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La nonviolenza e' in cammino. 753
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 753
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 7 Dec 2003 19:07:22 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 753 dell'8 dicembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Da Verona a Venezia 2. Severino Vardacampi: Europa antifascista, Europa nonviolenta 3. Maria Luisa Boccia: ripensare la politica per pensare politicamente il mondo 4. Amelia Crisantino: globalizzazione e questione meridionale. Una riflessione in Sicilia 5. Due note sull'azione diretta nonviolenta 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. DA VERONA A VENEZIA Il giorno 8 dicembre 2003 a Venezia muove un passo ulteriore la proposta, formulata da tempo da Lidia Menapace e dalla "Convenzione permanente di donne contro le guerre" e tradotta in appello lo scorso 8 novembre a Verona, di un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta. Una proposta aperta e inclusiva che vuole chiamare l'intero "popolo della pace" europeo ad uscire dalla subalternita' e dalle ambiguita', a non delegare piu' a ristrette oligarchie le decisioni che tutti riguardano, ad essere soggetto attivo non solo culturale e sociale, ma politico in senso pieno e forte: a prendersi la responsabilita' di dire quale Europa vogliamo costruire, con quali regole e quali strutture, quali programmi e quali istituti; a prendersi la responsabilita' di fare della nonviolenza una scelta decisa e decisiva, non solo assiologica e metodologica, ma politica e giuriscostituente; a proporre un proprio programma costruttivo nonviolento per l'Europa su cui chiamare alla riflessione e al dialogo e alla lotta, su cui costruire un confronto con tutti gli altri soggetti - politici ed istituzionali, su cui spostare i rapporti di forza verso la scelta della pace con mezzi di pace, verso la scelta dell'affermazione di tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani, verso la scelta della nonviolenza. * Un'Europa neutrale e attiva: vale a dire che rifiuti la belligeranza, ripudi ogni guerra, ed a tutte le guerre si opponga, si opponga attivamente con politiche, istituti e interventi di pace. Un'Europa disarmata e smilitarizzata: poiche' senza disarmo e senza smilitarizzazione non si contrasta la guerra, non si sconfigge il terrorismo, non si difende la democrazia, non si salva l'umanita' dalla catastrofe. Un'Europa solidale e nonviolenta: che accolga tutti, che cooperi con tutti, che dialoghi con tutti, che a tutti offra ascolto e aiuto, a tutti riconosca diritti, informi il suo agire alla solidarieta'; che si impegni per relazioni internazionali e un diritto internazionale cosi' come definiti nel preambolo della carta delle Nazioni Unite - le Nazioni Unite dei popoli, e nella Dichiarazione universale dei diritti umani; che faccia della nonviolenza il principio informatore delle sue enunciazioni giuridiche ma anche delle sue strutture operative e della sua politica concreta. * Un'Europa spazio politico di donne e di uomini di volonta' buona, della partecipazione di tutti al bene comune, della difesa della biosfera, del rispetto dei diritti delle generazioni presenti e di quelle future (e dell'eredita' delle passate), di relazioni coi popoli e le culture del sud del mondo non piu' fondate sulla rapina e la denegazione, ma sulla restituzione di quanto sottratto e sperperato lungo secoli e secoli, e sul riconoscimento della comune preziosa irriducibile inalienabile umanita'. Un'Europa della democrazia e dell'umanesimo integrale. Della gestione e risoluzione nonviolenta dei conflitti. L'Europa della difesa popolare nonviolenta e dei corpi civili di pace. L'Europa della scelta socialista e libertaria che presagi', penso', propose Aldo Capitini, e con lui, come lui, alcune delle figure piu' belle - piu' nitide e piu' luminose - della contraddittoria storia di questo martoriato continente: da Rosa Luxemburg a Simone Weil. 2. RIFLESSIONE. SEVERINO VARDACAMPI: EUROPA ANTIFASCISTA, EUROPA NONVIOLENTA Nell'usura e nello svuotamento del linguaggio che consente anche ai neofascisti di dirsi antifascisti, anche ai golpisti di dirsi legalitari, anche ai totalitari di dirsi liberali, anche ai rapinatori di dirsi socialisti, l'appello "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta", ha un merito grande, anzi due. Il primo merito: la chiarezza del linguaggio, il rigore delle idee, la concretezza e inequivocabilita' delle proposte. Non e' casuale che questa riflessione e questo progetto nascano dal pensiero e dalla pratica del movimento delle donne, ed abbiano trovato la principale elaboratrice e quasi figurale individuazione in Lidia Menapace, che della storia dei movimenti di liberazione in Italia - dalla Resistenza al movimento delle donne - e' una sorta di monumento vivente (che alla monumentalita' sa sottrarsi con l'ironia e la leggerezza, la tenerezza e l'agilita' con cui sa porsi all'ascolto e rimettersi in gioco, sempre costruendo ponti e relazioni, aprendo spazi di liberta' ed incontro, nuovi suscitando movimenti e pensieri nuovi suscitando). Il secondo merito: l'eredita' piu' rilevante dell'antifascismo, ed il suo piu' nitido inverarsi - lo si avverte con sempre maggior chiarezza - e' la nonviolenza. La nonviolenza e' il cuore della Resistenza che si prolunga in processo-progetto di liberazione asintotico e aperto, cogente e creativo: e non e' casuale che Aldo Capitini - l'antifascista apostolo della nonviolenza in Italia - sia stato all'origine e nel cuore di una delle esperienze piu' limpide e preziose dell'antifascismo, e non e' casuale che nell'Italia repubblicana volle proporre ancora altre vie, altre forme, altri varchi di partecipazione popolare, di inveramento degli ideali dell'antifascismo e della Resistenza, di spinta al passaggio dalla mera cornice formale della democrazia all'integrale espressione di essa nella concretezza e nella pienezza del "potere di tutti". Questa nonviolenza non solo e' la "nonviolenza del forte" di gandhiana memoria, e' anche la nonviolenza che ci piace chiamare giuriscostituente: ovvero un progetto e una ricerca e un'azione - una scelta logica e morale e un movimento storico - non solo testimonale, pedagogica, sociale, ma anche propriamente politica nel senso piu' ampio e piu' forte: capace cioe' di essere fondativa non solo di generica socialita' ma anche di costumi, e di leggi, e di istituzioni: quel che forma la civile convivenza, il libero federarsi delle persone e delle comunita', l'ordinamento giuridico nel senso piu' universale. Ci pare che la proposta di Lidia Menapace abbia il merito quindi di cogliere e proporre questo significato della nonviolenza, e di tradurlo in proposta ed azione politica con un riferimento concreto: l'Europa, che oggi si trova davvero ad un bivio. Come Ercole in quel luogo classico. * Ed ineludibili vi sono oggi tre questioni che costituiscono altrettante sfide cui le persone amiche della nonviolenza sottrarsi non possono: - l'azione affinche' si ottenga il ritiro dall'Iraq delle forze armate di invasione e occupazione: azione necessaria ed urgente per contrastare i terrorismi tutti, ripristinare il criterio fondativo del diritto internazionale (e per quanto riguarda il nostro paese anche per rientrare nella legalita' costituzionale violata dai poteri golpisti dell'eversione dall'alto), riaprire spazi di gestione e risoluzione politica ai conflitti internazionali, fermare una processione di crimini, una crescente valanga di stragi che possono travolgere ed annichilire l'umanita' intera; - una sostanziale modifica del testo della cosiddetta Costituzione europea: affinche' in essa si affermi con chiarezza l'impegno dell'Europa ad essere soggetto costruttore di pace con mezzi di pace; e quindi vi si dichiari il ripudio della guerra, si scelga la neutralita', si indichino nella difesa popolare nonviolenta e nei corpi civili di pace le forme appropriate di intervento nell'ambito della politica "di sicurezza e cooperazione" (insieme, ovviamente, ad altre iniziative costruttrici di dialogo e di pace, di riconoscimento dei diritti umani per tutti gli esseri umani), si operi senza indugi per il disarmo e la smilitarizzazione; - che alle ormai prossime elezioni europee tutti i candidati e tutti gli schieramenti debbano pronunciarsi pubblicamente e pubblicamente impegnarsi su quell'insieme di proposte che nella proposta di Lidia Menapace, nei punti di convergenza del dibattito che ne e' seguito, nell'appello di Verona dell'8 novembre e in interventi ulteriori sono emerse come criteri e impegni condivisi tra le persone che hanno raggiunto la consapevolezza della necessita' e dell'urgenza che l'Europa scelga la nonviolenza e che la nonviolenza dia forma all'Europa, alle sue leggi, alle sue istituzioni, alla sua amministrazione pubblica, alla politica sua. * Non era scontato il fatto che questo dibattito abbia saputo in questi mesi interessare e coinvolgere soggetti anche molto variegati: e qui non diciamo soltanto dell'impegno di personalita' eminenti del movimento delle donne, degli storici movimenti nonviolenti, di persone ed associazioni in vario modo impegnate nei movimenti per la pace e i diritti, ma anche di autorevoli figure istituzionali come ad esempio il vicepresidente del Parlamento Europeo che su questo stesso foglio e' recentemente intervenuto. Non era scontato: ma prevedibile si': poiche' a noi sembra che vi sia un bisogno e un'attesa; che molte coscienze ed intelligenze percepiscano come matura ed esigano come urgente una proposta nonviolenta per l'Europa. Perche' e' necessaria la scelta della nonviolenza all'Europa, ed e' necessaria l'azione persuasa dell'Europa alla nonviolenza. 3. RIFLESSIONE. MARIA LUISA BOCCIA: RIPENSARE LA POLITICA PER PENSARE POLITICAMENTE IL MONDO [Ringraziamo Maria Luisa Boccia (per contatti: maluboccia at libero.it) per averci messo a disposizione questa sua relazione presentata al convegno del Forum delle donne di Rifondazione comunista su "Radici e prospettive del femminismo" svoltosi nel dicembre 2001, e pubblicata negli atti del convegno, 2002. Maria Luisa Boccia e' nata il 20 giugno 1945 a Roma, dove vive. Dal 1974 lavora all'Universita' di Siena, e attualmente vi insegna Filosofia politica. Dagli anni '60 ha preso parte alla vita politica del Pci e dei movimenti, avendo la sua prima importante esperienza nel '68. Deve alla famiglia materna la sua formazione politica comunista, e al padre, magistrato e liberale, la sua formazione civile, l'attenzione per l'esistenza e la liberta' di ciascun essere umano. Ad orientare la sua vita, la sua mente, le sue esperienze, politiche e umane, e' stato il femminismo. In particolare e' stato il femminismo a motivare e nutrire l'interesse alla filosofia. La sua pratica tra donne, cominciata nel 1974 a Firenze con il collettivo "Rosa", occupa tuttora il posto centrale nelle sue attivita', nei suoi pensieri, nei suoi rapporti. Ha dato vita negli anni a riviste di donne - "Memoria", "Orsaminore", "Reti" - ed a diverse esperienze di gruppi, dei femminili tra i quali ricordare, oltre al suo primo collettivo, dove iniziano alcune delle relazioni femminili piu' profonde e durevoli, "Primo, la liberta'", attivo negli anni della "svolta" dal Pci al Pds; "Koan", con alcune allieve dell'universita'; "Balena", nato dal rifiuto della guerra umanitaria in Kosovo e tuttora felicemente attivo. E' stata giornalista, oltre che docente, partecipa dagli anni '70 alle attivita' del Centro per la riforma dello Stato, ha fatto parte della direzione del Pci, poi del Pds, ed ha concluso questa esperienza politica nel 1996. Vive da molti anni con Marcello Argilli, scrittore per l'infanzia, e non ha figli. Ha scritto articoli, saggi, ed elaborato moltissimi interventi, solo in parte pubblicati, per convegni, incontri, iniziative. Tra i suoi scritti recenti: Percorsi del femminismo, in "Critica marxista" n. 3, 1981; Aborto, pensando l'esperienza, in Coordinamento nazionale donne per i consultori, Storie, menti e sentimenti di donne di fronte all'aborto, Roma 1990; L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990; con Grazia Zuffa, l'eclissi della madre. Fecondazione artificiale, tecniche, fantasie, norme, Pratiche, Milano 1998; La sinistra e la guerra, in "Parolechiave" nn. 20/21, 1999; Creature di sabbia. Corpi mutanti nello scenario tecnologico, in "Iride" n. 31, 2000; L'eredita' simbolica, in Rossana Rossanda (a cura di), Il manifesto comunista centocinquanta anni dopo, Manifestolibri, Roma 2002; Miracolo della liberta', declino della politica. Rileggendo Hannah Arendt e Simone Weil, in Ida Dominijanni (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Miano 2001; La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002] E' difficile svolgere una riflessione sul tema di questo incontro, legando con uno stesso filo radici e prospettive della politica femminile e femminista. Nella situazione attuale sento piu' forte lo scarto tra la scena politica "ufficiale", segnata da alcuni rilevanti eventi, come la vittoria elettorale della Casa delle liberta', il movimento sulla globalizzazione ed i fatti di Genova, il crollo delle Torri a New York, la guerra in Afghanistan... e quella della politica sessuata scandita, in parte almeno, da altri momenti significativi. Per dire subito un aspetto che qualifica la mia posizione, sulla quale vorrei discutere, la politica mi appare sempre piu pericolosamente segnata da atti di onnipotenza, provenienti dalle forze piu' disparate. Considero tali sia l'attacco terroristico che la guerra, attuata come la sola "risposta appropriata" contro la minaccia delle organizzazioni terroriste islamiche. Ma vedo onnipotenza non solo nei gesti distruttivi, nei veri e propri propositi di sterminio di quello che appare "il nemico", per l'una o l'altra parte. La vedo anche nei progetti di fabbricazione del vivente, che animano tanta parte della ricerca scientifica e della sperimentazione medica, attuata con le biotecnologie. Come c'e' onnipotenza nella pretesa di governare l'economia in forme "globali", controllando le risorse ed i flussi della ricchezza in tutto il pianeta, secondo una presunta logica unitaria e compatta del potere economico. * In questa corsa sempre piu' veloce al controllo sulla vita, nel divenire sempre piu' evidente della centralita' della "biopolitica", agisce, se non a livello cosciente certo nell'immaginario collettivo, la percezione che sia in gioco la sopravvivenza della specie umana e del pianeta; siamo cioe' pervenuti a delle soglie cruciale, oltre le quali non vi e' possibilita' di cambiare rotta, di mettere riparo alle distruzioni ed ai pericoli attivati. Non penso a ben definiti disegni, perseguiti da questa o quella forza dominante, la quale mette in conto anche un tasso molto alto di rischio, pur di mantenere e rafforzare il suo dominio. Penso invece ad una diffusa e crescente perdita di orizzonte di senso, che investe gli stessi centri del potere e del sapere, e soprattutto pervade l'ampia ed articolata sfera pubblica, chiamata nel suo insieme a formarsi una rappresentazione latamente comune degli eventi "globali". Dopo l'11 settembre e' divenuto un luogo comune affermare che "niente e' piu' come prima", riconoscendo, sembrerebbe, la perdita di senso che gli eventi producono, e dunque la necessita' primaria, di "ripensare" il mondo, revisionando l'intera cassetta degli attrezzi di cui disponiamo. Bene, si ripete l'enunciato, e subito dopo ci si affretta a procedere come se niente fosse mutato, si ricade cioe' nelle vecchie pratiche e nei logori discorsi. Sono convinta che il primo gesto politico consista invece in una salutare accettazione dello spiazzamento indotto in noi dagli eventi. E' il solo modo per evitare la rincorsa esasperata alla semplificazione, alla rigida definizione di contrapposizioni tra "assoluti", ad esempio tra Occidente ed Islam, ma anche tra il valore sacro della vita fin dal concepimento, e la liberta' di scelta individuale nelle dispute bioetiche sulla fecondazione artificiale. * Come vivono questa situazione gli uomini e le donne in carne ed ossa, e non gli opposti schieramenti che presumono di rappresentarli? In cosa si rende visibile che e' un mondo abitato da uomini e donne e che gli uni e le altre non sono, verosimilmente, nella stessa posizione rispetto a quanto accade? Per un verso la presenza dei due sessi sembrebbe essere ormai un dato acquisito, perfino conclamato, al punto che non dovrebbe essere piu' possibile cancellare le donne dalla rappresentazione della realta'. Ne fornirebbe conferma proprio il discorso pubblico sulla guerra in Afghanistan, rispetto alla quale si e' sostenuto da piu' parti, che tra le sue "giuste" cause vi e' innanzitutto la necessita' di liberare le donne dalla pesantissima oppressione esercitata dal fondamentalismo islamico. Come ha scritto Adriano Sofri su "La repubblica" il vero discrimine tra barbarie e civilta' consiste nella liberta' delle donne; e' questo il "valore" occidentale che deve affermarsi in tutto il pianeta, se e' necessario, anche con le armi. In suo nome siamo state direttamente chiamate in causa noi femministe, accusate di attardarci in un silenzio ed un'inerzia sospetti, dovuti presumibilmente alla prevalenza dell'antiamericanismo sulla doverosa solidarieta' con le donne afghane. Vorrei osservare che nessun appello o rimprovero dello stesso tenore ci viene rivolto, quando si tratta di contrastare posizioni fondamentaliste che minacciano la liberta' delle donne in Occidente, da parte di istituzioni religiose o laiche. Penso alle pretese arroganti di normare in materia di procreazione, negando la disparita' tra i sessi, e volendo porre sotto tutela, dell'autorita' maschile, il corpo femminile e le modalita' di esercizio della capacita' procreativa. Il corpo sessuato e' tuttora oggetto di pesanti interdetti o rimozioni, nonostante la netta contrapposizione di "valori" sia dominante nel discorso bioetico. Su quello che non da ora rappresenta il fulcro del conflitto tra i sessi, ovvero il primato femminile nella procreazione, la civilta' occidentale non sembra aver progredito granche', dal momento che tuttora la differenza sessuale e' cancellata, ed al suo posto vengono rappresentate altre rilevanti posizioni, ad esempio quella della scienza o della morale religiosa. Dovrebbe essere evidente, ma non lo e', che non puo' esserci liberta' femminile se non mutando in radice la plurisecolare costruzione del corpo sessuato e generante, rilanciata, non senza contraddizioni, dalle pratiche tecnologiche. Se dunque spostiamo lo sguardo dall'Afghanistan alle nostre societa' ci accorgiamo che sulle nuove frontiere della scienza biomedica si accendono dispute sui valori che connotano questa civilta', ma la liberta' delle donne non e' certo il principale tra di essi. Gli uomini anzi tendono ad occupare la scena, a dividersi per poi accordarsi tra loro, mantenendo nelle loro mani il potere di decidere sul corpo femminile. E' questo il fulcro del fondamentalismo occidentale, e non mi pare che sia stato seriamente intaccato dal sostituirsi, in misura crescente, della "fede" nella scienza a quella nella parola rivelata di un dio. Anche la "verita'" scientifica poggia infatti sull'oggettivazione del corpo, e sulla riduzione della donna alla sua funzione riproduttiva. Si crea cioe' una sorta di corto circuito tra le prospettive inedite di uso dei corpi, aperte dal progresso scientifico e tecnologico, e quella della liberta' femminile, radicata nel corpo sessuato. * Dunque mentre siamo invitate a schierarci, come donne e femministe, in ragione dell'offesa alla liberta' delle donne nel mondo islamico, e nell'Afghanistan in specie, quando e' in gioco la nostra liberta', nelle societa' in cui viviamo la nostra parola e presenza pubblica non solo non e' richiesta, ma e' volutamente ignorata quando si manifesta, in ogni caso e' drasticamente ridimensionata, in luogo di costituire, come dovrebbe, il punto di vista principale ed ordinante. Ma siamo noi stesse, donne e femministe, che non mettiamo al centro del nostro discorso e della nostra azione pubblica i rischi e le opportunita' connessi alle tecnologie, nella procreazione e non solo. Parliamo piu' facilmente di "globalizzazione" e dei nuovi movimenti, o del ritorno della guerra, che non di quanto sta accadendo in questo ambito. Probabilmente e' un silenzio indotto dal bisogno di non farsi sempre e comunque determinare da questo antico fulcro della esistenza femminile: come se fossimo condannate a parlare, in pubblico ed in privato, prima di tutto se non esclusivamente, di maternita' e famiglia. Ma c'e' anche la difficolta' a mettere a fuoco come si intrecciano e dipanano liberta' e rischi per le donne, nello scenario attuale. Dove dobbiamo abbandonare vecchie chiavi di lettura del patriarcato e dove, viceversa, sono ancora appropriate? Senza inoltrarmi in questa analisi vorrei ribadire che, comunque, dobbiamo prendere atto dello spiazzamento, prodotto dallo scarto tra la realta' e l'ordine di senso nel quale andrebbero ricondotti i fatti, per capire ed agire adeguatamente. * Detto altrimenti, sono convinta che c'e' un forte bisogno di politica, ma che per soddisfarlo occorra prendere molto sul serio il declino della politica cosi' come l'abbiamo pensata e praticata in passato. Nonostante la concentrazione dei poteri forti, nonostante il ritorno della guerra, nonostante i sorprendenti e potenti mezzi tecnologici, la pretesa di governare e fare ordine "globale" - che e' altra cosa dall'esercitare con arroganza i privilegi ed imporre la propria unilaterale volonta' - non mi sembra possa realizzarsi senza conflitti e tensioni, senza strappi e lacerazioni, anche gravi, del tessuto della convivenza. Da qui il bisogno di politica, ma anche la necessita' di non ignorare la crisi che ha investito tutte le forme della politica. Se si vuole rilanciare la politica, ne vanno ripensati in profondita' i concetti-chiave, i linguaggi, le pratiche, gli strumenti, le forme organizzate. Il "che fare" piu' urgente, a mio avviso, e' proprio questo di ripensare la politica per pensare politicamente il mondo contemporaneo. Del resto, lo sappiamo, la politica delle donne ha puntato molto sul pensare differentemente, a partire dal punto di vista femminile sulla realta'. Ha dovuto farlo perche' il pensiero politico non teneva conto dell'esperienza femminile e dunque bisognava ripartire dal vissuto per poter intervenire sulla realta' tutta. Abbastanza prossima a questa posizione mi sembra la scelta dell'associazione di donne "Rawa", in Afghanistan, di dare priorita' all'istruzione delle bambine. Ed e' una scelta analoga a quella fatta dalle donne in Europa nel '700, quando richiesero l'istruzione prima ancora del voto. Appropriarsi del sapere, della parola pubblica, e' il modo di mettersi in grado di conoscere e prendere posizione autonomamente sul mondo. Se non c'e' pensiero libero e differente, non c'e' una reale influenza femminile, inevitabilmente si cade nella ripetizione di idee e azioni rispondenti all'ordine esistente patriarcale. * L'altra questione che vorrei discutere e' se questo inizio di un nuovo millennio vede uomini e donne piu' vicini, soprattutto in maggiore scambio, o piu' distanti, in particolare quali attori politici. Se guardiamo ai movimenti emersi in questa fase, sulla globalizzazione e la pace, come nei conflitti di lavoro o nella scuola, sembrano tutti caratterizzati da una compartecipazione di uomini e donne. I due sessi appaiono entrambi protagonisti, quindi risulterebbero accomunati nella scena pubblica. Ma questa rappresentazione e' soltanto verosimile, perche' la vicinanza e condivisione non e' significata dalla differenza, in particolare dall'esplicito riposizionamento degli uomini, sulla parzialita' del proprio punto di vista sessuato. Dove la differenza si mostra e' nella modalita' tradizionale della complementarieta'. Piu' spesso pero' si ha una "confusione", ovvero la differenza femminile viene assimilata, aggiunta, metabolizzata nella comune appartenenza, culturale e politica, e dunque gli uomini continuano ad avvantaggiarsi del neutro-universale. Esemplare, al riguardo, e' stata la divisione di ruoli, maschile e femminile, nella guerra in Kosovo. Le donne sono state infatti visibili o come vittime o come le responsabili piu' attive della missione Arcobaleno. Mentre gli uomini ricoprivano i panni del guerriero "giusto", dell'eroe che combatte contro il male, alle donne spettava il compito, altrettanto tradizionale, ma aggiornato, di limitare o riparare ai danni e alle ferite della guerra. Nonostante alcune figure come Magdalene Albright o Condoleeza Rice, mi sembra che il conflitto simbolico di "civilta'" sia inevitabilmente incarnato da figure maschili: Bush sr. e Saddam, Clinton e Milosovic, Bush jr. e Bin Laden. La presenza femminile, meno nettamente individualizzata, contribuisce ad "umanizzare" il conflitto. A me sembra che la complementarieta' nella scena pubblica veda uomini e donne piu' distanti tra loro. Innanzitutto essendo sempre meno coloro che sono al centro della scena, ed essendosi ristretta la rappresentazione dell'agire politico, e' diventato molto piu' difficile significare la differenza femminile. Questo vale per i movimenti sociali, come per i partiti e le istituzioni. Anche nel primo caso infatti sono solo alcuni uomini a dare volto e parola ad una soggettivita' collettiva, anche se sono molte le donne, e le autonome pratiche femminili, che la costituiscono. Naturalmente questa dominanza maschile e' ancora piu' clamorosa nei partiti e nelle istituzioni, dove le donne presenti, quasi senza eccezione, si uniformano ai codici e alle regole date, si adeguano alla competizione (spesso feroce), richiesta dall'imperativo di "esserci", e ancora piu' di apparire. Per restare all'area politica che conosciamo e che ci riguarda piu' da vicino, cioe' alla sinistra, in tutta evidenza sia la sinistra moderata, liberal, sia quella antagonista, vivono una grave crisi, sia pure in modi diversi. Per entrambe una delle manifestazioni piu' vistose e preoccupanti e' proprio la personalizzazione, sempre piu' accentuata e sempre meno giustificata in termini di effettivo esercizio di laedership, non poggiando su di una reale autorevolezza. Gli uomini vivono e affrontano questa crisi in modi che non prevedono l'ascolto e lo scambio con le donne, in particolare con noi femministe. La mia esperienza diretta, o il confronto con altre esperienze, come la vostra, mi fa dire che oggi il problema principale e' quello di provocare uno spostamento degli uomini, necessario per ricostruire uno spazio pubblico, animato da pratiche diverse da quelle richieste dalla logica mediatico-istituzionale. Porsi questo problema non significa rimettere al primo posto la partecipazione delle donne alla politica comune, o "mista", rinunciando, o subordinando a questo, la costruzione di luoghi, di pratica e pensiero tra donne. Al contrario questa delle relazioni tra donne, anche nel separatismo, e' tuttora una scelta imprescindibile, anche se si concretizza in modi diversi dal passato. Solo "tra donne", ad esempio, possiamo dare forma al nostro modo, da femministe, di porci nella crisi della politica, per rispondere al bisogno di politica, di donne ed uomini; contrastando il prevalere negli uomini dell'interesse a conservare il proprio ruolo, ad impersonare la politica, facendo coincidere la funzione pubblica con le vicende private che li riguardano. * Non sono praticolarmente interessata a sottolineare il guadagno che il femminismo ci ha dato rispetto agli uomini, nel leggere e vivere la crisi della politica. Anche se c'e' una verita' in questo giudizio, e non e' affatto inutile documentarlo. Ne offre un eccellente esempio la rubrica di Ida Dominijanni su "Il manifesto", intitolata "Politica o quasi". Penso pero' che dalla stessa matrice vengano anche le nostre peculiari difficolta'. Siamo tra i soggetti che hanno visto e nominato per tempo, con lucidita', il deperire della politica tradizionale; in parte l'abbiamo anche auspicata e provocata, proprio perche' costituiva un ordine impermeabile alla differenza femminile. E pero' patiamo lo scarto tra questa realta' e la nostra possibilita' di incidere su di essa. Questo scarto si riflette nei rapporti con gli uomini, con la loro modalita' di affrontare la crisi della politica. E pesa negativamente proprio la' dove siamo impegnati/e, donne ed uomini, a non subirla passivamente, ad esempio nei movimenti. Proprio dove condividiamo gli stessi conflitti, le stesse urgenze e le stesse motivazioni, si ripropone il problema della differenza, anche come distanza o divergenza di punti di vista sulla revisione della tradizione politica, come sulle aperture che offre il presente. * Mi chiedo e vi chiedo se non vada compiuto un gesto analogo a quello inaugurale degli anni '70, che ci ha visto operare un taglio con le appartenenze politiche per poterci rimettere in contatto, primariamente, con l'esperienza femminile, a partire dal nostro stesso vissuto. E' l'origine di quel "partire da se'" che e' stata ed e' la leva piu' potente per significare la differenza femminile nel pensiero e nell'agire. Nel mio gruppo, "Balena", abbiamo coniato la formula, curiosa ma pertinente, di "pensare la geopolitica a partire da se'". Avvicinare due termini cosi' diversi, vuol dire scommettere sulla capacita' di rideclinarli entrambi, scompaginando l'ordine del discorso su cio' che e' politica e su cio' che dovrebbe esserle necessariamente estraneo. Questa partizione di ambiti, rispondente ad una logica identitaria e classificatoria della realta' e degli esseri umani, l'abbiamo messa in questione da tempo, anche se a volte ne restiamo ancora catturate. Certo a "Balena" non ci saremmo sentite autorizzate a compiere quell'operazione, se non avessimo sedimentato una forte coscienza di quale grande rivoluzione nella storia dei sessi abbia prodotto la politica femminista, inaugurata dalla pratica dell'autocoscienza. A ben vedere "partire da se'" implica un differente posizionarsi nella realta', quali che siano gli eventi e le questioni da affrontare. Vale cioe' per la sessualita' come per la guerra, per le tecnologie riproduttive come per le politiche sociali e del lavoro. Se non vogliamo ridimensionarne la portata, come spesso avviene, considerandolo come un eccesso di soggetivismo, il "partire da se'" muove dalla convinzione che non si possono cambiare i rapporti oggettivi e le strutture di una societa' se non cambiando i soggetti e le loro relazioni concrete. Detto altrimenti, si e' dimostrato illusorio proprio l'approccio ritenuto piu' "realistico", secondo il quale prima si cambiano gli assetti oggettivi, conquistando il potere, e poi si cambiano modi d'essere e relazioni tra gli esseri umani, grazie alle diverse condizioni di vita che si realizzano. Una delle ragioni profonde che ha indotto a preferire questa modo di pensare e fare politica e' che sembra fornire risultati piu' solidi e durevoli. E' intrinseco infatti alla pratica del partire da se', dello spostare soggetti e relazioni, un elevato margine di incompiutezza, poiche' comporta una costante rimessa in gioco di se' e della realta', a partire dai mutamenti prodotti. Lo potremmo considerare il versante opaco dello spiazzamento prima nominato. Comunque e' una pratica che non prevede un progetto o un programma ben definito, da realizzare e sottoporre a verifica nella pratica. Viceversa sono proprio le pratiche, come intreccio di dire e fare, a delineare una possibile differente forma di vita. Ovviamente non sono pochi i problemi connessi a questa concezione della politica, e non e' questa la sede per analizzarli in dettaglio. Il mio intento e' solo di segnalare che vi e' stata una differente politica, prodotta dalle donne, ed e' a questa e non ad altro che dobbiamo ricondurre i risultati come le impasse. Possiamo farlo, dal momento che comincia ad essere sedimentata in una storia di un certo spessore. * La questione principale e' pero' se le acquisizioni piu' significative del femminismo, possano o no servirci a ripensare la politica, oltre il suo declino. La differenza femminile si rende visibile negli anni '70, sia come presenza e domanda politica, su determinati contenuti ed obiettivi, da parte delle donne, in quanto donne, sia come estraneita', ovvero come capacita' di leggere criticamente e di scalzare operativamente la politica istituita, traendo senso e forza dalla storia di esclusione, marginalita', eccentricita' delle donne rispetto alla cittadinanza. Possiamo identificare la prima versione con il movimento di massa, che esprime le richieste di un gruppo sociale, connotato da un ruolo, un'identita', una posizione comune. In questo senso le donne, ed i loro movimenti, compresi quelli femministi recenti, sono assimilate agli altri soggetti, e vengono a costituire uno dei tanti gruppi all'interno di un unico modello sociologico, o politologico. Abbiamo tutte presenti, credo, i discorsi sui "nuovi" movimenti, che affiancano donne, giovani, ambientalisti e pacifisti, neri ed omosessuali, ecc. Da questo punto di vista non cambia molto se al posto dei giovani figurano i "no-global", o gli immigrati prendono il posto dei neri, e cosi' via. Cambia cioe' la descrizione del fenomeno, non lo schema concettuale e politico. Comunque la tendenza prevalente a spiegare la nascita dei movimenti politici con la morfologia delle identita' sociali, ha avuto come conseguenza quella di oscurare la differenza sessuale, come differenza politica, e non come identita' di un gruppo sociale, le donne, omologato agli altri gruppi, alle altre identita'. Di piu': con la differenza sessuale viene oscurata la differenza come questione politica cruciale, perfino costitutiva della politica. I cosiddetti "nuovi" soggetti, i cui caratteri comuni spiegherebbero la loro contemporanea emersione, vengono cosi' ad aggiungersi ai "vecchi", e grazie a questa abituale liturgia, si opera una ripartizione orizzontale e paritaria dello spazio pubblico, e della rilevanza che essi devono avere nella fotografia del paese "reale", come nei programmi delle istituzioni e dei partiti. E' un modo vecchio ed inefficace di rappresentare la complessita' sociale, ma soprattutto, come ho gia' detto, genera un fraintendimento radicale sul significato politico della differenza, e non da' conto in alcun modo della posizione del tutto atipica del soggetto femminile. Come possiamo affiancare infatti le donne agli altri soggetti, vecchi e nuovi, di movimento o di partito, antagonisti o corporativi, senza tener conto che costituiscono un'ampia componente di ognuno di loro e la questione, semmai, e' quella della visibilita' e del posto che ha il loro differente punto di vista, quando c'e'? E come si puo' ridurre il femminismo ad un movimento tra gli altri, e come gli altri, fatto salvo lo "specifico" di ognuno di essi, senza tener conto che e' nato e si e' sviluppato proprio per dare forza, visibilita' e forma a questa differenza, in modo che ogni donna e le donne tra loro, possano avvalersene ovunque sono, in tutte le esperienze e le situazioni che condividono con gli uomini? * Per molte di noi pu' risultare retorico riproporre questo tipo di considerazioni. Ma evidentemente non e' cosi' se accade tuttora che non "le donne" genericamente, ma donne che fanno politica, e vogliono farla da donne, confondono tuttora i piani e facilmente si trovano ad agire e prendere posizione "confuse" agli uomini. Resto convinta che se non si sa nominare ed agire la differenza sessuale, che e' dell'essere umano, non si riesce a farlo neppure per le altre differenze che costituiscono le "parzialita'" decisive nella politica, da quella sociale, di classe, a quella tra occidente ed islam, tra centro e periferie dell'impero. Bisogna sapere che non e' piu' tempo di affiancare, con i luoghi e le pratiche separatiste, la politica dei partiti o dei movimenti. Se non siamo un soggetto tra gli altri, ma la differenza che taglia e attraversa tutta la politica, tutta la societa' e tutti i saperi, non si possono stabilire convergenze, e poi ritagliarsi un'area dove esprimere la differenza femminile, come un di piu'. Non voglio dire che non vi puo' essere condivisione con gli uomini; anzi ho prima detto il contrario, che dobbiamo porci il problema di spostarli, quindi vi e' esigenza di luoghi e pratiche di relazione. Ma le convergenze e le divergenze non possono non costituire il terreno, di volta in volta definito, del conflitto sessuato tra donne ed uomini sul patriarcato, sul fatto cioe' che l'ordine civile e' stato costruito, o pensato anche nei progetti di radicale trasformazione, su questo presupposto. Senza questo e' inevitabile che la questione dei rapporti con gli uomini rifluisca sul terreno privato, anche nelle sedi pubbliche, politiche. E' quanto avviene quando la si riduce ad un problema di rivalita' sui ruoli di potere, o sul protagonismo. Ma non mi convince neppure la tendenza a far coincidere la resistenza patriarcale con le posizioni di potere, e dunque con l'impermeabilita' delle istituzioni, piu' accentuata al vertici della piramide, mentre i movimenti, o comunque i luoghi della politica diretta, autoorganizzata sarebbero per loro natura piu' aperti. A ben vedere i primi gruppi femministi sono nati in conflitto con i movimenti, perche' riproducevano al loro interno e nella cultura politica la matrice patriarcale della politica. Penso che un' esigenza di conflitto, se volete di differenza agita e non ipostatizzata, si ponga rispetto ai movimenti attuali; ovviamente questo non puo' tradursi in una ripetizione della storia recente. Sono diversi i movimenti, sono diverse le donne che vi partecipano, siamo diverse noi femministe, direttamente coinvolte o no da queste esperienze, ma che tuttavia costituiamo, in modo piu' o meno soddisfacente, il luogo politico, simbolico e pratico, della differenza femminile. Insomma non mi convince una rappresentazione basata sulla distinzione, troppo semplificata e falsificante, che vede nel sistema politico ed istituzionale la faccia negativa della politica - autoreferenzialita', lotte ed interessi di potere, laederismo, carrierismo , decisionismo, ecc. - ed identifica nei movimenti, nelle pratiche sociali, la faccia positiva - partecipazione, passione, solidarieta', rispetto delle differenze, motivazioni ideali, ecc -. Si da' per presupposto che i movimenti esprimano essenzialmente le spinte innovative e critiche, poiche' muovono dalle contraddizioni reali, da bisogni avvertiti in prima persona; per questo non possono che favorire l'espressione della differenza femminile, essere piu' permeabile alla contaminazione. Di nuovo e' una lettura verosimile, solo se non si considera che la radice profonda del patriarcato e' nella sessualita' maschile, nella sua modalita' "possessiva", la quale genera il rapporto maschile con il potere. * Riprendere il filo della riflessione su sessualita' e politica e' un'altra ragione per riconsiderare gli anni '70, la loro feconda discontinuita'. Ci puo' aiutare a capire perche' persiste, ed anzi torna ad accentuarsi, una diffusa presa di distanza dalla politica da parte di molte donne. La questione e' come si puo' contrastarne una deriva antipolitica, di secco ritiro della delega per attestarsi nel privato, anche nella versione piu' positiva, di un rilancio di responsabilita' e capacita' di scelta in prima persona, cercando di incidere dove e come si puo', senza rinunciare a tessere rapporti e legami (e' questo spesso a motivare tante, apprezzabili, forme di volontariato, che non si sottraggono tuttavia, ne' lo vogliono in molti casi, ad una sostanziale privatizzazione di contenuti ed attivita' che riguardavano o dovrebbero riguardare la sfera pubblica). Su questo possiamo entrare in rapporto e scambio con molte donne che non sono state coinvolte dalla nostra storia e neppure in quella dei movimenti. Per concludere direi che, come non ci appartiene una visione della politica concentrata nel potere e nel governo, cosi' non ci corrisponde una politica che enfatizza il conflitto, in termini di antagonismo senza rapporto, una sorta di militarizzazione della politica, anche in chi si dichiara per la pace, e si mobilita contro le guerre. E' un carattere molto forte, e molto radicato nella tradizione della sinistra, con la quale dovremmo misurarci in profondita'. In particolare dovrebbe farlo una sede come la vostra, perche' si tratta di mettere in questione la logica dei rapporti di forza, come quella centrale e dirimente. Noi donne pur avendo conosciuto un conflitto radicale ed aspro con il patriarcato e con gli uomini, non ci siamo mai concentrate soltanto sulla questione del potere, o del dominio di un sesso sull'altro. Non potevamo farlo, perche' le donne che hanno dato vita al femminismo pativano non tanto una subordinazione, ma un inferiorizzazione interiorizzata. E non abbiamo potuto farlo perche' non c'e' soluzione di potere al conflitto tra i sessi, come ha ben visto Carla Lonzi. Non si tratta di proporsi di rovesciare i rapporti di forza, ne' di eliminare l'altro sesso, come la classe capitalista. Ancora, sappiamo che vi e' contaminazione costante con l'altro sesso, come vi e' tra le classi o tra le culture e che il problema piu' difficile e' proprio incidere in questa area comune. Sappiamo infine che vi e' molto da riconsiderare, se volete molto di "negativo" da capire ed elaborare, nell'identita' dell'oppresso o inferiore. Lo abbiamo visto nell'operaio o nel nero che lottavano, volendo contare sull'alleanza femminile, negando liberta' alle donne; ma lo abbiamo visto anche nelle donne oppresse. Senza perdere in radicalita' abbiamo dovuto rinunciare a dividere tra le parti in conflitto, utilizzando la lama affilata del dominio. Mi chiedo se presumere di saper tracciare con chiarezza la linea del conflitto, e dunque sapere in cosa consista la frontiera tra potere e liberta' non sia anch'essa una forma di paternalismo, ovvero un'eredita' del patriarcato con la quale dobbiamo fare i conti. 4. RIFLESSIONE. AMELIA CRISANTINO: GLOBALIZZAZIONE E QUESTIONE MERIDIONALE. UNA RIFLESSIONE IN SICILIA [Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo (per contatti: e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it) riprendiamo questo intervento gia' pubblicato sull'edizione palermitana de "La Repubblica" il 23 maggio 2003. Amelia Crisantino e' una prestigiosa studiosa e militante antimafia, collaboratrice del Centro Impastato di Palermo. Tra le opere di Amelia Crisantino: (con Giovanni La Fiura), La mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989; La citta' spugna, Centro Impastato, Palermo 1990; Cercando Palermo, La Luna, Palermo; Ho trovato l'Occidente. Storie di donne immigrate a Palermo, La Luna, Palermo 1992; Capire la mafia, La Luna, Palermo 1994; Della segreta e operosa associazione, Sellerio, Palermo 2000] Non ce ne siamo accorti, ma la globalizzazione ha compiuto vent'anni. Un'eta' di tutto rispetto per quello che viene in genere presentato come un fenomeno recente. Non considerando che le economie-mondo ci sono da sempre, come pure la divisione internazionale del lavoro e quello scambio ineguale che crea ricchezze e poverta'. Per comodita', accettiamo pure che la globalizzazione sia nata vent'anni fa. In un momento ben preciso, quando nel maggio dell'83 il guru del marketing Theodore Levitt, docente alla Harvard Business School, invento' la parola scrivendo sulla rivista di quell'universita' "la globalizzazione e' a portata di mano". Levitt scriveva della crescita dei consumi e quindi del marketing, applicando all'economia le tesi di Marshall McLuhan sul mondo come "villaggio globale" che diventa mercato per prodotti standard che inseguono i propri consumatori anche nel cuore delle societa' arretrate. * In questi vent'anni il ritmo dei cambiamenti legati all'inarrestabile corsa del mercato unico e' stato accelerato, come ben si conviene ad un'efficiente economia globale. Un po' bluffando e un po' no - pensiamo a quel prodotto davvero globale che e' la moda - l'Italia ha cercato di restare agganciata alla locomotiva, ostacolata dai suoi problemi non risolti. La questione meridionale e' il primo e il piu' grave fra questi problemi non risolti e, considerando che non si puo' scegliere di restare estranei a quello che nel bene e nel male si presenta come lo Spirito del tempo, forse e' il caso di riflettere su qual e' il nostro ruolo e quali nuove vie possiamo inventarci per migliorare le nostre possibilita' sulla scena globale. Allora. La scarsa competitivita' del Meridione e' storia vecchia, come pure il mancato controllo del territorio da parte dello Stato con connesso rigoglio mafioso. Dell'inadeguatezza della classe politica scriveva gia' Gaetano Salvemini, uno dei padri nobili del meridionalismo. Il Sud e' soffocato da difficolta' accumulate nei secoli, se vogliamo provare a ripartire bisogna cominciare dal definire chi siamo. Ridefinire la nostra identita', altro che assessorati sicilianisti. Un'identita' smarrita fra i vari corsi e ricorsi storici, come pure smarrito e' il senso collettivo e diffuso del nostro patrimonio culturale. * Viviamo in una societa' smemorata, pochissimo interessata a ricucire brandelli che non muovano interessi immediati. Sensazione che permane anche per quanto riguarda i giovani. Di fronte all'aria ammuffita che sembra stagnare sui vecchi problemi, anche i ragazzi piu' impegnati sembrano poco interessati alle dinamiche temporali e ai connessi meccanismi politici ed economici. I giovani sono molto piu' interessati alle reti spaziali e tendono a proiettarsi all'esterno, dove almeno si respira aria fresca. Non gli si puo' dare torto. Come aver voglia, a vent'anni, di faccende come la questione meridionale, che muta vesti per restare se stessa da un tempo infinito? Tranne gli appuntamenti rituali, le grandi manifestazioni contro la mafia ad esempio, l'aggregazione dei giovani e' su temi che con la Sicilia hanno poco a che fare. E' avvenuta la lacerazione simbolica di un tessuto di date, simboli, monumenti e quant'altro, che nessuna istituzione sembra piu' in grado di ricucire. Ai nostri ragazzi offriamo un deserto progettuale che fa paura, mentre la politica offre il solito spettacolo un po' macchiettistico e un po' squallido. I politici al potere difendono l'onore della Sicilia, lanciano anatemi contro testi e scrittori. Li salva la fretta o, chissa', magari l'ignoranza. Perche' al momento non risulta che siano state rilasciate dichiarazioni contro il Vittorini di Conversazione in Sicilia, o il Brancati di Paolo il caldo, senza contare i libri di Sciascia o, andando a ritroso, Pirandello e Verga. * Con un pizzico di razzismo, i sociologi hanno parlato di "familismo amorale" a proposito del Meridione, osservando scandalizzati una societa' in cui l'unica solidarieta' sembrava quella interna ai nuclei familiari. Oggi i politici che rappresentano la nostra regione hanno adottato lo stile del familismo amorale, che e' cresciuto diventando "localismo amorale" e lo spacciano per difesa della nazione siciliana. Il mondo viene visto come lontano, diverso, estraneo e nemico e, vecchia regola tartufesca, i panni sporchi si lavano in famiglia. Asserragliati in un fortino assediato da attacchi esterni e lacerato da faide interne, cosi' i nostri governanti si presentano ai loro elettori. Se non vogliamo andare a fondo con loro, bisogna cambiare copione. * Nel mondo globalizzato in cui restare fermi significa andare indietro, la sola possibilita' che ci si offre e' di puntare al glocale. Cioe' allo sviluppo della dimensione locale inserita su un inevitabile sfondo globale. La nostra storia, il patrimonio culturale e ambientale che conserviamo in modo colpevolmente distratto, ci offre l'opportunita' di non rimanere esclusi dall'equilibrio mondiale che ogni giorno si va costruendo. Ma il locale dovrebbe prima funzionare. Per dirla col Nobel Amartya Sen, servono valori oggi fuori moda: sanita' pubblica, scuola, giustizia, stato sociale flessibile. Su cui innestare sviluppo sostenibile e solidarieta'. Perche' il benessere si misura sugli indicatori economici ma, se proviamo ad umanizzarli, troveremo che la sua radice coincide con la possibilita' che gli individui possano scegliere liberamente il proprio destino. 5. RIFLESSIONE. DUE NOTE SULL'AZIONE DIRETTA NONVIOLENTA Il fatto che da un po' di termpo in qua si abusi della definizione di "azione diretta nonviolenta" per designare fatti i piu' diversi, dalle pagliacciate al teppismo (fatti che, va da se', con la nonviolenza non hanno nulla a che vedere), e' un sintomo insieme interessante e pessimo. Interessante, perche' l'aggettivo "nonviolento" sta cessando di essere inteso nel linguaggio comune (scilicet: quotidiano, ovvero mercificato e alienato) come sinonimo di quietismo e astensione, e sempre di piu' della nonviolenza viene colto finalmente il significato autentico (meglio: uno dei significati autentici) di intervento attivo, di teoria e pratica del conflitto, di proposta di lotta. Pessimo, perche' ad un ignobile calunnioso stereotipo (quello secondo cui la nonviolenza sarebbe impotenza e lagna, rassegnazione e ipocrisia) se ne aggiunge un altro non meno ignobile e calunnioso: l'abuso cialtrone della parola "nonviolenza" come trucco verbale per legittimare condotte che se definite nella loro nudita' con precisione e chiarezza sarebbero evidentemente inammissibili perche' ridicole, grottesche, squallide, o peggio: irresponsabili e sciagurate. * Varra' allora la pena di ricordare che perche' un'azione diretta possa essere qualificata come nonviolenta essa deve avere caratteristiche precise: il ripudio della violenza e la lotta contro ogni violenza; l'adesione alla verita'; la coerenza tra i mezzi e i fini; la concretezza e la pubblica utilita'; un programma costruttivo; il riconoscimento e la promozione dell'umanita' di tutti i soggetti coinvolti; la limpidezza nei comportamenti di chi la attua; la disponibilita' a soffrire anziche' a far soffrire; la sollecitudine per il bene di tutti, il rispetto per la vita e la dignita' di tutti; la coscienza del significato comunicativo, educativo ed esemplare di ogni gesto nello spazio pubblico; il rigore intellettuale e morale e la preparazione - l'ascesi - che la nonviolenza esige. Il che implica anche essere pienamente consapevoli delle conseguenze del proprio agire, e rinunciare a tutte quelle azioni che possano provocare a chiunque altro lesioni e umiliazioni, diminuzioni di umanita'. Ed infine e soprattutto implica di essere disposti a pagare il prezzo delle proprie azioni anche in termini di accettazione delle persecuzioni che ne possono discendere per la propria persona: Gandhi accetto' lunghissime carcerazioni come conseguenza delle sue campagne nonviolente, conscio di avere ragione ed altrettanto conscio che anche quel subire la detenzione iniqua fosse parte della lotta, e dell'esempio da dare: l'esempio di chi non si sottrae alla responsabilita' delle proprie azioni, e subisce anche l'ingiustizia per realizzare la lotta giusta contro l'ingiustizia, per affermare il dovere di resistere. Al di fuori di questo, ahinoi, vi e' l'equivoco; o peggio. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it, angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 753 dell'8 dicembre 2003
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