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La nonviolenza e' in cammino. 711
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 711
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 21 Oct 2003 18:10:38 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 711 del 22 ottobre 2003 Sommario di questo numero: 1. Maria Zambrano: per la pace 2. Adel Jabbar: musulmani, jihad, nonviolenza (un contributo alla proposta di Lidia Menapace) 3. Luisa Morgantini: in Medio Oriente una speranza da sostenere 4. John Pilger: Afghanistan anno zero 5. Rete Lilliput: una campagna per cambiare la finanziaria 6. Riletture: Clara Levi Coen, Martin Buber 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. MAESTRE. MARIA ZAMBRANO: PER LA PACE [Ringraziamo di tutto cuore Elena Laurenzi (per contatti: laurenzi_elena at dada.it) per averci messo a disposizione la sua traduzione di questo testo di Maria Zambrano, scritto a Madrid nel novembre 1990, dal titolo "I pericoli per la pace", ora edito in Maria Zambrano, Le parole del ritorno, Citta' Nuova, Roma 2003. Scrive nitidamente Elena Laurenzi nella sua lettera di accompagnamento: "segnalo questo saggio sulla pace scritto da Maria Zambrano nel novembre del 1990, sei mesi prima della sua morte, di fronte all'orrore della guerra del Golfo Persico. E' la sua ultima testimonianza, il suo appello estremo. L'ultimo atto di quel suo 'stare nel mondo' cui non aveva mai saputo ne' voluto rinunciare. Lette oggi, le parole di Maria Zambrano acquistano un valore quasi profetico". Maria Zambrano, insigne pensatrice spagnola (1904-1991), allieva di Ortega y Gasset, antifranchista, visse a lungo in esilio. Tra le sue opere tradotte in italiano cfr. almeno Spagna: pensiero, poesia e una citta', Vallecchi, Firenze 1964; I sogni e il tempo, De Luca, Roma 1964; Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano 1991; I beati, Feltrinelli, Milano 1992; La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, La Tartaruga, Milano 1995; Verso un sapere dell'anima, Cortina, Milano 1996; La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997; All'ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997; Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998; Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998. L'agonia dell'Europa, Marsilio, Venezia 1999. Dell'aurora, Marietti, Genova 2000. Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000; L' uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001; Le parole del ritorno, Citta' Nuova, Roma 2003. Opere su Maria Zambrano: un buon punto di partenza e' il volume monografico Maria Zambrano, pensatrice in esilio, "Aut aut" n. 279, maggio-giugno 1997. Elena Laurenzi e' una prestigiosa studiosa, saggista e militante, impegnata nell'esperienza dell'associazione internazionale di donne "Testarda", nel progetto "Women for women: donne contro i fondamentalismi" (sito: www.wfw.it), ed in numerose iniziative per i diritti delle donne, la pace, la solidarieta', la dignita' umana; una utile scheda - ma che dovrebbe essere aggiornata - sulle sue pubblicazioni e sul suo lavoro di ricercatrice e' nel sito di "Duoda. Centre de Recerca de Dones" dell'Universita' di Barcellona (www.ub.es/duoda)] Nessuno oserebbe oggi manifestare dubbi sulla guerra: nessuno, in nome di niente, puo' difenderne la causa. E nessuno, di conseguenza, puo' tralasciare di deporre il suo voto per la pace nell'urna invisibile che raccoglie le umane volonta'. Ma in molti casi non si sa con certezza se il voto per la pace sia accompagnato dalla coscienza, o almeno dal presentimento, dei problemi seri e profondi che lo "stato di pace" comporta. Perche' la questione non e' semplicemente che non ci sia guerra - una guerra che sarebbe certamente l'ultima di tutta una storia - bensi' stabilire la vita in vista della pace. E se la pace e' innanzi tutto l'assenza di guerra, e' qualcosa di piu', molto di piu'. La pace e' un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere uomini; e' la condizione primaria per la realizzazione dell'uomo nella sua pienezza, perche' la creatura umana e' una promessa. Entrare nello "stato di pace" significa oltrepassare una soglia: la soglia tra la storia, tutta la storia fino a oggi, e una nuova storia. Si tratta, dunque, di una autentica "rivoluzione", il duplice compimento di quel sogno di rivoluzione pacifica che hanno sognato tanti spiriti grandi. Compimento duplice, perche' oltre ad essere una rivoluzione pacifica, avrebbe come contenuto, appunto, la pace. Retrocedere davanti a questa soglia non e' possibile. "Essere o non essere", vivere in pace o cessare di vivere, questo e' il problema. Perche' in questa circostanza la necessita' obbliga alla morale. E, per nostra vergogna, la pace non e' imposta in considerazione della coscienza morale, ne' della ripugnanza che il nostro cuore prova di fronte agli orrori e alla esistenza stessa della guerra, ma dalla certezza che la guerra provocherebbe, in un breve lasso di tempo, la distruzione di quello che chiamiamo il mondo civilizzato, del nostro mondo. Ma questa situazione non rappresenta ancora uno stato di pace, almeno finche' e' il timore a determinare l'assenza della guerra. E', semplicemente, uno stato di non guerra. Uno stato ambiguo e pericoloso. Poiche' la storia ha dimostrato che i timori piu' fondati sono stati cancellati in un istante di follia. Il fatto che qualcosa non si realizzi per paura, se e' solo per paura, non significa che non si realizzera', anche perche' l'uomo tende a liberarsi dalla paura e dimentica. La creatura umana puo' trovare rifugio nelle situazioni piu' assurde e pericolose, e questo ha reso possibile tanto sublime eroismo e anche tanto terrore e tanta vilta', finche' un giorno la catastrofe si presenta implacabile. E d'altra parte, una situazione che si sostiene solo sulla paura e' priva di sostanza morale, di quella sostanza morale cui l'uomo non puo' rinunciare, visto che ha cercato e cerca di farlo senza riuscirci. Percio' non ci sara' uno stato di vera pace finche' non sorga una morale vigente ed effettiva indirizzata alla pace, finche' le energie assorbite dalla guerra non si incanalino, finche' l'eroismo di quelli che simbolizzano nella guerra il compimento della propria vita non incontri vie nuove, finche' la violenza non sia cancellata dai costumi, finche' la pace non sia una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina. E certamente, per tutto cio', alla nostra cultura occidentale non mancano i fondamenti religiosi e morali. 2. RIFLESSIONE. ADEL JABBAR: MUSULMANI, JIHAD E NONVIOLENZA (UN CONTRIBUTO ALLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE) [Ringraziamo di cuore Adel Jabbar (per contatti: studiores at tin.it) per averci inviato questo suo testo come contributo alla comune riflessione sulla proposta di Lidia Menapace "per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e smilitarizzata, solidale e nonviolenta". Adel Jabbar e' sociologo e ricercatore nell'ambito dei processi migratori e interculturali; insegna Sociologia delle migrazioni presso il corso di laurea in Servizi Sociali dell'Universita' Ca' Foscari di Venezia ed e' docente al master sull'immigrazione presso la medesima Universita'] Nella costruzione del musulmano come minaccia si sostiene che l'Islam e' intrinsecamente violento e prova ne sarebbe il jihad, tradotto automaticamente come "guerra santa contro gli infedeli", in primo luogo contro l'Occidente. Eppure jihad letteralmente puo' essere tradotto con "sforzarsi", "applicarsi". Nella tradizione islamica jihad fi sabil Allah significa "impegnarsi sulla via di Dio" e non contiene alcuna implicazione di natura violenta o aggressiva. "Da un punto di vista etimologico la parola araba jihad non ha alcuna accezione che possa in un qualche modo avvicinarla ai concetti occidentali. Jihad, infatti, e' etimologicamente parola derivata dalla radice Jhd, che indica 'sforzarsi', 'applicarsi con zelo' e implica una lotta, un impegno, sia contro un nemico visibile, sia contro il demonio, sia anche contro se stessi" (1). Lo sforzo, il jihad, maggiormente gravoso, e' quello richiesto dal vivere in armonia seguendo gli insegnamenti religiosi. Secondo i seguenti hadith, detti del Profeta: "Il jihad piu' meritevole e' un pellegrinaggio compiuto piamente" (2), "Il piu' eccellente jihad mira alla conquista di se stessi" (3). Uno sforzo minore richiede la difesa, eventualmente, della comunita' da aggressioni esterne. Il che significa anche che l'impegno piu' faticoso e' quello individuale, e' quello riguardante se stessi, mentre lo sforzo minore e' quello dato dall'azione collettiva. La concezione originaria del jihad si riassume dunque nell'impegno con cui i musulmani mettono in pratica l'insegnamento di Dio. Quello che la traduzione del termine jihad presente nel Corano spesso rende come "combattimento", va invece concepito come "sforzo". Ne e' un esempio il seguente versetto: "Ma tu non ubbidire a quelli che rifiutano la fede, ma combattili con la Parola in guerra grande" (4). Di fatto l'utilizzo della Parola come strumento di combattimento denota un uso metaforico anche del termine guerra. D'altra parte in alcuni casi il termine e' stato tradotto nella sua corretta accezione, come nel versetto seguente, dove la coniugazione duale della terza persona del termine Jihad (Jiahadaka), viene resa da Bausani con il verbo "industrieranno": "Ma se tuo padre e tua madre si industrieranno a che tu associ a Me quel che non conosci, tu non ubbidire loro, fa loro dolce compagnia in questo mondo terreno, ma tu segui la Via di chi si e' volto a Me..." (5). In un altro passaggio del Corano che si riferisce ancora ai rapporti con i genitori, lo stesso termine viene tradotto da Bausani con "insisteranno" (6). Quindi un'interpretazione del jihad come guerra santa puo' essere considerata errata oltre che fuorviante. "Chiamarlo guerra santa induce chi e' estraneo ai termini del problema a considerare un tal richiamo come ennesima espressione di fanatismo nei confronti di chi musulmano non e', tanto da tentare di equiparare le motivazioni di fondo al solito spirito di crociata, ben noto all'Occidente" (7). Cio' non significa che nel Corano non vi sia alcun riferimento al combattimento, ma questo concetto e' espresso non come jihad, appunto, bensi' come al-qital, o harb (guerra), e soprattutto in termini difensivi. In effetti, se l'obiettivo ultimo dell'Islam e' la giustizia e la pace, tuttavia sono considerate nel Corano le condizioni che possono creare conflitto. "Combattete [qatulu] sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, che' Dio non ama gli eccessivi" (8). * Dopo aver chiarito l'origine etimologica del termine jihad, cerchiamo di calarne il significato nelle fasi storiche, e nello specifico di comprendere come nell'Islam e' stato gestito il conflitto nel rapporto con l'altro. Si e' visto che, durante il primo periodo, il Corano invita i musulmani ad essere pazienti, a vivere quella che oggi viene definita una resistenza passiva di fronte alla durezza degli eventi che caratterizzano gli anni della missione del profeta nella citta' di La Mecca (610-622). Successivamente, nel periodo della Medina (622-632), il tono dei versetti sicuramente muta: dall'invito alla pazienza si passa a consentire la difesa della Umma al-Islamiyya (comunita' islamica) - ora non piu' solo religiosa ma anche politica e continuamente aggredita dall'esercito della Mecca - e quindi al combattimento in termini difensivi (come nella sopracitata Sura II - 190). Jihad viene ad essere utilizzato dai musulmani stessi come elemento simbolico di impegno e di lotta. E l'appello ad un principio di origine religiosa non rappresenta d'altro canto un aspetto insolito nell'etica dell'impegno sociale e individuale. Questo non implica un'inclinazione violenta o aggressiva nei confronti degli altri. "E' proibito a musulmani di entrare in guerra per acquisire ricchezze, territori o potere. Impossibile anche far guerra a fini di proselitismo; il testo coranico e' chiaro: non c'e' costrizione nella religione" (9). Vale la pena sottolineare, per inciso, che in tutte le epoche, in ogni caso, il riconoscimento di Dar al-Islam, basato su riferimenti islamici, non ha implicato l'esclusione della gente non musulmana che vive dentro la comunita', ne' di quella proveniente da Dar al-Harb (10) (territori non islamici). Questo perche' nella societa' islamica sempre si e' mantenuta quella connotazione di pluralita' che ha preceduto e accompagnato il suo affermarsi. Dunque, consapevole della continuita' esistente fra i diversi messaggi dei profeti esistiti prima del profeta Muhammad, la societa' islamica e' portata ad inglobare dentro di se' e a riconoscere la pluralita', secondo gli insegnamenti stessi del Corano. "Di': Crediamo in Dio e in quel ch'e' stato rivelato a noi e in quel ch'e' stato rivelato ad Abramo e a Ismaele e a Isacco e a Giacobbe e alle Tribu', e in cio' che fu dato a Mose', e a Gesu' e ai Profeti dal loro Signore senza far distinzione alcuna fra loro, e a Lui noi tutti ci diamo" (11). Tornando ora al percorso storico del jihad, nel periodo ottomano l'accezione del termine nel senso di combattimento viene ulteriormente marcata. In tempi ancora piu' recenti, e precisamente con l'impatto contro le potenze coloniali europee (12), diversi pensatori islamici hanno operato una rilettura del jihad alla luce di questi nuovi eventi. In base a tale rilettura e' emersa un'interpretazione in termini di resistenza all'ingerenza esterna. Lo shock coloniale viene infatti a mettere in discussione i tre elementi fondanti della concezione islamica di comunita': l'unita' della Umma al-Islamiyya, la sacralita' di Dar al-Islam e l'alta dignita' dell'etica islamica. Fino ad allora la societa' islamica, seppure indebolita, aveva mantenuto rapporti di scambio con i vicini tutto sommato paritari. Da questo momento in poi il declino comincia ad essere marcato e soprattutto viene avvertito da tutti i musulmani. * "E' solo nell'ottocento che si produce una drammatica inversione di rotta in questi rapporti: l'Europa si rivela piu' forte nella scienza e nella tecnologia, nella potenza delle armi e nelle arti diplomatiche, nel piegare gradualmente gran parte della societa' di tradizione musulmana al suo dominio coloniale" (13). Il mondo musulmano che oggi ci troviamo di fronte rappresenta l'esito di questo sconquasso, che influenza tutto lo sviluppo successivo di questa societa', in termini storici, sociali ma anche economici e politico-istituzionali. Il jihad acquisisce dunque in questo momento un significato di resistenza all'invasore, in un contesto in cui l'Europa coloniale viene vissuta come sopraffazione, anche se, almeno inizialmente, con una certa curiosita'. "Sconcerto per la rapidita' dei cambiamenti, ammirazione per le impensabili novita' tecniche e scientifiche, senso di impotenza, curiosita', anelito all'imitazione: tutti questi sentimenti convissero nell'anima degli intellettuali musulmani, posti di fronte a questa mutata situazione. Ma presto subentrarono altri sentimenti, ridestati dalla stessa rapacita' e arroganza degli invasori (o amministratori) europei: il senso di umiliazione, lo spirito di rivalsa, l'odio verso le elite musulmane 'europeizzanti' e 'collaborazioniste'" (14 ). A questo riguardo, Tariq Ramadan ci parla di un rapporto di attrazione-repulsione tra Occidente e Islam. "Per il Sud essere attratti dai miraggi tecnologici del Nord e' quasi normale: c'e' qualcosa che ha la stessa forza della magia e del fascino. Contemporaneamente, la stessa attrazione fa nascere una repulsione quasi epidermica e a volte violenta. Il sentimento generalmente condiviso e' quello di una vera e propria espropriazione di se', un'alienazione nel senso forte del termine. Si sente l'attrazione ma non si sopporta di essere anche costretti, 'nonostante il cuore', a negare la propria identita' con l'ondata che ci porta via" (15). * La questione del jihad e le sue diverse manifestazioni hanno via via acquisito sempre piu' importanza ed urgenza nel mondo e all'interno della societa' islamica, soprattutto alla luce dei suoi rapporti con l'occidente. Indicativa e' la riflessione di Mohammad Khatami, oggi presidente dell'Iran, su come il musulmano vive nel mondo di oggi e sul potenziale ruolo dell'Islam. "Per quanto riguarda 'noi', (...) intendo questo termine nel senso di 'noi musulmani'; (...) noi musulmani nel passato abbiamo creato una civilta', abbiamo svolto un ruolo nella storia dell'umanita', mentre oggi la nostra situazione e' differente, non ricopriamo piu' quel ruolo; eppure desideriamo ritrovarci nel tessuto profondo della storia, e se possibile costruirci un futuro che sia diverso dal nostro presente e persino dal nostro passato, senza voler togliere spazio a chi non fa parte di noi, e senza trascurare le conquiste della scienza, degli studi e del pensiero speculativo e pratico dell'umanita'. Quale e', invece, il significato che attribuisco all'altro termine, 'il mondo di oggi'? In breve, per 'mondo di oggi' intendo la 'civilta' occidentale'. Ovvero, tutto quanto in questa fase domina e gestisce il mondo e l'umanita', esercita una influenza potente sulla nostra vita economica, politica, culturale e sociale, e senza di cui - senza la sua impronta, senza le sue conquiste - la vita sarebbe impossibile anche per chi non e' occidentale (...). Il mondo di oggi, o e' esso stesso occidente (un occidente di concezioni, di valori, di pensieri e teorie, non per forza l'occidente geografico), e dunque la sua vita e' occidentale in tutte le sue dimensioni; oppure pur non essendo collocato all'interno dell'occidente geografico o nell'ambito della civilta' occidentale, ne subisce intensamente l'influenza, e non ha alcuna possibilita' di vivere senza di esso. Tale e' il nostro mondo attuale" (16). Un mondo dunque che viene inglobato dall'Occidente, e da questo Occidente tuttavia e' lasciato ai margini, alla periferia, sia in senso geografico sia in senso economico, politico, sociale, e perennemente svalutato del suo valore, oggi come ieri, come all'inizio di quel processo di colonialismo che ha prodotto la realta' odierna, molto ben descritto da Bichara Khader. "La spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto e in Palestina segna una svolta cruciale nei rapporti fra Oriente e Occidente: si apre la corsa coloniale. Fino ad allora al centro di curiosita', l'Oriente diventa una posta geopolitica, mira di tutti gli appetiti, zona di passaggio per potenze avide di affermazione. E' un oggetto di conquista. L'Occidente non osserva piu', brama e non si afferma nel ripiego difensivo, ma nell'esplosione offensiva. "Fino al XIX secolo, l'Europa ha preso coscienza di se' opponendosi all'Islam arabo (...). Ora cerca di espandersi dominandolo ed invadendo la sua terra, sfruttandone le risorse, riducendone la cultura a mero folclore. In breve, lo colonizza. I viaggiatori non sono piu' avventurieri in cerca di esotismo e di sapere, ma partono per sondare. (...). "Quanto e' stato detto e scritto di denigratorio sugli arabi, sui musulmani, o sugli orientali, nei secoli precedenti, viene rispolverato ed utilizzato. Se questi, fino ad allora, potevano essere odiati, di rado erano disprezzati, poiche', in qualita' di avversari ideologici erano riconosciuti per il loro sapere scientifico (XIV secolo) e per alcuni pregi sul piano umano. Con il colonialismo, per provare la superiorita' dell'Occidente, si deve denigrare l'Oriente ambito, avvilirne la religione, disprezzarne la gente. L'apologia incondizionata di se' va di pari passo con la demonizzazione dell'Altro. "(...) Nel XIX secolo, il colonialismo condiziona ogni concezione in Europa. L'etnocentrismo giustifica il predominio; tale e' il senso di superiorita' che quanto non e' occidentale viene privato di valore, destituito della propria dignita' storica, ridotto ad un livello periferico e folcloristico" (17). La visione etnocentrica, continua Khader, e' stata sostenuta da molti pensatori europei, fra cui Lamartine, che hanno portato avanti la concezione dei popoli colonizzati come fardello dell'uomo bianco di Kipling. Una concezione che del resto permane tutt'oggi in molti settori del pensiero europeo. A fronte della consapevolezza che vede nelle condizioni economiche, materiali e culturali dettate dall'Occidente una realta' con la quale oggi e' necessario confrontarsi, accogliendo quanto di positivo esiste, vi e' tuttavia nell'Islam la coscienza dei limiti intrinseci a questa egemonia, alla sua idea di liberta' "rigida e unidimensionale" che "continua ad esigere un prezzo pesante dall'umanita'" (18). Soprattutto vi e' la coscienza di un ruolo culturale che proprio l'Islam, con la sua diversa visione del mondo, con la sua diversa concezione etica - puo' dialetticamente proporre. Non con la forza, con la violenza, ma attraverso la conoscenza, la critica e il rigore intellettuale. Per comprendere l'Occidente, lo strumento migliore e' la razionalita', non l'emotivita' eccitata che agita le bandiere. Non solo qui, ma ovunque, la forza non e' in grado di fornire una risposta efficace a un modo di pensare che consideriamo deteriorato" (19). Se dobbiamo fare nostri i tratti positivi della civilta' occidentale, e nel medesimo tempo rigettare le sue mancanze (...) dobbiamo capire l'Occidente in modo corretto ed omnicomprensivo; (...) A questo punto avranno efficacia la riflessione approfondita, la razionalita' e l'obiettivita', non la brutalita' verbale e la violenza" (20). * Anche nell'Islam - come nell'ambito di altre religioni, pensieri, correnti - sono comparse delle figure che hanno svolto un ruolo importante nell'ambito della testimonianza sulla nonviolenza come, ad esempio, Abdul Ghaffar Khan, chiamato Badshah Khan (21), il quale, entrato in contatto con Gandhi e con altri pensatori musulmani indiani, ne assorbi' l'influenza, si impegno' per i diritti dei poveri, investendo molte energie nell'ambito dell'educazione, considerata una via importante anche per la conquista della liberta', prestando attenzione anche all'emancipazione della donna. Egli fondo' il primo esercito nonviolento della storia, Khudai Khidmatgar (servi di Dio), il cui giuramento recitava: "Sono un Khudai Khidmatgar, e poiche' Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione e' servire lui, prometto di servire l'umanita' nel nome di Dio. Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercar vendetta. Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudelta'. Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici" (22). Il binomio Islam-violenza e' dunque molto discutibile. Come abbiamo visto, si tratta di "calare nella storia" la dottrina. Solo cosi' si potra' capire la complessita' del mondo islamico e abbandonare visioni dell'Islam monolitiche, statiche, dottrinali e propagandistiche. * Note 1. Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino 1996, p. 27. 2. Gabriele Mandel (a cura di), Maometto, Rusconi, Milano 1996, p. 78. 3. Ziauddin Sardar, Zafar Abbas Malik ( a cura di), Maometto, Feltrinelli, Milano 1995, p. 40. 4. Corano, Sura della salvazione (al-Furqan), XXV, 52. 5. Corano, Sura di Luqman, XXXI, 15. 6. Corano, Sura del ragno (al-'Ankabut), XXIX, 8. 7. Biancamaria Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell'Islam, Sansoni, Firenze 1974, p. 27. 8. Corano, Sura della vacca (al-Baqara), II, 190. 9. Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l'islam?, Ed. Al Hikma, Imperia 2000, p. 113. 10. Sul concetto di Dar al-Harb (letteralmente Casa della guerra, dove il musulmano non era garantito poiche' non godeva della tutela di Dar al-Islam, si veda Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, cit, p. 25-29. 11. Corano, Sura della famiglia di 'Imran (Ahl 'Imran), III, 84. 12. Sulle origini del colonialismo europeo si veda Peter Partner, Il Dio degli eserciti. Islam e Cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino 1997, cap. VIII, pp. 178-203; Biancamaria Scarcia Amoretti, Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, pp. 171-204; Dominique Chevallier, "Grande guerra, risveglio dei popoli" in Dominique Chevallier, Andre' Miquel (a cura di), Gli arabi. Dal messaggio alla storia, Salerno editrice, Roma 1998, cap. XIII, pp. 402-418; Reinhard Schulze. Il mondo islamico nel XX secolo. Politica e societa' civile, Feltrinelli, Milano 1998. 13. Enzo Pace, Sociologia dell'Islam, Carocci, Roma 1999, p. 164. 14. Carlo Saccone, Allora Ismaele si allontano' nel deserto. I percorsi dell'Islam da Maometto ai nostri giorni, edizioni Messaggero, Padova 1999, p. 288. 15. Jacques Neirynck e Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l'islam?, p.127. 16. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, Editori Laterza, Bari 1999, pp. 42-43. 17. Bichara Khader, L'Europa e il mondo arabo. Le ragioni del dialogo, l'Harmattan Italia, Torino 1996, pp. 12-13. 18. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, cit. pp. 127. 19. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, cit. p. 125. 20. Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, cit. p. 130. 21. A questo riguardo si veda Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, Edizioni Sonda, Torino 1990. Nell'ambito della teorizzazione e della riflessione su Islam e nonviolenza si veda anche Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997. 22. Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano, cit., p. 132. 3. RIFLESSIONE. LUISA MORGANTINI: IN MEDIO ORIENTE UNA SPERANZA DA SOSTENERE [Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int) per questo intervento. Luisa Morgantini, parlamentare europea e presidente della delegazione del Parlamento Europeo al Consiglio legislativo palestinese, fa parte delle Donne in nero e dell'Associazione per la pace; il seguente profilo di Luisa Morgantini abbiamo ripreso dal sito www.luisamorgantini.net: "Luisa Morgantini e' nata a Villadossola (No) il 5 novembre 1940. Dal 1960 al 1966 ha lavorato presso l'istituto Nazionale di Assistenza a Bologna occupandosi di servizi sociali e previdenziali. Dal 1967 al 1968 ha frequentato in Inghilterra il Ruskin College di Oxford dove ha studiato sociologia, relazioni industriali ed economia. Dal 1969 al 1971 ha lavorato presso la societa' Umanitaria di Milano nel settore dell'educazione degli adulti. Dal 1970 e fino al 1999 ha fatto la sindacalista nei metalmeccanici nel sindacato unitario della Flm. Eletta nella segreteria di Milano - prima donna nella storia del sindacato metalmeccanico - ha seguito la formazione sindacale e la contrattazione per il settore delle telecomunicazioni, impiegati e tecnici. Dal 1986 e' stata responsabile del dipartimento relazioni internazionali del sindacato metalmeccanico Flm - Fim Cisl, ha rappresentato il sindacato italiano nell'esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) e nel Consiglio della Federazione sindacale mondiale dei metalmeccanici (Fism). Dal novembre del 1980 al settembre del 1981, in seguito al terremoto in Irpinia, in rappresentanza del sindacato, ha vissuto a Teora contribuendo alla ricostruzione del tessuto sociale. Ha fondato con un gruppo di donne di Teora una cooperativa di produzione, "La meta' del cielo", che e' tuttora esistente. Dal 1979 ha seguito molti progetti di solidarieta' e cooperazione non governativa con vari paesi, tra cui Nicaragua, Brasile, Sud Africa, Mozambico, Eritrea, Palestina, Afghanistan, Algeria, Peru'. Si e' misurata in luoghi di conflitto entro e oltre i confini, praticando in ogni luogo anche la specificita' dell' essere donna, nel riconoscimento dei diritti di ciascun essere umano: nelle rivendicazioni sindacali, con le donne contro la mafia, contro l'apartheid in Sud Africa, con uomini e donne palestinesi e israeliane per il diritto dei palestinesi ad un loro stato in coesistenza con lo stato israeliano, con il popolo kurdo, nella ex Yugoslavia, contro la guerra e i bombardamenti della Nato, per i diritti degli albanesi del Kosovo all'autonomia, per la cura e l'accoglienza a tutte le vittime della guerra. Attiva nel campo dei diritti umani, si e' battuta per il loro rispetto in Cina, Vietnam e Siria, e per l'abolizione della pena di morte. Dal 1982 si occupa di questioni riguardanti il Medio Oriente ed in modo specifico del conflitto Palestina-Israele. Dal 1988 ha contribuito alla ricostruzione di relazioni e networks tra pacifisti israeliani e palestinesi. In particolare con associazioni di donne israeliane e palestinesi e dei paesi del bacino del Mediterraneo (ex Yugoslavia, Albania, Algeria, Marocco, Tunisia). Nel dicembre 1995 ha ricevuto il Premio per la pace dalle Donne per la pace e dalle Donne in nero israeliane. Attiva nel movimento per la pace e la nonviolenza e' stata portavoce dell'Associazione per la pace. E' tra le fondatrici delle Donne in nero italiane e delle rete internazionale di Donne contro la guerra. Attualmente e' deputata al Parlamento Europeo, eletta come indipendente nelle liste del Prc e aderente al gruppo Gue-Ngl. Presiede la delegazione parlamentare per i rapporti con il consiglio legislativo palestinese, oltre ad essere membro titolare nella commissioni diritti della donna e pari opportunita' ed in quella per lo sviluppo e la cooperazione, membro della delegazione per le relazioni con il Sud Asia e membro sostituto della commissione industria, commercio esterno, ricerca ed energia. In Italia continua la sua opera assieme alle Donne in nero e all'Associazione per la pace"] L'importanza dell'accordo sottoscritto da palestinesi e israeliani ad Amman e' vitale per il futuro dei due popoli. La cerimonia ufficiale dovrebbe avere luogo il 4 novembre a Ginevra alla presenza del governo svizzero, che ha facilitato gli incontri, e di diverse personalita' internazionali. Ho seguito fin dal primo appello lanciato nell'agosto del 2001, la sfida, portata avanti da Yasser Abed Rabbo e Yossi Beilin, per riuscire a trovare, nella trappola mortale della politica dei diversi governi di Sharon e dell'estremismo palestinese di Hamas e della Jihad, una strada per la pace che tenesse in considerazione i diritti dei due popoli all'autodeterminazione, a due Stati che possano coesistere in reciproca sicurezza. Via via che gli incontri si sono succeduti e' maturata l'idea di non accontentarsi di un lavoro comune per la pace, ma di arrivare ad un vero e proprio accordo che ripartisse da dove i negoziati erano stati interrotti tra il governo Barak e il presidente Arafat con la presenza di Clinton. Cio' che rende credibile questo tentativo, che dovra' essere sostenuto dalla comunita' internazionale, ma anche trovare sostegno all'interno della societa' palestinese e israeliana, e' la serieta' con la quale le due parti hanno discusso e negoziato. Perche' di veri e propri negoziati si tratta, con crisi continue, speranze e poi delusioni e poi ancora speranze e poi con la testardaggine di andare avanti. Due settimane fa insieme al presidente del Gue-Ngl al parlamento europeo Francis Wurtz, ho incontrato Yossi Beilin nella sua casa di Tel Aviv. Era stanco e teso, stava tornando da uno degli incontri che si tenevano a Gerusalemme: "Una giornata dura, finita con una sospensione della discussione, difficile trovare accordi quando con mappe alla mano si definiscono gli insediamenti che dovevano essere evacuati e quelli che con uno scambio di territorio ai palestinesi potevano restare ad Israele". Eppure si diceva fiducioso: "Nel giro di due settimane arriveremo all'accordo". Il giorno dopo a Ramallah quando abbiamo incontrato Yasser Abed Rabbo, l'ottimismo era un po' smorzato, ma la determinazione a trovare una soluzione era molto forte. Era stato contento di sapere che Beilin non aveva lasciato Gerusalemme pensando ad una rottura. Adesso l'accordo c'e'. Beilin e Rabbo non solo sono riusciti a firmarlo ma il peso vero di questo accordo e' che ne sono coinvolti pezzi di sinistra israeliana e di forze palestinesi rilevanti; da Mitzna, leader laburista ed ex-generale, a Avraham Burg, presidente del parlamento israeliano anche durante il primo governo Sharon, a diversi ex-ufficiali, parlamentari non solo del Labour. Da parte palestinese - a parte un altro ex-ministro come Nabil Khassis - l'adesione del parlamentare Kaddura Fares, della generazione dei giovani dirigenti della prima Intifadah e molto vicino a Marwan Barghouti, il leader incarcerato in Israele, rende l'accordo credibile e con sostegno popolare. La reazione della destra israeliana e' stata a dir poco scomposta. Atteggiamento di denigrazione, alcuni ministri chiamano traditori i firmatari; altri deridono dicendo che quella sinistra che e' morta nel paese cerca di ridarsi un volto ma che il potere di negoziare e' nelle mani del governo; Sharon ha poi proclamato che questo "e' il grande storico errore commesso dopo Oslo"; e Olmert, ex sindaco di Gerusalemme ed oggi nel governo, ha dichiarato "che la prima persona che ha fatto concessioni su Gerusalemme e che non potra' mai essere perdonato per questo e' stato Barak". Dal canto suo Barak non ha trovato di meglio che attaccare l'iniziativa e Yossi Beilin. Una reazione e una pubblicita' all'accordo che ha preso di sopresa gli autori, compreso Yossi Beilin che non sperava in tanta considerazione, e che ha reagito subito alle accuse denunciando Sharon e la sua responsabilita' nella situazione in cui si trovano palestinesi e israeliani. Da parte palestinese vi e' l'appoggio informale di Arafat, che e' sempre stato informato delle trattative e ripete che "qualsiasi sforzo fatto per la pace dei coraggiosi ha il suo appoggio". Bisognera' vedere la reazione dei palestinesi della diaspora. L'accordo ristabilisce il diritto internazionale, citando le risoluzioni Onu, compresa la 194 che parla del diritto dei profughi - anche se, e questa sara' la cosa piu' ostica, non si parla del ritorno dei profughi in Israele -; si definiscono le linee del 1967 senza muri, uno stato palestinese con confini e frontiere, demilitarizzato, Gerusalemme capitale per due Stati, gli insediamenti di Gaza tutti evacuati con un ampliamento del territorio palestinese in cambio delle colonie di Ma'ale Adumin nell'area di Gerusalemme. Evacuazione anche per gli insediamenti nella Gisgiordania, compreso Ariel. Il documento e' di 54 pagine, con annessi e tante mappe. Non e' ancora pubblico anche se ampi stralci sono gia' stati diffusi. Adesso bisogna fare in modo che i ricatti e le minacce non pesino sia sugli israeliani che sui palestinesi e si arrivi alla firma a Ginevra. Soprattutto occorre che il Quartetto o perlomeno gli europei lo sostengano. Gli Usa hanno gia' fatto sapere che questa non e' l'idea del presidente Bush, e a Gaza non si sa ancora per quale causa sia scoppiata una bomba sotto un'auto americana. Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo verranno al Parlamento europeo nella seduta di novembre per presentare l'iniziativa. A Firenze, nella riunione del gruppo del Gue-Ngl, Naomi Chazan del Merez e Jamal Zaquot del Fida - entrambi della Coalizione per la pace - hanno chiesto il sostegno di tutti i democratici. Certo la soluzione migliore sarebbe quella che la comunita' internazionale ripristinasse diritti e giustizia e dignita', che imponesse ad Israele la fine dell'occupazione militare dei Territori. Ma qui almeno si tenta una strada per la pace. E io la sostengo. 4. TESTIMONIANZE. JOHN PILGER: AFGHANISTAN ANNO ZERO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 ottobre 2003. Nato a Sydney, John Pilger, da molti anni uno dei principali inviati in zone di guerra dei piu' importanti giornali internazionali ("Guardian", "Independent", "New York Times", "The Nation"), e' stato reporter giornalistico e regista di documentari testimone di conflitti in tutto il mondo, dal Vietnam alla Birmania, dalla Cambogia al Medio Oriente. Il sito di John Pilger e': http://pilger.carlton.com] Alla conferenza del partito laburista dopo l'attacco dell'11 settembre, Tony Blair fece il memorabile annuncio: "Al popolo afgano facciamo una promessa: noi non ce ne andremo... se ci sara' un cambiamento del regime dei taleban, lavoreremo insieme a voi per garantire che il nuovo governo abbia la piu' ampia base di appoggio possibile, unisca tutti i gruppi etnici e offra una qualche via di uscita dalla poverta' della vostra misera esistenza". Le sue parole riecheggiavano quelle di Bush che alcuni giorni prima aveva detto: "Il popolo afgano oppresso imparera' a conoscere la generosita' dell'America e dei suoi alleati. Mentre bombarderemo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicinali e altro per gli uomini, le donne e i bambini dell'Afghanistan che stanno soffrendo e morendo di fame. Gli Stati Uniti sono amici del popolo afgano". Quasi ogni parola detta era falsa. Le loro dichiarazioni di impegno erano crudeli illusioni che servivano a spianare la strada per la conquista sia dell'Afghanistan che dell'Iraq. Mentre si chiarisce la natura illegale dall'occupazione angloamericana dell'Iraq, il disastro dimenticato dell'Afganistan, la prima "vittoria" della "guerra al terrorismo", e' forse un tributo al potere ancor piu' scioccante. * Era la mia prima visita in Afghanistan. In una vita spesa in giro per i luoghi del mondo in tumulto non avevo mai visto niente di simile. Kabul e' uno scorcio di Dresda nel '45, contornata da macerie anziche' da strade, dove la gente vive in edifici crollati, come vittime di un terremoto in attesa dei soccorsi. Niente luce ne' riscaldamento: solo apocalittici fuochi che bruciano tutta la notte. Quasi non c'e' muro in piedi che non mostri le ferite di tutte le possibili armi da fuoco. Automobili giacciono rovesciate sulle rotatorie. I pali elettrici che dovevano servire per una moderna flotta di tram sono accartocciati come fogli di carta; gli autobus, accavallati uno sull'altro, ricordano le piramidi di macchine erette dai Khmer rossi per celebrare l'anno zero. C'e' una sensazione da anno zero in Afghanistan. I miei passi risuonano in quello che fu un tempo il grandioso Dilkusha palace, costruito nel 1910 su progetto di un architetto inglese, celebrato per gli scaloni circolari, le colonne corinzie e gli affreschi su pietra. Ora e' una carcassa tenebrosa da cui emergono come fantasmi bambini esili come giunchi, offrendo cartoline ingiallite dell'albergo com'era trent'anni fa, un pretenzioso edificio in fondo a un viale che avrebbe potuto essere una replica del Mall londinese, addobbato di bandiere ed alberi. Sotto la curva dello scalone c'erano il sangue e i brandelli di carne di due persone saltate in aria per una bomba il giorno prima. Chi erano? Chi aveva messo la bomba? In un paese in balia dei signori della guerra, molti dei quali conniventi con il terrorismo, la domanda e' surreale. Poco lontano, uomini con tute blu avanzano rigidi in fila indiana: sono sminatori. Qui le mine sono comuni come i rifiuti e si calcola che uccidano o mutilino una persona ogni ora, tutti i giorni. Di fronte a quello che era il cinema principale di Kabul e che ora e' uno scheletro art deco, c'e' una rotonda piena di traffico con manifesti che avvertono che li' intorno sono sparse bombe "gialle e provenienti dagli Usa". I bambini ci giocano qui, rincorrendosi fra le ombre: un adolescente li guarda, ha un troncone di gamba e gli manca meta' viso. Nelle campagne la gente confonde ancora i contenitori delle bombe a grappolo con i pacchi gialli di generi di conforto lanciati dagli aerei statunitensi quasi due anni fa durante la guerra, dopo che Bush aveva vietato ai convogli di aiuti internazionali di entrare dal Pakistan. * Piu' di 10 miliardi di dollari sono stati spesi in Afghanistan dal 7 ottobre 2001, in massima parte dagli Stati Uniti e l'80% e' servito a pagare il bombardamento del paese e a foraggiare i signori della guerra, ex-mujahedin auto-ribattezzatisi "Alleanza del nord". Gli americani hanno dato a ciascun signore della guerra decine di migliaia di dollari in contanti e camion carichi di armi. "Rifornivamo tutti i comandanti che potevamo", ha dichiarato un agente della Cia al "Wall Street Journal" durante la guerra. In altre parole, li pagavano perche' smettessero di combattersi fra loro e combattessero invece i taleban. Erano quegli stessi signori della guerra che, in lotta per il controllo di Kabul dopo il ritiro dei sovietici nel 1989, hanno ridotto la citta' in polvere uccidendo 50.000 civili. Grazie agli Stati Uniti, il controllo effettivo del paese e' stato consegnato a molti degli stessi mafiosi e ai loro eserciti privati che comandano con il terrore, l'estorsione e il monopolio del commercio dell'oppio da cui proviene il 90% dell'eroina in vendita per le strade inglesi. Il governo post-talebano e' meramente di facciata: non ha soldi e il suo mandato arriva a malapena alle porte di Kabul, nonostante le pretese di democrazia quali le elezioni programmate per l'anno prossimo. Omar Zakhilwal, funzionario del ministero degli affari rurali, mi ha detto che al governo arriva meno del 20% degli aiuti all'Afghanistan - "non abbiamo neppure abbastanza denaro per gli stipendi, figuriamoci per la ricostruzione", ha detto. Il presidente Harmid Karzai e' un impiegato di Washington che non si muove se non accompagnato dalla sua posse di guardie del corpo delle forze speciali Usa. In una serie di rapporti eccezionali, l'ultimo pubblicato in luglio, Human Rights Watch ha documentato le atrocita' "compiute da banditi e signori della guerra portati al potere dagli Stati Uniti e gli altri membri della coalizione dopo la caduta dei talebani nel 2001", sostenendo che costoro tengono "fondamentalmente il paese in ostaggio". Il rapporto denuncia l'esistenza di eserciti e truppe di polizia agli ordini dei signori della guerra che rapiscono impunemente abitanti dei villaggi tenendoli in prigioni non ufficiali in attesa del riscatto; denuncia inoltre lo stupro diffuso di donne ragazze e ragazzi, estorsioni rapine e omicidi arbitrari come pratiche di routine. Le scuole femminili vengono bruciate. "Dato che un obiettivo dei soldati sono le donne e le ragazze", continua il rapporto, "molte non escono piu' di casa e non possono andare ne' a scuola ne' a lavorare". A Herat, una citta' nell'ovest del paese, ad esempio, le donne che guidano vengono arrestate, non possono viaggiare con uomini che non siano loro parenti, neppure su un taxi se l'autista non e' un loro parente. Se sono arrestate vengono sottoposte ad un "test di castita'" con spreco di servizi medici preziosi ai quali, sostiene Haman Rights Watch, "le donne e le ragazze non hanno quasi accesso, specialmente a Herat dove meno dell'1% delle donne partorisce con assistenza professionale". Secondo l'Unicef il tasso di mortalita' delle madri durante il parto e' il piu' alto del mondo. Herat e' in mano al signore della guerra Ismail Khan, pubblicamente approvato dal segretario alla difesa Usa Rumsfeld "come persona accattivante... riflessiva, misurata e sicura di se'". * "L'ultima volta che ci siamo visti in questo luogo", ha detto Bush nel suo discorso sullo stato dell'unione dell'anno scorso, "le madri e le figlie dell'Afghanistan erano prigioniere nelle loro case, impedite di andare al lavoro o a scuola. Oggi le donne sono libere e fanno parte del nuovo governo del paese. E noi diamo il benvenuto al nuovo ministro agli affari femminili la dottoressa Sima Samar". Si alzo' una donna minuta, di mezza eta', con una sciarpa sul capo, e ricevette un'ovazione molto coreografica. Samar, un medico che nel periodo dei talebani si rifiuto' di negare assistenza alle donne, e' un vero simbolo di resistenza e l'appropriazione untuosa che ne ha fatto Bush ha avuto vita breve: in dicembre del 2001 Samar partecipo' a Bonn alla "conferenza di pace" sponsorizzata dagli Stati Uniti dove Karzai fu installato come presidente e tre dei piu' brutali signori della guerra come vicepresidenti. Non era ancora svanito l'eco dell'applauso che Samar fu infamata con la falsa accusa di blasfemia e costretta a ritirarsi. I signori della guerra che differiscono dai talebani solo per diversa appartenenza tribale e ortodossia religiosa, non potevano ammettere il benche' minimo gesto di emancipazione femminile. Oggi Samar vive nel timore costante per la propria vita, ha due terribili guardie del corpo con armi automatiche, una davanti la porta dell'ufficio e l'altra al cancello esterno e si sposta su un van con i vetri oscurati. "Non ho mai avuto una vita sicura negli ultimi 23 anni", mi ha detto, "ma non ho dovuto mai nascondermi o girare con scorta armata come sono obbligata a fare ora... Certo, e' stata abolita la legge scritta che vietava alle donne di andare a scuola e al lavoro e imponeva loro le regole del vestirsi, ma la realta' e' che neppure sotto i taleban c'era la stessa oppressione nei confronti delle donne che c'e' ora nelle aree rurali". Forse l'apartheid nei confronti delle donne e' stata abolita legalmente ma per il 90% di loro queste "riforme" non sono altro che tecnicismi. Il burqa e' diffuso ancora ovunque. Come dice Samar, la condizione delle donne nelle campagne e' spesso piu' disperata ora di prima perche' gli ultra-puritani talebani avevano la mano molto pesante con gli stupri, gli omicidi e il banditismo. A differenza di oggi, si poteva viaggiare sicuri in gran parte del paese. * In una fabbrica di scarpe bombardata nella parte ovest di Kabul ho visto la popolazione di due villaggi ammassata e esposta sui pavimenti dei vari piani, senza luce e con un unico rubinetto sgocciolante. Bambini piccoli accovacciati attorno a fuochi accesi in terra vicino a parapetti mezzo sbriciolati. Il giorno del mio arrivo un bambino e' caduto ferendosi gravemente. Pane bagnato nel te' e' il loro pasto. Hanno nei loro occhi chiari da civetta lo sguardo terrorizzato del rifugiato. Sono fuggiti la', mi dicono, perche' i signori della guerra li derubano costantemente e rapiscono le loro mogli figlie e figli che violentano e restituiscono poi dietro pagamento del riscatto. * "Sotto i talebani era come vivere in una tomba ma eravamo sicuri", mi ha detto una militante, Marina, "alcuni dicono che erano persino meglio loro, a dimostrazione di quanto sia disperata la situazione oggi. Le leggi possono anche essere cambiate ma le donne non osano uscire di casa senza burqa, che indossiamo anche per proteggerci". Marina e' una dirigente dell'Associazione rivoluzionaria delle donne afgane (Rawa), un'organizzazione eroica che ha tentato per anni di sensibilizzare il resto del mondo sulle sofferenze delle afgane. Le donne di Rawa viaggiavano segretamente per tutto il paese con macchine da presa nascoste sotto il burqa. Hanno filmato l'esecuzione di un talebano e altri abusi e fatto arrivare clandestinamente il video in occidente. "L'abbiamo portato a vari media", dice Marina, "Reuters, Abc Australia, per esempio, e tutti ci dicevano, certo, e' bello ma non possiamo mostrarlo perche' troppo scioccante per il pubblico occidentale". Alla fine l'esecuzione e' stata trasmessa all'interno di un documentario da Channel 4. Questo avveniva prima dell'11 settembre 2001, quando Bush e i media Usa hanno scoperto la questione delle donne in Afghanistan. Marina afferma che non c'e' differenza con l'attuale silenzio dell'occidente sulla natura atroce del presente regime dei signori della guerra sostenuti dall'occidente. Ci siamo incontrati in modo clandestino e lei aveva il viso coperto per non rivelare la sua identita': Marina e' un nome fittizio. "Due ragazze che erano andate a scuola senza burqa sono state uccise e i loro corpi abbandonati davanti a casa loro", ha continuato. "Il mese scorso 35 donne si sono gettate in un fiume con i loro bambini e sono morte per sfuggire a una battuta di stupri di capimilizie. Questo e' l'Afghanistan, oggi; i taleban e i signori della guerra dell'Alleanza del nord sono due facce della stessa medaglia. Per gli Stati Uniti si ripropone la storia di Frankenstein: crea un mostro e il mostro ti si rivoltera' contro: se non avessero costruito e sostenuto i signori della guerra, Osama bin Laden e tutte le forze fondamentaliste in Afghanistan durante l'invasione sovietica, questi non avrebbero attaccato il padrone l'11 settembre 2001". 5. INIZIATIVE. RETE LILLIPUT: UNA CAMPAGNA PER CAMBIARE LA FINANZIARIA [Dagli amici della Rete Lilliput (per contatti: ufficiostampa at retelilliput.org) riceviamo e diffondiamo] Rete Lilliput con le associazioni aderenti alla campagna "Sbilanciamoci" promuove la petizione on-line per chiedere al Parlamento di cambiare finanziaria. E' solo uno dei tasselli della campagna che, nelle prossime settimane, fara' sentire la voce della societa' civile su una serie di provvedimenti ingiusti e senza futuro. Abbiamo anche realizzato cinque cartoline illustrate per sostenere la diffusione della petizione: riprendono alcuni dei temi principali della campagna e possono essere inviate ad amici e conoscenti, cosi' come ai parlamentari della vostra circoscrizione. Potete richiederle scrivendo a: info at sbilanciamoci.org e presto saranno scaricabili anche dal sito. Per leggere la petizione e per firmarla: www.sbilanciamoci.org/petizione2003/ * "Sbilanciamoci" ha presentato la sua contro-finanziaria per il 2004 La campagna ha realizzato - come da quattro anni a questa parte - la sua contro-finanziaria 2004. La settimana scorsa presso la Sala Rossa del Senato e' stata presentata la proposta di manovra di"Sbilanciamoci". La nostra contro-finanziaria - circa 4 miliardi di euro in meno rispetto ai 16,3 previsti da quella del governo - mira ad aumentare la qualita' della vita di tutti. Perche' la spesa pubblica torni ad essere strumento di sviluppo e benessere per tutti, aumentando i diritti, favorendo la pace, tutelando l'ambiente. Per scaricare il rapporto "Cambiamo finanziaria. Le proposte di 'Sbilanciamoci' per il 2004" e' sufficiente collegarsi al sito www.sbilanciamoci.org L'opuscolo sara' invece pronto a fine ottobre, per richiederlo mandate una e-mail all'indirizzo info at sbilanciamoci.org Aderiscono alla campagna "Sbilanciamoci": Altreconomia, Antigone, Arci, Arci servizio civile, Associazione ambiente e lavoro, Associazione finanza etica, Associazione obiettori nonviolenti, Associazione per la pace, Campagna per la riforma della Banca mondiale, Carta, Cipsi, Cittadinanzattiva, Cnca, Cocis, Ics, Coop. Roba dell'Altro Mondo, Ctm-Altromercato, Donne in nero, Emergency, Legambiente, Lila, Lunaria, Mani tese, Medici senza frontiere, Microfinanza, Pax Christi, Uisp, Unione degli studenti, Unione degli universitari, Wwf. "Sbilanciamoci" ha sede presso Lunaria, via Salaria 89, 00198 Roma, tel. 068841880, fax: 068841859, sito: www.sbilanciamoci.org 6. RILETTURE. CLARA LEVI COEN: MARTIN BUBER Clara Levi Coen, Martin Buber, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1991, pp. 160, lire 18.000. Una bella, finissima e simpatetica monografia che e' anche un atto di amicizia; con tre scritti di Martin Buber del 1951 qui per la prima volta tradotti in Italiano. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 711 del 22 ottobre 2003
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