[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Carabinieri: "Ritiriamoci" --- La CIA: "Potremmo perdere"
- Subject: Carabinieri: "Ritiriamoci" --- La CIA: "Potremmo perdere"
- From: "Claudio Martinotti" <claudio.martinotti at farm.it> (by way of Alessandro Marescotti <a.marescotti at peacelink.it>)
- Date: Fri, 14 Nov 2003 21:25:18 +0100
Da: il "Giornale dei carabinieri": Sono stati uccisi per la guerra di Bush. Ora basta Nelle caserme dell'Arma non solo si è pianto di dolore e di commozione, ma anche di rabbia perchè non si doveva aspettare la strage, non bisognava mandare i carabinieri in Iraq per partecipare a una guerra americana. Il comando generale dei carabinieri ha fatto sapere che sono arrivate migliaia di attestazioni di solidarietà, ma Il Giornale dei carabinieri, letto da trentamila carabinieri, ha espresso anche il sentimento di angoscia per un sacrificio imposto da una guerra insensata. Dice l'editoriale firmato dal maresciallo Ernesto Pallotta: «Non dovevamo aspettare i morti per meditare sull'impegno italiano in Iraq. Contrariamente a quanto affermato da Bush, i fatti dimostrano che in Iraq vi è ancora la guerra. L'Italia non ha avuto un mandato parlamentare per partecipare a un conflitto armato. Di fronte ai morti diciamo basta e l'Italia deve allinearsi ai comportamenti assunti dalla maggior parte dei Paesi europei». C'è anche una dichiarazione del maresciallo Formiga, segretario generale del sindacato carabinieri in congedo: «Ci chiediamo con dolore perché i carabinieri devono morire per terrorismo all'estero. Chiediamo con forza che il nostro contingente torni in patria». L'hanno chiamata missione «antica Babilonia», ci partecipano tremila militari italiani, quattrocento sono carabinieri: operano nell'Iraq meridionale sotto comando britannico. Il loro principale compito definito «umanitario» è quello di «concorrere al mantenimento all'ordine pubblico». In un Paese occupato militarmente significa far rispettare le regole imposte dagli occupanti. Sono passati 24 giorni tra le minacce contro l'Italia e l'attentato che ha fatto strage di carabinieri, soldati e civili irakeni nelle palazzine del comando militare italiano a Nassiriya. Il messaggio di Al Qaeda trasmesso il 18 ottobre dalla tv del Qatar diceva: «Ci riserviamo il diritto di rappresaglia, al momento giusto e nel posto giusto contro tutti i Paesi che prendono parte a questa guerra iniqua, vale a dire Gran Bretagna, Spagna, Australia, Polonia, Giappone e Italia». Lo sceicco Omar Bakri, vicino alle posizioni di Al Qaeda, aveva avvertito gli europei che le minacce andavano prese sul serio. Come sempre la strategia terroristica ha messo in atto la sua devastante potenza nel luogo più vulnerabile, una città dove i militari italiani si sentivano protetti per aver fraternizzato con la popolazione, dove le strutture militari erano difese solo da sacchi di sabbia, dove non c'erano segnali allarmanti di guerriglia. Dopo le minacce, i vertici della Difesa avevano rafforzato la presenza del Sismi, il servizio segreto militare, sulla cui capacità di penetrazione tra i gruppi della gerriglia, erano fondate le speranze di poter evitare un'azione contro l'Italia. Gli agenti segreti avrebbero dovuto cercare contatti con le formazioni guerrigliere che avevano più peso nel controllo del territorio di Nasseriya: bisognava convincerle che i nostri soldati svolgevano solo compiti umanitari e offrire loro dei vantaggi se non li avessero considerati nemici. Missione difficile, al confine con l'irrealtà. Per questa è fallita. Dopo la strage il Sismi ha catapultato in Iraq altri agenti segreti per capire le ragioni del fallimento. «Scopriamo ora - dice Luigi Bonanate, docente di studi strategici all'Università di Torino- che in Iraq c'è una guerra a cui una parte sta reagendo con una guerra di guerriglia. Quando si è deciso di mandare "i nostri ragazzi" in Iraq si è usata la coloritura di dire che andavano per motivi umanitari e non come alleati degli Stati Uniti. E oggi ne piangiamo le conseguenze. Quei militari morti sono vittime del lavoro mandate in un cantiere malsano, come l'immigrato albanese morto nel malsano cantiere di Genova. Sono la tristissima testimonianza che non era vero, come hanno cercato di farci credere, che tutta la popolazione irakena era contro Saddam, che bastava rovesciare la statua del dittatore, per fare accettare l'intervento militare straniero. Il futuro dell'Iraq è nero, nero, nero. E' possibile che gli attentati continuino a colpire obiettivi situati prevalentemente nel territorio irakeno, perché le formazioni della guerriglia la ritengono una guerra di liberazione. Ma se non si rimuovono le ragioni della guerra, c'è il rischio che gli attentati siano esportati in altri scenari, come Europa o Stati Uniti, per coinvolgere ancora più profondamente l'opinione pubblica internazionale». La possibilità che le minacce siano seguite anche da azioni terroristiche nei Paesi occidentali è stata subito presa in considerazione dai nostri organismi di sicurezza. Il Ministro Pisanu ha convocato i vertici dell'antiterrorismo per studiare nuove misure di protezione per gli obiettivi più sensibili: saranno intensificati i servizi di vigilanza oltre che per gli aeroporti, le stazioni, le ambasciate anche per le strutture militari. Annibale Paloscia -------------------------- Un rapporto dei servizi segreti avverte la Casa Bianca che la situazione irachena potrebbe peggiorare «Potremmo anche perdere». Parola della Cia Nel giorno più nero della guerra irachena, arriva un colpo inaspettato anche dalla Cia. Le indiscrezioni tratte dal rapporto commissionato direttamente dal grande capo, George Tenet, sono state diffuse dal Philadelphia Inquirer con un tempismo che ha insospettito gli analisti politici. Secondo questi ultimi la Cia avrebbe voluto fare un regalo al proconsole dell'Iraq, Paul Bremer, fornendogli un mezzo per scavalcare i suoi diretti superiori al Pentagono e fare arrivare il messaggio direttamente nell'Ufficio ovale: le cose vanno male, e sono destinate a peggiorare. Un dossier al momento giusto. Non è la prima volta che la Cia contrappone alla propaganda dei neo-conservatori un'immagine più realistica della guerra ma non aveva mai descritto così chiaramente una "resistenza estesa, forte e destinata a diventarlo sempre di più". Il rapporto parla di circa 50 mila insorti che attirano sempre più adepti man mano che le condizioni della vita quotidiana peggiorano. E "non si tratta soltanto di un pugno di baatisti (i membri del partito-stato di Saddam), sono migliaia di persone che aumentano ogni giorno. Non sparano tutti ma forniscono supporto, rifugio e sostegno". Una prova evidente è il fatto che gli attacchi si stanno diffondendo per tutto il territorio, ben oltre il "Triangolo sunnita" - fra Baghdad, Tikrit e Ramadi - descritto dai media come il rifugio dei nostalgici. "Siamo destinati" continua la Cia "a perdere totalmente il controllo della situazione se non cambiamo rapidamente e radicalmente la situazione". Ma si tratta di un cambiamento che non può avvenire soltanto sul piano militare visto che ogni escalation da parte delle truppe di occupazione, oltre a dimostrare agli occhi del mondo che la guerra è tutt'altro che finita, innesca ulteriori motivi di risentimento. Per questo motivo l'amministrazione di Bremer non vede affatto bene la decisione dell'esercito di aumentare la pressione offensiva contro i ribelli con bombardamenti e raid pesanti. D'altro canto restarsene barricati nei propri fortini, come stanno facendo gli americani, non consente di mettere in moto il processo di ricostruzione che, quello sì, potrebbe ottenere il sostegno di una parte della popolazione. L'altra nota dolente è quella finanziaria. Gli attacchi agli oleodotti raggiungono raramente i telegiornali occidentali ma sono efficaci e quotidiani, e hanno di fatto polverizzato una delle belle pensate dei neo-conservatori: pagare la guerra col petrolio iracheno. Secondo i piani di Washington entro qualche settimana dalla fine della guerra i pozzi iracheni avrebbero dovuto ricominciare a pompare a pieno ritmo, ovvero tirare fuori i 2,5 milioni di barili al giorno dell'ante-guerra. Ma, vista totale incapacità della coalizione di proteggere gli oleodotti che attraversano il paese, siamo ben lontani dall'obiettivo. Le resistenze. L'Iraq è noto, è un paese diviso. Furono gli inglesi a tracciare i confini di uno stato virtuale, nel 1920, e furono loro i primi a bombardare i curdi, i sunniti e gli sciiti che non si piegavano. L'invasione americana sta riuscendo oggi dove perfino il pugno di ferro di Saddam aveva fallito, ricomponendo differenze etniche, politiche e religiose, in nome della cacciata dell'invasore. La resistenza è infatti composta di molte anime, ben diverse fra loro. La più agguerrita e sicuramente la meglio armata, perché ha accesso ai depositi nascosti da Saddam per l'Iraq, è quella composta dagli ex del formidabile apparato di sicurezza interno, cui si sono aggiunti i disoccupati dell'esercito vero e proprio smantellato dagli americani. Si è trattato di un errore strategico che non ha precedenti nella storia. A nessuno, infatti, era mai venuto in mente di dire a centinaia di migliaia di uomini di andarsene semplicemente a casa, lasciandogli le armi e smettendo di pagargli lo stipendio. Mentre nel Kurdistan iracheno vige una calma armata, nel nord dell'Iraq elementi tribali locali coltivano il sogno di un'isola sunnita - minoranza da sempre dominante - che non debba scendere a compromessi con le altre componenti. La latitanza degli americani alimenta l'illusione e rafforza gli organismi tribali visto che li costringe a difendersi da sé in un paese nel quale, non bisogna dimenticarlo, poco prima di capitolare Saddam ha aperto le prigioni liberando circa centomila criminali condannati. Nel sud sciita l'obiettivo di fondare una Repubblica islamica sul modello dell'Iran spinge alla resistenza armata. Anche qui le truppe della coalizione non controllano affatto il territorio: la relativa fortuna - fino a ieri - dei polacchi e degli italiani si doveva alla scelta di lasciar governare dalle autorità religiose o tribali città importanti come Najaf, Karbala e Bassora. Che dire di Al Qaeda? Bisogna sottolineare che prima dell'attacco americano la rete di Bin Laden e l'Iraq non avevano niente a che spartire mentre adesso, dopo l'invasione, il paese è diventato un luogo di attrazione per chiunque voglia "uccidere un infedele". Tuttavia le orde di discepoli di Osama previste dal Pentagono non si sono viste. Il motivo è molto semplice: talebani, afghani e pakistani il nemico ce l'hanno in casa, così come i fondamentalisti del sud-est asiatico. Fonti accreditate suggeriscono invece la presenza di un terrorismo regionale - dall'Arabia Saudita, Emirati Arabi, Yemen, Siria, Libano, Egitto e Palestina - ma numericamente poco consistente. Resta il fatto che non poteva esserci, per Al Qaeda, uno spot migliore della guerra di conquista scatenata da Washington e dei feroci bombardamenti costati così tante vittime civili. Sabina Morandi
- Prev by Date: Guerra in Iraq piu' letale dei primi tre anni in Vietnam
- Next by Date: Ogm: la frenata del Vaticano
- Previous by thread: Guerra in Iraq piu' letale dei primi tre anni in Vietnam
- Next by thread: Ogm: la frenata del Vaticano
- Indice: