenga il ritiro dall'Iraq delle forze armate di
invasione e occupazione: azione necessaria ed urgente per contrastare i
terrorismi tutti, ripristinare il criterio fondativo del diritto
internazionale (e per quanto riguarda il nostro paese anche per rientrare
nella legalita' costituzionale violata dai poteri golpisti dell'eversione
dall'alto), riaprire spazi di gestione e risoluzione politica ai conflitti
internazionali, fermare una processione di crimini, una crescente valanga di
stragi che possono travolgere ed annichilire l'umanita' intera;
- una sostanziale modifica del testo della cosiddetta Costituzione europea:
affinche' in essa si affermi con chiarezza l'impegno dell'Europa ad essere
soggetto costruttore di pace con mezzi di pace; e quindi vi si dichiari il
ripudio della guerra, si scelga la neutralita', si indichino nella difesa
popolare nonviolenta e nei corpi civili di pace le forme appropriate di
intervento nell'ambito della politica "di sicurezza e cooperazione"
(insieme, ovviamente, ad altre iniziative costruttrici di dialogo e di pace,
di riconoscimento dei diritti umani per tutti gli esseri umani), si operi
senza indugi per il disarmo e la smilitarizzazione;
- che alle ormai prossime elezioni europee tutti i candidati e tutti gli
schieramenti debbano pronunciarsi pubblicamente e pubblicamente impegnarsi
su quell'insieme di proposte che nella proposta di Lidia Menapace, nei punti
di convergenza del dibattito che ne e' seguito, nell'appello di Verona
dell'8 novembre e in interventi ulteriori sono emerse come criteri e impegni
condivisi tra le persone che hanno raggiunto la consapevolezza della
necessita' e dell'urgenza che l'Europa scelga la nonviolenza e che la
nonviolenza dia forma all'Europa, alle sue leggi, alle sue istituzioni, alla
sua amministrazione pubblica, alla politica sua.
*
Non era scontato il fatto che questo dibattito abbia saputo in questi mesi
interessare e coinvolgere soggetti anche molto variegati: e qui non diciamo
soltanto dell'impegno di personalita' eminenti del movimento delle donne,
degli storici movimenti nonviolenti, di persone ed associazioni in vario
modo impegnate nei movimenti per la pace e i diritti, ma anche di autorevoli
figure istituzionali come ad esempio il vicepresidente del Parlamento
Europeo che su questo stesso foglio e' recentemente intervenuto.
Non era scontato: ma prevedibile si': poiche' a noi sembra che vi sia un
bisogno e un'attesa; che molte coscienze ed intelligenze percepiscano come
matura ed esigano come urgente una proposta nonviolenta per l'Europa.
Perche' e' necessaria la scelta della nonviolenza all'Europa, ed e'
necessaria l'azione persuasa dell'Europa alla nonviolenza.

3. RIFLESSIONE. MARIA LUISA BOCCIA: RIPENSARE LA POLITICA PER PENSARE
POLITICAMENTE IL MONDO
[Ringraziamo Maria Luisa Boccia (per contatti: maluboccia at libero.it) per
averci messo a disposizione questa sua relazione presentata al convegno del
Forum delle donne di Rifondazione comunista su "Radici e prospettive del
femminismo" svoltosi nel dicembre 2001, e pubblicata negli atti del
convegno, 2002. Maria Luisa Boccia e' nata il 20 giugno 1945 a Roma, dove
vive. Dal 1974 lavora all'Universita' di  Siena, e attualmente vi insegna
Filosofia politica. Dagli anni '60 ha preso parte alla vita politica del Pci
e dei movimenti, avendo la sua prima importante esperienza nel '68. Deve
alla famiglia materna la sua formazione politica comunista, e al padre,
magistrato e liberale, la sua formazione civile, l'attenzione per
l'esistenza e la liberta' di ciascun essere umano. Ad orientare la sua vita,
la sua mente, le sue esperienze,  politiche e umane, e' stato il femminismo.
In particolare e' stato il femminismo a motivare e nutrire l'interesse alla
filosofia. La sua pratica tra donne, cominciata nel 1974 a Firenze con il
collettivo "Rosa", occupa tuttora il posto centrale nelle sue attivita', nei
suoi pensieri, nei suoi rapporti. Ha dato vita negli anni a riviste di
donne - "Memoria", "Orsaminore",  "Reti" - ed a diverse esperienze di
gruppi, dei femminili tra i quali ricordare, oltre al suo primo collettivo,
dove iniziano alcune delle relazioni femminili piu' profonde e durevoli,
"Primo, la liberta'", attivo negli anni della "svolta" dal Pci al Pds;
"Koan", con alcune allieve dell'universita'; "Balena", nato dal rifiuto
della guerra umanitaria in Kosovo e tuttora felicemente attivo. E' stata
giornalista,  oltre che docente, partecipa dagli anni '70 alle attivita' del
Centro per la riforma dello Stato, ha fatto parte della direzione del Pci,
poi del Pds, ed ha  concluso questa esperienza politica nel 1996. Vive da
molti anni con Marcello Argilli, scrittore per l'infanzia, e non ha figli.
Ha scritto articoli, saggi, ed elaborato  moltissimi interventi, solo in
parte pubblicati, per convegni, incontri, iniziative. Tra i suoi scritti
recenti: Percorsi del femminismo, in "Critica marxista" n. 3, 1981; Aborto,
pensando l'esperienza, in Coordinamento nazionale donne per i consultori,
Storie, menti e sentimenti di donne di fronte all'aborto, Roma 1990; L'io in
rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990; con
Grazia Zuffa, l'eclissi della madre. Fecondazione artificiale, tecniche,
fantasie, norme, Pratiche, Milano 1998; La sinistra e la guerra, in
"Parolechiave" nn. 20/21, 1999; Creature di sabbia. Corpi mutanti nello
scenario tecnologico, in "Iride" n. 31, 2000; L'eredita' simbolica, in
Rossana Rossanda (a cura di), Il manifesto comunista centocinquanta anni
dopo, Manifestolibri, Roma 2002; Miracolo della liberta', declino della
politica. Rileggendo Hannah Arendt e Simone Weil, in Ida Dominijanni (a cura
di), Motivi di liberta', Angeli, Miano 2001; La differenza politica. Donne e
cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002]

E' difficile  svolgere  una riflessione  sul tema di questo incontro,
legando con uno stesso filo radici e prospettive della politica femminile e
femminista.
Nella situazione attuale sento piu' forte lo scarto tra la scena politica
"ufficiale", segnata da alcuni rilevanti eventi, come la vittoria elettorale
della Casa delle liberta',  il movimento sulla globalizzazione ed i fatti di
Genova, il crollo delle Torri a New York, la guerra in Afghanistan... e
quella della politica sessuata scandita, in parte almeno, da altri momenti
significativi.
Per dire subito un aspetto che qualifica la mia posizione, sulla quale
vorrei discutere, la politica mi appare sempre piu pericolosamente segnata
da atti di onnipotenza, provenienti dalle forze  piu' disparate. Considero
tali sia l'attacco terroristico che la guerra, attuata come la sola
"risposta appropriata" contro la minaccia delle organizzazioni terroriste
islamiche. Ma vedo onnipotenza non solo nei gesti distruttivi, nei veri e
propri propositi di sterminio di quello che appare "il nemico", per l'una o
l'altra parte. La vedo anche nei progetti di fabbricazione del vivente, che
animano tanta parte della  ricerca scientifica e della sperimentazione
medica, attuata con le  biotecnologie. Come c'e' onnipotenza nella pretesa
di governare l'economia in forme "globali", controllando le risorse ed i
flussi della ricchezza in tutto il pianeta, secondo una presunta logica
unitaria e compatta del potere economico.
*
In questa corsa sempre piu' veloce al controllo sulla vita, nel divenire
sempre piu' evidente della centralita' della "biopolitica", agisce, se non a
livello cosciente certo nell'immaginario collettivo, la percezione che sia
in gioco la sopravvivenza della specie umana e del pianeta; siamo cioe'
pervenuti a delle soglie cruciale, oltre le quali non vi e' possibilita' di
cambiare rotta, di mettere riparo alle distruzioni ed ai pericoli attivati.
Non penso a ben definiti disegni, perseguiti da questa o quella forza
dominante, la quale mette in conto anche un tasso molto alto di rischio, pur
di mantenere e rafforzare il suo dominio. Penso invece ad una diffusa e
crescente perdita di orizzonte di senso, che investe gli stessi centri del
potere e del sapere, e soprattutto pervade l'ampia ed articolata sfera
pubblica, chiamata nel suo insieme a  formarsi una rappresentazione
latamente comune degli eventi "globali".
Dopo l'11 settembre e' divenuto un luogo comune affermare che "niente e'
piu' come prima", riconoscendo, sembrerebbe, la perdita di senso che gli
eventi producono, e dunque la necessita' primaria, di "ripensare" il mondo,
revisionando l'intera cassetta degli attrezzi di cui disponiamo. Bene, si
ripete l'enunciato, e subito dopo ci si affretta a procedere come se niente
fosse mutato, si ricade cioe' nelle vecchie pratiche e nei logori discorsi.
Sono convinta che il primo gesto politico consista invece in una salutare
accettazione dello spiazzamento indotto in noi dagli eventi. E' il solo modo
per evitare la rincorsa esasperata alla semplificazione, alla rigida
definizione di contrapposizioni tra "assoluti", ad esempio tra  Occidente ed
Islam, ma anche tra il valore sacro della vita fin dal concepimento, e la
liberta' di scelta individuale nelle dispute  bioetiche sulla fecondazione
artificiale.
*
Come vivono questa situazione gli uomini e le donne in carne ed ossa, e non
gli opposti schieramenti che presumono di rappresentarli? In cosa si rende
visibile che e' un mondo abitato da uomini e donne e che gli uni e le altre
non sono, verosimilmente, nella  stessa  posizione rispetto a quanto accade?
Per un verso la presenza dei due sessi sembrebbe essere ormai un dato
acquisito, perfino conclamato, al punto che non dovrebbe essere piu'
possibile cancellare le donne dalla  rappresentazione della realta'. Ne
fornirebbe conferma proprio il discorso pubblico sulla guerra in
Afghanistan, rispetto alla quale si e' sostenuto da piu' parti, che tra le
sue "giuste" cause vi e' innanzitutto la necessita' di liberare le donne
dalla pesantissima oppressione esercitata dal fondamentalismo islamico. Come
ha scritto Adriano Sofri su "La repubblica" il vero discrimine tra barbarie
e civilta' consiste nella liberta' delle donne; e' questo il "valore"
occidentale che deve affermarsi in tutto il pianeta, se e' necessario, anche
con le armi. In suo  nome siamo state direttamente chiamate in causa noi
femministe, accusate di attardarci in un silenzio ed un'inerzia sospetti,
dovuti presumibilmente alla prevalenza dell'antiamericanismo sulla doverosa
solidarieta' con le donne afghane.
Vorrei osservare che  nessun appello o rimprovero dello stesso tenore ci
viene rivolto, quando si tratta di contrastare posizioni fondamentaliste che
minacciano la liberta' delle donne in Occidente, da parte di istituzioni
religiose o laiche. Penso alle pretese  arroganti di normare in materia di
procreazione, negando la disparita' tra i sessi, e volendo porre sotto
tutela, dell'autorita' maschile, il corpo femminile e le modalita' di
esercizio della capacita' procreativa. Il corpo sessuato e' tuttora oggetto
di pesanti interdetti o  rimozioni, nonostante la netta contrapposizione di
"valori" sia dominante nel discorso bioetico.
Su quello che non da ora rappresenta il fulcro del conflitto tra i sessi,
ovvero il primato femminile nella procreazione, la civilta' occidentale non
sembra aver  progredito granche', dal momento che  tuttora la differenza
sessuale e' cancellata, ed al suo posto vengono rappresentate altre
rilevanti posizioni, ad esempio quella della  scienza o della morale
religiosa. Dovrebbe essere evidente, ma non lo e', che non puo' esserci
liberta' femminile se non mutando in radice la plurisecolare costruzione del
corpo sessuato e generante, rilanciata, non senza contraddizioni, dalle
pratiche tecnologiche.
Se dunque spostiamo lo sguardo dall'Afghanistan alle nostre societa' ci
accorgiamo che sulle nuove frontiere della scienza biomedica si accendono
dispute sui valori che connotano questa civilta', ma la liberta' delle donne
non e' certo il principale tra di essi. Gli uomini anzi tendono ad occupare
la scena, a dividersi per poi accordarsi tra loro, mantenendo nelle loro
mani il potere di decidere sul corpo femminile. E' questo il fulcro del
fondamentalismo occidentale, e non  mi pare che sia stato seriamente
intaccato dal sostituirsi, in misura crescente, della "fede" nella scienza a
quella nella parola rivelata di un dio. Anche la "verita'" scientifica
poggia infatti sull'oggettivazione del corpo, e sulla riduzione della donna
alla sua funzione riproduttiva. Si crea cioe' una sorta di corto circuito
tra le prospettive inedite di uso dei corpi, aperte dal progresso
scientifico e tecnologico, e quella della liberta' femminile, radicata nel
corpo sessuato.
*
Dunque mentre siamo invitate a schierarci, come donne e femministe, in
ragione dell'offesa alla liberta' delle donne nel mondo islamico, e
nell'Afghanistan in specie,  quando e' in gioco la nostra liberta', nelle
societa' in cui viviamo la nostra parola e presenza pubblica non solo non e'
richiesta, ma e' volutamente ignorata quando si manifesta, in ogni caso e'
drasticamente ridimensionata, in luogo di costituire, come dovrebbe, il
punto di vista  principale ed ordinante.
Ma siamo noi stesse, donne e femministe, che non mettiamo al centro del
nostro discorso e della nostra azione pubblica i rischi e le opportunita'
connessi alle tecnologie, nella procreazione e non solo. Parliamo piu'
facilmente di "globalizzazione" e dei nuovi movimenti, o del ritorno della
guerra, che non di quanto sta accadendo in questo ambito. Probabilmente e'
un silenzio indotto dal bisogno di non farsi sempre e comunque determinare
da questo antico fulcro della esistenza femminile: come se fossimo
condannate a parlare, in pubblico ed in privato, prima di tutto se non
esclusivamente, di maternita' e famiglia.
Ma c'e' anche la difficolta' a mettere a fuoco come si intrecciano  e
dipanano liberta' e rischi per le donne, nello scenario attuale. Dove
dobbiamo abbandonare vecchie chiavi di lettura del patriarcato e dove,
viceversa, sono ancora appropriate? Senza inoltrarmi  in questa analisi
vorrei ribadire che, comunque, dobbiamo prendere atto dello spiazzamento,
prodotto dallo scarto tra la realta' e l'ordine di senso nel quale
andrebbero ricondotti i fatti, per capire ed  agire adeguatamente.
*
Detto altrimenti, sono convinta che c'e' un forte bisogno di politica, ma
che per soddisfarlo occorra prendere molto sul serio il declino della
politica cosi' come l'abbiamo pensata e praticata in passato.
Nonostante la concentrazione dei poteri forti, nonostante il ritorno della
guerra, nonostante i sorprendenti e potenti mezzi tecnologici, la pretesa di
governare e fare ordine "globale" - che e' altra cosa dall'esercitare con
arroganza i privilegi ed imporre la propria unilaterale volonta' -  non mi
sembra possa realizzarsi senza conflitti e tensioni, senza strappi e
lacerazioni, anche gravi, del tessuto della convivenza. Da qui il bisogno di
politica, ma anche la necessita' di non ignorare la crisi che ha investito
tutte le forme della politica. Se si vuole rilanciare la politica, ne vanno
ripensati in profondita' i concetti-chiave, i linguaggi, le pratiche, gli
strumenti, le forme organizzate.
Il "che fare" piu' urgente, a mio avviso, e' proprio questo di ripensare la
politica per pensare politicamente il mondo contemporaneo.
Del resto, lo sappiamo, la politica delle donne ha puntato molto sul pensare
differentemente, a partire dal  punto di vista femminile sulla realta'. Ha
dovuto farlo perche' il pensiero politico non teneva conto dell'esperienza
femminile e dunque bisognava ripartire dal vissuto per poter intervenire
sulla realta' tutta.
Abbastanza prossima a questa posizione mi sembra la scelta
dell'associazione di donne "Rawa", in Afghanistan, di dare priorita'
all'istruzione delle bambine. Ed e' una scelta analoga a quella fatta dalle
donne in Europa nel '700, quando richiesero l'istruzione prima ancora del
voto. Appropriarsi del sapere, della parola pubblica, e' il modo di mettersi
in grado di conoscere e prendere posizione autonomamente sul mondo. Se  non
c'e'  pensiero libero e differente, non c'e' una reale influenza femminile,
inevitabilmente si cade nella ripetizione di idee e azioni rispondenti
all'ordine esistente patriarcale.
*
L'altra questione che vorrei discutere e' se questo inizio di un nuovo
millennio vede uomini e donne piu' vicini, soprattutto in maggiore scambio,
o piu' distanti, in particolare quali attori politici.
Se guardiamo ai movimenti emersi in questa fase, sulla globalizzazione e la
pace, come nei conflitti di lavoro o nella scuola, sembrano tutti
caratterizzati da una compartecipazione di uomini e donne. I due sessi
appaiono  entrambi protagonisti, quindi risulterebbero accomunati nella
scena pubblica. Ma questa  rappresentazione e'  soltanto verosimile, perche'
la vicinanza  e condivisione non e' significata dalla differenza, in
particolare dall'esplicito riposizionamento degli uomini, sulla parzialita'
del proprio punto di vista sessuato. Dove la  differenza si mostra e' nella
modalita' tradizionale della complementarieta'. Piu' spesso pero' si ha una
"confusione", ovvero la differenza femminile viene assimilata, aggiunta,
metabolizzata nella comune appartenenza, culturale e politica, e dunque gli
uomini continuano ad avvantaggiarsi  del neutro-universale. Esemplare, al
riguardo, e' stata la divisione di ruoli, maschile e femminile, nella guerra
in Kosovo. Le donne sono state infatti visibili o come vittime o come le
responsabili piu' attive della missione Arcobaleno. Mentre gli uomini
ricoprivano i panni del guerriero "giusto", dell'eroe che combatte contro il
male, alle donne spettava il compito, altrettanto tradizionale, ma
aggiornato, di limitare o riparare ai danni e alle ferite della guerra.
Nonostante alcune figure come Magdalene Albright  o Condoleeza Rice, mi
sembra che il conflitto simbolico di "civilta'" sia inevitabilmente
incarnato da figure maschili: Bush sr. e Saddam, Clinton e Milosovic, Bush
jr. e Bin Laden. La presenza  femminile, meno nettamente individualizzata,
contribuisce ad "umanizzare" il conflitto.
A me sembra che la complementarieta' nella scena pubblica veda uomini e
donne piu' distanti tra loro.
Innanzitutto essendo sempre meno coloro che sono al centro della scena, ed
essendosi ristretta la rappresentazione dell'agire politico, e' diventato
molto piu' difficile significare la differenza femminile. Questo vale per i
movimenti sociali, come per i partiti e le istituzioni. Anche nel primo caso
infatti sono solo alcuni uomini a dare volto e parola ad una soggettivita'
collettiva, anche se sono molte le donne, e le autonome pratiche femminili,
che la costituiscono. Naturalmente questa dominanza maschile e' ancora piu'
clamorosa nei partiti e nelle istituzioni, dove le donne  presenti, quasi
senza eccezione, si uniformano ai codici e alle regole date, si adeguano
alla competizione (spesso feroce), richiesta dall'imperativo di "esserci", e
ancora piu' di apparire. Per restare all'area politica che conosciamo e che
ci riguarda piu' da vicino, cioe' alla sinistra, in tutta evidenza sia la
sinistra moderata, liberal, sia quella antagonista, vivono una grave crisi,
sia pure in modi diversi. Per entrambe una delle manifestazioni piu' vistose
e preoccupanti e' proprio la personalizzazione, sempre piu' accentuata e
sempre meno giustificata in termini di effettivo esercizio di laedership,
non poggiando su di una reale autorevolezza.
Gli uomini vivono e affrontano questa crisi in modi che non prevedono
l'ascolto e lo  scambio con le donne, in particolare con noi femministe.
La mia esperienza  diretta, o il confronto con altre esperienze, come la
vostra, mi fa dire che oggi il problema principale e' quello di provocare
uno spostamento degli uomini, necessario per ricostruire uno spazio
pubblico, animato da pratiche diverse da quelle richieste dalla logica
mediatico-istituzionale.
Porsi questo problema non significa rimettere al primo posto la
partecipazione delle donne alla politica comune, o "mista", rinunciando, o
subordinando a questo, la costruzione di luoghi, di  pratica e pensiero tra
donne. Al contrario questa delle relazioni tra donne, anche nel separatismo,
e' tuttora una scelta imprescindibile,  anche se si concretizza in modi
diversi dal passato. Solo "tra donne", ad esempio, possiamo dare forma al
nostro modo, da femministe, di porci nella crisi della politica, per
rispondere al bisogno di politica, di donne ed  uomini; contrastando il
prevalere negli uomini dell'interesse a conservare il proprio ruolo, ad
impersonare la politica, facendo coincidere la funzione pubblica con le
vicende private che li riguardano.
*
Non sono  praticolarmente interessata a sottolineare il guadagno che il
femminismo ci ha dato rispetto agli uomini, nel leggere e vivere la crisi
della politica. Anche se c'e' una verita' in questo giudizio, e non e'
affatto inutile documentarlo. Ne offre un eccellente esempio la rubrica di
Ida Dominijanni su "Il manifesto", intitolata "Politica o quasi". Penso
pero' che dalla stessa matrice vengano anche le nostre peculiari
difficolta'.
Siamo tra i soggetti che hanno visto e nominato per tempo, con lucidita', il
deperire della politica tradizionale; in parte l'abbiamo anche auspicata e
provocata, proprio perche' costituiva un ordine impermeabile alla differenza
femminile. E pero' patiamo lo scarto tra questa realta' e la nostra
possibilita' di incidere su di essa. Questo scarto si riflette nei rapporti
con gli uomini, con la loro modalita' di  affrontare la crisi della
politica. E pesa negativamente proprio la' dove siamo impegnati/e, donne ed
uomini, a  non subirla passivamente, ad esempio nei movimenti. Proprio dove
condividiamo gli stessi conflitti, le stesse urgenze e le stesse
motivazioni, si ripropone il problema della differenza, anche come distanza
o divergenza di punti di vista sulla revisione della tradizione politica,
come sulle aperture che offre il presente.
*
Mi chiedo e vi chiedo se non vada compiuto un gesto analogo a quello
inaugurale degli anni '70, che ci ha visto operare un taglio con le
appartenenze politiche per poterci rimettere in contatto, primariamente, con
l'esperienza femminile, a partire dal nostro stesso vissuto. E' l'origine di
quel "partire da se'" che e' stata ed e' la leva piu' potente per
significare la differenza femminile nel pensiero e nell'agire.
Nel mio gruppo, "Balena", abbiamo coniato la formula, curiosa ma pertinente,
di "pensare la geopolitica a partire da se'". Avvicinare due termini cosi'
diversi, vuol dire scommettere sulla capacita' di rideclinarli entrambi,
scompaginando l'ordine del discorso su cio' che e' politica e su cio' che
dovrebbe esserle necessariamente estraneo. Questa partizione di ambiti,
rispondente ad una logica identitaria e classificatoria della realta' e
degli esseri umani, l'abbiamo messa in questione da tempo, anche se a volte
ne restiamo ancora catturate.
Certo a "Balena" non ci saremmo sentite autorizzate a compiere
quell'operazione, se non avessimo sedimentato una forte coscienza di quale
grande rivoluzione nella storia dei sessi abbia prodotto la politica
femminista, inaugurata dalla pratica dell'autocoscienza.
A ben vedere "partire da se'" implica un differente posizionarsi nella
realta', quali che siano gli eventi e le questioni da affrontare. Vale cioe'
per la sessualita' come per la guerra, per le tecnologie riproduttive come
per le politiche sociali e del lavoro.
Se non vogliamo ridimensionarne la portata, come spesso avviene,
considerandolo come un eccesso di soggetivismo, il "partire da se'" muove
dalla convinzione che non si possono cambiare i rapporti oggettivi e le
strutture di una societa' se non cambiando i soggetti e le loro relazioni
concrete. Detto altrimenti, si e' dimostrato illusorio proprio l'approccio
ritenuto piu' "realistico", secondo il quale prima si cambiano gli assetti
oggettivi, conquistando il potere, e poi si cambiano modi d'essere e
relazioni tra gli esseri umani, grazie alle diverse condizioni di vita che
si realizzano.
Una delle ragioni profonde che ha indotto a preferire questa modo di pensare
e fare politica e' che sembra fornire risultati piu' solidi e durevoli. E'
intrinseco infatti alla pratica  del partire da se', dello spostare
soggetti e relazioni, un elevato margine  di incompiutezza, poiche' comporta
una costante rimessa in gioco di se' e della realta', a partire dai
mutamenti prodotti. Lo potremmo considerare il versante opaco dello
spiazzamento prima nominato. Comunque e' una pratica che non prevede un
progetto o un programma ben definito, da realizzare e sottoporre a verifica
nella pratica. Viceversa sono proprio le pratiche, come intreccio di dire e
fare, a delineare una possibile differente forma di vita.
Ovviamente non sono pochi i problemi connessi a questa concezione della
politica, e non e' questa la sede per analizzarli in dettaglio. Il mio
intento e' solo di segnalare che vi e' stata una differente politica,
prodotta dalle donne, ed e' a questa e non ad altro che dobbiamo ricondurre
i risultati come le impasse. Possiamo farlo, dal momento che comincia ad
essere sedimentata in una storia di un certo spessore.
*
La questione principale e' pero' se le acquisizioni piu' significative del
femminismo, possano o no servirci a ripensare la politica, oltre il suo
declino.
La differenza femminile si rende visibile negli  anni '70, sia come presenza
e domanda politica, su determinati contenuti ed obiettivi, da parte delle
donne, in quanto donne, sia come estraneita', ovvero come capacita' di
leggere criticamente e di scalzare operativamente la politica istituita,
traendo senso e forza dalla storia di esclusione, marginalita',
eccentricita' delle donne rispetto alla cittadinanza.
Possiamo identificare la prima versione con il movimento di massa, che
esprime le richieste di un gruppo sociale, connotato da un ruolo,
un'identita', una posizione comune. In questo senso le donne, ed i loro
movimenti, compresi quelli femministi recenti, sono assimilate agli altri
soggetti, e vengono a costituire uno dei tanti gruppi all'interno di un
unico modello sociologico, o politologico. Abbiamo tutte presenti, credo, i
discorsi sui "nuovi" movimenti, che affiancano donne, giovani, ambientalisti
e pacifisti, neri ed omosessuali, ecc. Da questo punto di vista non cambia
molto se al posto dei giovani figurano i "no-global", o gli immigrati
prendono il posto dei neri, e cosi' via. Cambia cioe' la descrizione del
fenomeno, non lo schema concettuale e politico.
Comunque la tendenza prevalente a spiegare la nascita dei movimenti politici
con la  morfologia delle identita' sociali, ha avuto come conseguenza quella
di oscurare la differenza sessuale, come differenza politica, e non come
identita' di un gruppo sociale, le donne, omologato agli altri gruppi, alle
altre identita'. Di piu': con la differenza sessuale viene oscurata la
differenza come questione politica cruciale, perfino costitutiva della
politica. I cosiddetti "nuovi" soggetti, i cui caratteri comuni
spiegherebbero la loro contemporanea emersione, vengono cosi' ad aggiungersi
ai "vecchi", e grazie a questa abituale liturgia, si opera una ripartizione
orizzontale e paritaria dello spazio pubblico, e della rilevanza che essi
devono avere nella fotografia del paese "reale", come nei programmi delle
istituzioni e dei partiti.
E' un modo vecchio ed inefficace di rappresentare la complessita' sociale,
ma soprattutto, come ho gia' detto, genera un fraintendimento radicale sul
significato  politico della differenza, e non da' conto in alcun modo della
posizione del tutto atipica del soggetto femminile.
Come possiamo affiancare  infatti le donne agli altri soggetti, vecchi e
nuovi, di movimento o di partito, antagonisti o corporativi, senza tener
conto che costituiscono un'ampia componente di ognuno di loro e la
questione, semmai, e' quella della visibilita' e del posto che ha il loro
differente punto di vista, quando c'e'? E come si puo' ridurre il femminismo
ad un movimento tra gli altri, e come gli altri, fatto salvo lo "specifico"
di ognuno di essi, senza tener conto che e' nato e si e' sviluppato proprio
per dare forza, visibilita' e forma a questa differenza, in modo che ogni
donna e le donne tra loro, possano avvalersene ovunque sono, in tutte le
esperienze e le situazioni che condividono con gli uomini?
*
Per molte di noi pu' risultare retorico riproporre questo tipo di
considerazioni. Ma evidentemente non e' cosi' se accade tuttora che non "le
donne" genericamente, ma donne che fanno politica, e vogliono farla da
donne, confondono tuttora i piani e facilmente si trovano ad agire e
prendere posizione "confuse" agli uomini. Resto convinta che se non si sa
nominare ed agire la differenza sessuale, che e' dell'essere umano, non si
riesce a farlo neppure per le altre differenze che costituiscono le
"parzialita'" decisive nella politica, da quella sociale, di classe, a
quella tra occidente ed islam, tra centro e periferie dell'impero.
Bisogna  sapere che non e' piu' tempo di affiancare, con i luoghi e le
pratiche separatiste, la politica dei partiti o dei movimenti. Se non siamo
un soggetto tra gli altri, ma la differenza che taglia e  attraversa tutta
la politica, tutta la societa' e tutti i saperi, non si possono stabilire
convergenze, e poi ritagliarsi un'area dove esprimere la differenza
femminile, come un di piu'.
Non voglio dire che non vi puo' essere condivisione con gli uomini; anzi ho
prima detto il contrario, che dobbiamo porci il problema di spostarli,
quindi vi e' esigenza di luoghi e pratiche di relazione. Ma le convergenze e
le divergenze non possono non costituire il terreno, di volta in volta
definito, del conflitto sessuato tra donne ed uomini sul patriarcato, sul
fatto cioe' che l'ordine civile e' stato costruito, o pensato anche nei
progetti di radicale trasformazione, su questo presupposto.
Senza questo e' inevitabile che la questione dei rapporti con gli uomini
rifluisca sul terreno privato, anche nelle sedi pubbliche, politiche. E'
quanto avviene quando la si riduce ad un problema di rivalita' sui ruoli di
potere, o sul protagonismo.
Ma non mi convince neppure la tendenza a far coincidere la resistenza
patriarcale con le posizioni di potere, e dunque con l'impermeabilita' delle
istituzioni, piu' accentuata al vertici della piramide, mentre i movimenti,
o comunque i luoghi della politica diretta, autoorganizzata sarebbero per
loro natura piu' aperti. A ben vedere i primi gruppi femministi sono nati in
conflitto con i movimenti, perche' riproducevano al loro interno e nella
cultura politica la matrice patriarcale della politica.
Penso che un' esigenza di conflitto, se volete di differenza agita e non
ipostatizzata, si ponga rispetto ai movimenti attuali; ovviamente questo non
puo' tradursi in una ripetizione della storia recente. Sono diversi i
movimenti, sono diverse le donne che vi partecipano, siamo diverse noi
femministe, direttamente coinvolte o no da queste esperienze, ma che
tuttavia costituiamo, in modo piu' o meno soddisfacente, il luogo politico,
simbolico e pratico, della differenza femminile.
Insomma non mi convince una rappresentazione basata sulla distinzione,
troppo semplificata e falsificante, che vede nel  sistema politico ed
istituzionale la faccia negativa della politica - autoreferenzialita', lotte
ed interessi di potere, laederismo, carrierismo , decisionismo, ecc. - ed
identifica nei movimenti, nelle pratiche sociali, la faccia positiva -
partecipazione, passione, solidarieta', rispetto delle differenze,
motivazioni ideali, ecc -. Si da' per presupposto che i movimenti esprimano
essenzialmente le spinte innovative  e critiche, poiche' muovono dalle
contraddizioni reali, da bisogni avvertiti in prima persona; per questo non
possono che favorire  l'espressione della differenza femminile, essere piu'
permeabile alla contaminazione. Di nuovo e' una lettura verosimile, solo se
non si considera che la radice profonda del patriarcato e' nella sessualita'
maschile, nella sua modalita' "possessiva", la quale  genera il  rapporto
maschile con il potere.
*
Riprendere il filo della riflessione su sessualita' e politica e' un'altra
ragione per riconsiderare  gli anni '70, la loro feconda discontinuita'. Ci
puo' aiutare a capire perche' persiste, ed anzi torna ad accentuarsi, una
diffusa presa di distanza dalla politica da parte di molte donne. La
questione e' come si puo' contrastarne una deriva antipolitica, di secco
ritiro della delega per attestarsi nel privato, anche nella versione piu'
positiva, di un rilancio di responsabilita' e capacita' di scelta in prima
persona, cercando di incidere dove e come si puo', senza rinunciare a
tessere rapporti e legami (e' questo spesso a motivare tante, apprezzabili,
forme di volontariato, che non si sottraggono tuttavia, ne' lo vogliono in
molti casi, ad una sostanziale privatizzazione di contenuti ed attivita' che
riguardavano o dovrebbero riguardare la sfera  pubblica).
Su questo possiamo entrare in rapporto e scambio con molte donne che non
sono state coinvolte dalla nostra storia e neppure in quella dei movimenti.
Per concludere direi che, come  non ci appartiene una visione della politica
concentrata nel potere e nel governo, cosi' non ci corrisponde una politica
che enfatizza il conflitto, in termini di antagonismo senza rapporto, una
sorta di militarizzazione della politica, anche in chi si dichiara per la
pace, e si mobilita contro le guerre. E' un carattere molto forte, e molto
radicato nella tradizione della sinistra, con la quale dovremmo misurarci in
profondita'. In particolare dovrebbe farlo una sede come la vostra, perche'
si tratta di mettere in questione la logica dei rapporti di forza, come
quella centrale  e dirimente.
Noi donne  pur avendo conosciuto un conflitto radicale ed aspro con il
patriarcato e con gli uomini, non ci siamo mai concentrate soltanto sulla
questione del potere, o del dominio di un sesso sull'altro. Non potevamo
farlo, perche' le donne che hanno dato vita al femminismo pativano non tanto
una subordinazione, ma un inferiorizzazione interiorizzata. E non abbiamo
potuto farlo perche' non c'e' soluzione di potere al conflitto tra i sessi,
come ha ben visto Carla Lonzi. Non si tratta di proporsi di rovesciare i
rapporti di forza, ne' di eliminare l'altro sesso, come la classe
capitalista. Ancora, sappiamo che vi e' contaminazione costante con l'altro
sesso, come vi e' tra le classi o tra le culture e che il problema  piu'
difficile e' proprio incidere in questa area comune.
Sappiamo infine che vi e' molto da riconsiderare, se volete molto di
"negativo" da capire ed elaborare, nell'identita' dell'oppresso o inferiore.
Lo abbiamo visto nell'operaio o nel nero che lottavano, volendo contare
sull'alleanza femminile, negando liberta' alle donne; ma lo abbiamo visto
anche nelle donne oppresse. Senza perdere in radicalita' abbiamo dovuto
rinunciare a dividere tra le parti in conflitto, utilizzando la  lama
affilata del dominio.
Mi chiedo se presumere di saper tracciare con chiarezza la linea del
conflitto, e dunque sapere in cosa consista la frontiera tra potere e
liberta' non sia anch'essa una forma di paternalismo, ovvero un'eredita' del
patriarcato con la quale dobbiamo fare i conti.

4. RIFLESSIONE. AMELIA CRISANTINO: GLOBALIZZAZIONE E QUESTIONE MERIDIONALE.
UNA RIFLESSIONE IN SICILIA
[Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di
Palermo (per contatti: e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it)
riprendiamo questo intervento gia' pubblicato sull'edizione palermitana de
"La Repubblica" il 23 maggio 2003. Amelia Crisantino e' una prestigiosa
studiosa e militante antimafia, collaboratrice del Centro Impastato di
Palermo. Tra le opere di Amelia Crisantino: (con Giovanni La Fiura), La
mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989; La citta'
spugna, Centro Impastato, Palermo 1990; Cercando Palermo, La Luna, Palermo;
Ho trovato l'Occidente. Storie di donne immigrate a Palermo, La Luna,
Palermo 1992; Capire la mafia, La Luna, Palermo 1994; Della segreta e
operosa associazione, Sellerio, Palermo 2000]

Non ce ne siamo accorti, ma la globalizzazione ha compiuto vent'anni.
Un'eta' di tutto rispetto per quello che viene in genere presentato come un
fenomeno recente. Non considerando che le economie-mondo ci sono da sempre,
come pure la divisione internazionale del lavoro e quello scambio ineguale
che crea ricchezze e poverta'.
Per comodita', accettiamo pure che la globalizzazione sia nata vent'anni fa.
In un momento ben preciso, quando nel maggio dell'83 il guru del marketing
Theodore Levitt, docente alla Harvard Business School, invento' la parola
scrivendo sulla rivista di quell'universita' "la globalizzazione e' a
portata di mano". Levitt scriveva della crescita dei consumi e quindi del
marketing, applicando all'economia le tesi di Marshall McLuhan sul mondo
come "villaggio globale" che diventa mercato per prodotti standard che
inseguono i propri consumatori anche nel cuore delle societa' arretrate.
*
In questi vent'anni il ritmo dei cambiamenti legati all'inarrestabile corsa
del mercato unico e' stato accelerato, come ben si conviene ad un'efficiente
economia globale. Un po' bluffando e un po' no - pensiamo a quel prodotto
davvero globale che e' la moda - l'Italia ha cercato di restare agganciata
alla locomotiva, ostacolata dai suoi problemi non risolti.
La questione meridionale e' il primo e il piu' grave fra questi problemi non
risolti e, considerando che non si puo' scegliere di restare estranei a
quello che nel bene e nel male si presenta come lo Spirito del tempo, forse
e' il caso di riflettere su qual e' il nostro ruolo e quali nuove vie
possiamo inventarci per migliorare le nostre possibilita' sulla scena
globale.
Allora. La scarsa competitivita' del Meridione e' storia vecchia, come pure
il mancato controllo del territorio da parte dello Stato con connesso
rigoglio mafioso. Dell'inadeguatezza della classe politica scriveva gia'
Gaetano Salvemini, uno dei padri nobili del meridionalismo. Il Sud e'
soffocato da difficolta' accumulate nei secoli, se vogliamo provare a
ripartire bisogna cominciare dal definire chi siamo. Ridefinire la nostra
identita', altro che assessorati sicilianisti. Un'identita' smarrita fra i
vari corsi e ricorsi storici, come pure smarrito e' il senso collettivo e
diffuso del nostro patrimonio culturale.
*
Viviamo in una societa' smemorata, pochissimo interessata a ricucire
brandelli che non muovano interessi immediati. Sensazione che permane anche
per quanto riguarda i giovani. Di fronte all'aria ammuffita che sembra
stagnare sui vecchi problemi, anche i ragazzi piu' impegnati sembrano poco
interessati alle dinamiche temporali e ai connessi meccanismi politici ed
economici. I giovani sono molto piu' interessati alle reti spaziali e
tendono a proiettarsi all'esterno, dove almeno si respira aria fresca. Non
gli si puo' dare torto. Come aver voglia, a vent'anni, di faccende come la
questione meridionale, che muta vesti per restare se stessa da un tempo
infinito? Tranne gli appuntamenti rituali, le grandi manifestazioni contro
la mafia ad esempio, l'aggregazione dei giovani e' su temi che con la
Sicilia hanno poco a che fare. E' avvenuta la lacerazione simbolica di un
tessuto di date, simboli, monumenti e quant'altro, che nessuna istituzione
sembra piu' in grado di ricucire. Ai nostri ragazzi offriamo un deserto
progettuale che fa paura, mentre la politica offre il solito spettacolo un
po' macchiettistico e un po' squallido. I politici al potere difendono
l'onore della Sicilia, lanciano anatemi contro testi e scrittori. Li salva
la fretta o, chissa', magari l'ignoranza. Perche' al momento non risulta che
siano state rilasciate dichiarazioni contro il Vittorini di Conversazione in
Sicilia, o il Brancati di Paolo il caldo, senza contare i libri di Sciascia
o, andando a ritroso, Pirandello e Verga.
*
Con un pizzico di razzismo, i sociologi hanno parlato di "familismo amorale"
a proposito del Meridione, osservando scandalizzati una societa' in cui
l'unica solidarieta' sembrava quella interna ai nuclei familiari. Oggi i
politici che rappresentano la nostra regione hanno adottato lo stile del
familismo amorale, che e' cresciuto diventando "localismo amorale" e lo
spacciano per difesa della nazione siciliana. Il mondo viene visto come
lontano, diverso, estraneo e nemico e, vecchia regola tartufesca, i panni
sporchi si lavano in famiglia. Asserragliati in un fortino assediato da
attacchi esterni e lacerato da faide interne, cosi' i nostri governanti si
presentano ai loro elettori. Se non vogliamo andare a fondo con loro,
bisogna cambiare copione.
*
Nel mondo globalizzato in cui restare fermi significa andare indietro, la
sola possibilita' che ci si offre e' di puntare al glocale. Cioe' allo
sviluppo della dimensione locale inserita su un inevitabile sfondo globale.
La nostra storia, il patrimonio culturale e ambientale che conserviamo in
modo colpevolmente distratto, ci offre l'opportunita' di non rimanere
esclusi dall'equilibrio mondiale che ogni giorno si va costruendo. Ma il
locale dovrebbe prima funzionare. Per dirla col Nobel Amartya Sen, servono
valori oggi fuori moda: sanita' pubblica, scuola, giustizia, stato sociale
flessibile. Su cui innestare sviluppo sostenibile e solidarieta'. Perche' il
benessere si misura sugli indicatori economici ma, se proviamo ad
umanizzarli, troveremo che la sua radice coincide con la possibilita' che
gli individui possano scegliere liberamente il proprio destino.

5. RIFLESSIONE. DUE NOTE SULL'AZIONE DIRETTA NONVIOLENTA
Il fatto che da un po' di termpo in qua si abusi della definizione di
"azione diretta nonviolenta" per designare fatti i piu' diversi, dalle
pagliacciate al teppismo (fatti che, va da se', con la nonviolenza non hanno
nulla a che vedere), e' un sintomo insieme interessante e pessimo.
Interessante, perche' l'aggettivo "nonviolento" sta cessando di essere
inteso  nel linguaggio comune (scilicet: quotidiano, ovvero mercificato e
alienato) come sinonimo di quietismo e astensione, e sempre di piu' della
nonviolenza viene colto finalmente il significato autentico (meglio: uno dei
significati autentici) di intervento attivo, di teoria e pratica del
conflitto, di proposta di lotta.
Pessimo, perche' ad un ignobile calunnioso stereotipo (quello secondo cui la
nonviolenza sarebbe impotenza e lagna, rassegnazione e ipocrisia) se ne
aggiunge un altro non meno ignobile e calunnioso: l'abuso cialtrone della
parola "nonviolenza" come trucco verbale per legittimare condotte che se
definite nella loro nudita' con precisione e chiarezza sarebbero
evidentemente inammissibili perche' ridicole, grottesche, squallide, o
peggio: irresponsabili e sciagurate.
*
Varra' allora la pena di ricordare che perche' un'azione diretta possa
essere qualificata come nonviolenta essa deve avere caratteristiche precise:
il ripudio della violenza e la lotta contro ogni violenza; l'adesione alla
verita'; la coerenza tra i mezzi e i fini; la concretezza e la pubblica
utilita'; un programma costruttivo; il riconoscimento e la promozione
dell'umanita' di tutti i soggetti coinvolti; la limpidezza nei comportamenti
di chi la attua; la disponibilita' a soffrire anziche' a far soffrire; la
sollecitudine per il bene di tutti, il rispetto per la vita e la dignita' di
tutti; la coscienza del significato comunicativo, educativo ed esemplare di
ogni gesto nello spazio pubblico; il rigore intellettuale e morale e la
preparazione - l'ascesi - che la nonviolenza esige.
Il che implica anche essere pienamente consapevoli delle conseguenze del
proprio agire, e rinunciare a  tutte quelle azioni che possano provocare a
chiunque altro lesioni e umiliazioni, diminuzioni di umanita'.
Ed infine e soprattutto implica di essere disposti a pagare il prezzo delle
proprie azioni anche in termini di accettazione delle persecuzioni che ne
possono discendere per la propria persona: Gandhi accetto' lunghissime
carcerazioni come conseguenza delle sue campagne nonviolente, conscio di
avere ragione ed altrettanto conscio che anche quel subire la detenzione
iniqua fosse parte della lotta, e dell'esempio da dare: l'esempio di chi non
si sottrae alla responsabilita' delle proprie azioni, e subisce anche
l'ingiustizia per realizzare la lotta giusta contro l'ingiustizia, per
affermare il dovere di resistere.
Al di fuori di questo, ahinoi, vi e' l'equivoco; o peggio.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it,
angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 753 dell'8 dicembre 2003