La nonviolenza e' in cammino. 728



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 728 del 10 novembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Maria Luigia Casieri: mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
2. Da Verona per un'Europa nonviolenta
3. Claudio Bazzocchi: peace-building e interpretazione dei conflitti (parte
prima)
4. Enrico Peyretti: il seme della pace gettato oggi dentro i conflitti
5. Letture: Franco Fortini, Saggi ed epigrammi
6. Letture: Amos Luzzatto, Il posto degli ebrei
7. Riletture: Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica
8. Riletture: Francoise Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della
differenza
9. Riletture: Ida Magli, Sulla dignita' della donna
10. Riletture: Rosa Rossi, Ascoltare Cervantes
11. Riletture: Elena Soetje, La responsabilita' della vita. introduzione
alla bioetica
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. MEMORIA E PROPOSTA. MARIA LUIGIA CASIERI: MI ABBONO AD "AZIONE
NONVIOLENTA" PERCHE'...
["Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento
fondata da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per
tutte le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via
Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail:
azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org; l'abbonamento annuo e'
di 25 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite
bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso
BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB
11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona,
specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta".
Avvicinandosi la fine dell'anno, abbiamo chiesto ad alcuni amici della
nonviolenza di motivare l'invito - che ci permettiamo di rivolgere a tutti i
lettori del nostro notiziario - a  rinnovare (o sottoscrivere per la prima
volta) l'abbonamento ad "Azione nonviolenta". Oggi risponde Maria Luigia
Casieri (per contatti: nbawac at tin.it). Maria Luigia Casieri, nata a Portici
(Na) nel 1961, insegna nella scuola dell'infanzia ed e' una delle principali
animatrici del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo. Ha organizzato a
Viterbo insieme ad altri il "Tribunale per i diritti del malato"; assistente
sociale, ha svolto un'esperienza in Germania nell'ambito dei servizi di
assistenza per gli emigrati italiani; rientrata in Italia si e' impegnata
nel settore educativo; per dieci anni ha prestato servizio di volontariato
in una casa-famiglia per l'assistenza ai minori; dal 1987 e' insegnante di
ruolo nella scuola per l'infanzia; ha preso parte a varie iniziative di
pace, di solidarieta', per i diritti; ha tenuto relazioni a convegni e corsi
di aggiornamento, e contribuito a varie pubblicazioni]

Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche' sta dalla parte dei deboli senza
essere debole, ne' incline al compromesso; perche' lascia intravedere il
volto di dio senza essere una rivista teologica; perche' ha uno spessore
morale senza moralismi. perche' sa che le donne inverano il volto dell'uomo
che si riconosce nell'appello dell'altro; perche' sa che la politica,
l'economia, la morale non sono mondi separati; perche' sa che il cambiamento
o verra' insieme nelle culture, nelle strutture e nelle coscienze o non
verra'; perche' comprende il presente con uno sguardo e un respiro che vanno
lontano; perche' sa che la nonviolenza non e' conquista di breve periodo.

2. INCONTRI. DA VERONA PER UN'EUROPA NONVIOLENTA
Si e' svolto sabato 8 novembre presso la Casa per la nonviolenza di Verona
l'incontro con Lidia Menapace per sviluppare la proposta promossa da Lidia e
dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre "per un'Europa
neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta".
Sugli esiti dell'incontro, cui hanno preso parte tante persone provenienti
da vari parti d'Italia e che e' stato occasione di calda convivialita' e di
una intensa e profonda riflessione comune, pubblicheremo nei prossimi giorni
materiali e testimonianze.
Fin d'ora preghiamo tutte le persone che vi hanno preso parte di mandarci
interventi, sia di testimonianza che di riflessione ulteriore; cosi' come
rinnoviamo l'invito a tutti i nostri interlocutori ad inviarci altri
contributi che arricchiscano la proposta e il corale colloquio.
Ovviamente appena sara' pronta la stesura definitiva pubblicheremo anche il
testo dell'appello dall'incontro emerso; come si usa tra persone sagge ed
amiche esso non e' stato scritto nella fretta di una riunione che si
conclude, ma si e' dato mandato a Lidia di redigerlo valorizzando tutti i
contributi che l'incontro ha raccolto ed espresso.

3. RIFLESSIONE. CLAUDIO BAZZOCCHI: PEACE-BUILDING E INTERPRETAZIONE DEI
CONFLITTI (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo Claudio Bazzocchi (per contatti: claudio.bazzocchi at poste.it)
per questo intervento che sviluppa la riflessione proposta dall'intervento
di Francesco Tullio apparso sul n. 719 del primo novembre 2003 di questo
foglio. Come gia' abbiamo scritto, "come i lettori sanno, su questo foglio
non si ama accogliere interventi polemici, ma in questo caso gli
interlocutori sono due nostri cari amici che stimiamo come autorevoli
costruttori di pace, e forse questa riflessione, decantata dei modi forse
bruschi e dei possibili fraintendimenti che nel registro espressivo adottato
sono forse talora inevitabili ancorche' dispiacevoli, puo' giovare ad un
processo di chiarificazione di cui l'intero movimento per la pace ha grande
bisogno". La nonviolenza e' un'altra cosa dalla subalternita' e dalla
complicita' con un ordine iniquo del mondo, e un'altra cosa da un approccio
riduzionista ai problemi politici e sociali, e un'altra cosa dai naufragi
teorici e pratici di tanta parte dell'area cosiddetta pacifista e della
solidarieta': la nonviolenza e' - tra l'altro, ma decisivamente - la
proposta teorica e pratica piu' nitida ed intransigente di lotta contro
tutte le oppressioni e le menzogne.
Claudio Bazzocchi, gia' responsabile dell'area ricerca dell'Osservatorio sui
Balcani, precedentemente e' stato per nove anni dirigente del Consorzio
Italiano di Solidarieta' (Ics); fa parte del comitato promotore italiano del
Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali (il "Mauss" -
nell'acronimo che evoca anche l'eredita' teorica e civile del grande Marcel
Mauss - che in Francia rappresenta una rilevante esperienza di studio e di
impegno che ha come uno dei suoi principali promotori Serge Latouche); tra
le sue opere: La balcanizzazione dello sviluppo, Il Ponte, Bologna 2003.
Francesco Tullio, prestigioso studioso e amico della nonviolenza, e' uno dei
piu' noti peace-researcher a livello internazionale e animatore di molte
iniziative per la pace e la gestione e risoluzione nonviolenta dei
conflitti; nato a Roma il 18 giugno 1952, laurea in medicina e chirurgia,
specializzazione in psichiatria, libero professionista, psicoterapeuta,
esperto di gestione delle risorse umane, di prevenzione e trasformazione dei
conflitti, di problem solving organizzativo; docente di psicoterapia breve
alla Universita' di Perugia, docente di psicologia al master "Esperto in
cultura d'impresa" all'Universita' di Perugia, 2001, ricercatore a contratto
con il Centro militare di studi strategici nell'anno 1998-1999, presidente
onorario del Centro studi difesa civile (sito: www.pacedifesa.org) di cui e'
stato e resta infaticabile animatore, ha coordinato ricerche per diversi
enti, tra cui quella per l'Ufficio Onu del Ministero Affari Esteri su "Ong e
gestione dei conflitti. Il confidence-building a livello di comunita' nelle
crisi internazionali. Analisi, esperienze, prospettive"; promotore del
Centro di ricerca e formazione sui conflitti e la pace presso l'Universita'
di Perugia e dell'Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e per la
pace; numerose le sue esperienze come medico, in Germania, in Nicaragua ed
in Italia, sia in reparti di medicina che di chirurgia ed in particolare in
pronto soccorso, come medico di famiglia, inoltre come psichiatra nei
servizi pubblici ed in un servizio di medicina legale, infine come libero
professionista psicosomatista e psicoterapeuta; le sue attivita' di studioso
e formatore si sono incentrate sulla ricerca teorica, la gestione pragmatica
dei conflitti, sulla mediazione e la gestione delle risorse umane per e
nelle emergenze; e' impegnato dal 1970 in attivita' di volontariato per la
prevenzione della violenza e lo sviluppo umano; quale conduttore di
incontri, seminari, laboratori teorico-pratici, si e' occupato di gestione
dei conflitti, d'affiatamento di gruppi di lavoro, di gruppi di terapia e di
crescita umana; in ambito sociale tale interesse si e' tradotto in un
contributo culturale per la prevenzione e la gestione dei conflitti
intergruppali. In particolare ha coordinato ricerche e convegni sui temi
della violenza organizzata e della guerra; e' autore e curatore di diverse
pubblicazioni]

Ho letto con attenzione i punti di Francesco Tullio rispetto alle
argomentazioni del mio libro (1), in particolare nei confronti dell'ottavo
capitolo: Conflict-resolution e peace-building: depoliticizzare il
conflitto. Provero' a mia volta a replicare a Tullio e nel farlo ringrazio
questo foglio che, molto correttamente, me ne offre la possibilita'.
Devo dire prima di tutto che sono rimasto deluso dalle argomentazioni di
Tullio. Lo dico non per dare un giudizio di valore su quanto ha scritto, ma
per sottolineare che in quel mio capitolo, come nel resto del libro, credo
di porre dei punti di discussione piu' importanti di quelli tutto sommato
marginali presi in considerazione nella replica.
Mi concederete quindi di riassumere i contenuti di quel capitolo, al fine di
far emergere tutti i temi che, secondo me, dovrebbero essere discussi dal
movimento per la pace, serenamente, ma senza sconti e paure politiciste.
*
Le nuove guerre non possono essere interpretate come una rottura della
comunicazione (breakdown of communications) fra le parti
Ebbene, dobbiamo partire dalla considerazione di un dato di fatto molto
importante per chi si occupa di risoluzione pacifica dei conflitti e
costruzione della pace. Dall'inizio degli anni Novanta del secolo scorso
(parliamo quindi di 10-15 anni) sono aumentate enormemente sia in ambito
Onu, sia a livello governativo, le spese per i progetti di peacekeeping e
peacebuilding (tralascio le cifre per non appesantire il ragionamento).  Si
e' inoltre affermata, all'interno di tale contesto, la cooperazione fra
civile e militare (Cimic, Civil-Military Cooperation).
Tali programmi di conflict resolution e peacekeeping stanno coinvolgendo
sempre piu' le associazioni pacifiste tradizionali - che entrano cosi' a
pieno titolo nel sistema umanitario occidentale - e le ong, che salutano con
soddisfazione la realizzazione di quei progetti. In sostanza le ong e le
associazioni pacifiste danno atto alla comunita' internazionale di aver
capito la multidimensionalita' della sicurezza e della costruzione della
pace, che devono prevedere non solo la diplomazia ufficiale e la
ricostruzione materiale, ma anche la cosiddetta diplomazia del secondo
binario (2) e la ricostruzione sociale e culturale di una comunita'. Dal
canto suo la comunita' internazionale ha tutto l'interesse ad accogliere nel
sistema umanitario anche le associazioni pacifiste.
Quello che vogliamo dire e' che ormai si e' consumato un matrimonio convinto
fra governi occidentali, con il loro apparato militare e umanitario, ong e
associazioni pacifiste. Questo matrimonio viene vissuto dalle associazioni
pacifiste come una vittoria delle istanze della nonviolenza che da sempre
richiamano l'aspetto multidimensionale del conflitto e della costruzione
della pace, e la necessita' di coinvolgere vari attori sociali nella
risoluzione dei conflitti, che non siano solo gli esponenti della diplomazia
e della politica ufficiale.
A mio avviso le associazioni pacifiste non dovrebbero gioire troppo di
questo matrimonio. Non ne faccio un problema ideologico. Non mi da' pensiero
in questo rapporto il fatto che le associazioni pacifiste perdano la loro
purezza contaminandosi con i militari. Mi preoccupa che il matrimonio sia
avvenuto su un'interpretazione coincidente delle cause delle nuove guerre.
In sostanza sia le associazioni pacifiste, sia i governi occidentali
condividono il fatto che la guerra e' il risultato della rottura della
comunicazione fra gruppi etnici e della mancanza di strumenti culturali e
politici per gestire il conflitto in modo nonviolento o pacifico.
Cosi' come le ong vengono "arruolate" nei programmi di assistenza
psicosociale volti a sanare la violenza che starebbe nelle popolazioni
colpite dalla guerra, allo stesso modo le associazioni pacifiste vengono
messe al lavoro dai governi occidentali per far passare l'idea che le guerre
si compongono col dialogo e il ripristino della comunicazione fra le parti
in causa che, allo stesso tempo, devono essere dotate della mentalita',
della cultura e dei valori adeguati per affrontare in modo democratico i
conflitti.
E questa non deve essere considerata una vittoria per il movimento
pacifista. Infatti, i governi occidentali ottengono un risultato
importantissimo "arruolando" le associazioni pacifiste: quello di
depoliticizzare le cause ed i motivi delle nuove guerre con l'apporto
fondamentale dei gruppi pacifisti, che oltretutto perdono progressivamente
la capacita' di leggere le guerre da un punto di vista politico radicale. La
depoliticizzazione sta proprio nel considerare il conflitto come il
risultato di una rottura della comunicazione fra le parti, cosi' come dicono
gli stessi fondamenti della nonviolenza applicati alla risoluzione dei
conflitti e delle guerre. Ci sembra lucidissima la riflessione di Duffield
su questo tema: "Seguendo il lavoro psicosociale sul trauma, la risoluzione
dei conflitti da parte delle ong internazionali e locali e' pesantemente
influenzata dalla psicologia. Come il trauma essa e' incentrata
essenzialmente sull'individuo. Si comincia con gli individui e quindi con il
costruire reciproca confidenza fra gli individui e poi fra i gruppi, allora
il peacebuilding si muove verso l'esterno e verso l'alto. Da questa
prospettiva il conflitto e' visto come una rottura della comunicazione fra
gli individui e fra i gruppi. In un periodo di tensione, l'incomprensione si
sviluppa e porterebbe gli uni contro gli altri finche' non si raggiunge il
punto di rottura... La logica di vedere la violenza politica come una
rottura della comunicazione fra individui e gruppi fa si' che la pulizia
etnica e la guerra diventino una forma di errore, qualcosa che e' iniziato a
causa di una serie di incomprensioni che sono state lasciate sfuggire di
mano. Questo approccio ignora il problema dell'economia di guerra e della
razionalita' del conflitto e, inoltre, che i progetti nazionalisti
primordiali dei vari stati che si erano venuti creando, erano stati
orchestrati e preparati con largo anticipo dalle elites politiche e
intellettuali. In altre parole non si vuole vedere la guerra e la crisi
protratta come un mezzo per raggiungere un fine. L'approccio del
conflict-resolution e' non solo incredibilmente ingenuo, ma insulta anche
tutte quelle persone che hanno sofferto durante la guerra" (3).
Il richiamo di Duffield a considerare la violenza delle nuove guerre non
come un'aberrazione, ma come un preciso progetto politico rappresenta il
filo rosso del nostro ragionamento. Se la guerra viene considerata
un'aberrazione o un tragico errore, se questo tragico errore viene compiuto
per mancanza di strumenti e culture atte a mantenere il conflitto fuori
dalla sfera della violenza, se viene teorizzato il bisogno di una parte
esterna che medi fra le parti e insegni loro gli strumenti della
ricomposizione senza violenza, cio' significa che, al pari dei progetti
psicosociali, una parte esterna interviene per dire cio' che e' giusto e
cio' che e' sbagliato, e per definire un errore quello che in realta' e' un
preciso progetto politico.
*
Il contesto delle nuove guerre
E qui allora dobbiamo capirci bene sul concetto di "nuove guerre".
Ritengo che per lo piu' le nuove guerre siano state intese in modo errato,
dal sistema umanitario come in genere dal mondo accademico - tranne qualche
notevole eccezione in ambito anglosassone (4). L'errata comprensione di tale
fenomeno, che in un decennio ha causato milioni di morti, deriva dal fatto
che non si tiene in debito conto la natura di quelle guerre, che sono
conflitti per la costruzione di nuove forme statuali e di nuovi sistemi
politici, in cui cambia il rapporto fra cittadini e potere, non piu' mediato
dalle regole dello stato di diritto e dalle garanzie sociali del welfare, ma
dall'appartenenza etnonazionale e dal paternalismo autoritario, in un quadro
economico di creazione della ricchezza, tramite l'instabilita' diffusa e
network affaristico-mafiosi che controllano il commercio transfrontaliero.
Queste guerre non possono cosi' essere considerate ne' il prodotto di odi
secolari, ne' il risultato dell'avidita' di pochi e corrotti leader
politici. Si ritiene qui che i conflitti delle nuove guerre creino infatti
stati che non possono essere definiti "weak" o "failed" in senso
tradizionale, ma adattamenti flessibili e di lungo periodo alla
globalizzazione.
Nel Sud la crisi dello stato nazionale moderno viene affrontata con
l'emergere di economie grigie e informali, assieme alla crescita di progetti
politici di lungo periodo che ridefiniscono le forme dello stato e del
potere. E non dobbiamo nemmeno pensare a tutto cio' come ad aberrazioni o
eccezioni del processo di globalizzazione. Tali forme di sviluppo sono la
risposta del Sud alla globalizzazione, quel Sud che vive alla periferia del
cosiddetto capitalismo triadico, dal quale non e' isolato, ma col quale si
intreccia continuamente. Infatti, se e' vero che il capitalismo attuale,
come scrive Castells nei suoi studi (5), non opera piu' sulle basi
dell'inclusione, e' altrettanto vero che l'esclusione comporta comunque
relazione di connessione fra attori statali e non statali, affaristi di ogni
genere, consulenti privati o delle grandi agenzie intergovernative, reti
mafiose, eserciti privati, ong e cosi' via.
Il mio punto di vista e' allora quello di considerare le nuove guerre come
conflitti postmoderni che fanno emergere nuovi e originali progetti
politici, che si adattano alla globalizzazione nelle periferie del
capitalismo triadico. Dobbiamo pero' sapere che il senso comune che muove
tutto il sistema dell'aiuto umanitario occidentale, assieme alle cancellerie
che lo finanziano, fa derivare invece i conflitti delle nuove guerre dalla
scarsita' di risorse, dalla poverta', dall'ignoranza e da classi dirigenti
avide e corrotte. L'intervento del sistema umanitario si orienta a partire
da questa definizione per ripristinare la normalita' dello sviluppo
sostenibile attraverso le tecniche del conflict resolution e del supporto
alla nascita e alla promozione della societa' civile.
*
La collaborazione fra ministeri, centri studi militari e associazioni
pacifiste
Gia' da queste prime considerazioni capiamo che vi sono punti importanti che
meriterebbero ampio dibattito, a partire dall'analisi delle cosiddette nuove
guerre e dalla sfida che esse pongono al movimento pacifista e ai metodi
classici dell'azione nonviolenta: interposizione,  mediazione e tutte le
varie forme di training volte alla soluzione dei conflitti.
Mi e' sembrato che il lavoro di Tullio, nel libro da lui stesso curato per
conto del Csdc (Centro Studi Difesa Civile di Roma), fosse significativo di
un certo modo di considerare le nuove guerre, che vede oggi sulle stesse
posizioni i governi occidentali e molte associazioni pacifiste che si
occupano di risoluzione  dei conflitti.
Prima di entrare nel merito voglio dire che ho scritto anche che non e' un
caso che ricerche come quelle del Csdc fossero finanziate dal Ministero
Affari Esteri italiano o dal Cemiss.
Possiamo anche ricordare il documento "Consolidare l'impegno nella
prevenzione dei conflitti violenti: priorita' per le presidenze greca e
italiana dell'Unione Europea nel 2003", stilato da Saferworld e
International Alert, la cui edizione italiana e' stata curata dallo stesso
Csdc (www.pacedifesa.org/ricerche_e_pubblicazioni/index.asp). Si tratta di
un documento che viene redatto ogni anni da due ong prestigiose, che
ricevono un cospicuo finanziamento dall'Unione Europea per "accrescere
l'impatto dell'Unione Europea nella prevenzione dei conflitti violenti",
cosi' come leggiamo nella presentazione. Pensiamo poi ai tantissimi corsi
universitari di peacekeeping, conflict-resolution e peacebuilding a cui
partecipano civili e militari, operatori di ong e ufficiali dell'esercito,
attivisti pacifisti e funzionari governativi.
Allora la prima domanda che mi sono posto e': la guerra e' tornata ad essere
lo strumento principe delle relazioni inernazionali, ma nello stesso tempo
tutti parlano di conflict-resolution e peace-building, i pacifisti stanno
nelle piazze a contestare i governi occidentali in guerra e
contemporaneamente molte loro associazioni vengono finanziate da quegli
stessi governi per studiare le tecniche non armate di risoluzione dei
conflitti. Non c'e' qualcosa di strano?
La mia risposta e' che i governi occidentali, l'Unione Europea e i centri
studi degli eserciti finanziano le associazioni pacifiste perche' - come
abbiamo visto sopra - hanno tutto l'interesse a far passare
un'interpretazione depoliticizzata del conflitto.
Il problema allora non e' certo quello di ricevere soldi dai governi e piu'
in generale dalle istituzioni statali. Si tratta infatti di denaro pubblico!
Oltretutto chi scrive passa per essere un veterostatalista, e non potra' mai
obiettare nulla al fatto che organizzazioni della societa' civile ricevano
soldi dallo stato. Il problema non e' nemmeno quello di "contaminarsi" con i
militari. Non faccio questioni di purezza ideologica  o di opportunita'
morale.
La vera questione e' invece quella di capire se i pacifisti avallano
l'interpretazione dei conflitti come dovuti a poverta', ignoranza, avidita'
di pochi dittatori, mancanza di valori e strumenti culturali adeguati a
mediare i conflitti. Questa e' infatti un'interpretazione completamente
depoliticizzata della guerra, della violenza intrastatale e dei vari
fenomeni di instabilita' regionale presenti nel pianeta. Dobbiamo capire
insomma se anche noi vogliamo fare il gioco del mainstreaming occidentale -
accademico, governativo e militare - secondo cui la guerra e la violenza,
quando non umanitaria e preventiva, sia il portato di mentalita' inadeguate,
ossia il prodotto di popoli non occidentali, che ancora dovrebbero conoscere
le magnifiche sorti e progressive della liberaldemocrazia. Dobbiamo allora
dirci se anche il movimento pacifista vuole essere parte dell'oppressiva
cultura occidentale che non riconosce alcuna dignita' politica e sociale a
tutto cio' che accade fuori dall'Occidente, classificato e depoliticizzato
al rango infimo di barbarie, inadeguatezza, violenza endogena ecc. (6).
*
Un nuovo paradigma dell'aiuto umanitario
Aggiungo un ulteriore elemento per continuare a porre meglio le mie domande.
Nel dibattito interno al sistema umanitario a partire dagli anni Novanta del
secolo scorso e' emerso con forza il tema della coherence. Coherence
significa che nei nuovi conflitti aiuto umanitario, politica, diplomazia e
commercio devono lavorare assieme con l'obiettivo della stabilita' e dello
sviluppo. Conseguenza dell'istanza della coherence e' la necessita' di
affermare il link relief-development, assistenza di emergenza e sviluppo.
Come ha scritto Duffield, "l'aiuto viene ridefinito come parte di un quadro
strategico crescente in grado di portare assistenza umanitaria, sviluppo,
commercio, diplomazia, assistenza militare e cosi' via, insieme funzionanti
come un tutto unico" (7).
Nel 1997 il Comitato di Aiuto allo Sviluppo dei paesi Ocse, nelle sue Linee
Guida su Conflitto, Pace e Sviluppo, affermo': "Prevenzione del conflitto e
peace-building devono essere coerenti, integrati e con l'obiettivo di
aiutare a risolvere le cause profonde dei conflitti. E' cosi' richiesta una
stretta cooperazione di tutti gli strumenti politici (cooperazione fra
diplomazia, elemento militare, commercio e sviluppo) basato sui loro
rispettivi vantaggi comparativi" (8).
Quello che forse e' il documento piu' importante degli anni Novanta
sull'aiuto umanitario e le politiche di sviluppo, il Libro bianco sullo
sviluppo internazionale del 1997 del Dfid britannico - la cooperazione
governativa del Regno Unito -, delinea i principi ispiratori di quello che
viene chiamato "nuovo umanitarismo": "La stabilita' politica, sia interna,
sia fra gli stati, e' la necessaria precondizione per l'eliminazione della
poverta'... Noi dispiegheremo i nostri strumenti diplomatici e di assistenza
militare e allo sviluppo in maniera coerente al fine di: estendere i valori
delle liberta' civili e della democrazia, lo stato di diritto e il buon
governo, e promuovere lo sviluppo di una vibrante e forte societa' civile;
rafforzare la coesione sociale, promuovere gli sforzi di mediazione e
incoraggiare la rinascita delle societa' dopo un conflitto; proteggere e
promuovere il pieno beneficio dei diritti umani; aiutare a risolvere i
problemi politici e non, che sono alla base di un conflitto; sostenere le
misure per tenere sotto controllo le possibilita' di muovere guerra; fornire
assistenza umanitaria per le vittime dei conflitti e delle persecuzioni;
contribuire al mantenimento internazionale della pace" (9).
L'aiuto acquista cosi' una dimensione tutta politica, non piu' confinata al
contenimento delle sofferenze prodotte da una guerra o da una catastrofe
naturale. Nello stesso documento possiamo allora leggere: "Questo non e'
solo un libro bianco sull'aiuto. E' un libro bianco sullo sviluppo e su un
futuro sicuro per il nostro pianeta e la sua gente. Il nuovo Dipartimento
per lo Sviluppo Internazionale ha lo scopo di... contribuire
all'eliminazione della poverta' nei paesi piu' poveri, non solo attraverso
programmi bilaterali o multilaterali, ma mediante un lavoro collaborativo
con gli altri dipartimenti per promuovere la compattezza e la coerenza nelle
politiche che riguardano lo sviluppo" (10).
Negli anni Novanta del secolo scorso comincia cosi' a configurarsi un nuovo
paradigma della sicurezza e dello sviluppo per i governi occidentali. Quel
nuovo paradigma e' in sostanza il risultato di un'operazione ideologica e
politica volta a scardinare il principio della sovranita' degli stati e
l'idea di sviluppo come distribuzione di risorse nell'ambito di un quadro
statuale. Con questo non voglio affermare che il principio della sovranita'
degli stati debba essere difeso sempre e comunque. Voglio sottolineare che
in quegli anni il dibattito su quel principio si caratterizzo' in modo
ideologico per introdurre un nuovo concetto di sicurezza e di aiuto,
funzionale ai piani delle potenze occidentali.
I governi occidentali vollero infatti garantirsi la possibilita' di imporre
i piani di aggiustamento strutturale - e quindi affossare definitivamente
l'idea classica di sviluppo della quale peraltro non siamo nostalgici - e di
potere intervenire con tutti gli strumenti possibili, dal militare al civile
passando per le compagnie private, per intraprendere la riforma delle
mentalita' e dei comportamenti in stati non piu' considerati sovrani, ma
corpi sociali da stabilizzare.
Ora le cause dei conflitti sono stabilite dall'Occidente in termini di
cattive relazioni interne e istituzioni inadeguate: scarsa organizzazione
economica, degrado ambientale e, soprattutto, istituzioni politiche
autoritarie e non democratiche. Nella letteratura questo tipo di
interpretazione dei conflitti viene definita col termine tecnico
internalisation. L'internalizzazione dei conflitti occupa il vuoto lasciato
dalla fine delle grandi spiegazioni della poverta' e del sottosviluppo cui
avevano contribuito il blocco socialista, quello dei paesi non allineati e i
vari movimenti progressisti che ragionavano sul rapporto Nord-Sud del mondo.
Gli interventi del sistema umanitario, all'interno del nuovo paradigma di
sicurezza, saranno sempre quindi di tipo tecnico e uniforme, nei Balcani,
come nell'est europeo, nel sud del Mediterraneo, come nell'Africa centrale.
Emergono qui due punti fondamentali.
Il primo e' che questo modello di sicurezza ottiene anche il risultato di
depoliticizzare le grandi questioni della poverta', dello sviluppo, dello
sfruttamento e del rapporto Nord-Sud del pianeta. L'instabilita' e la
poverta' non vengono considerate piu' un problema di relazioni economiche di
sfruttamento, ma come incapacita' di accedere ai benefici della
globalizzazione, capacita' che si acquisisce tramite il cambiamento dei
comportamenti e delle mentalita'. Lo sviluppo viene concepito come una serie
di tecniche volte ad aumentare le informazioni presso la popolazione, in
modo che ognuno possa competere nell'area del libero mercato. Scompare lo
stato, le politiche fiscali, la lettura della societa' in cui si opera,
eventuali condizioni di sfruttamento interno ed internazionale, che tengano
le popolazioni in poverta'. Vediamo allora che un primo obiettivo viene
raggiunto: l'oscuramento delle cause strutturali dell'instabilita' e del
sottosviluppo, proprio nel momento stesso in cui si dice che si lavora per
lo sviluppo.
Il secondo punto da sottolineare e' che questo e' un sistema di governance e
di sicurezza apparentemente liberal, nel senso americano del termine, cioe'
democratico e progressista. Queste politiche non vengono imposte con la
violenza - se non quella iniziale degli eserciti adottata, si dice, per i
diritti umani o contro il terrorismo e quindi non certo per colonizzare in
senso tradizionale - ma attraverso il dispiegamento del sistema dell'aiuto
umanitario, che si presenta cooperativo per definizione e apportatore di
valori e pratiche umanistiche: diritti umani, societa' civile, parita' di
genere, democratizzazione ecc. Questo punto e' molto rilevante per le ong
che si rendono complici di questo nuovo modello di sicurezza che oscura le
cause strutturali della poverta', e che rischiano di depotenziare la carica
di critica forte delle relazioni di sfruttamento economico che aveva
caratterizzato la loro storia fino agli anni Novanta.
Vogliamo anche noi pacifisti essere complici di questa operazione
ideologica, aiutando i governi occidentali a oscurare le cause vere di
conflitti delle nuove guerre? Vogliamo essere parte del sistema della
coherence?
*
Note
1. Bazzocchi C., La balcanizzazione dello sviluppo. Nuove guerre, societa'
civile e retorica umanitaria nei Balcani (1991-2003), Il Ponte, 2003.
2. Per diplomazia del secondo binario si intende il lavoro di costruzione
della pace che coinvolga non solo le diplomaie ufficiali, ma anche e
soprattutto i vari attori sociali presenti in un contesto di guerra, a
partire dalle forze della societa' civile.
3 Duffield M., Lunching with Killers: Aid, Security and the Balkan Crisis,
in Schierup C. U., Scramble for the Balkans, pag. 142, London 1999.
4. Vedi Kaldor M., Le nuove guerre, Carocci 1999; Duffield M., Global
Governance and the New Wars, Zed Books 2001; MacRae J., Aiding recovery? The
Crisis of Aid in Chronic Political Emergencies, Zed Books 2001.
5. Cfr. Castells M., La nascita della societa' in rete, Milano 2002.
6. Su questo Edward Said ha scritto pagine definitive nel suo Orientalismo,
cosi' come ha fatto Todorova nel suo recente Immaginando i Balcani. Si veda:
Said E., Orientalismo, Feltrinelli 1999; Todorova M., Immaginando i Balcani,
Aego 2001; Bazzocchi C., Recensione di M. Todorova, Immaginando i Balcani,
Osservatorio Balcani 2003 (www.osservatoriobalcani.org).
7. Duffield M., Privatisation, Global Governance and International Security,
cit.
8. Oecd, Draft Dac policy guidelines on conflict, peace and development
cooperation, note by the Secretariat, Paris 1997, paragrafo 19.
9. United Kingdom, White Paper on International Development, Department for
International Development, London 1997, pagg. 67-69.
10. United Kingdom, White Paper on International Development, cit. Overseas
Development Insitute, Hpg Report 10. Politics and Humanitarian Aid: Debates,
Dilemmas and Dissension, London 2002; Overseas Development Insitute, Hpg
Report 11. The new humanitarianisms: a review of trends in global
humanitarian action, London 2002.
(Parte prima. Continua)

4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: IL SEME DELLA PACE GETTATO OGGI DENTRO I
CONFLITTI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscali.it) per averci
messo a disposizione questo suo intervento tenuto al Primo colloquio del
gruppo "Oggi la Parola", su "Apocalissi: non distruzioni ma rivelazioni?"
svoltosi dal primo al 3 novembre 2002 a Camaldoli, e pubblicato in Giordano
Remondi (a cura di), Apocalissi: non distruzioni ma rivelazioni?, Edizioni
Camaldoli, 2003. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di cui abbiamo pubblicato il
piu' recente aggiornamento nei numeri 714-715 di questo foglio, ricerca una
cui edizione a stampa - ma il lavoro e' stato appunto successivamente
aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario
della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001. Una
piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n.
477 del 15 gennaio 2003 di questo notiziario]

"La soluzione del problema dell'educazione e' quella che si puo' chiamare
del "profeta", il quale e' nella comunita' e partecipa alle interazioni, ma
porta una dimensione singolare: annunciando una verita' si pone in aperta
polemica con la realta' circostante, e sollecita questa diffidenza verso il
presente e questa apertura al futuro, in nome di valori che non vede
dispiegarsi nella loro autenticita' se non in antitesi recisa con cio' che
e' attuale".
(Aldo Capitini, L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze 1951, pp. 7-8)
*
"Dopo l'11 settembre e la guerra in Afghanistan i cittadini sentono di
essere immersi in un mondo dominato dalla violenza politica e il terrorismo.
Dopo piu' di un anno, a colpi di immagini terribili ed allucinanti
testimonianze, i grandi mezzi di comunicazione diffondono il terrore dando
notizie di attentati spaventosi, esplosioni micidiali, spettacolari
sequestri di ostaggi. Non passa settimana senza che si versi un doloroso
tributo di sangue, da Israele a Bali, da Karachi a Mosca, dallo Yemen alla
Palestina. Dando cosi' l'impressione che il pianeta sarebbe spazzato
dall'uragano di una specie di nuovo conflitto mondiale - "la guerra contro
il terrorismo internazionale" - ancora piu' atroce dei precedenti. E del
quale l'eventuale guerra americana contro l'Iraq non sarebbe che un semplice
episodio.
Quest'impressione e' falsa. Contrariamente alle apparenze, la violenza
politica non e' mai stata tanto debole".
(Incipit dell'articolo di Ignacio Ramonet, Guerra sociale, in "Le monde
diplomatique", novembre 2002)
*
1. La violenza non uccide solo le vittime, ma minaccia di stroncare la
passione vitale, diventa vergogna e colpa anche in chi sa e assiste. C'e'
una solidarieta' costrittiva, nel male. Non si puo' vivere in un mondo che
uccide. Eppure, disperati, non disperiamo. Ma e' necessario sapere come fare
per non disperare, che sarebbe complicita', assoggettamento. E' necessario
sapere se ci sono ancora semi di buon grano nel campo invaso dalla zizzania.
C'e' soltanto la guerra d'impero, distruttiva? Oppure sta resistendo, sta
nascendo, sta rivelandosi altro?
Se non ci fosse un seme di pace, sarebbe tutto guerra. Capitini diceva: "se
la realta' e' cosi', io non l'accetto, cerco e attendo una realta'
liberata". Non accettare la realta' che si impone, e' gia' un seme di
apertura all'alterita', alla novita'. Ancora Capitini: la non rassegnazione
alla morte, alla violenza e al male e' piu' religiosa della rassegnazione.
Gandhi, rispondendo all'obiezione sulla violenza dilagante nella storia,
dice: non regna la violenza, altrimenti l'umanita' avrebbe cessato di
esistere da lungo tempo (cfr. Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi
1996, pp. 62-65). "La nonviolenza e' antica come le colline". Questa di
Gandhi e' un'affermazione dal valore teoretico maggiore di quanto appare a
prima vista. Esso e' mostrato da Roberto Mancini nella conferenza La
promessa della pace (Universita' di Vercelli, 11 marzo 2002; in corso di
pubblicazione nella rivista "Filosofia e teologia") nella quale insiste
sulla portata "rivelativa" della "irriducibile ricerca della sua [della
pace] realizzazione".
*
2. Il fatto stesso che il male ci offende e' segno che abbiamo una coscienza
invincibile del bene, la quale e' una forza fondamentale irriducibile,
opposta al male lussureggiante. Solo se ci si rassegna al male, o ci si
allea o adegua ad esso, questa forza e' perduta.
Il male, pi' ancora che nella violenza bellica e omicida, consiste nel
dominio, anche statico e tranquillo; il dominio decide col pollice
imperiale, o per incoscienza, la vita della maggioranza dell'umanita'.
Il dominio sarebbe vincitore se lo accettassimo, se non ci scandalizzasse,
se fosse per noi "normale", cioe' "norma". E' cio' che esso cerca con
l'imporsi alle menti, piu' ancora che ai corpi, oggi mediante le false
immagini propinate dal sistema mediatico globale.
Se abbiamo nel piu' profondo di noi stessi il desiderio di non-dominio (ne'
servi ne' padroni), di riconoscimento, armonia, rispetto tra noi tutti,
allora abbiamo in noi il seme della pace.
*
3. La causa giusta non e' mai perduta. La giustizia, il diritto-dignita'
sono manifestati, esaltati, dall'atto stesso che li offende. Violato, il
diritto si dimostra inviolabile. Invisibile nella quiete, risalta sotto
l'offesa. Appare alla vittima che ne soffre l'offesa, appare a chi soffre
per compassione, talvolta appare anche a chi lo ha offeso. Smascherare ogni
dominio e' mettere in luce il diritto violato-inviolabile. "Perche' mi fai
questo male?": in questo grido, anche dell'animale, dice Simone Weil, sta
tutta la verita'.
*
4. Il terrorismo non e' l'origine del male, ma e' rivelazione di un male
piu' profondo: il terrorismo e' causato dalle ingiustizia (cfr., per fare un
esempio non sospetto, l'articolo di Stiglitz, in "Internazionale", 25
ottobre 2002) ed e' usato dal potere dominante (vedi i libri di Giulietto
Chiesa, di Gore Vidal, di Noam Chomsky).
E' causato dalle ingiustizie: ormai il 20% consuma l'86%; il 20% piu' ricco
ha un reddito 84 volte quello del 20% piu' povero (era 30 volte nel 1960);
il patrimonio dei primi 10 miliardari e' 1,3 volte il reddito complessivo
dei 48 paesi piu' poveri; una super-societa' escludente, formata da meno di
cento milioni (comprese famiglie e corti) di potenti nel mondo, governa i
governanti statali e decide dei popoli (Giulietto Chiesa, La guerra
infinita, Feltrinelli). Le ingiustizie offrono l'occasione ad altri violenti
di impugnare ingiustamente la causa della giustizia, oltretutto
espropriandone i veri titolari.
Ed e', il terrorismo, utile ai potenti per giudicare e condannare a morte
ogni idea di ribellione nelle masse. Dal punto di vista del potere e' bene
che esse confidino nel terrorismo: il dominatore ha bisogno di una rivolta
ingiusta per confermarsi militarmente e moralmente: vis grata potenti.
Il delitto anti-dominio non fa giustizia, ma e' colpevole della stessa
colpa, e' delitto piu' delitto. Dominio e rivolta violenta sono speculari,
la copia una dell'altro. Il seme nuovo e' il cammino di liberazione dalla
violenza oppressiva, nella liberta' dalla violenza propria come da quella
altrui (Gewaltfreiheit). E' questa la forza vera (satyagraha) che e'
l'opposto della violenza.
La critica non e' crimine, il crimine non e' critica. La critica del dominio
viene criminalizzata dal dominio smascherato, per rimascherarsi da ordine
giusto. Il crimine che fa strage per fare dell'anti-dominio non e' critica e
non smaschera il dominio, ma lo imita, lo riproduce, lo perpetua, lo
conferma come unica logica.
*
5. Semi di pace sono oggi, per fare qualche esempio:
- le realta' di non-impero dentro l'impero: dove c'e' non-dominio, ma
equi-valenza, socialita' paritaria, a-gerarchica, dove c'e' amicizia;
- le realta' di "societa' di soci" dentro e sotto la super-societa'
escludente che fa la super-guerra;
- le realta' di esperimenti operativi di base di economia nonviolenta piu'
cooperativa che competitiva: finanza etica, consumo critico, commercio equo
e solidale;
- le realta' di pensiero universalistico, di cultura planetaria
anti-imperiale, di cultura del conflitto nonviolento e costruttivo;
- le realta' di dialogo e ascolto tra le grandi voci e sapienze umane e
profetiche, senza imperialismo dell'una sull'altra, ne' totalitarismo
(pretesa di avere tutto cio' che hanno le altre);
- le realta' di tante associazioni comuni a israeliani e palestinesi per
costruire oggi un futuro di pace;
- le realta' di tante azioni civili di prevenzione, presenza, vicinanza,
soccorso, mediazione in zone di guerra, che anticipano nuovi modelli di
difesa e di soluzione dei conflitti; su queste realta' c'e' ormai una
letteratura storica;
- le realta' di cittadini, anche della metropoli, che manifestano col
cartello "We are Afghani" (a New York, dopo l'11 settembre, come vedo in una
mostra fotografica agli Scavi Scaligeri, Verona, settembre 2002):
l'identificazione umana col "nemico" condannato abbatte il muro del dominio
e della guerra per il dominio;
- le realta' di cittadini del mondo che si dissociano dal governo del mondo
che fa guerra: "Not in my name" (come dice anche, negli Usa, l'associazione
delle vittime dell'11 settembre);
- le realta' di culture e pedagogie che non si limitano (come il pur grande
pacifismo umanistico, per esemio di Erasmo) a deprecare e denunciare la
guerra, ma costruiscono e praticano alternative alla guerra nella soluzione
dei conflitti a livello micro, meso, macro.
*
6. Vedo tre tipi di pace: 1) la migliore: prima e invece della guerra; 2) la
peggiore: a conclusione della guerra; questa e' guerra, non e' pace, e'
l'imposizione della volonta' del vincitore al vinto, supremo atto di guerra
(al massimo e' pace negativa, cessate il fuoco, non pace positiva); 3) la
piu' significativa: dentro la guerra; questa e' la pace come seme: per
esempio il mio amico Josef Schiffer, un soldato tedesco (assolutamente non
il solo!) che aiuto' la popolazione italiana durante l'occupazione: piu'
uomo che soldato; per esempio i 500 refusnik israeliani: anche soldati, ma
di piu' uomini di coscienza. In tutti i tempi e in tutte le guerre ci sono
stati di questi semi.
Non vale piu' il concetto di pace statica (la tranquillitas ordinis di
Agostino): la pace e' dinamica, e' la capacita' di trasformazione
nonviolenta dei conflitti. E' possibile sviluppare questa scienza e arte
persino dentro i conflitti violenti; a maggior ragione dentro i conflitti
non ancora degenerati in guerra, ancora gestibili in modo costruttivo.
Cio' che e' deprecabile non e' il conflitto (che e' parte della vita, il
contrasto tra le differenze naturali, e non piu' sinonimo di guerra), ma la
sua forma violenta, eliminatoria, distruttiva di uno dei due termini per
distruggere la differenza.
La pace non e' uno stato, non e' un evento, ma un processo in via.
*
7. il Regno di Dio evangelico ha forma di seme, ha la "dimensione del
villaggio" (Giuseppe Barbaglio, Scuola Vasti, 2 giugno 2002,
vasti at eistours.com). Il Regno c'e' come seme, e' "in mezzo a voi" come
inizio: c'e', ma verra'; verra', ma c'e'.
Cosi' e' seme la pace: inizio, cammino avviato, cammino da fare; ricerca,
non ricetta, ma ricerca fondata nelle origini e nel futuro.
Se sono semi sono da coltivare: coltivazione delle cose umane e' la cultura:
la pace e' cultura, come la violenza e' in radice cultura, poi struttura,
poi atto.
Il vero "scontro di culture" e' tra la cultura di guerra (che comprende sia
il dominio sia il terrorismo) e la cultura di pace. L'immagine ideologica
dello "scontro di civilta'" oggi serve a nascondere il gravissimo conflitto
sociale mondiale.
*
8. Gesu' non ha una apocalittica ma una escatologia etica (Pier Cesare Bori,
Scuola Vasti, 2 giugno 2002, vasti at eistours.com): la crescita del seme
dipende dal tipo di terreno, che siamo noi; il seme cresce anche se
dormiamo, percio' fiducia: il seme ha una sua vitalita', non data da noi,
dalla nostra opera. Ma occorrono operai per la messe: e' richiesta anche la
nostra opera, il nostro lavoro. Dunque, ne' illusione, ne' disperazione, ne'
attesa dell'ineluttabile, ma lavoro.
*
9. Il seme non e' evidente, non imperante, non vincente, ma morente per dare
vita.
Le vittime di violenza bellica, oggi civili al 90%, e le schiere quotidiane
di vittime delle violenze strutturali, sono il seme macerato, sono i cristi
uccisi e risorgenti.
La loro azione che redime la storia e' il crescente (sui tempi umani lunghi,
non nei brevi passaggi) ripudio della guerra: nelle carte costituzionali;
nelle coscienze non succubi; nella cultura alternativa (metodi, movimenti
popolari, istituzioni, cultura elaborata, pedagogia).
*
10. La pace ha forma di seme morente-germogliante, non ha forma di vittoria,
perche' la vittoria uccide la pace; perche' la vittoria divide e la pace
unisce; perche' "giustizia e verita' disertano il campo dei vincitori"
(Simone Weil); perche' e' bestemmia cantare il Te Deum per una vittoria in
guerra (Kant. Ma lo stato festeggia ancora il 4 novembre!); perche' Dio,
contro una teologia militare presente anche nella Bibbia, non e' un
vincitore, ma un servitore, che sta in basso, dove stanno i semi, e solo per
questa via salva il mondo.
*
11. Se la pace e' il seme del mondo che verra', della terra rinnovata, la
guerra e' il peso e l'oscurita' della terra com'e' ora.
La terra fa ostacolo ma anche nutre e regge il germoglio, malgrado la sua
natura pesante e seppellente. Il seme lotta con la terra, per vivere, ne
succhia le virtu', ne solleva il peso opprimente, ne trapassa le opacita' e
oscurita', in qualche modo la solleva verso il cielo, la apre dal buio alla
luce.
La luce attrae il seme, che fora la terra per incontrarla. L'albero ha
radici in cielo, dice Simone Weil.
La terra raccoglie con pieta' materna il sangue di Abele, e grida al cielo
l'orrore; nello stesso tempo seppellisce, nasconde, nega le vittime.
La terra e' l'oggetto del desiderio violento di conquista, col petrolio e i
diamanti che promette al piu' violento stupratore.
La terra e' il campo che sorregge - e non li sprofonda! - i combattenti, i
loro carri e le loro macchine omicide, e in questa complicita' nel delitto
oggi coinvolge anche il cielo, dal quale cade la guerra aerea unilaterale -
plotone d'esecuzione in posizione di sicurezza.
La terra e' anche vittima essa stessa, dell'uranio impoverito, dei crateri
inquinati di scorie, semi avvelenati, per un futuro malato a morte, di
secoli e millenni.
Come la terra, anche la storia non e' univoca, ma contraddittoria, ambigua,
percio' almeno non la da' vinta al dominio. Non e' "finita", non e'
arrivata: questa che vediamo non e' la sua realizzazione, non e' la sua
verita'.
Questo stato attuale della terra umana, stretta tutta da un potere unico,
gerarchizzata tra una cima, un centro opulento e decisore, e una marea di
periferie di esclusi, non e' la sua natura compiuta.
Il seme e' nella terra, e' nella storia. La pace e' per questa terra - Pacem
in terris, 1963-2003 - per questa storia. Questo e' il campo seminato. Chi
"religiosamente" espelle la pace in una speranza fuori dalla storia,
abbandona il mondo alla violenza, tradisce il cammino, il campo, l'opera,
respinge empiamente su Dio il compito che lui ci da' insieme alla vita, alla
terra, alla storia.
*
12. Il seme e' "gettato": e' condizione di rischio, la gettatezza (puo'
corrispondere a quella "logica e metafisica dell'abbandono" che Roberto
Mancini contrappone all'originario costitutivo "codice del bene"; cfr. Il
silenzio, via verso la vita, Qiqaion, Bose 2002); ma e' anche irruzione,
aggiunta, novita', speranza, fecondazione - di cio' che e' gettato. Qui
vediamo il piombare tra noi piu' che la provenienza: da dove ci viene questa
sete di giustizia? Non dal mondo ingiusto. Quel seme e' dunque anche mistero
(dice la terra del seme, come il popolo nel deserto diceva della manna: "
man-hu? che cosa e' questo?"), e' non-possesso, presente non-preso, e'
conosciuto e sconosciuto, lo accogliamo e gli diamo corrispondenza intima
affinche' si riveli a noi. L'Apocalisse e' questo, gia' ora, e sara' questo.
Allora, piu' ancora che seme immesso, gettato in un mondo senza pace, la
pace e' il suo fondamento di senso: non uno stato originario da cui il mondo
sarebbe decaduto, ma il suo codice intimo, la sua promessa in via di
travagliata rivelazione.

5. LETTURE. FRANCO FORTINI: SAGGI ED EPIGRAMMI
Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, pp. CXXXIV +
1.864, s. i. p. Con notevole apparato critico, il testo integrale e
definitivo di alcuni libri di Fortini (Verifica dei poteri, I cani del
Sinai, Saggi italiani, L'ospite ingrato primo e secondo, Breve secondo
Novecento), e un'ampia selezione di scritti scelti 1938-1994 (alcuni apparsi
gia' in altri volumi di Fortini, altri restati dispersi in rivista, ed
alcuni rilevanti inediti). Un volume che raccomandiamo.

6. LETTURE. AMOS LUZZATTO: IL POSTO DEGLI EBREI
Amos Luzzatto, Il posto degli ebrei, Einaudi, Torino 2003, pp. 92, euro 7.
Un acuto saggio del presidente dell'Unione delle comunita' ebraiche
italiane, che e' anche un cospicuo contributo alla riflessione su come
costruire un'Europa di pace.

7. RILETTURE. CARMELA BAFFIONI: STORIA DELLA FILOSOFIA ISLAMICA
Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica, Mondadori, Milano 1991,
pp. 448, lire 16.000. Un'ampia ricostruzione con utilissimi inserti
antologici.

8. RILETTURE. FRANCOISE HERITIER: MASCHILE E FEMMINILE. IL PENSIERO DELLA
DIFFERENZA
Francoise Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza,
Laterza, Roma-Bari 1997, 2002, pp. XII + 244, euro 7,50. Un rilevante saggio
dell'illustre antropologa.

9. RILETTURE. IDA MAGLI: SULLA DIGNITA' DELLA DONNA
Ida Magli, Sulla dignita' della donna, Guanda, Parma 1993, pp. 144, lire
18.000. Un libro su "la violenza sulle donne, il pensiero di Vojtyla" che a
nostro avviso e' necessario leggere.

10. RILETTURE. ROSA ROSSI: ASCOLTARE CERVANTES
Rosa Rossi, Ascoltare Cervantes, Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 80, lire
6.000. Un saggio che continua a sembrarci prezioso.

11. RILETTURE. ELENA SOETJE: LA RESPONSABILITA' DELLA VITA. INTRODUZIONE
ALLA BIOETICA
Elena Soetje, La responsabilita' della vita. introduzione alla bioetica,
Paravia, Torino 1997, pp. 138, lire 13.500. Un'agile introduzione ed
un'ampia antologia.

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 728 del 10 novembre 2003