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La nonviolenza e' in cammino. 720
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 720
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 2 Nov 2003 04:09:55 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 720 del 2 novembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Il 4 novembre a Viterbo 2. L'8 novembre a Verona 3. Marina Forti intervista Medha Patkar 4. Amira Hass: il muro della segregazione e la cosiddetta "area di giunzione" 5. Marta Marsili: femminismo e pace a Perugia 6. Peppe Sini: ancora sulla proposta di Lidia Menapace 7. Un profilo di don Zeno Saltini 8. Angelo D'Orsi ricorda Alessandro Galante Garrone 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. IL 4 NOVEMBRE A VITERBO [Riproduciamo ancora una volta un estratto da un nostro comunicato di un anno fa. Anche quest'anno realizzeremo l'iniziativa del 4 novembre di pace, in memoria delle vittime, contro le guerre, le armi e gli eserciti] Il 4 novembre il Centro di ricerca per la pace di Viterbo, in dolore e silenzio, commemora tutte le vittime di tutte le guerre, dichiara il diritto e il dovere di ogni essere umano come delle istituzioni di operare affinche' mai piu' si facciano guerre, denuncia l'oscenita' dei festeggiamenti della guerra e dei suoi apparati da parte dei poteri militari e politici che nuove guerre e nuove stragi preparano. * "Ogni vittima ha il volto di Abele" (Heinrich Boell). "L'Italia ripudia la guerra" (art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana). Il 4 novembre, anniversario della conclusione per l'Italia della "inutile strage" della prima guerra mondiale, il Centro di ricerca per la pace di Viterbo commemorera' tutte le vittime di tutte le guerre a Viterbo, in piazza del sacrario. La cerimonia sara' austera, composta, meditativa, silenziosa: come e' giusto quando si rivolge il pensiero ad esseri umani defunti, e massime quando si rivolge il pensiero ad esseri umani assassinati. Essa consistera' nella deposizione di un omaggio floreale e in una meditazione silenziosa. Essa attestera' l'impegno morale e civile di opporsi a tutte le guerre, che - come disse con espressione indimenticabile Mohandas Gandhi - sono sempre omicidi di massa. La cerimonia si svolgera' in un orario scelto anche per demarcare la distanza temporale e morale dalla oscena festa di esaltazione della guerra e dei suoi apparati che alcune ore dopo, in guisa di effettuale profanazione del riposo delle vittime, si terra' da parte dei comandi militari e politici. La cerimonia austera e silenziosa delle persone amanti della pace e addolorate per tutte le vittime delle guerre, contrapporra' visibilmente il silenzio del lutto e della fraternita' e sororita' umana, alla retorica e al frastuono degli osceni festeggiamenti "necrofili e insensati" (per usare le parole di Miguel de Unamuno) che poche ore dopo saranno esibiti da quegli stessi comandi politici e militari che la morte delle vittime di tutte le guerre festeggiano con l'esaltare la guerra ed i suoi esiti e i suoi apparati, e che prolungano il crimine della guerra preparando, promuovendo, avallando ed eseguendo nuove guerre omicide e onnicide. Il Centro di ricerca per la pace non partecipera' ai cinici ed offensivi festeggiamenti della morte e delle stragi organizzati dai comandi militari e politici, e denuncia con cio' come quelle lugubri e irresponsabili parate siano scherno malvagio e orribile umiliazione per le vittime della guerra, simbolico ucciderle ancora una volta. Il Centro di ricerca per la pace chiama tutte le persone di volonta' buona ad essere costruttrici di pace, ed in particolare chiama tutti i cittadini italiani, e quindi anche tutte le istituzioni italiane, al rispetto piu' rigoroso della legalita' costituzionale, fondamento del nostro ordinamento giuridico e presidio delle nostre comuni liberta' e dei diritti di tutti quanti nel nostro territorio si trovino. E' la Costituzione della Repubblica Italiana che reca all'art. 11 il principio fondamentale, e il valore supremo, espresso con le lapidarie parole "L'Italia ripudia la guerra". "Ogni vittima ha il volto di Abele" (Heinrich Boell). "L'Italia ripudia la guerra" (art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana). * Mai piu' si faccia guerra: solo questo impegno rende lecito accostarsi alle vittime delle guerre in dolore e in solidarieta'. Chi ancora la guerra permette, promuove e propugna, le vittime offende e schernisce, ed aggredisce e disonora l'umanita' intera. 2. INIZIATIVE. L'8 NOVEMBRE A VERONA [Riproduciamo ancora una volta la notizia di questo incontro, al quale attribuiamo - e' evidente - grande importanza, e sarebbe per noi una gioia grande se molte e molti di coloro che leggono questo foglio vi prendessero parte] Si svolgera' l'8 novembre a Verona, su invito di autorevoli personalita' come Lidia Menapace, Mao Valpiana e Giovanni Benzoni, un incontro a cui sono invitate caldamente a partecipare tutte le persone di volonta' buona per dare una piu' precisa definizione alla proposta promossa da Lidia Menapace e dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta" e tradurla in un appello e un'iniziativa, la cui necessita' e urgenza e' a tutti evidente. Quella formulata da Lidia Menapace e' - come e' stato gia' scritto - una proposta aperta e inclusiva, che vuol essere occasione d'incontro di diverse esperienze e culture, di sinergia di pratiche e progetti diversi, di riconoscimento e condivisione in un comune impegno, necessario e urgente, per costruire un'Europa di pace che assuma la nonviolenza come criterio e come impegno. Senza presunzioni, senza rivendicazioni di primogeniture, valorizzando il contributo, le esperienze e le riflessioni di tutte e tutti coloro che vorranno impegnarsi insieme nel rispetto della soggettivita' di ciascuna e ciascuno, in corale colloquio. Il luogo dell'incontro dell'8 novembre a Verona e' la Casa per la nonviolenza, in via Spagna 8 (vicino alla Basilica di San Zeno); l'orario dell'incontro e' dalle ore 11 alle ore 16. Lidia Menapace sara' li' fin dalle ore 10, per poterci parlare insieme anche di altro. Per arrivare alla Casa per la nonviolenza: dalla stazione ferroviaria prendere l'autobus n. 61, direzione centro, scendere alla fermata di via Da Vico, subito dopo il Ponte Risorgimento; chi arriva in macchina deve uscire al casello di Verona Sud, seguire la direzione centro fino a Porta Nuova, poi a sinistra lungo la circonvallazione interna fino a Porta San Zeno. Per informazioni e contatti: tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it 3. MAESTRE. MARINA FORTI INTERVISTA MEDHA PATKAR [Dal quotidiano "Il manifesto" del primo novembre 2003. Marina Forti, giornalista, particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, e' un'esperta di questioni ecologiche globali; tiene una rilevante rubrica su questo tema sul quotidiano "Il manifesto". Medha Patkar, intellettuale indiana impegnata nelle lotte nonviolente per i diritti umani e la difesa dell'ambiente, e' giustamente celebre per aver dato vita negli anni '80 al Narmada Bachao Andolan (Nba), il movimento che si oppone alla costruzione delle dighe sul fiume Narmada in India; la sua lotta nonviolenta - per cui e' stata anche arrestata molte volte - ha costretto la Banca Mondiale a ritirarsi dal finanziamento del progetto di Sardar Sarovar, una delle principali dighe sul Narmada, ed il mondo intero a prestare attenzione ai disastri umani ed ambientali causati da queste opere mastodontiche; nel 1991 Medha Patkar ha ricevuto il Goldmann Prize, un premio internazionale per chi si e' contraddistinto nella difesa dell'ambiente e dei diritti umani, e dal 1998 al 2000 e' anche stata una degli undici commissari dell'autorevole Commissione mondiale sulle dighe; attualmente e' una delle leader del percorso iniziato dai gruppi indiani verso il World Social Forum, che si terra' in India il prossimo gennaio 2004, ed una delle figure-simbolo del movimento new global e della nonviolenza in cammino (un piu' ampio profilo di Medha Patkar e' nel n. 455 di questo foglio)] Il nome Narmada e' diventato una sorta di simbolo, in India e fuori. Narmada e' un grande fiume, 1.300 chilometri, che attraversa tre stati dell'India centrale. E' anche il nome di un progetto faraonico, una serie impressionante di 30 grandi dighe, decine di dighe minori, centrali idroelettriche e canalizzazioni. Le grandi dighe pero' creano grandi laghi artificiali, sommergendo grandi estensioni di terre, foreste, villaggi: dunque creano sfollati. La piu' grande delle dighe sul Narmada, la Sardar Sarovar, ha gia' spostato trecentocinquantamila persone; nell'intera valle, tra villaggi sommersi e famiglie costrette a cercare altre terre da coltivare, la vita e la sopravvivenza di quasi un milione di persone e' stata stravolta. Per questo il nome Narmada e' diventato anche il simbolo della resistenza delle popolazioni locali contro le grandi dighe. E' una resistenza ostinata, dura ormai dalla meta' degli anni '80. Ha avuto momenti di vittoria - come quando la Campagna per salvare il Narmada (Narmada Bachao Andolan) ha costretto la Banca mondiale a uscire dal progetto, bloccare i crediti e aprire una revisione della sua politica sulle grandi dighe. Momenti drammatici, anche: come le ricorrenti lotte satyagraha [la definizione data da Gandhi alla sua proposta di lotta nonviolenta], quando la popolazione di questo o quel villaggio rifiuta di muoversi, a costo di lasciarsi sommergere dall'acqua che sale - finche' la polizia interviene con sgomberi forzati. E poi battaglie legali, ricorsi, sentenze della Corte suprema. * "I lavori alla diga di Sardar Sarovar adesso sono fermi", spiega Medha Patkar, che della Narmada Bachao Andolan e' la forza portante e la figura piu' nota: "L'ultima sentenza della Corte suprema, l'ennesima, ha in effetti autorizzato a completare il progetto ma a condizione che prima siano risistemate le famiglie costrette a sfollare". Gia', ogni volta che la diga si alza, si allarga l'area del lago artificiale e dunque il numero di villaggi che andra' sott'acqua alla successiva stagione delle piogge. Cosi', quando l'ultima sentenza ha permesso di portare la diga a 100 metri, altre dodicimila famiglie sono sfollate (vedi "Il manifesto" del 13 agosto 2003). "Per arrivare a 136 metri, come vuole il progetto, dovrebbero risistemare altre quarantamila famiglie. Ma gia' ne hanno dodicimila in attesa di sistemazione. Gran parte dell'area sommersa e' in Madhya Pradesh, e qui il governo dice che non ha terra da dare agli sfollati, puo' risarcire solo in denaro. E pero' non intende obiettare al completamento della diga (che e' nel territorio di un altro stato, il Gujarat, ndr). La nostra posizione e' chiara: le popolazioni non se ne andranno se non avranno altra terra a compensare quella persa. Quella che chiamano riabilitazione va basata sulla terra, non sul denaro". * E pero' la battaglia della valle di Narmada non e' solo resistenza. Ci tiene a dirlo Medha Patkar - che incontriamo a Roma, appena arrivata dall'India, piena di quell'energia che le permette di saltare da un villaggio tribale a una tribuna internazionale senza riprendere fiato: qui era invitata dall'Associazione amici di Raoul Follereau e dalla Campagna per la riforma della Banca mondiale. "La resistenza alla diga ha fatto emergere la questione del diritto alla terra di migliaia di 'tribali', dentro e fuori l'area sommersa dalla diga", spiega. Gia', perche' piu' di meta' degli sfollati nella valle sono 'tribali' - cosi' sono chiamate le popolazioni indigene in India - e con i dalit, fuoricasta ("intoccabili") si arriva all'80%. Spesso non sono neppure riconosciuti come sfollati, perche' non hanno titoli legali per dimostrare un diritto alle terre su cui vivono per diritto consuetudinario. "Cosi' negli ultimi due anni abbiamo preparato le carte necessarie e chiesto al governo di registrare queste famiglie. Ma il governo prende tempo. Senza un titolo legale, le comunita' tribali sono considerate 'occupanti abusivi', ed e' molto piu' facile cacciarli via quando c'e' da costruire una diga, un progetto di riforestazione o altro". Cacciati, dice, "senza consultarli, tantomeno cercare il loro consenso, senza garantire loro dei diritti e senza che abbiano neppure una briciola dei vantaggi creati da queste opere". * Poi c'e' l'altra parte della lotta politica condotta dalla Narmada Bachao Andolan. "Abbiamo avviato quelle che chiamiamo attivita' di ricostruzione: come il progetto delle scuole, ormai sono una trentina in altrettanti villaggi". E' un progetto consolidato, da ormai undici anni: 750 bambini hanno cosi' frequentato le elementari e la prima ondata di allievi si e' inserita nella scuola statale. "E il progetto dell'energia elettrica: con un sistema da 15 kilowatt, azionato dalla forza dell'acqua, il primo villaggio della valle di Narmada ora ha la luce elettrica che non aveva mai avuto. Queste cose funzionano. Stiamo discutendo con i funzionari di governo come avviare progetti di sviluppo locale: l'agenda comprende energia, acqua, agricoltura, produzione forestale, creazione di posti di lavoro, istruzione e salute. L'idea e' elaborare progetti equi, sostenibili e giusti, basati sulla partecipazione delle comunita'. Il governo del Maharashtra ha accettato l'idea generale. Con gli altri stati il dialogo e' piu' difficile. Ma presto ci saranno elezioni, e cosi' dovranno fare un gesto". * Poco a poco il movimento di resistenza contro le dighe e' diventato movimento politico piu' generale. La Narmada Bachao Andolan del resto e' solo una delle organizzazioni che nel 1996 ha dato vita alla "Alleanza nazionale dei movimenti popolari" (National Alliance of People's Movement, Napm), insieme al movimento di contadini e lavoratori del Rajasthan per il diritto all'informazione e la trasparenza, o il forum nazionale dei pescatori, i gruppi dalit... Tra febbraio e marzo scorso l'Alleanza nazionale ha tenuto una lunga marcia attraverso l'India, dal Kerala all'estremo sud fino a Ayodhya, cittadina nella pianura del Gange, a nord, dove dieci anni fa folle di estremisti hindu distrussero una moschea scatenando un'ondata di violenze intercomunitarie. Ayodhya e' rimasta il simbolo dell'ideologia della supremazia hindu sulle diverse culture e religioni che compongono l'India, un nazionalismo combinato al fondamentalismo identitario (di cui e' espressione politica il Partito nazionale indiano, Bjp, che guida il governo centrale a New Delhi). Perche' una manifestazione di movimenti popolari, sfollati delle dighe, pescatori e cosi' via, va a concludersi proprio la'? Medha Patkar non ha dubbi: "Le due maggiori sfide davanti a noi sono da un lato la nuova politica economica, basata su privatizzazioni e investimenti stranieri, e dall'altro il comunalismo, l'uso politico delle appartenenze religiose. Dunque siamo partiti dal Kerala, dove un gruppo di villaggi e' in lotta contro la Coca cola che gli toglie l'acqua, e siamo andati a finire a Ayodhya". * Cosi' il movimento di Narmada, l'alleanza nazionale Napm, figure come Medha Patkar hanno ormai conquistato una legittimita' e un riconoscimento politico generale in India. "Abbiamo sollevato questioni sulla politica delle privatizzazioni, la globalizzazione, il fondamentalismo religioso, il sistema delle caste, la lotta dei dalit per i diritti e la dignita'. Insomma, rappresentiamo una proposta politica globale. Al punto che ora ci chiedono che ci presentiamo alle elezioni". Ne testimonia il sondaggio pubblicato la settimana scorsa da un noto settimanale: pare che gli indiani abbiano poca fiducia nei politici, e alla domanda su chi sarebbe un candidato credibile alla presidenza del paese Medha Patkar arriva terza. Lei pero' non e' affatto convinta di imboccare la via elettorale. "Credo che sia necessario intervenire in modo piu' diretto nella politica: la corruzione dilagante e l'asservimento a interessi corporativi stanno uccidendo la democrazia. Allo stesso tempo, cio' che ci da' legittimita' e' proprio il nostro lavoro di resistenza alle dighe, le attivita' di ricostruzione. Insomma, la questione e' aperta. Credo che sia necessario poter contare su un gruppo di pressione nella legislatura, dei parlamentari, ma non sono sicura che questo significhi necessariamente presentarci come forza politica - magari potremmo sostenere dei candidati. Terremo una consultazione nazionale, decideremo presto". * Un'ultima domanda a Medha Patkar, laureata in medicina e ricercatrice in scienze sociali: com'e' arrivata nella valle di Narmada? Lei sorride, "ora te lo spiego", come a chiudere l'argomento: sono state scritte parecchie cose a questo proposito. "Entrare nel lavoro sociale e' stato in qualche modo naturale per me. Mio padre era un freedom fighter (un "combattente per la liberta'" e' chi ha partecipato al movimento per l'indipendenza dall'impero britannico, ndr). A 16 anni, quando e' uscito di galera, e' entrato nei sindacati dei lavoratori, era un socialista. Anche mia madre aveva una storia simile. Cosi' sono cresciuta vedendo in casa mia riunioni politiche e discussioni. Ho studiato medicina perche' avevo buoni voti, ma poi ho scelto un post-graduate in scienze sociali. Ho condotto ricerche negli slum di Bombay. La questione era chiara: le persone espulse dalla terra finivano a ingrossare gli slum". "Cosi' ho deciso di andare a ricercare nelle aree remote dove il problema aveva origine. Nella regione tribale del Gujarat nord-orientale ho finalmente capito che relazione c'e' tra lo sviluppo di una societa' dei consumi urbana e lo spazio delle popolazioni tribali: una relazione di sfruttamento. E' allora che ho saputo del progetto di Narmada. Avevo accompagnato nei villaggi un avvocato che stava preparando una causa legale sui risarcimenti e mi sono detta che il ricorso non bastava: bisognava che quei villaggi si organizzassero. Cosi' sono rimasta la' - e quelle persone mi hanno insegnato molto". 4. DIRITTI UMANI. AMIRA HASS: IL MURO DELLA SEGREGAZIONE E LA COSIDDETTA "AREA DI GIUNZIONE" [Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 ottobre 2003 riprendiamo questa traduzione a cura di Sveva Haertter di un articolo apparso sul prestigioso quotidiano israeliano "Ha'aretz". Amira Hass e' un'illustre giornalista israeliana, corrispondente da Ramallah di "Ha'aretz", nel 1999 ha ricevuto il premio per la stampa libera World press freedom award; vari suoi articoli in traduzione italiana sono apparsi su "Internazionale" (www.internazionale.it)] Il percorso del Muro di separazione nelle aree dove e' gia' costruito ed in quelle dove e' previsto, prova ancora una volta che l'establishment israeliano della colonial-sicurezza non perde mai l'occasione di sfruttare l'evidente bisogno degli israeliani di sentirsi sicuri nel proprio stato per espropriare enormi tratti di terre palestinesi annettendole di fatto allo stato di Israele. Dato che il percorso non e' sulla linea verde, ma si addentra in profondita' nelle aree palestinesi, e' stata creata una nuova zona tra il muro e lo stato di Israele. E' nota come "area di giunzione", un eufemismo che ingentilisce e confonde il palese processo di annessione. Ma resta un piccolo problema che ha la forma di decine di migliaia di palestinesi che vivono e lavorano nell'area che e' stata annessa de facto e che sara' annessa de facto in futuro. Alcuni nuovi ordini militari circolati la scorsa settimana nei villaggi dell''area di giunzione" mostrano che gli avvocati che lavorano al servizio dell'establishment della colonial-sicurezza hanno risolto il problema. Hanno creato una nuova, distinta categoria giuridica di palestinesi, distinta dalla categoria degli ebrei che gia' hanno colonizzato quelle zone o di quelli che vorranno stabilirvisi in futuro. La nuova categoria distingue i palestinesi che vi rientrano anche dai palestinesi che vivono due metri piu' ad est, sull'altro lato del percorso. Sostenuti da documenti redatti in un linguaggio generico e neutrale, la nuova categoria viene distinta in virtu' di una nuova relazione che si delinea nell'area, tra l'apparato burocratico dell'esercito di occupazione e parte della popolazione occupata. La nuova categoria si chiama "residente a lungo termine" ed e' in via di istituzionalizzazione attraverso un nuovo documento chiamato "permesso per residente a lungo termine". Questo deriva specificatamente da un ordine firmato dal generale Moshe Kaplinski, a capo del comando centrale, e da altri tre, firmati da Ilan Paz, capo dell'amministrazione civile. Le istruzioni all'apparenza riguardano solo aggiustamenti per la presenza e gli spostamenti dei palestinesi in quelle specifiche aree, ma un'attenta lettura mostra che danno alle autorita' israeliane anche ampi, terrificanti poteri di cacciare palestinesi dalle proprie case, dalle proprie terre e di allontanarli dalle proprie famiglie. Questa e' la realta' che emerge da questi nuovi regolamenti: l'area e' aperta ad ogni israeliano che vi si voglia stabilire o lavorarci. In base ai nuovi regolamenti, un israeliano e' anche chi ha il diritto di esserlo in base alla legge del ritorno - in altre parole ogni ebreo del mondo e' autorizzato a stabilirsi in quelle aree, e cosi' altri che possono diventare cittadini in base alla legge del ritorno. L'area e' chiusa ai palestinesi che vogliono risiedere, stabilirsi e lavorare nell'area, a parte quelle eccezioni che l'esercito ed i suoi avvocati hanno designato come persone a cui cio' e' permesso. Queste eccezioni sono quei palestinesi che gia' vivono in quelle aree. Sara' loro permesso di restare, se corrispondono a condizioni poste dai comitati militari israeliani e nel caso in cui convincano quei comitati che in effetti risiedono in quelle aree. I comitati militari israeliani determineranno quali palestinesi possono spostarsi e vivere all'interno di quelle aree e quali no. Ufficiali dell'esercito determineranno quali "residenti a lungo termine" avranno il permesso di circolare: di "lasciare" l'area per andare in un villaggio palestinese vicino che si trova oltre il recinto, o in una vicina citta' palestinese - e tornare; e decideranno anche quando... due volte al giorno, o tre volte al mese, per esempio. I comitati militari israeliani saranno autorizzati a decidere a quali palestinesi che non sono "residenti a lungo termine" sara' permesso entrare nelle aree e quando gli sara' permesso. Una persona la cui intera proprieta' si trova all'interno dell'area vi potra' accedere per grazia di questi uffici. Lo stesso avviene per camion dei rifiuti, dottori, parenti, amici, insegnanti, tecnici telefonici e lavoratori dell'ente idrico palestinese. Tutti loro e altri ancora dovranno riempire moduli, presentare richieste, fornire prove e documentazione, in un processo che l'esperienza ha gia' dimostrato richiedere molto tempo nella snervante burocrazia dell'amministrazione civile - solo per avere, o non avere, il permesso di entrare nella zona proibita. I "permessi per residente a lungo termine" vanno rinnovati mensilmente, per un periodo che verra' stabilito dai comandanti militari e dai loro avvocati. I comitati militari hanno facolta' di decidere che una persona non e' piu' adatta ad essere "residente a lungo termine", ovvero sono autorizzati a chiedere a quella persona di lasciare l'area. In altre parole, i comitati determineranno il numero e l'identita' delle persone alle quali verra' richiesto di rinunciare al loro "permesso per residente a lungo termine" e di lasciare l'area. Gli ufficiali dell'esercito, come mostra l'esperienza, faranno un mirabile uso di ragioni di sicurezza per giustificare la rimozione di persone dalla propria terra, e i giudici israeliani comprenderanno queste ragioni. E, come mostra l'esperienza, molti israeliani affermeranno che e' tutto kasher se consente di prevenire che attentatori suicidi raggiungano Israele. Ma queste persone non dovrebbero dimenticare i fatti: il percorso che e' pensato per proteggere lo stato di Israele invade in profondita' la Cisgiordania, a causa di richieste dell'establishment della colonial-sicurezza capeggiato dal governo Sharon. Quindi, l'area tra la "barriera" e lo stato di Israele, disgraziatamente non e' priva di non-ebrei. Ed ora, senza alcuna vergogna, inseriscono strutturalmente condizioni nella legge militare che amareggeranno le vite delle persone nel territorio occupato-annesso, fino a quando non verra' loro chiesto di andarsene o le condizioni consentiranno all'esercito di rimuoverle. 5. RIFLESSIONE. MARTA MARSILI: FEMMINISMO E PACE A PERUGIA [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo questo resoconto. Marta Marsili, dell'Universita' La Sapienza di Roma, mediatrice interculturale, e' impegnata in iniziative di solidarieta' internazionale, per lo sviluppo sostenibile e la giustizia globale, per la pace e i diritti] Promossa dalla Tavola della pace si e' tenuta dal 9 al 12 ottobre a Perugia la quinta assemblea dell'Onu dei popoli per discutere dal basso di pacifismo e sviluppo sostenibile. Quello di Perugia e' un appuntamento che si rinnova da anni e che fa incontrare rappresentanti di tutto il mondo intorno ad un tavolo di temi comuni. Per il 2003 si e' scelto di guardare al ruolo e alle responsabilita' dell'Europa nel mondo; obiettivo dell'assemblea, costruire un confronto con le altre realta' europee ed extraeuropee in materia di diritti, per contribuire dal basso alla promozione della democratizzazione dell'Onu quale centro della governabilita' globale. I temi dei differenti dibattiti hanno ruotato intorno a questioni da tutti sentite, quali la capacita' di stabilire con gli altri popoli e nazioni relazioni improntate alla ricerca del bene comune, la costruzione di processi di cooperazione solidale ed il riconoscimento e il rispetto delle diverse culture e identita'. Forme di confronto molto importanti, iniziate in occasione del terzo forum sociale mondiale di Porto Alegre e riproposte in questa nuova edizione dell'asseblea dell'Onu dei popoli e della marcia per la pace Perugia-Assisi. I lavori dell'assemblea hanno visto la partecipazione di esponenti laici e religiosi di movimenti, sindacati, organizzazioni non-governative, istituzioni locali e universita', centri di ricerca, network internazionali, impegnati a favore della pace e dei diritti umani, dello sviluppo umano sostenibile, della giustizia sociale e della democrazia; movimenti di liberazione, per i diritti umani, giovanili, ambientalisti, femminili, sindacali, cooperativistici, associazioni culturali, organizzazioni religiose, di popoli indigeni, per la difesa dell'infanzia, di contadini poveri, antirazziste, di giornalisti e stampa alternativa, di immigrati e rifugiati. Gli ospiti stranieri sono stati piu' di 200, impegnati nelle discussioni plenarie ma anche nei seminari e nei gruppi di lavoro su temi specifici che hanno riempito le giornate dell'assemblea. * Per quel che riguarda in modo particolare la presenza femminista, venerdi' 10 ottobre si e' svolta per la prima volta un'assemblea di donne dal titolo "Le donne d'Europa con le donne del mondo". Tra le organizzazioni che hanno promosso e sostenuto tale incontro citiamo il Comitato internazionale 8 marzo, attivo a Perugia da anni e presente sul territorio con numerose iniziative, le Donne in nero, presenti come ogni anno per discutere di gruppi di intermediazione ed interposizione contro le guerre, e molte altre realta' femminili e femministe provenienti da tutta Italia. Scopo dell'incontro era ascoltare e confrontarsi con altri pensieri e saperi sulle strategie politiche da adottare per la promozione di una cultura e di una prassi di pace, da edificare sulla base di concetti quali l'uguaglianza dei diritti, declinati in rapporto all'appartenenza culturale, linguistica e di genere. Ad un'impostazione piu' propriamente seminariale e' stata preferita una forma di presa di parola maggiormente dialogante; cosi', in un'atmosfera coinvolgente, si sono susseguite una quantita' di relazioni di donne provenienti da tutto il mondo. L'aspetto intergenerazionale e g/locale emergeva allo sguardo, ed e' forse questo che ne ha fatto un'esperienza importante. * Delle partecipanti al dibattito molte hanno colpito la memoria e il cuore di coloro che ascoltavano: pensiamo soltanto alla donna palestinese che nel parlare delloccupazione israeliana ha mostrato a tutte una serie di cartine del territorio palestinese interamente cosparso di posti di blocco, provocando dolorose memorie alle italiane che avevano vissuto la Resistenza ai nazifascisti; alla stessa donna che racconta le cifre della "malnutrizione irreversibile" tra le bambine e i bambini del suo Paese, passata negli ultimi tre anni dall'1,4% al 9,6%. Oppure la storia di Cherifa Kedhar, un'algerina che ha denunciato l'atteggiamento fazioso delle superpotenze nei confronti dei terrorismi, raccontando che nel suo Paese il terrorismo esiste eccome ma non e' combattuto da Usa e Europa che anzi lo considerano un passo necessario e doloroso per l'avvio del processo democratico. E poi ancora la voce dirompente della statunitense che ha denunciato l'inutile dispendio in tecnologie militari del suo Paese a danno dei milioni di indigenti che non possiedono nessuna assistenza; un discorso che ha lasciato la parola a Lidia Menapace per un ragionamento sul senso stesso della guerra nel nostro sistema e sulla necessita' che la nascente Costituzione europea contenga all'articolo 1 il ripudio della guerra "senza se e senza ma". Al termine dei lavori e' stata elaborata una proposta di documento finale, redatta nel segno della necessita' di una maggiore visibilita' delle iniziative pacifiste delle donne, a cominciare dalla possibilita' concreta di inserire nel programma dei lavori della Tavola per la pace un'occasione "di genere" come quella appena terminata, a conferma dell'impegno costante dei movimenti delle donne nel segno dell'antimilitarismo e dello sviluppo sostenibile. 6. RIFLESSIONE. PEPPE SINI: ANCORA SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE Aggiungo appena due note a margine, ma che proprio marginali non credo che siano, per insistere ancora su due persuasioni e un invito. La prima: uno dei meriti della proposta di Lidia Menapace a me pare che sia che essa muova da una consapevolezza che tanta parte del movimento per la pace non ha ancora raggiunto: che la nonviolenza e' maggioritaria. Che l'esigenza della nonviolenza, la preferenza per la nonviolenza, l'accostamento alla nonviolenza sono ormai sentimento e scelta condivisi non solo dalla gran parte degli operatori sociali, ma dell'intera famiglia umana. Forse e' sempre stato cosi', ma certo dopo Auschwitz ed Hiroshima tutto e' divenuto piu' chiaro, e in questi ultimi anni poi le ultime confusioni e ambiguita' sono cadute: solo la scelta della nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe, solo la scelta della nonviolenza puo' garantire la liberazione e promuovere la convivenza nel riconoscimento pieno della dignita' di ogni essere umano, solo la scelta della nonviolenza puo' inverare nella storia e nella societa' quanto di luminoso e di esatto vi e' nell'esistenza umana. La seconda: la nonviolenza e' quindi divenuta non piu' solo scelta di coscienza, testimonianza individuale, valore e criterio epistemologico ed assiologico, insieme di tecniche di gestione del conflitto, ermeneutica dell'ascolto dell'alterita', principio speranza e ortopedia del camminare eretti, fondazione dell'eguaglianza nel riconoscimento delle differenze, metodologia deliberativa ed operativa rigorosa e degnificante, proposta di azione sociale e politica, principio speranza concretamente agito nella coerenza tra mezzi e fini e nell'orientamento al riconoscimento e al rispetto dell'umanita' come valore incarnato in ogni essere umano; essa e' divenuta altresi' principio giuriscostituente: con sempre piu' autocoscienza le legislazioni future su essa si fonderanno, su essa le istituzioni future troveranno l'unica legittimita' ammissibile, su essa le politiche e l'amministrazione della cosa pubblica dovranno incardinare il loro statuto, la loro funzione, la loro organizzazione ed articolazione, i loro moventi, modi ed esiti. E quindi e' questa l'ora di una proposta nitida e forte per l'Europa: affinche' l'Europa scelga la nonviolenza e diventi operatrice di nonviolenza; affinche' il processo di unificazione europea ed i correlati processi legislativo, istituzionale ed organizzativo-amministrativo siano chiamati a svilupparsi su questa scelta. Cosicche' la proposta avanzata da Lidia Menapace e dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre - proposta sulla quale si e' costruito nel tempo un confronto e una convergenza di tante diverse soggettivita' e tradizioni, riflessioni ed esperienze - di un'Europa "neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta" e' qui e oggi ineludibile un riferimento e un appello, di cui vorremmo che l'intero movimento per la pace cogliesse la crucialita', e la cogenza. L'incontro dell'8 novembre a Verona (dalle ore 11 alle ore 16, presso la Casa per la nonviolenza, in via Spagna 8 - e Lidia Menapace sara' li' fin dalle 10 per quante e quanti volessero anche fare con lei una chiacchierata informale su altri argomenti ancora) sara' una tappa importante di un percorso che puo' dar esiti di decisiva rilevanza: vivamente rivolgiamo anche noi un invito a tutte le persone amiche della nonviolenza affinche' la partecipazione sia la piu' ampia, profonda e vivace possibile; affinche' dall'incontro dell'8 novembre a Verona emerga un appello e un programma di lavoro, di cui avvertiamo la necessita' e l'urgenza, che articoli, arricchisca ed inveri la proposta di Lidia e la consolidi ed estrinsechi in iniziativa politica e culturale, in progetto legislativo, istituzionale, amministrativo ed organizzativo, in campagna di mobilitazione dal basso del "potere di tutti" partecipata ed efficace. 7. MAESTRI. UN PROFILO DI DON ZENO SALTINI Sacerdote cattolico ed educatore (1900-1981), fondatore della comunità di Nomadelfia, Zeno Saltini e' una grande figura di costruttore di pace e di nonviolenza. Dal sito di Nomadelfia (www.nomadelfia.it) riprendiamo al seguente scheda biografica: "Padre e fondatore di Nomadelfia e' don Zeno Saltini. 30 agosto 1900: Zeno Saltini nasce a Fossoli di Carpi (Mo), in una famiglia patriarcale. 1914 - Il rifiuto della scuola: a 14 anni e mezzo Zeno rifiuta di continuare gli studi, affermando che a scuola insegnano cose che non incidono nella vita, e va a lavorare nei poderi della famiglia. Vive in mezzo ai braccianti, conosce le loro miserie e ne condivide le giuste aspirazioni. 1920 - "Cambio civilta'": soldato di leva nella caserma del III Telegrafisti a Firenze, ha uno scontro violento, lui cattolico, con un amico anarchico alla presenza degli altri soldati. L'anarchico sostiene che Cristo e la Chiesa sono di ostacolo al progresso umano. Zeno sostiene il contrario, pur riconoscendo che i cristiani sono in gran parte incoerenti. Ma l'anarchico e' istruito e lui no. Tra i fischi degli altri soldati, Zeno si ritira da solo e decide: "Gli rispondero' con la mia vita. Cambio civilta' cominciando da me stesso. Per tutta la vita non voglio piu' essere ne' servo ne' padrone". Decide di studiare legge e teologia, mentre continua a dedicarsi ad attivita' di apostolato ed al recupero di ragazzi sbandati. Si laurea in legge presso l'Universita' Cattolica di Milano. Aveva intenzione di difendere come avvocato coloro che non potevano pagarsi un difensore; ora pero' si rende conto che la sua missione e' di prevenire che cadano in disgrazia: decide di farsi sacerdote. 6 gennaio 1931 - Sacerdote, "il primo figlio": celebra la sua prima messa nel duomo di Carpi e all'altare prende come figlio un ragazzo di 17 anni appena uscito dal carcere: Danilo. 1941 - "La prima mamma": a S. Giacomo Roncole, vicino a Mirandola (Mo), don Zeno accoglie come figli altri fanciulli abbandonati e fonda l'Opera Piccoli Apostoli. Ha giurato sull'altare che mai avrebbe fatto un collegio. Scoppia la seconda guerra mondiale. Nel 1941 una giovane studentessa, Irene, scappa da casa e si presenta a don Zeno dichiarandosi disposta a far da mamma ai Piccoli Apostoli. Don Zeno, con l'approvazione del vescovo, le affida i piu' piccoli e nasce con lei una maternita' nuova, virginea. Altre giovani donne la seguono, sono le "mamme di vocazione". Alcuni sacerdoti si uniscono a don Zeno e danno inizio ad un clero comunitario. 1943-1945. La Resistenza: con l'armistizio dell'8 settembre 1943 i tedeschi occupano l'Italia. Don Zeno, che aveva preso piu' volte posizione contro il fascismo, la guerra e le leggi razziali, parte per il sud. Alcuni figli lo seguono per sfuggire alle deportazioni in Germania. A S. Giacomo l'Opera e' duramente perseguitata e si tenta di disperderla. Diversi giovani Piccoli Apostoli entrano nelle formazioni partigiane, mentre alcuni sacerdoti Piccoli Apostoli contribuiscono all'organizzazione della Resistenza e aiutano centinaia di ebrei e di perseguitati politici a raggiungere la Svizzera con documenti falsi. Sette Piccoli Apostoli perdono la vita per la riconquista della liberta'. 1947-1948 - Nasce Nomadelfia: dopo la fine della guerra, nel 1947, i Piccoli Apostoli occupano l'ex campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, per costruire la loro nuova citta'. Abbattono muraglie e reticolati, mentre accanto alle famiglie di mamme di vocazione si formano le prime famiglie di sposi, che chiedono a don Zeno di poter accogliere i figli abbandonati, decisi ad amarli alla pari di quelli che nasceranno dal loro matrimonio. Il 14 febbraio 1948 approvano il testo di una Costituzione che verra' firmata sull'altare. L'Opera Piccoli Apostoli diventa cosi' Nomadelfia, che significa dal greco: "Dove la fraternita' e' legge". 1950 - Il "Movimento della Fraternita' Umana": nel 1950 Nomadelfia propone al popolo un movimento politico chiamato "Movimento della Fraternita' Umana", per abolire ogni forma di sfruttamento e per promuovere una democrazia diretta. Ma l'ostilita' delle forze politiche al governo e di alcuni ambienti ecclesiastici blocca l'iniziativa. I nomadelfi sono 1.150, dei quali 800 figli accolti (molti dei quali bisognosi di cure particolari) e 150 ospiti senza casa e senza lavoro. La situazione economica diventa sempre piu' pesante. Sfruttando questo pretesto si tenta di sciogliere Nomadelfia. 1952 - Lo scioglimento: il 5 febbraio 1952 il Sant'Ufficio ordina a don Zeno di lasciare Nomadelfia. Don Zeno ubbidisce. Costretti ad abbandonare Fossoli, i nomadelfi si rifugiano a Grosseto, su una tenuta di diverse centinaia di ettari da bonificare, donata da Maria Giovanna Albertoni Pirelli, dove vivono in gran parte sotto le tende. Pur lontano dai figli, don Zeno cerca di provvedere alle loro necessita', e sempre piu' spesso deve difenderne in tribunale alcuni che, strappati alle famiglie di Nomadelfia, sono ricaduti nella malavita. 1953 - La laicizzazione "pro gratia": chiede percio' al papa di poter rinunciare temporaneamente all'esercizio del sacerdozio per tornare alla guida dei suoi figli. Nel 1953 Pio XII gli concede la laicizzazione "pro gratia". Depone la veste, torna fra i suoi figli. I nomadelfi dopo la dispersione sono circa 400. 1962 - La "seconda" prima messa: nel 1954 don Zeno crea i "gruppi familiari". Nel 1961 i nomadelfi si danno una nuova Costituzione come associazione civile, e don Zeno chiede alla Santa Sede di riprendere l'esercizio del sacerdozio. Nomadelfia viene eretta in parrocchia e don Zeno nominato parroco. Il 22 gennaio 1962 celebra la sua "seconda prima messa". Nel 1965 don Zeno propone ai nomadelfi una nuova forma di apostolato: le "Serate di Nomadelfia", uno spettacolo di danze. Nel 1968 inizia la pubblicazione del mensile "Nomadelfia e' una proposta". Nello stesso anno i nomadelfi ottengono dal Ministero della Pubblica Istruzione di educare i figli sotto la loro responsabilita', nella propria scuola interna. 12 agosto 1980. I nomadelfi presentano a Giovanni Paolo II, nella villa di Castelgandolfo, una "Serata". E' presente tutta la popolazione di Nomadelfia. Il papa dice tra l'altro: "Se siamo vocati ad essere figli di Dio e tra noi fratelli, allora la regola che si chiama Nomadelfia e' un preavviso e un preannuncio di questo mondo futuro dove siamo chiamati tutti". 15 gennaio 1981 - La morte di don Zeno: pochi mesi dopo don Zeno, colpito da infarto, rivolge ai nomadelfi le ultime parole prima dell'agonia: si puo' considerare il suo testamento. Muore in Nomadelfia il 15 gennaio 1981, mentre il Papa riceve una delegazione di nomadelfi insieme ai quali prega per lui e invia la sua benedizione". Opere di Zeno Saltini: Don Zeno di Nomadelfia, L'uomo e' diverso, Ed. Nomadelfia; Tra le zolle, Ed. Nomadelfia; Sete di giustizia, Ed. Nomadelfia; I due regni, Ed. Nomadelfia; Dirottiamo la storia del rapporto umano, Ed. Nomadelfia; Dimidia hora, Ed. Nomadelfia; Lettere da una vita - vol. 1 (lettere scritte da don Zeno fra il 1900 e il 1952), EDB; Lettere da una vita - vol. 2 (lettere scritte da don Zeno fra il 1953 e il 1981), EDB; Don Zeno racconta l'avventura di Nomadelfia (autobiografia coordinata da Mario Sgarbossa e illustrata dai ragazzi di Nomadelfia), Ed. Nomadelfia. Opere su don Zeno Saltini e NomadelfiaNorina Galavotti di Nomadelfia, Mamma a Nomadelfia, Ed. Nomadelfia; Mario Sgarbossa , Don Zeno... e poi vinse il sogno, Citta' Nuova; Virgilio Angelo Galli, Qualcosa del padre, Mucchi Editore; Remo Rinaldi, Don Zeno, Turoldo e Nomadelfia. Era semplicemente Vangelo, EDB; Vittoria Fabretti, Don Zeno di Nomadelfia, Edizioni Messaggero Padova; Maurilio Guasco, Paolo Trionfini, Don Zeno e Nomadelfia tra societa' civile e religiosa (Atti del convegno di studi su don Zeno - 1999), Morcelliana; Nomadelfia, un popolo nuovo, Ed. Nomadelfia; Beppe Lopetrone con i Nomadelfi, Don Zeno 100 anni, (libro fotografico; cfr. anche il sito www.donzeno.it). Presso Nomadelfia sono disponibili - oltre a tutti i libri citati - anche videocassette ed altri materiali. 8. MEMORIA. ANGELO D'ORSI RICORDA ALESSANDRO GALANTE GARRONE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 ottobre 2003. Angelo D'Orsi e' docente di storia del pensiero politico contemporaneo all'universita' di Torino; si occupa da anni, oltre che di questioni di metodo e di storia della storiografia, di storia della cultura e dei gruppi intellettuali. Tra le sue opere: La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino 2000; Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001] Era nato, in quel di Vercelli, solo pochi giorni prima di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, nell'ottobre del 1909 (annus mirabilis: oltre a loro, Leone Ginzburg, per rimanere in ambito torinese, e Eugenio Garin, se si vuole uscirne); e si erano laureati nella stessa sessione estiva, nel luglio 1931, nella facolta' di giurisprudenza dell'ateneo torinese, storicamente una delle piu' illustri d'Italia. Di quella severa formazione, non angustamente giuridica, tipica del resto di un ambiente relativamente recettivo verso i fermenti sociali e aperto al dialogo con il mondo politico - connivenze con il fascismo incluse - Sandro, come Bindi (i due nomignoli con cui sono stati sempre chiamati a Torino, rispettivamente Galante e Bobbio), rechera' per sempre le stimmate. A differenza di Bobbio, egli non ebbe un Gioele Solari a indicargli il cammino; per ragioni pratiche aveva deciso di laurearsi in fretta, per cercare subito un impiego, scegliendo un docente come Federico Patetta, di cui si sapeva non essere troppo esigente con gli allievi; ma ci fu anche un'altra spiegazione in quella scelta; Patetta insegnava storia del diritto, una delle poche discipline a carattere storico praticate nella facolta', e cio' rispondeva a un preciso bisogno del giovane studente che alla storia guardava con un interesse che alla lunga avrebbe finito per prevalere su quello giuridico. E tuttavia anche Galante Garrone ebbe, in certo modo, il suo Solari, nella persona di Francesco Ruffini, nobilissima figura di studioso e di docente che, con un passato da interventista si era poi volto alla causa della democrazia nel dopoguerra, ed era stato, fin dall'indomani della marcia su Roma, uno dei bersagli favoriti degli studenti in camicia nera. Nel 1931, lo stesso anno in cui Sandro e Bindi si laurearono, solo pochi mesi dopo, Ruffini fu nella generosa pattuglia di quei pochissimi professori universitari che rifiutarono il giuramento di fedelta' al regime secondo la nuova formula escogitata per umiliare l'intellettualita' italiana e piegarla a una sostanziale obbedienza. E non si dimentichi che il figlio di Ruffini, Edoardo, giovanissimo vincitore di concorso nell'universita' di Perugia, fu accanto a suo padre nel rifiuto del giuramento. * E' facile capire che con siffatti maestri, senza dimenticare compagni come Aldo Garosci, Mario Andreis, Giorgio Agosti, Livio Bianco, altri "solariani", oppositori del fascismo della prima ora, Sandro giungesse all'antifascismo in modo naturale, quasi ovvio. D'altronde, a differenza di Bobbio, la cui famiglia altoborghese era di sentimenti filofascisti, Sandro, di famiglia di media borghesia, era nipote, per parte materna, dei due fratelli Eugenio e Giuseppe Garrone, eroi della grande guerra; il loro cognome, in un gesto di omaggio, venne aggiunto a quello familiare di Galante. E avemmo, cosi', nella storia italiana del Novecento tre Galante Garrone: Sandro, il fratello Carlo, avvocato militante, senatore della sinistra indipendente, e la sorella Virginia, delicata scrittrice. Sandro e' stato l'ultimo ad andarsene, lasciandoci con quella discrezione cui ci aveva abituato nella sua lunga, mai petulante esistenza, sempre pronto a rispondere a una richiesta, a evadere una lettera, e altrettanto ritroso davanti alle prime linee mediatiche. A dispetto dei suoi interessi, Sandro scelse la magistratura, vincendo subito un concorso; avrebbe detto piu' volte in seguito che quella scelta era dettata anche dalla relativa indipendenza che l'ordine giudiziario poteva assicurare: per fare il magistrato non c'era obbligo di tessera del fascio. E Galante Garrone fu magistrato integerrimo per un trentennio, non smettendo mai di coltivare la sua passione storiografica: ebbe un debole per i rivoluzionari, e in specie per uno, Filippo Buonarroti, il sodale di Babeuf nella Congiura degli Eguali del 1799, che gli sopravvisse e ne pote' scrivere la storia. Della sua figura, Galante Garrone seppe ricostruire mirabilmente le piu' riposte pieghe, delineando un profilo di straordinaria ricchezza. Ma altri, come un altro rivoluzionario nato nel grande solco del giacobinismo, Gilbert Romme, furono oggetto dell'attenzione storiografica del magistrato che negli anni Sessanta lascio' la toga per abbracciare la carriera accademica, finalmente potendo far coincidere il mestiere con la passione. Per esempio, Mazzini, e poi Felice Cavallotti - la fascinosa figura di gentiluomo del pensiero e dell'azione democratica risorgimentale, a cui dedico' una biografia - e piu' in generale il mondo del radicalismo storico e del pensiero laico cui egli fu interessato, quasi sottolineando, nel corso della sua lunga esistenza, la continuita' degli ideali, e la contiguita' fra la storia come ricerca e la vita come passione civile. * L'una e l'altra - storia e vita - furono dominate da una sola parola, democrazia. Se nell'Italia del secondo Novecento vogliamo trovare un alfiere della democrazia, una democrazia laica e repubblicana, illuminata dal binomio giustizia e liberta', ebbene Sandro Galante Garrone e' quell'alfiere. In eta' avanzata, come e' capitato anche a Bobbio, Galante Garrone si volse indietro verso i suoi "maggiori" (I miei maggiori intitolo', significativamente, un bellissimo libro del 1984, il cui ideale seguito fu Padri e figli, del 1986), rimettendo quel debito di gratitudine che tutti dobbiamo alle figure che ci hanno insegnato a vivere e hanno segnato le nostre scelte, indicandoci la strada. Fra loro troviamo i Ruffini, padre e figlio, Croce, Einaudi, Salvatorelli, Jemolo, Parri, Calamandrei, i fratelli Rosselli, Ginzburg, Piero Gobetti e la sua compagna Ada, Salvemini, Ernesto Rossi, Dante Livio Bianco: ossia non solo persone che negli scritti o nei sentimenti avevano piu' o meno coraggiosamente tenuta accesa la fiaccola della liberta' negli anni bui del mussolinismo; ma anche coloro che avevano saputo resistere, e che a un certo momento erano stati in grado di compiere le scelte piu' difficili, fino a quella estrema delle armi, con i rischi che evidentemente cio' comportava. Sandro, alle cui spalle c'era un retroterra politico che dal democratismo risorgimentale l'aveva condotto al giellismo, fu nel Partito d'Azione fin dalla sua fondazione, e lo rappresento', insieme con Mario Andreis, in seno al Cln piemontese: egli fu tra coloro che dovettero gestire nella Torino della Fiat, la questione spinosissima dell'epurazione; e in quei frangenti il magistrato con la passione per la storia, che ormai aveva pienamente scoperto la politica, ebbe una posizione di grande equilibrio, in fondo mostrando di non sapere ne' volere rinunciare alla sua formazione di magistrato, pur mantenendosi fermo su quella linea di coerenza democratica di cui si diceva. Egli non si lascio' mai travolgere dalle pressioni politiche ne' da quelle della piazza: in tal senso, anche dopo lo scioglimento del Partito d'Azione, prima e dopo aver lasciato i ruoli della magistratura, Galante Garrone soprattutto sulle pagine del quotidiano "La Stampa", di cui divenne uno dei piu' autorevoli editorialisti, giorno dopo giorno, nel corso di oltre un quarantennio, ha saputo diventare un punto fermo, lontano da ogni estremizzazione anche solo nel linguaggio adoperato, nella difesa di quelli che retoricamente chiamiamo "i valori della Resistenza" tradotti nella Carta Costituzionale. * Guardando retrospettivamente, davvero sono poche le figure di spicco capaci di reggere il confronto con lui, in quest'opera di costante e insieme tranquilla difesa dei principi costituzionali, e degli stessi fondamenti dello stato di diritto, tante volte minacciati dalle svolte politiche occorse nella storia repubblicana. La sua difesa della Costituzione e del ruolo del Parlamento, davanti alle devastanti picconate di Cossiga (con il quale oggi cinguettano tanti esponenti della sinistra), o dell'operato della magistratura dai forsennati attacchi della destra, nell'ultimo dodicennio, sono stati un faro nella lunga notte della repubblica. Sul finire del 1987, davanti alle sortite improvvide di Renzo De Felice - in realta' punto d'arrivo di una visione che da storica si era fatta via via piu' ideologica - intanto lodato da Gianfranco Fini, con il quale proprio in quel periodo Bettino Craxi si incontrava, avviando il processo di "sdoganamento" dei neofascisti, Galante Garrone colse per tempo il significato complessivo delle discussioni sulla cosiddetta "Grande Riforma" e sulla "Seconda Repubblica". Scrisse, in uno dei suoi lucidi interventi sulla "Stampa": "Al di la' di ogni considerazione storica, non possiamo tacere il dubbio tutto politico... che qua e la', in certi artificiosi abbellimenti del passato, e reticenze, e inviti alla riconciliazione, ci sia il subdolo intento... insomma di sbarazzarsi della Costituzione antifascista, chiaramente nata dalla Resistenza". Percio', pur non smettendo di far udire la sua voce - sempre ferma e limpida, ma sempre piu' soffocata dalle urla dei fanatici e dagli applausi degli imbecilli - Sandro passo' gli ultimi anni della sua vita sentendosi "sgomento e impotente". Come i suoi giacobini, come i democratici del Risorgimento e del dopo Unita', come gli azionisti, come i difensori dei valori della Resistenza e della Costituzione, Galante Garrone era e si sentiva uno sconfitto. In un libro del 1989 (Amalek. Il dovere della memoria), egli ha consegnato a tutti noi una sorta di imperativo categorico: "Ricordare e agire". Teniamone conto. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 720 del 2 novembre 2003
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