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La nonviolenza e' in cammino. 728
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 728
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 9 Nov 2003 18:28:45 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 728 del 10 novembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Maria Luigia Casieri: mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'... 2. Da Verona per un'Europa nonviolenta 3. Claudio Bazzocchi: peace-building e interpretazione dei conflitti (parte prima) 4. Enrico Peyretti: il seme della pace gettato oggi dentro i conflitti 5. Letture: Franco Fortini, Saggi ed epigrammi 6. Letture: Amos Luzzatto, Il posto degli ebrei 7. Riletture: Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica 8. Riletture: Francoise Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza 9. Riletture: Ida Magli, Sulla dignita' della donna 10. Riletture: Rosa Rossi, Ascoltare Cervantes 11. Riletture: Elena Soetje, La responsabilita' della vita. introduzione alla bioetica 12. La "Carta" del Movimento Nonviolento 13. Per saperne di piu' 1. MEMORIA E PROPOSTA. MARIA LUIGIA CASIERI: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'... ["Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento fondata da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per tutte le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org; l'abbonamento annuo e' di 25 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB 11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta". Avvicinandosi la fine dell'anno, abbiamo chiesto ad alcuni amici della nonviolenza di motivare l'invito - che ci permettiamo di rivolgere a tutti i lettori del nostro notiziario - a rinnovare (o sottoscrivere per la prima volta) l'abbonamento ad "Azione nonviolenta". Oggi risponde Maria Luigia Casieri (per contatti: nbawac at tin.it). Maria Luigia Casieri, nata a Portici (Na) nel 1961, insegna nella scuola dell'infanzia ed e' una delle principali animatrici del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo. Ha organizzato a Viterbo insieme ad altri il "Tribunale per i diritti del malato"; assistente sociale, ha svolto un'esperienza in Germania nell'ambito dei servizi di assistenza per gli emigrati italiani; rientrata in Italia si e' impegnata nel settore educativo; per dieci anni ha prestato servizio di volontariato in una casa-famiglia per l'assistenza ai minori; dal 1987 e' insegnante di ruolo nella scuola per l'infanzia; ha preso parte a varie iniziative di pace, di solidarieta', per i diritti; ha tenuto relazioni a convegni e corsi di aggiornamento, e contribuito a varie pubblicazioni] Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche' sta dalla parte dei deboli senza essere debole, ne' incline al compromesso; perche' lascia intravedere il volto di dio senza essere una rivista teologica; perche' ha uno spessore morale senza moralismi. perche' sa che le donne inverano il volto dell'uomo che si riconosce nell'appello dell'altro; perche' sa che la politica, l'economia, la morale non sono mondi separati; perche' sa che il cambiamento o verra' insieme nelle culture, nelle strutture e nelle coscienze o non verra'; perche' comprende il presente con uno sguardo e un respiro che vanno lontano; perche' sa che la nonviolenza non e' conquista di breve periodo. 2. INCONTRI. DA VERONA PER UN'EUROPA NONVIOLENTA Si e' svolto sabato 8 novembre presso la Casa per la nonviolenza di Verona l'incontro con Lidia Menapace per sviluppare la proposta promossa da Lidia e dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta". Sugli esiti dell'incontro, cui hanno preso parte tante persone provenienti da vari parti d'Italia e che e' stato occasione di calda convivialita' e di una intensa e profonda riflessione comune, pubblicheremo nei prossimi giorni materiali e testimonianze. Fin d'ora preghiamo tutte le persone che vi hanno preso parte di mandarci interventi, sia di testimonianza che di riflessione ulteriore; cosi' come rinnoviamo l'invito a tutti i nostri interlocutori ad inviarci altri contributi che arricchiscano la proposta e il corale colloquio. Ovviamente appena sara' pronta la stesura definitiva pubblicheremo anche il testo dell'appello dall'incontro emerso; come si usa tra persone sagge ed amiche esso non e' stato scritto nella fretta di una riunione che si conclude, ma si e' dato mandato a Lidia di redigerlo valorizzando tutti i contributi che l'incontro ha raccolto ed espresso. 3. RIFLESSIONE. CLAUDIO BAZZOCCHI: PEACE-BUILDING E INTERPRETAZIONE DEI CONFLITTI (PARTE PRIMA) [Ringraziamo Claudio Bazzocchi (per contatti: claudio.bazzocchi at poste.it) per questo intervento che sviluppa la riflessione proposta dall'intervento di Francesco Tullio apparso sul n. 719 del primo novembre 2003 di questo foglio. Come gia' abbiamo scritto, "come i lettori sanno, su questo foglio non si ama accogliere interventi polemici, ma in questo caso gli interlocutori sono due nostri cari amici che stimiamo come autorevoli costruttori di pace, e forse questa riflessione, decantata dei modi forse bruschi e dei possibili fraintendimenti che nel registro espressivo adottato sono forse talora inevitabili ancorche' dispiacevoli, puo' giovare ad un processo di chiarificazione di cui l'intero movimento per la pace ha grande bisogno". La nonviolenza e' un'altra cosa dalla subalternita' e dalla complicita' con un ordine iniquo del mondo, e un'altra cosa da un approccio riduzionista ai problemi politici e sociali, e un'altra cosa dai naufragi teorici e pratici di tanta parte dell'area cosiddetta pacifista e della solidarieta': la nonviolenza e' - tra l'altro, ma decisivamente - la proposta teorica e pratica piu' nitida ed intransigente di lotta contro tutte le oppressioni e le menzogne. Claudio Bazzocchi, gia' responsabile dell'area ricerca dell'Osservatorio sui Balcani, precedentemente e' stato per nove anni dirigente del Consorzio Italiano di Solidarieta' (Ics); fa parte del comitato promotore italiano del Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali (il "Mauss" - nell'acronimo che evoca anche l'eredita' teorica e civile del grande Marcel Mauss - che in Francia rappresenta una rilevante esperienza di studio e di impegno che ha come uno dei suoi principali promotori Serge Latouche); tra le sue opere: La balcanizzazione dello sviluppo, Il Ponte, Bologna 2003. Francesco Tullio, prestigioso studioso e amico della nonviolenza, e' uno dei piu' noti peace-researcher a livello internazionale e animatore di molte iniziative per la pace e la gestione e risoluzione nonviolenta dei conflitti; nato a Roma il 18 giugno 1952, laurea in medicina e chirurgia, specializzazione in psichiatria, libero professionista, psicoterapeuta, esperto di gestione delle risorse umane, di prevenzione e trasformazione dei conflitti, di problem solving organizzativo; docente di psicoterapia breve alla Universita' di Perugia, docente di psicologia al master "Esperto in cultura d'impresa" all'Universita' di Perugia, 2001, ricercatore a contratto con il Centro militare di studi strategici nell'anno 1998-1999, presidente onorario del Centro studi difesa civile (sito: www.pacedifesa.org) di cui e' stato e resta infaticabile animatore, ha coordinato ricerche per diversi enti, tra cui quella per l'Ufficio Onu del Ministero Affari Esteri su "Ong e gestione dei conflitti. Il confidence-building a livello di comunita' nelle crisi internazionali. Analisi, esperienze, prospettive"; promotore del Centro di ricerca e formazione sui conflitti e la pace presso l'Universita' di Perugia e dell'Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e per la pace; numerose le sue esperienze come medico, in Germania, in Nicaragua ed in Italia, sia in reparti di medicina che di chirurgia ed in particolare in pronto soccorso, come medico di famiglia, inoltre come psichiatra nei servizi pubblici ed in un servizio di medicina legale, infine come libero professionista psicosomatista e psicoterapeuta; le sue attivita' di studioso e formatore si sono incentrate sulla ricerca teorica, la gestione pragmatica dei conflitti, sulla mediazione e la gestione delle risorse umane per e nelle emergenze; e' impegnato dal 1970 in attivita' di volontariato per la prevenzione della violenza e lo sviluppo umano; quale conduttore di incontri, seminari, laboratori teorico-pratici, si e' occupato di gestione dei conflitti, d'affiatamento di gruppi di lavoro, di gruppi di terapia e di crescita umana; in ambito sociale tale interesse si e' tradotto in un contributo culturale per la prevenzione e la gestione dei conflitti intergruppali. In particolare ha coordinato ricerche e convegni sui temi della violenza organizzata e della guerra; e' autore e curatore di diverse pubblicazioni] Ho letto con attenzione i punti di Francesco Tullio rispetto alle argomentazioni del mio libro (1), in particolare nei confronti dell'ottavo capitolo: Conflict-resolution e peace-building: depoliticizzare il conflitto. Provero' a mia volta a replicare a Tullio e nel farlo ringrazio questo foglio che, molto correttamente, me ne offre la possibilita'. Devo dire prima di tutto che sono rimasto deluso dalle argomentazioni di Tullio. Lo dico non per dare un giudizio di valore su quanto ha scritto, ma per sottolineare che in quel mio capitolo, come nel resto del libro, credo di porre dei punti di discussione piu' importanti di quelli tutto sommato marginali presi in considerazione nella replica. Mi concederete quindi di riassumere i contenuti di quel capitolo, al fine di far emergere tutti i temi che, secondo me, dovrebbero essere discussi dal movimento per la pace, serenamente, ma senza sconti e paure politiciste. * Le nuove guerre non possono essere interpretate come una rottura della comunicazione (breakdown of communications) fra le parti Ebbene, dobbiamo partire dalla considerazione di un dato di fatto molto importante per chi si occupa di risoluzione pacifica dei conflitti e costruzione della pace. Dall'inizio degli anni Novanta del secolo scorso (parliamo quindi di 10-15 anni) sono aumentate enormemente sia in ambito Onu, sia a livello governativo, le spese per i progetti di peacekeeping e peacebuilding (tralascio le cifre per non appesantire il ragionamento). Si e' inoltre affermata, all'interno di tale contesto, la cooperazione fra civile e militare (Cimic, Civil-Military Cooperation). Tali programmi di conflict resolution e peacekeeping stanno coinvolgendo sempre piu' le associazioni pacifiste tradizionali - che entrano cosi' a pieno titolo nel sistema umanitario occidentale - e le ong, che salutano con soddisfazione la realizzazione di quei progetti. In sostanza le ong e le associazioni pacifiste danno atto alla comunita' internazionale di aver capito la multidimensionalita' della sicurezza e della costruzione della pace, che devono prevedere non solo la diplomazia ufficiale e la ricostruzione materiale, ma anche la cosiddetta diplomazia del secondo binario (2) e la ricostruzione sociale e culturale di una comunita'. Dal canto suo la comunita' internazionale ha tutto l'interesse ad accogliere nel sistema umanitario anche le associazioni pacifiste. Quello che vogliamo dire e' che ormai si e' consumato un matrimonio convinto fra governi occidentali, con il loro apparato militare e umanitario, ong e associazioni pacifiste. Questo matrimonio viene vissuto dalle associazioni pacifiste come una vittoria delle istanze della nonviolenza che da sempre richiamano l'aspetto multidimensionale del conflitto e della costruzione della pace, e la necessita' di coinvolgere vari attori sociali nella risoluzione dei conflitti, che non siano solo gli esponenti della diplomazia e della politica ufficiale. A mio avviso le associazioni pacifiste non dovrebbero gioire troppo di questo matrimonio. Non ne faccio un problema ideologico. Non mi da' pensiero in questo rapporto il fatto che le associazioni pacifiste perdano la loro purezza contaminandosi con i militari. Mi preoccupa che il matrimonio sia avvenuto su un'interpretazione coincidente delle cause delle nuove guerre. In sostanza sia le associazioni pacifiste, sia i governi occidentali condividono il fatto che la guerra e' il risultato della rottura della comunicazione fra gruppi etnici e della mancanza di strumenti culturali e politici per gestire il conflitto in modo nonviolento o pacifico. Cosi' come le ong vengono "arruolate" nei programmi di assistenza psicosociale volti a sanare la violenza che starebbe nelle popolazioni colpite dalla guerra, allo stesso modo le associazioni pacifiste vengono messe al lavoro dai governi occidentali per far passare l'idea che le guerre si compongono col dialogo e il ripristino della comunicazione fra le parti in causa che, allo stesso tempo, devono essere dotate della mentalita', della cultura e dei valori adeguati per affrontare in modo democratico i conflitti. E questa non deve essere considerata una vittoria per il movimento pacifista. Infatti, i governi occidentali ottengono un risultato importantissimo "arruolando" le associazioni pacifiste: quello di depoliticizzare le cause ed i motivi delle nuove guerre con l'apporto fondamentale dei gruppi pacifisti, che oltretutto perdono progressivamente la capacita' di leggere le guerre da un punto di vista politico radicale. La depoliticizzazione sta proprio nel considerare il conflitto come il risultato di una rottura della comunicazione fra le parti, cosi' come dicono gli stessi fondamenti della nonviolenza applicati alla risoluzione dei conflitti e delle guerre. Ci sembra lucidissima la riflessione di Duffield su questo tema: "Seguendo il lavoro psicosociale sul trauma, la risoluzione dei conflitti da parte delle ong internazionali e locali e' pesantemente influenzata dalla psicologia. Come il trauma essa e' incentrata essenzialmente sull'individuo. Si comincia con gli individui e quindi con il costruire reciproca confidenza fra gli individui e poi fra i gruppi, allora il peacebuilding si muove verso l'esterno e verso l'alto. Da questa prospettiva il conflitto e' visto come una rottura della comunicazione fra gli individui e fra i gruppi. In un periodo di tensione, l'incomprensione si sviluppa e porterebbe gli uni contro gli altri finche' non si raggiunge il punto di rottura... La logica di vedere la violenza politica come una rottura della comunicazione fra individui e gruppi fa si' che la pulizia etnica e la guerra diventino una forma di errore, qualcosa che e' iniziato a causa di una serie di incomprensioni che sono state lasciate sfuggire di mano. Questo approccio ignora il problema dell'economia di guerra e della razionalita' del conflitto e, inoltre, che i progetti nazionalisti primordiali dei vari stati che si erano venuti creando, erano stati orchestrati e preparati con largo anticipo dalle elites politiche e intellettuali. In altre parole non si vuole vedere la guerra e la crisi protratta come un mezzo per raggiungere un fine. L'approccio del conflict-resolution e' non solo incredibilmente ingenuo, ma insulta anche tutte quelle persone che hanno sofferto durante la guerra" (3). Il richiamo di Duffield a considerare la violenza delle nuove guerre non come un'aberrazione, ma come un preciso progetto politico rappresenta il filo rosso del nostro ragionamento. Se la guerra viene considerata un'aberrazione o un tragico errore, se questo tragico errore viene compiuto per mancanza di strumenti e culture atte a mantenere il conflitto fuori dalla sfera della violenza, se viene teorizzato il bisogno di una parte esterna che medi fra le parti e insegni loro gli strumenti della ricomposizione senza violenza, cio' significa che, al pari dei progetti psicosociali, una parte esterna interviene per dire cio' che e' giusto e cio' che e' sbagliato, e per definire un errore quello che in realta' e' un preciso progetto politico. * Il contesto delle nuove guerre E qui allora dobbiamo capirci bene sul concetto di "nuove guerre". Ritengo che per lo piu' le nuove guerre siano state intese in modo errato, dal sistema umanitario come in genere dal mondo accademico - tranne qualche notevole eccezione in ambito anglosassone (4). L'errata comprensione di tale fenomeno, che in un decennio ha causato milioni di morti, deriva dal fatto che non si tiene in debito conto la natura di quelle guerre, che sono conflitti per la costruzione di nuove forme statuali e di nuovi sistemi politici, in cui cambia il rapporto fra cittadini e potere, non piu' mediato dalle regole dello stato di diritto e dalle garanzie sociali del welfare, ma dall'appartenenza etnonazionale e dal paternalismo autoritario, in un quadro economico di creazione della ricchezza, tramite l'instabilita' diffusa e network affaristico-mafiosi che controllano il commercio transfrontaliero. Queste guerre non possono cosi' essere considerate ne' il prodotto di odi secolari, ne' il risultato dell'avidita' di pochi e corrotti leader politici. Si ritiene qui che i conflitti delle nuove guerre creino infatti stati che non possono essere definiti "weak" o "failed" in senso tradizionale, ma adattamenti flessibili e di lungo periodo alla globalizzazione. Nel Sud la crisi dello stato nazionale moderno viene affrontata con l'emergere di economie grigie e informali, assieme alla crescita di progetti politici di lungo periodo che ridefiniscono le forme dello stato e del potere. E non dobbiamo nemmeno pensare a tutto cio' come ad aberrazioni o eccezioni del processo di globalizzazione. Tali forme di sviluppo sono la risposta del Sud alla globalizzazione, quel Sud che vive alla periferia del cosiddetto capitalismo triadico, dal quale non e' isolato, ma col quale si intreccia continuamente. Infatti, se e' vero che il capitalismo attuale, come scrive Castells nei suoi studi (5), non opera piu' sulle basi dell'inclusione, e' altrettanto vero che l'esclusione comporta comunque relazione di connessione fra attori statali e non statali, affaristi di ogni genere, consulenti privati o delle grandi agenzie intergovernative, reti mafiose, eserciti privati, ong e cosi' via. Il mio punto di vista e' allora quello di considerare le nuove guerre come conflitti postmoderni che fanno emergere nuovi e originali progetti politici, che si adattano alla globalizzazione nelle periferie del capitalismo triadico. Dobbiamo pero' sapere che il senso comune che muove tutto il sistema dell'aiuto umanitario occidentale, assieme alle cancellerie che lo finanziano, fa derivare invece i conflitti delle nuove guerre dalla scarsita' di risorse, dalla poverta', dall'ignoranza e da classi dirigenti avide e corrotte. L'intervento del sistema umanitario si orienta a partire da questa definizione per ripristinare la normalita' dello sviluppo sostenibile attraverso le tecniche del conflict resolution e del supporto alla nascita e alla promozione della societa' civile. * La collaborazione fra ministeri, centri studi militari e associazioni pacifiste Gia' da queste prime considerazioni capiamo che vi sono punti importanti che meriterebbero ampio dibattito, a partire dall'analisi delle cosiddette nuove guerre e dalla sfida che esse pongono al movimento pacifista e ai metodi classici dell'azione nonviolenta: interposizione, mediazione e tutte le varie forme di training volte alla soluzione dei conflitti. Mi e' sembrato che il lavoro di Tullio, nel libro da lui stesso curato per conto del Csdc (Centro Studi Difesa Civile di Roma), fosse significativo di un certo modo di considerare le nuove guerre, che vede oggi sulle stesse posizioni i governi occidentali e molte associazioni pacifiste che si occupano di risoluzione dei conflitti. Prima di entrare nel merito voglio dire che ho scritto anche che non e' un caso che ricerche come quelle del Csdc fossero finanziate dal Ministero Affari Esteri italiano o dal Cemiss. Possiamo anche ricordare il documento "Consolidare l'impegno nella prevenzione dei conflitti violenti: priorita' per le presidenze greca e italiana dell'Unione Europea nel 2003", stilato da Saferworld e International Alert, la cui edizione italiana e' stata curata dallo stesso Csdc (www.pacedifesa.org/ricerche_e_pubblicazioni/index.asp). Si tratta di un documento che viene redatto ogni anni da due ong prestigiose, che ricevono un cospicuo finanziamento dall'Unione Europea per "accrescere l'impatto dell'Unione Europea nella prevenzione dei conflitti violenti", cosi' come leggiamo nella presentazione. Pensiamo poi ai tantissimi corsi universitari di peacekeeping, conflict-resolution e peacebuilding a cui partecipano civili e militari, operatori di ong e ufficiali dell'esercito, attivisti pacifisti e funzionari governativi. Allora la prima domanda che mi sono posto e': la guerra e' tornata ad essere lo strumento principe delle relazioni inernazionali, ma nello stesso tempo tutti parlano di conflict-resolution e peace-building, i pacifisti stanno nelle piazze a contestare i governi occidentali in guerra e contemporaneamente molte loro associazioni vengono finanziate da quegli stessi governi per studiare le tecniche non armate di risoluzione dei conflitti. Non c'e' qualcosa di strano? La mia risposta e' che i governi occidentali, l'Unione Europea e i centri studi degli eserciti finanziano le associazioni pacifiste perche' - come abbiamo visto sopra - hanno tutto l'interesse a far passare un'interpretazione depoliticizzata del conflitto. Il problema allora non e' certo quello di ricevere soldi dai governi e piu' in generale dalle istituzioni statali. Si tratta infatti di denaro pubblico! Oltretutto chi scrive passa per essere un veterostatalista, e non potra' mai obiettare nulla al fatto che organizzazioni della societa' civile ricevano soldi dallo stato. Il problema non e' nemmeno quello di "contaminarsi" con i militari. Non faccio questioni di purezza ideologica o di opportunita' morale. La vera questione e' invece quella di capire se i pacifisti avallano l'interpretazione dei conflitti come dovuti a poverta', ignoranza, avidita' di pochi dittatori, mancanza di valori e strumenti culturali adeguati a mediare i conflitti. Questa e' infatti un'interpretazione completamente depoliticizzata della guerra, della violenza intrastatale e dei vari fenomeni di instabilita' regionale presenti nel pianeta. Dobbiamo capire insomma se anche noi vogliamo fare il gioco del mainstreaming occidentale - accademico, governativo e militare - secondo cui la guerra e la violenza, quando non umanitaria e preventiva, sia il portato di mentalita' inadeguate, ossia il prodotto di popoli non occidentali, che ancora dovrebbero conoscere le magnifiche sorti e progressive della liberaldemocrazia. Dobbiamo allora dirci se anche il movimento pacifista vuole essere parte dell'oppressiva cultura occidentale che non riconosce alcuna dignita' politica e sociale a tutto cio' che accade fuori dall'Occidente, classificato e depoliticizzato al rango infimo di barbarie, inadeguatezza, violenza endogena ecc. (6). * Un nuovo paradigma dell'aiuto umanitario Aggiungo un ulteriore elemento per continuare a porre meglio le mie domande. Nel dibattito interno al sistema umanitario a partire dagli anni Novanta del secolo scorso e' emerso con forza il tema della coherence. Coherence significa che nei nuovi conflitti aiuto umanitario, politica, diplomazia e commercio devono lavorare assieme con l'obiettivo della stabilita' e dello sviluppo. Conseguenza dell'istanza della coherence e' la necessita' di affermare il link relief-development, assistenza di emergenza e sviluppo. Come ha scritto Duffield, "l'aiuto viene ridefinito come parte di un quadro strategico crescente in grado di portare assistenza umanitaria, sviluppo, commercio, diplomazia, assistenza militare e cosi' via, insieme funzionanti come un tutto unico" (7). Nel 1997 il Comitato di Aiuto allo Sviluppo dei paesi Ocse, nelle sue Linee Guida su Conflitto, Pace e Sviluppo, affermo': "Prevenzione del conflitto e peace-building devono essere coerenti, integrati e con l'obiettivo di aiutare a risolvere le cause profonde dei conflitti. E' cosi' richiesta una stretta cooperazione di tutti gli strumenti politici (cooperazione fra diplomazia, elemento militare, commercio e sviluppo) basato sui loro rispettivi vantaggi comparativi" (8). Quello che forse e' il documento piu' importante degli anni Novanta sull'aiuto umanitario e le politiche di sviluppo, il Libro bianco sullo sviluppo internazionale del 1997 del Dfid britannico - la cooperazione governativa del Regno Unito -, delinea i principi ispiratori di quello che viene chiamato "nuovo umanitarismo": "La stabilita' politica, sia interna, sia fra gli stati, e' la necessaria precondizione per l'eliminazione della poverta'... Noi dispiegheremo i nostri strumenti diplomatici e di assistenza militare e allo sviluppo in maniera coerente al fine di: estendere i valori delle liberta' civili e della democrazia, lo stato di diritto e il buon governo, e promuovere lo sviluppo di una vibrante e forte societa' civile; rafforzare la coesione sociale, promuovere gli sforzi di mediazione e incoraggiare la rinascita delle societa' dopo un conflitto; proteggere e promuovere il pieno beneficio dei diritti umani; aiutare a risolvere i problemi politici e non, che sono alla base di un conflitto; sostenere le misure per tenere sotto controllo le possibilita' di muovere guerra; fornire assistenza umanitaria per le vittime dei conflitti e delle persecuzioni; contribuire al mantenimento internazionale della pace" (9). L'aiuto acquista cosi' una dimensione tutta politica, non piu' confinata al contenimento delle sofferenze prodotte da una guerra o da una catastrofe naturale. Nello stesso documento possiamo allora leggere: "Questo non e' solo un libro bianco sull'aiuto. E' un libro bianco sullo sviluppo e su un futuro sicuro per il nostro pianeta e la sua gente. Il nuovo Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale ha lo scopo di... contribuire all'eliminazione della poverta' nei paesi piu' poveri, non solo attraverso programmi bilaterali o multilaterali, ma mediante un lavoro collaborativo con gli altri dipartimenti per promuovere la compattezza e la coerenza nelle politiche che riguardano lo sviluppo" (10). Negli anni Novanta del secolo scorso comincia cosi' a configurarsi un nuovo paradigma della sicurezza e dello sviluppo per i governi occidentali. Quel nuovo paradigma e' in sostanza il risultato di un'operazione ideologica e politica volta a scardinare il principio della sovranita' degli stati e l'idea di sviluppo come distribuzione di risorse nell'ambito di un quadro statuale. Con questo non voglio affermare che il principio della sovranita' degli stati debba essere difeso sempre e comunque. Voglio sottolineare che in quegli anni il dibattito su quel principio si caratterizzo' in modo ideologico per introdurre un nuovo concetto di sicurezza e di aiuto, funzionale ai piani delle potenze occidentali. I governi occidentali vollero infatti garantirsi la possibilita' di imporre i piani di aggiustamento strutturale - e quindi affossare definitivamente l'idea classica di sviluppo della quale peraltro non siamo nostalgici - e di potere intervenire con tutti gli strumenti possibili, dal militare al civile passando per le compagnie private, per intraprendere la riforma delle mentalita' e dei comportamenti in stati non piu' considerati sovrani, ma corpi sociali da stabilizzare. Ora le cause dei conflitti sono stabilite dall'Occidente in termini di cattive relazioni interne e istituzioni inadeguate: scarsa organizzazione economica, degrado ambientale e, soprattutto, istituzioni politiche autoritarie e non democratiche. Nella letteratura questo tipo di interpretazione dei conflitti viene definita col termine tecnico internalisation. L'internalizzazione dei conflitti occupa il vuoto lasciato dalla fine delle grandi spiegazioni della poverta' e del sottosviluppo cui avevano contribuito il blocco socialista, quello dei paesi non allineati e i vari movimenti progressisti che ragionavano sul rapporto Nord-Sud del mondo. Gli interventi del sistema umanitario, all'interno del nuovo paradigma di sicurezza, saranno sempre quindi di tipo tecnico e uniforme, nei Balcani, come nell'est europeo, nel sud del Mediterraneo, come nell'Africa centrale. Emergono qui due punti fondamentali. Il primo e' che questo modello di sicurezza ottiene anche il risultato di depoliticizzare le grandi questioni della poverta', dello sviluppo, dello sfruttamento e del rapporto Nord-Sud del pianeta. L'instabilita' e la poverta' non vengono considerate piu' un problema di relazioni economiche di sfruttamento, ma come incapacita' di accedere ai benefici della globalizzazione, capacita' che si acquisisce tramite il cambiamento dei comportamenti e delle mentalita'. Lo sviluppo viene concepito come una serie di tecniche volte ad aumentare le informazioni presso la popolazione, in modo che ognuno possa competere nell'area del libero mercato. Scompare lo stato, le politiche fiscali, la lettura della societa' in cui si opera, eventuali condizioni di sfruttamento interno ed internazionale, che tengano le popolazioni in poverta'. Vediamo allora che un primo obiettivo viene raggiunto: l'oscuramento delle cause strutturali dell'instabilita' e del sottosviluppo, proprio nel momento stesso in cui si dice che si lavora per lo sviluppo. Il secondo punto da sottolineare e' che questo e' un sistema di governance e di sicurezza apparentemente liberal, nel senso americano del termine, cioe' democratico e progressista. Queste politiche non vengono imposte con la violenza - se non quella iniziale degli eserciti adottata, si dice, per i diritti umani o contro il terrorismo e quindi non certo per colonizzare in senso tradizionale - ma attraverso il dispiegamento del sistema dell'aiuto umanitario, che si presenta cooperativo per definizione e apportatore di valori e pratiche umanistiche: diritti umani, societa' civile, parita' di genere, democratizzazione ecc. Questo punto e' molto rilevante per le ong che si rendono complici di questo nuovo modello di sicurezza che oscura le cause strutturali della poverta', e che rischiano di depotenziare la carica di critica forte delle relazioni di sfruttamento economico che aveva caratterizzato la loro storia fino agli anni Novanta. Vogliamo anche noi pacifisti essere complici di questa operazione ideologica, aiutando i governi occidentali a oscurare le cause vere di conflitti delle nuove guerre? Vogliamo essere parte del sistema della coherence? * Note 1. Bazzocchi C., La balcanizzazione dello sviluppo. Nuove guerre, societa' civile e retorica umanitaria nei Balcani (1991-2003), Il Ponte, 2003. 2. Per diplomazia del secondo binario si intende il lavoro di costruzione della pace che coinvolga non solo le diplomaie ufficiali, ma anche e soprattutto i vari attori sociali presenti in un contesto di guerra, a partire dalle forze della societa' civile. 3 Duffield M., Lunching with Killers: Aid, Security and the Balkan Crisis, in Schierup C. U., Scramble for the Balkans, pag. 142, London 1999. 4. Vedi Kaldor M., Le nuove guerre, Carocci 1999; Duffield M., Global Governance and the New Wars, Zed Books 2001; MacRae J., Aiding recovery? The Crisis of Aid in Chronic Political Emergencies, Zed Books 2001. 5. Cfr. Castells M., La nascita della societa' in rete, Milano 2002. 6. Su questo Edward Said ha scritto pagine definitive nel suo Orientalismo, cosi' come ha fatto Todorova nel suo recente Immaginando i Balcani. Si veda: Said E., Orientalismo, Feltrinelli 1999; Todorova M., Immaginando i Balcani, Aego 2001; Bazzocchi C., Recensione di M. Todorova, Immaginando i Balcani, Osservatorio Balcani 2003 (www.osservatoriobalcani.org). 7. Duffield M., Privatisation, Global Governance and International Security, cit. 8. Oecd, Draft Dac policy guidelines on conflict, peace and development cooperation, note by the Secretariat, Paris 1997, paragrafo 19. 9. United Kingdom, White Paper on International Development, Department for International Development, London 1997, pagg. 67-69. 10. United Kingdom, White Paper on International Development, cit. Overseas Development Insitute, Hpg Report 10. Politics and Humanitarian Aid: Debates, Dilemmas and Dissension, London 2002; Overseas Development Insitute, Hpg Report 11. The new humanitarianisms: a review of trends in global humanitarian action, London 2002. (Parte prima. Continua) 4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: IL SEME DELLA PACE GETTATO OGGI DENTRO I CONFLITTI [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscali.it) per averci messo a disposizione questo suo intervento tenuto al Primo colloquio del gruppo "Oggi la Parola", su "Apocalissi: non distruzioni ma rivelazioni?" svoltosi dal primo al 3 novembre 2002 a Camaldoli, e pubblicato in Giordano Remondi (a cura di), Apocalissi: non distruzioni ma rivelazioni?, Edizioni Camaldoli, 2003. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di cui abbiamo pubblicato il piu' recente aggiornamento nei numeri 714-715 di questo foglio, ricerca una cui edizione a stampa - ma il lavoro e' stato appunto successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 477 del 15 gennaio 2003 di questo notiziario] "La soluzione del problema dell'educazione e' quella che si puo' chiamare del "profeta", il quale e' nella comunita' e partecipa alle interazioni, ma porta una dimensione singolare: annunciando una verita' si pone in aperta polemica con la realta' circostante, e sollecita questa diffidenza verso il presente e questa apertura al futuro, in nome di valori che non vede dispiegarsi nella loro autenticita' se non in antitesi recisa con cio' che e' attuale". (Aldo Capitini, L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze 1951, pp. 7-8) * "Dopo l'11 settembre e la guerra in Afghanistan i cittadini sentono di essere immersi in un mondo dominato dalla violenza politica e il terrorismo. Dopo piu' di un anno, a colpi di immagini terribili ed allucinanti testimonianze, i grandi mezzi di comunicazione diffondono il terrore dando notizie di attentati spaventosi, esplosioni micidiali, spettacolari sequestri di ostaggi. Non passa settimana senza che si versi un doloroso tributo di sangue, da Israele a Bali, da Karachi a Mosca, dallo Yemen alla Palestina. Dando cosi' l'impressione che il pianeta sarebbe spazzato dall'uragano di una specie di nuovo conflitto mondiale - "la guerra contro il terrorismo internazionale" - ancora piu' atroce dei precedenti. E del quale l'eventuale guerra americana contro l'Iraq non sarebbe che un semplice episodio. Quest'impressione e' falsa. Contrariamente alle apparenze, la violenza politica non e' mai stata tanto debole". (Incipit dell'articolo di Ignacio Ramonet, Guerra sociale, in "Le monde diplomatique", novembre 2002) * 1. La violenza non uccide solo le vittime, ma minaccia di stroncare la passione vitale, diventa vergogna e colpa anche in chi sa e assiste. C'e' una solidarieta' costrittiva, nel male. Non si puo' vivere in un mondo che uccide. Eppure, disperati, non disperiamo. Ma e' necessario sapere come fare per non disperare, che sarebbe complicita', assoggettamento. E' necessario sapere se ci sono ancora semi di buon grano nel campo invaso dalla zizzania. C'e' soltanto la guerra d'impero, distruttiva? Oppure sta resistendo, sta nascendo, sta rivelandosi altro? Se non ci fosse un seme di pace, sarebbe tutto guerra. Capitini diceva: "se la realta' e' cosi', io non l'accetto, cerco e attendo una realta' liberata". Non accettare la realta' che si impone, e' gia' un seme di apertura all'alterita', alla novita'. Ancora Capitini: la non rassegnazione alla morte, alla violenza e al male e' piu' religiosa della rassegnazione. Gandhi, rispondendo all'obiezione sulla violenza dilagante nella storia, dice: non regna la violenza, altrimenti l'umanita' avrebbe cessato di esistere da lungo tempo (cfr. Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 62-65). "La nonviolenza e' antica come le colline". Questa di Gandhi e' un'affermazione dal valore teoretico maggiore di quanto appare a prima vista. Esso e' mostrato da Roberto Mancini nella conferenza La promessa della pace (Universita' di Vercelli, 11 marzo 2002; in corso di pubblicazione nella rivista "Filosofia e teologia") nella quale insiste sulla portata "rivelativa" della "irriducibile ricerca della sua [della pace] realizzazione". * 2. Il fatto stesso che il male ci offende e' segno che abbiamo una coscienza invincibile del bene, la quale e' una forza fondamentale irriducibile, opposta al male lussureggiante. Solo se ci si rassegna al male, o ci si allea o adegua ad esso, questa forza e' perduta. Il male, pi' ancora che nella violenza bellica e omicida, consiste nel dominio, anche statico e tranquillo; il dominio decide col pollice imperiale, o per incoscienza, la vita della maggioranza dell'umanita'. Il dominio sarebbe vincitore se lo accettassimo, se non ci scandalizzasse, se fosse per noi "normale", cioe' "norma". E' cio' che esso cerca con l'imporsi alle menti, piu' ancora che ai corpi, oggi mediante le false immagini propinate dal sistema mediatico globale. Se abbiamo nel piu' profondo di noi stessi il desiderio di non-dominio (ne' servi ne' padroni), di riconoscimento, armonia, rispetto tra noi tutti, allora abbiamo in noi il seme della pace. * 3. La causa giusta non e' mai perduta. La giustizia, il diritto-dignita' sono manifestati, esaltati, dall'atto stesso che li offende. Violato, il diritto si dimostra inviolabile. Invisibile nella quiete, risalta sotto l'offesa. Appare alla vittima che ne soffre l'offesa, appare a chi soffre per compassione, talvolta appare anche a chi lo ha offeso. Smascherare ogni dominio e' mettere in luce il diritto violato-inviolabile. "Perche' mi fai questo male?": in questo grido, anche dell'animale, dice Simone Weil, sta tutta la verita'. * 4. Il terrorismo non e' l'origine del male, ma e' rivelazione di un male piu' profondo: il terrorismo e' causato dalle ingiustizia (cfr., per fare un esempio non sospetto, l'articolo di Stiglitz, in "Internazionale", 25 ottobre 2002) ed e' usato dal potere dominante (vedi i libri di Giulietto Chiesa, di Gore Vidal, di Noam Chomsky). E' causato dalle ingiustizie: ormai il 20% consuma l'86%; il 20% piu' ricco ha un reddito 84 volte quello del 20% piu' povero (era 30 volte nel 1960); il patrimonio dei primi 10 miliardari e' 1,3 volte il reddito complessivo dei 48 paesi piu' poveri; una super-societa' escludente, formata da meno di cento milioni (comprese famiglie e corti) di potenti nel mondo, governa i governanti statali e decide dei popoli (Giulietto Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli). Le ingiustizie offrono l'occasione ad altri violenti di impugnare ingiustamente la causa della giustizia, oltretutto espropriandone i veri titolari. Ed e', il terrorismo, utile ai potenti per giudicare e condannare a morte ogni idea di ribellione nelle masse. Dal punto di vista del potere e' bene che esse confidino nel terrorismo: il dominatore ha bisogno di una rivolta ingiusta per confermarsi militarmente e moralmente: vis grata potenti. Il delitto anti-dominio non fa giustizia, ma e' colpevole della stessa colpa, e' delitto piu' delitto. Dominio e rivolta violenta sono speculari, la copia una dell'altro. Il seme nuovo e' il cammino di liberazione dalla violenza oppressiva, nella liberta' dalla violenza propria come da quella altrui (Gewaltfreiheit). E' questa la forza vera (satyagraha) che e' l'opposto della violenza. La critica non e' crimine, il crimine non e' critica. La critica del dominio viene criminalizzata dal dominio smascherato, per rimascherarsi da ordine giusto. Il crimine che fa strage per fare dell'anti-dominio non e' critica e non smaschera il dominio, ma lo imita, lo riproduce, lo perpetua, lo conferma come unica logica. * 5. Semi di pace sono oggi, per fare qualche esempio: - le realta' di non-impero dentro l'impero: dove c'e' non-dominio, ma equi-valenza, socialita' paritaria, a-gerarchica, dove c'e' amicizia; - le realta' di "societa' di soci" dentro e sotto la super-societa' escludente che fa la super-guerra; - le realta' di esperimenti operativi di base di economia nonviolenta piu' cooperativa che competitiva: finanza etica, consumo critico, commercio equo e solidale; - le realta' di pensiero universalistico, di cultura planetaria anti-imperiale, di cultura del conflitto nonviolento e costruttivo; - le realta' di dialogo e ascolto tra le grandi voci e sapienze umane e profetiche, senza imperialismo dell'una sull'altra, ne' totalitarismo (pretesa di avere tutto cio' che hanno le altre); - le realta' di tante associazioni comuni a israeliani e palestinesi per costruire oggi un futuro di pace; - le realta' di tante azioni civili di prevenzione, presenza, vicinanza, soccorso, mediazione in zone di guerra, che anticipano nuovi modelli di difesa e di soluzione dei conflitti; su queste realta' c'e' ormai una letteratura storica; - le realta' di cittadini, anche della metropoli, che manifestano col cartello "We are Afghani" (a New York, dopo l'11 settembre, come vedo in una mostra fotografica agli Scavi Scaligeri, Verona, settembre 2002): l'identificazione umana col "nemico" condannato abbatte il muro del dominio e della guerra per il dominio; - le realta' di cittadini del mondo che si dissociano dal governo del mondo che fa guerra: "Not in my name" (come dice anche, negli Usa, l'associazione delle vittime dell'11 settembre); - le realta' di culture e pedagogie che non si limitano (come il pur grande pacifismo umanistico, per esemio di Erasmo) a deprecare e denunciare la guerra, ma costruiscono e praticano alternative alla guerra nella soluzione dei conflitti a livello micro, meso, macro. * 6. Vedo tre tipi di pace: 1) la migliore: prima e invece della guerra; 2) la peggiore: a conclusione della guerra; questa e' guerra, non e' pace, e' l'imposizione della volonta' del vincitore al vinto, supremo atto di guerra (al massimo e' pace negativa, cessate il fuoco, non pace positiva); 3) la piu' significativa: dentro la guerra; questa e' la pace come seme: per esempio il mio amico Josef Schiffer, un soldato tedesco (assolutamente non il solo!) che aiuto' la popolazione italiana durante l'occupazione: piu' uomo che soldato; per esempio i 500 refusnik israeliani: anche soldati, ma di piu' uomini di coscienza. In tutti i tempi e in tutte le guerre ci sono stati di questi semi. Non vale piu' il concetto di pace statica (la tranquillitas ordinis di Agostino): la pace e' dinamica, e' la capacita' di trasformazione nonviolenta dei conflitti. E' possibile sviluppare questa scienza e arte persino dentro i conflitti violenti; a maggior ragione dentro i conflitti non ancora degenerati in guerra, ancora gestibili in modo costruttivo. Cio' che e' deprecabile non e' il conflitto (che e' parte della vita, il contrasto tra le differenze naturali, e non piu' sinonimo di guerra), ma la sua forma violenta, eliminatoria, distruttiva di uno dei due termini per distruggere la differenza. La pace non e' uno stato, non e' un evento, ma un processo in via. * 7. il Regno di Dio evangelico ha forma di seme, ha la "dimensione del villaggio" (Giuseppe Barbaglio, Scuola Vasti, 2 giugno 2002, vasti at eistours.com). Il Regno c'e' come seme, e' "in mezzo a voi" come inizio: c'e', ma verra'; verra', ma c'e'. Cosi' e' seme la pace: inizio, cammino avviato, cammino da fare; ricerca, non ricetta, ma ricerca fondata nelle origini e nel futuro. Se sono semi sono da coltivare: coltivazione delle cose umane e' la cultura: la pace e' cultura, come la violenza e' in radice cultura, poi struttura, poi atto. Il vero "scontro di culture" e' tra la cultura di guerra (che comprende sia il dominio sia il terrorismo) e la cultura di pace. L'immagine ideologica dello "scontro di civilta'" oggi serve a nascondere il gravissimo conflitto sociale mondiale. * 8. Gesu' non ha una apocalittica ma una escatologia etica (Pier Cesare Bori, Scuola Vasti, 2 giugno 2002, vasti at eistours.com): la crescita del seme dipende dal tipo di terreno, che siamo noi; il seme cresce anche se dormiamo, percio' fiducia: il seme ha una sua vitalita', non data da noi, dalla nostra opera. Ma occorrono operai per la messe: e' richiesta anche la nostra opera, il nostro lavoro. Dunque, ne' illusione, ne' disperazione, ne' attesa dell'ineluttabile, ma lavoro. * 9. Il seme non e' evidente, non imperante, non vincente, ma morente per dare vita. Le vittime di violenza bellica, oggi civili al 90%, e le schiere quotidiane di vittime delle violenze strutturali, sono il seme macerato, sono i cristi uccisi e risorgenti. La loro azione che redime la storia e' il crescente (sui tempi umani lunghi, non nei brevi passaggi) ripudio della guerra: nelle carte costituzionali; nelle coscienze non succubi; nella cultura alternativa (metodi, movimenti popolari, istituzioni, cultura elaborata, pedagogia). * 10. La pace ha forma di seme morente-germogliante, non ha forma di vittoria, perche' la vittoria uccide la pace; perche' la vittoria divide e la pace unisce; perche' "giustizia e verita' disertano il campo dei vincitori" (Simone Weil); perche' e' bestemmia cantare il Te Deum per una vittoria in guerra (Kant. Ma lo stato festeggia ancora il 4 novembre!); perche' Dio, contro una teologia militare presente anche nella Bibbia, non e' un vincitore, ma un servitore, che sta in basso, dove stanno i semi, e solo per questa via salva il mondo. * 11. Se la pace e' il seme del mondo che verra', della terra rinnovata, la guerra e' il peso e l'oscurita' della terra com'e' ora. La terra fa ostacolo ma anche nutre e regge il germoglio, malgrado la sua natura pesante e seppellente. Il seme lotta con la terra, per vivere, ne succhia le virtu', ne solleva il peso opprimente, ne trapassa le opacita' e oscurita', in qualche modo la solleva verso il cielo, la apre dal buio alla luce. La luce attrae il seme, che fora la terra per incontrarla. L'albero ha radici in cielo, dice Simone Weil. La terra raccoglie con pieta' materna il sangue di Abele, e grida al cielo l'orrore; nello stesso tempo seppellisce, nasconde, nega le vittime. La terra e' l'oggetto del desiderio violento di conquista, col petrolio e i diamanti che promette al piu' violento stupratore. La terra e' il campo che sorregge - e non li sprofonda! - i combattenti, i loro carri e le loro macchine omicide, e in questa complicita' nel delitto oggi coinvolge anche il cielo, dal quale cade la guerra aerea unilaterale - plotone d'esecuzione in posizione di sicurezza. La terra e' anche vittima essa stessa, dell'uranio impoverito, dei crateri inquinati di scorie, semi avvelenati, per un futuro malato a morte, di secoli e millenni. Come la terra, anche la storia non e' univoca, ma contraddittoria, ambigua, percio' almeno non la da' vinta al dominio. Non e' "finita", non e' arrivata: questa che vediamo non e' la sua realizzazione, non e' la sua verita'. Questo stato attuale della terra umana, stretta tutta da un potere unico, gerarchizzata tra una cima, un centro opulento e decisore, e una marea di periferie di esclusi, non e' la sua natura compiuta. Il seme e' nella terra, e' nella storia. La pace e' per questa terra - Pacem in terris, 1963-2003 - per questa storia. Questo e' il campo seminato. Chi "religiosamente" espelle la pace in una speranza fuori dalla storia, abbandona il mondo alla violenza, tradisce il cammino, il campo, l'opera, respinge empiamente su Dio il compito che lui ci da' insieme alla vita, alla terra, alla storia. * 12. Il seme e' "gettato": e' condizione di rischio, la gettatezza (puo' corrispondere a quella "logica e metafisica dell'abbandono" che Roberto Mancini contrappone all'originario costitutivo "codice del bene"; cfr. Il silenzio, via verso la vita, Qiqaion, Bose 2002); ma e' anche irruzione, aggiunta, novita', speranza, fecondazione - di cio' che e' gettato. Qui vediamo il piombare tra noi piu' che la provenienza: da dove ci viene questa sete di giustizia? Non dal mondo ingiusto. Quel seme e' dunque anche mistero (dice la terra del seme, come il popolo nel deserto diceva della manna: " man-hu? che cosa e' questo?"), e' non-possesso, presente non-preso, e' conosciuto e sconosciuto, lo accogliamo e gli diamo corrispondenza intima affinche' si riveli a noi. L'Apocalisse e' questo, gia' ora, e sara' questo. Allora, piu' ancora che seme immesso, gettato in un mondo senza pace, la pace e' il suo fondamento di senso: non uno stato originario da cui il mondo sarebbe decaduto, ma il suo codice intimo, la sua promessa in via di travagliata rivelazione. 5. LETTURE. FRANCO FORTINI: SAGGI ED EPIGRAMMI Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, pp. CXXXIV + 1.864, s. i. p. Con notevole apparato critico, il testo integrale e definitivo di alcuni libri di Fortini (Verifica dei poteri, I cani del Sinai, Saggi italiani, L'ospite ingrato primo e secondo, Breve secondo Novecento), e un'ampia selezione di scritti scelti 1938-1994 (alcuni apparsi gia' in altri volumi di Fortini, altri restati dispersi in rivista, ed alcuni rilevanti inediti). Un volume che raccomandiamo. 6. LETTURE. AMOS LUZZATTO: IL POSTO DEGLI EBREI Amos Luzzatto, Il posto degli ebrei, Einaudi, Torino 2003, pp. 92, euro 7. Un acuto saggio del presidente dell'Unione delle comunita' ebraiche italiane, che e' anche un cospicuo contributo alla riflessione su come costruire un'Europa di pace. 7. RILETTURE. CARMELA BAFFIONI: STORIA DELLA FILOSOFIA ISLAMICA Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica, Mondadori, Milano 1991, pp. 448, lire 16.000. Un'ampia ricostruzione con utilissimi inserti antologici. 8. RILETTURE. FRANCOISE HERITIER: MASCHILE E FEMMINILE. IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA Francoise Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997, 2002, pp. XII + 244, euro 7,50. Un rilevante saggio dell'illustre antropologa. 9. RILETTURE. IDA MAGLI: SULLA DIGNITA' DELLA DONNA Ida Magli, Sulla dignita' della donna, Guanda, Parma 1993, pp. 144, lire 18.000. Un libro su "la violenza sulle donne, il pensiero di Vojtyla" che a nostro avviso e' necessario leggere. 10. RILETTURE. ROSA ROSSI: ASCOLTARE CERVANTES Rosa Rossi, Ascoltare Cervantes, Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 80, lire 6.000. Un saggio che continua a sembrarci prezioso. 11. RILETTURE. ELENA SOETJE: LA RESPONSABILITA' DELLA VITA. INTRODUZIONE ALLA BIOETICA Elena Soetje, La responsabilita' della vita. introduzione alla bioetica, Paravia, Torino 1997, pp. 138, lire 13.500. Un'agile introduzione ed un'ampia antologia. 12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 13. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 728 del 10 novembre 2003
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