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La nonviolenza e' in cammino. 690
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 690
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 30 Sep 2003 19:15:03 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 690 del primo ottobre 2003 Sommario di questo numero: 1. Giulio Vittorangeli: gli ipocriti 2. Brunetto Salvarani: sulla proposta di Lidia Menapace, il contributo del dialogo ecumenico ed interreligioso 3. Giancarla Codrignani: quell'aggettivo "neutrale"... (sulla proposta di Lidia Menapace) 4. Maria Teresa Gavazza: le Chiese a Firenze 5. Enrica Bartesaghi: lettera aperta al ministro della giustizia 6. Angelo Gandolfi: una riflessione dopo la camminata Assisi-Gubbio 7. Fausto Concer: la violenza strutturale 8. Maria G. Di Rienzo: "donne combattenti", un'analisi 9. Augusto Cavadi: Chiesa e mafia, dieci anni dopo l'uccisione di don Pino Puglisi 10. I quesiti di Margutte: "a reti unificate" 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. GIULIO VITTORANGELI: GLI IPOCRITI [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: giulio.vittorangeli at tin.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'". Tra le opere di Xabier Gorostiaga: (a cura di, con George Irvin), Un'alternativa politica per l'America Centrale, Edizioni Associate, Roma 1986] Ernesto Balducci sosteneva l'unita' del genere umano, l'interdipendenza planetaria: "Nella specie umana e negli uomini e in tutto il cosmo c'e' un moto simpatetico, una tendenza ad unificarsi". Oggi, questa unita' del mondo e' messa in discussione, una vera rottura, dalla guerra e dal mercato. "Noi siamo in un mondo in cui e' ormai programmata la esclusione di gran parte dell'umanita'. Questo e' un mondo che ormai non crede piu' che si possa provvedere alla vita di tutti, e' un mondo che si sta organizzando, programmando con le sue culture, le sue economie e le sue istituzioni, in modo tale da far sopravvivere e far godere dei beni della terra una minoranza, anche abbastanza piccola, dell'umanita', abbandonando tutto il resto al suo destino: continenti a perdere, umanita' a perdere, popolazioni a perdere. Noi stiamo configurando, e stiamo realizzando, giorno dopo giorno, un mondo di sommersi e di salvati, un mondo di quelli che ce la fanno, e percio' sono benedetti ed eletti dal sistema, e di quelli che non ce la fanno, e percio' sono abbandonati e sono esclusi. Questa e' la questione a monte di tutte le altre questioni: la questione della pace, delle alleanze. Impostare un mondo cosi', accettare, rassegnarsi a un mondo cosi', a un mondo cosi' chiaramente discriminante, e' una follia" (Raniero La Valle). * Sappiamo come tutto questo ha subito un'ulteriore accelerazione con la "guerra al terrorismo" (il male assoluto: il fondamentalismo islamico), su scala mondiale. Nella puntata "L'altro terrorismo" (Report, Raitre, del 23 settembre 2003, un grande momento di giornalismo investigativo e un esempio di cosa dovrebbe essere la televisione) e' stato dimostrato e documentato, con prove tratte dagli archivi segreti di stato Usa, britannici e russi, dagli archivi della Cia e da testimonianze inedite, che tre stati alla guida della cosiddetta "guerra al terrore" (Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia) sono coinvolte nel terrorismo, applicando un sistema di due pesi e due misure per cui mentre pretendono di punire i terroristi loro nemici con azioni di guerra globale, si riservano il diritto di proteggere e negare alla giustizia i propri terroristi. Questi stessi stati democratici hanno pubblicato manuali per torturatori e assassini, ordinato ai loro agenti di ammazzare giudici, funzionari pubblici, insegnanti, hanno pianificato di affondare navi di civili, hanno, per esempio, addestrato, armato e protetto i terroristi responsabili di massacri in Salvador e in Guatemala. L'assassinio di monsignor Romero a San Salvador nel marzo '80, per mano dei sicari del maggiore D'Aubuisson, le quattro suore americane assassinate nel dicembre '80, la strage dei 1.200 abitanti (tutti civili, fra cui quattrocento bambini) del villaggio salvadoregno di El Mozote nell'81, l'assassinio dei sei padri gesuiti dell'Universita' centroamericana del Salvador nel novembre '89, e numerosi altri eccidi ancora. * I governi statunitensi sono mai stati terroristi, hanno mai sostenuto il terrorismo? Risponde David Mac Michael, ex agente della Cia distaccato negli anni '80 in Centroamerica: "Si', lo sono stati, lo hanno fatto". Non solo: "Secondo la definizione che ne da' la presente amministrazione americana, penso che si', gli Stati Uniti possono essere definiti uno Stato canaglia". Il piu' grande campo d'addestramento per terroristi del mondo si trova negli Stati Uniti (la famosa "School of the Americas"), ed e' gestito dall'esercito statunitense; ed ancora, Orlando Bosch (considerato dall'Fbi "terrorista abominevole e senza pieta' per la vita umana") vive libero e protetto a Miami. E che dire della condanna degli Stati Uniti (Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, anno 1986) per atti di terrorismo contro il Nicaragua sandinista? Come risposta, l'America di Reagan intensifico' la guerra sporca fino alla caduta dei sandinisti (come dice una suora nordamericana in Salvador, la maggioranza dei cittadini statunitensi queste cose non le sa, non ci crede, e non ci tiene a saperle). Oppure, che dire dello sterminio dei civili ceceni ad opera, dell'esercito di Mosca? 2.879 decessi avvenuti al di fuori di ogni scontro armato o bombardamento nel solo anno 2002 e con il plauso di gran parte dell'occidente democratico. * E' naturale chiedersi se una guerra al terrore condotta con una "doppia morale" sia destinata al successo o al fallimento. Sorprende, in senso finalmente positivo, che ci sia ancora chi ha il coraggio di dare apertamente dell'ipocrita al Signor Bush su una rete del servizio nazionale. "Altro che i vangeli, lettura preferita di Bush. Nei vangeli - spiega Milena Gabanelli, autrice di Report - c'e' una famosa definizione degli ipocriti: ipocrita e' chi rifiuta di applicare a se stesso il metro di giudizio che applica agli altri". "Report" ha messo nitidamente in evidenza che coloro a cui e' affidata, o che si arrogano, la difesa della legge sul piano mondiale sono i primi a violarla sistematicamente, e a non ritenersi soggetti ad essa. Per essi i principi della democrazia e dei diritti umani non sono uguali per tutti, ma seguono la perversa logica politica dei due pesi e delle due misure. 2. EDITORIALE. BRUNETTO SALVARANI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE, IL CONTRIBUTO DEL DIALOGO ECUMENICO ED INTERRELIGIOSO [Siamo assai grati a Brunetto Salvarani (per contatti: b.salvarani at carpi.nettuno.it) per questo intervento. Brunetto Salvarani, teologo ed educatore, da tempo si occupa di dialogo ecumenico e interreligioso, avendo fondato nel 1985 la rivista di studi ebraico-cristiani "Qol"; ha diretto dal 1987 al 1995 il Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo di Modena; saggista, scrittore e giornalista pubblicista, collabora con varie testate e fa parte del Comitato "Bibbia cultura scuola", che si propone di favorire la presenza del testo sacro alla tradizione ebraico-cristiana nel curriculum delle nostre istituzioni scolastiche; e' direttore della "Fondazione ex campo Fossoli", vicepresidente dell'Associazione italiana degli "Amici di Neve' Shalom - Waahat as-Salaam", il "villaggio della pace" fondato in Israele da padre Bruno Hussar. Ha pubblicato vari libri presso gli editori Morcelliana, Emi, Tempi di Fraternita', Marietti, Paoline] Vorrei intervenire sulla proposta di Lidia Menapace in merito ad un'Europa neutrale ed attiva, disarmata, smilitarizzata e nonviolenta. Lo faccio umilmente, da teologo ed educatore, dichiarandomi da subito in profonda sintonia con l'appello di Lidia e provando ad apportarvi un punto di vista che mi parrebbe rilevante quanto sinora sottaciuto. Mi riferisco ad un paradosso preoccupante: nella discussione, avviatasi da tempo, sulla possibilita' di citare nella futura Costituzione dell'Unione Europea le radici ebraico-cristiane della storia continentale, o di riportarvi addirittura il riferimento esplicito del nome di Dio, mi sembra che nessuno sia ancora intervenuto per ricordare che disponiamo gia' di un documento importante, la "Charta Oecumenica", firmata il 22 aprile 2001 a Strasburgo, congiuntamente, dalla Kek (la Conferenza delle Chiese europee, evangeliche ed ortodosse) e dalla Ccee (il Consiglio delle conferenze episcopali europee, cattolico). Nel testo, da giudicarsi un punto di partenza piu' che di arrivo poiche' non pretende certo di aver risolto gli spinosi problemi tuttora aperti in ambito ecumenico, si leggono peraltro affermazioni che sarebbe sbagliato lasciar cadere, e che - a mio parere - andrebbero fatte diffondere assai piu' di quanto non lo siano oggi. Al numero 8, ad esempio, troviamo scritto fra l'altro: "Noi consideriamo come una ricchezza la molteplicita' delle tradizioni regionali, nazionali, culturali e religiose. Di fronte ai numerosi conflitti e' compito delle Chiese assumersi congiuntamente il servizio della riconciliazione anche per i popoli e le culture. Sappiamo che la pace tra le Chiese costituisce a tal fine un presupposto altrettanto importante (...) Ci impegniamo per un ordine pacifico, fondato sulla soluzione non violenta dei conflitti. Condanniamo pertanto ogni forma di violenza contro gli esseri umani, soprattutto contro le donne e i bambini (...) Ci impegniamo a contrastare ogni forma di nazionalismo che conduca all'oppressione di altri popoli e di minoranze nazionali e a ricercare una soluzione non violenta dei conflitti". So bene che non puo' essere sufficiente riportare su di un documento degli auspici e degli impegni, per vederli immediatamente realizzati. Nondimeno, la sensazione che la "Charta Oecumenica" sia ancora scarsamente conosciuta anche presso i cristiani italiani, e che la ricchezza che potrebbe scaturire da un ampio dibattito su di essa sia largamente sottovalutata, e' in me molto forte. Negli ultimi anni, e soprattutto alla luce di quanto e' accaduto dopo l'11 settembre, ho maturato una chiara consapevolezza di quanto il tema del dialogo ecumenico e interreligioso costituisca un argomento decisivo non solo in campo squisitamente ecclesiale, ma anche sul piano sociale, civile e persino politico. Ecco perche' il contributo delle chiese (e delle religioni) alla prospettiva di un'Europa finalmente educata alla nonviolenza e costruttrice di uno shalom autentico non dovrebbe essere trascurato, ma piuttosto apprezzato, valorizzato appieno e richiesto con insistenza. Da parte mia, in questi anni, mesi e giorni che sembrano concedere cosi' poco spazio alla virtu' teologale della speranza, mi ritrovo (forse non per caso) a soffermarmi con estrema frequenza su un illuminante passo del Diario di Etty Hillesum: "Una pace futura potra' essere veramente tale solo se prima sara' stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo si sara' liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avra' superato quest'odio e l'avra' trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non e' chiedere troppo... Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra...". 3. RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: QUELL'AGGETTIVO "NEUTRALE"... (SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE) [Siamo assai grati a Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri at libero.it) per questo intervento. Giancarla Codrignani, presidente della Loc (Lega degli obiettori di coscienza al servizio militare), gia' parlamentare, saggista, impegnata nei movimenti di liberazione, di solidarieta' e per la pace, e' tra le figure piu' rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai telai, Thema, Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le altre, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994] Sono abituata a pensare che io lavoro per la democrazia per darla anche a chi e' inerte o rema contro. Anche ai fascisti, per intenderci. Ma non mi sento "neutrale" e l'aggettivo mi piace poco anche in campo politico internazionale. Per esempio, credo che un occidentale debba tener d'occhio i suoi governi per contestarne le politiche negli organismi sovrannazionali e capire come dovra' votare; sempre per esemplificare, da Cancun si capisce che, sia quelli che tengono per il commercio, sia quelli che tengono per lo sviluppo (schematicamente i paesi ricchi e i paesi poveri), scelgono da che parte stare anche nel negoziato. Se toccasse a me andare al Wto, so che, dato il luogo, come occidentale, dovrei mediare, ma non "al di sopra delle parti". E se il Wto questa volta e' andato a gambe all'aria, e' stato perche' i poveri erano uniti; domani puo' darsi che la Cina aspiri a egemonizzare il fronte e lo spezzi, cosi' come puo' darsi che gli occidentali scelgano di abbandonare la trattativa multilaterale per mettersi d'accordo con qualche governo costretto ad accettare i ricatti. Occorrera' pensarci per tempo, anche noi che non crediamo ai miracoli dei governi e che sappiamo che le guerre nascono da vertenze economiche. * Inoltre, una cosa e' sostenere la politica guerrafondaia di Bush, un'altra pensare che sarebbe bello se la legge americana sancisse la neutralita' degli Usa: a noi europei basta ripensare alla seconda guerra mondiale per renderci conto che, senza l'intervento americano, in Europa avrebbe dominato - o almeno sarebbe durato piu' a lungo - il nazismo. Anche il pensare alla neutralita' svizzera fa correre qualche brivido lungo la schiena, pensando aitreni di rifornimenti, anche militari, che passavano attraverso il suo territorio verso la Germania. Stare dalla parte della speranza - la piu' difficile delle teologali - non significa illudersi che ci siano prossime palingenesi. Alla mia mente idealista costa non poco, ma e' necessario che mantenga il senso della realta': e' gia' molto se gli stati - e l'Unione Europea nel suo complesso - opereranno una politica di "prevenzione dei conflitti". Cosi' potremo parlare di pace come "politica di pace" per tutti, di sicurezza come "politica di sicurezza" per tutti, di nonviolenza come "politica di nonviolenza" di tutti; e dicendo"politica" intendo dire un "fare" a cui sono tenuti tutti, gli stati come i cittadini anche se ai cittadini spetta prima di tutto, in democrazia, il controllo sui propri governi. * I principi sono molto importanti, in se', ma soprattutto per metterli in pratica nelle condizioni "date". Dopo la prima e la seconda guerra mondiale tutti dissero solennemente "mai piu'"; e non si fece nulla, anzi gli italiani, subito dopo la prima, votarono il fascismo che pose le premesse della seconda. Oggi il sistema in cui viviamo e' quello di una terza, diversa, diffusa conflittualita' mondiale che nessuno osa chiamare guerra, tanto meno "terza". La "Costituzione" europea sembra dover essere un "trattato" piu' che una "Carta" fondante e forse sara' piu' facilmente riformabile dopo un qualche collaudo. Rispetto al prossimo sistema a 25, io sono preoccupata soprattutto per il voto a maggioranza nei processi decisionali. Ve lo immaginate quanto ci possono mettere gli Usa a "comperare" un paese piccolo e povero e fargli mettere il veto su decisioni scomode per il grande impero? Anche qui si tratta di creare conflitti. Con questo non intendo dire che non sia importante indurre a rinnovare i nostri schemi ideali e riposizionare il"ripudio della guerra" della nostra Costituzione nelle situazioni che via via si presentano. Vorrei solo sommessamente dire che bisognerebbe essere capaci di "tornare all'impegno" con occhio scaltrito dalle esperienze che via via abbiamo fatto e facciamo. Vi ricordate quando tutti i vertici, dall'Onu ai governi locali, garantirono che si sarebbe dimezzata la miseria entro il 2010? siamo a meta' percorso e si vedono risultati ancora modesti: tutta responsabilita' del cinismo internazionale? Per ricollegarmi a Cancun, come mai non c'e' stata nessuna marcia per eliminare in Italia i sostegni finanziari pubblici all'agricoltura? non crederemo mica, protestando dopo, di essere neutrali... 4. RIFLESSIONE. MARIA TERESA GAVAZZA: LE CHIESE A FIRENZE [Ringraziamo Maria Teresa Gavazza (per contatti: teregav at tin.it) per questo intervento che reca memoria di alcuni momenti alti dell'esperienza del forum sociale europeo di Firenze di alcuni mesi fa. Maria Teresa Gavazza, storica, docente, e' impegnata da sempre nei movimenti per la pace, di solidarieta', per i diritti umani] "Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: cosi' e' di chiunque e' nato dallo Spirito" (Gv. 3, 8). Sulle orme di La Pira, di padre Ernesto Balducci e di don Milani, profeti disarmati alla ricerca della pace, si giunge alla Fortezza da basso - sede del forum sociale europeo contro il neoliberismo, la guerra, il razzismo. E' una Firenze di pace ad accogliere i circa 30.000 delegati provenienti da tutta Europa. Tra gli animatori del forum la Comunita' dell'Isolotto, che fin dal 1968 si riunisce "fuori dal tempio" sulla piazza per l'eucaristia; nel movimento delle comunita' cristiane di base italiane ed europee l'Isolotto, sotto la guida di don Enzo Mazzi, e' considerata una delle voci piu' rappresentative. Un cattolicesimo del dissenso, oggi piu' che mai combattivo e radicale, si incontra nei numerosi seminari dedicati al rapporto tra le religioni e la societa' della globalizzazione. * Quale ruolo hanno oggi le religioni nella critica all'economia liberista, basata sulla "dittatura del mercato"? E' la domanda posta dallo studioso della teologia della liberazione Giulio Girardi di fronte ad un'affollatissima assemblea riunita nella Fortezza venerdi' 8 novembre. Dopo la risposta ad Oriana Fallaci, la relazione di Girardi affronta alcune delle tematiche piu' importanti: dalla guerra infinita alla demonizzazione dell'Islam. Emerge la proposta di un macroecumenismo che coinvolga anche le religioni non cristiane in una visione dove la tolleranza prevalga sulla evangelizzazione. L'integralismo religioso non e' purtroppo estraneo al cattolicesimo, numerose sono le responsabilita' storiche della Chiesa romana. Anche Sanitsuda Ekhachai della Buddish Network Thailand ha sottolineato come il buddismo rappresenti una forma di resistenza alla globalizzazione, ponendo l'essere umano e l'armonia con la natura al centro della sua riflessione. Il rabbino capo di Firenze riprende la tradizione biblica ed ebraica per delineare l'uomo come essere etico, destinatario di un'utopia profetica. L'umanita' ha il compito di custodire la terra: ognuno di noi e' chiamato a meditare nella propria vigna e a non creare bisogni inutili (grande ovazione ha accolto l'affermazione che e' sufficiente lavorare cinque anni della propria vita). Miguel Alvarez (Conai) ha ripreso lo spirito della teologia della liberazione: Dio, Padre Madre, suscita compassione e solidarieta' verso l'intera comunita' umana. La pace e' un compito vitale delle religioni: le Chiese dovrebbero avere un ruolo sul campo senza sostituire gli altri attori, prima di tutto i movimenti sociali popolari. * Anche il seminario " La nonviolenza come rivoluzione. Le radici della violenza e del sistema di guerra nelle religioni" ha raccolto un grande consenso di pubblico: numerosi i giovani assiepati nella sala, tra essi spicca un gruppo di anarchici con vistosi striscioni e magliette con i simboli del movimento. E' don Mazzi a relazionare con passione sull'identita' del cristiano nella sua relazione con la Trinita'. Daniela Di Carlo, pastora valdese responsabile di Agape, raffigura un Dio della resistenza nonviolenta, che aiuta a superare l'etica del denaro. Una concezione che intacca il desiderio di dominio maschile che si puo' sintetizzare nella seguente battuta: "Se dio e' un maschio allora il maschio e' dio". Tante Chiese per religioni plurali dove la ricerca dei soggetti rafforzi i valori di una resistenza morale per una radicale difesa dei diritti degli esclusi e degli ultimi della terra. 5. DIRITTI UMANI. ENRICA BARTESAGHI: LETTERA APERTA AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA [Riceviamo e diffondiamo questa addolorata e indignata lettera indirizzata a un ministro da Enrica Bartesaghi, presidente del comitato "Verita' e giustizia per Genova". Questo foglio, che non ha mai esitato nel denunciare tutte le violenze e tutte le responsabilita' - anche quelle cosiddette solo morali, anch'esse gravissime, dei provocatori dell'altrui violenza e dei loro irresponsabili effettuali complici - per i gravi fatti di Genova, e che ha sempre rifiutato generalizzazioni irrazionali ed inammissibili strabismi, si associa naturalmente non solo alla elementare e doverosa richiesta che coloro che hanno commesso violenze su persone inermi siano processati e puniti secondo legge, ma anche - e per l'ennesima volta - alla richiesta che nel caso di appartenenti alle forze dell'ordine coloro che di quei reati si trovino oggi ad essere imputati (e per i quali vale, come per chiunque, la presunzione d'innocenza fino a provata colpevolezza ed emissione di giudizio in via definitiva da parte delle competenti magistrature) siano fin d'ora tutti sospesi cautelativamente dal servizio in attesa che piena luce sia fatta e che gli effettivi colpevoli di crimini gravissimi siano individuati con certezza: e' nell'interesse di tutti che non vi siano sottovalutazioni della gravita' dell'accaduto, ed e' nell'interesse di tutti anche che le persone accusate dall'autorita' giudiziaria di essere responsabili di lesioni e torture non possano, fino a giudizio che le scagioni da tanto grave accusa, svolgere un ruolo cosi' delicato e rilevante come quello proprio delle forze dell'ordine di garantire la pubblica sicurezza, i diritti di tutti, la vigenza della legalita' democratica] Nei giorni scorsi lei ha dichiarato (in merito alla chiusura delle indagini su Diaz e Bolzaneto) che "ci tiene a difendere il buon nome degli agenti della polizia penitenziaria" e, si stupisce perche' "nessun magistrato ha avuto la curiosita' di chiederle cosa ha visto", nonostante lei fosse presente a Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. Ebbene, glielo chiedo io signor ministro, cosa ha visto nella caserma di Genova Bolzaneto? Vuol rispondere di nuovo, come gia' fece davanti alla commissione d'indagine il 6 settembre 2001, che "la situazione era tutto sommato normale?" che "nelle celle c'erano una decina di ragazzi da una parte, con un agente della polizia penitenziaria e una ragazza dall'altra parte?". Che quando alla sua domanda "come mai si trovassero in quella posizione, rivolti verso il muro, in piedi" e le e' stato risposto che "avevano fatto cosi' per evitare il pericolo che gli uomini potessero dar fastidio alla ragazza" lei ci ha creduto? Risponderebbe di nuovo che "al di la' di casi singoli malaugurati, non si sono verificati gravissimi problemi. Qualcuno ha pagato il prezzo di rimanere troppe ore in piedi. Non so se sia una cosa gravissima... I metalmeccanici per 35 anni lavorano in piedi dalla mattina alla sera. E non li ho mai sentiti lamentarsi"? E di fronte all'accusa di aver costituito un lager risponderebbe di nuovo che "un lager non e' un campo di concentramento, e che diverso e' costituire un campo di concentramento, termine che non ha un'accezione negativa di per se'"? Vede, signor ministro, le conclusioni della Procura di Genova, che si prepara a chiedere il rinvio a giudizio di 42 tra poliziotti, agenti e medici della penitenziaria e carabinieri, dice cose un po' diverse. Parla di violenze e torture, trattamenti inumani e degradanti, sospensione di diritti umani fondamentali, mancate cure mediche a persone gia' ferite, mancate telefonate a familiari, avvocati, consolato per gli stranieri, tutti i detenuti scomparsi nel nulla, "desaparecidos". E non parla di "alcuni casi isolati" ma di centinaia di persone che durante quei giorni passarono molte ore a Bolzaneto e che coraggiosamente hanno poi denunciato i fatti alla magistratura. Racconta di mani spezzate a Bolzaneto, di suture senza anestesia, di ragazze trascinate per il collo e coperte di sputi ed ingiurie da due ali di agenti, prese a calci durante il tragitto verso il bagno. Parla di canzonette fasciste, di ragazze e ragazzi nudi, derisi ed umiliati... Ci dice che non furono somministrati ne' cibo, ne' acqua, che i giovani furono coperti di pugni e calci, costretti a rimanere per ore in piedi col volto verso il muro, gambe divaricate, braccia alzate, anche se feriti, spruzzati da gas urticante, minacciati di morte e di altre violenze. (Mancava solo l'olio di ricino per completare il quadro). Vede, signor ministro, quanto descritto dalla Procura di Genova non mi e' nuovo. La notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, durante la sua visita a Bolzaneto, c'era anche mia figlia Sara di 21 anni, di Lecco, come lei. Dopo essere stata ferita dalle manganellate alla scuola Diaz ed una breve permanenza in ospedale nonostante un "trauma cranico" e' stata sequestrata e portata, ammanettata, a Bolzaneto e vi e' rimasta fino al 23 luglio; piu' di 24 ore nel lager (pardon, campo di concentramento). Io e mio marito l'abbiamo cercata ovunque senza trovarla, scomparsa in Italia, per piu' di 30 ore, forse avremmo dovuto chiedere a lei se l'aveva vista? Se davvero lei vuol difendere il buon nome degli agenti e dei medici penitenziari lo dimostri. Si legga le conclusioni della Procura di Genova e sospenda tutti quelli che sono indagati per questi gravissimi fatti, chieda scusa, a nome dello stato Italiano che lei rappresenta, a tutti quelli che, italiani e stranieri, hanno vissuto, sulla loro pelle, i giorni piu' bui della nostra democrazia negli ultimi anni. Enrica Bartesaghi, presidente del comitato "Verita' e giustizia per Genova" 6. RIFLESSIONE. ANGELO GANDOLFI: UNA RIFLESSIONE DOPO LA CAMMINATA ASSISI-GUBBIO [Ringraziamo Angelo Gandolfi (per contatti: angelo.gan at libero.it) per questo intervento che estraiamo da una piu' ampia lettera personale. Angelo Gandolfi e' impegnato nell'esperienza dei "Berretti bianchi", organizzazione umanitaria di intervento nonviolento in aree di conflitto, e nella promozione dei Corpi civili di pace; e' stato recentemente in Iraq per verificare la possibilita' di realizzare a Baghdad una "ambasciata di pace" nonviolenta] Per me l'approccio alla nonviolenza, piu' che limitarsi alla testimonianza, deve avere fra i suoi sbocchi la proposta politica. Anzi, non dimenticando che il Mahatma definisce quella che chiamiamo nonviolenza anche come uno "stato della coscienza" [ahimsa (innocuita', innocenza, opposizione alla violenza) e satyagraha (forza della verita', adesione alla verita', forza dell'amore)] credo che il frutto di questo sia la coniugazione dell'etica con la politica. L'esperienza di quella che chiamerei anch'io la "guerra costituente" che abbiamo dinanzi, mi porta, anche a seguito di altre riflessioni, a qualificare la scelta nonviolenta con l'"assunzione del punto di vista delle vittime". Un'assunzione che non deve esser acritica, tutt'altro. E che neppure deve prescindere dalla lettura della complessita'. * Esemplificando, pensando all'Iraq, non posso non considerare fra le vittime, ad un primo livello, pure i ragazzini statunitensi che, cresciuti fra MacDonald's e Coca Cola, imbottiti di una propaganda piu' esplosiva di qualsiasi miscela di droghe, in cerca di una risposta alla disoccupazione, vanno a rischiare la vita in Iraq per un pugno di criminali che ce li mandano per pure ragioni ideologiche e di potere. Tuttavia non posso non considerare costoro occupanti e comunque andati la' "per scelta". E cio' mi porta a non assumere il loro punto di vista come quello che deve ispirare la mia azione. Un secondo livello e' costituito indubbiamente dagli Iracheni che soffrono non a causa di due guerre passate, ma di una guerra che dura da dodici anni, e ha prodotto oltre un milione, forse due, di morti, e di cui non si vede la fine. Ma costoro, bene o male, hanno conosciuto se non la pace, la prosperita', qualcosa di differente dal circuito chiuso delle armi e della violenza. Un terzo livello e' costituito dalle nuove generazioni, o meglio da quanti sono sopravvissuti al genocidio di una di esse causato dall'embargo. Su una popolazione inferiore ai 20 milioni di abitanti un numero di bambini che va da 1,5 a 2 milioni sono comunque il 15-20% sterminati. Chi e' sopravvissuto non ha visto che armi e violenza. * E allora mi viene spontaneo domandarmi: che ha la nonviolenza da dire a questa gente? La risposta mi pare scontata: un mare di cose. Quando qualcuno mi definisce la pace e la nonviolenza come utopie, sono pronto a rispondere che a me paiono "l'unico realismo possibile", e non perche' disprezzi le utopie, tutt'altro. Utopia semmai e' pensare che si possa continuare a gestire il potere nel modo in cui lo gestiscono i potenti, dal momento che non ve ne sono le condizioni, almeno a lungo termine. Puo' darsi che nell'immediato le cose funzionino, ma storicamente nessun impero ha retto alla prova del tempo e lo sgretolamento di questi ultimi ha portato con se' migliaia se non milioni di morti. Ad esempio utopia non e' il risparmio energetico, semmai e' pensare di poter continuare in un modello di consumo che produce quello che sta sempre venendo ad emergere, vale a dire quello che, parafrasando l'ultimo Sigmund Freud, mi verrebbe da definire, il "disastro della civilta'". Ho ritrovato questi argomenti nel convegno a Gubbio, tuttavia pero' con un percorso a meta'. Se individuo un punto di partenza, per il quale potrei trovarmi parzialmente d'accordo con Mao Valpiana, e' la festa che ha intervallato i due momenti del convegno. Non altrettanto mi sento di dire della discussione. * Mi rammarico molto di non aver potuto partecipare alla camminata, un po' perche' mi piace molto camminare e sarebbe stato molto bello farlo assieme ad amici con i quali non ci si vede molto spesso e quindi sarebbe stato molto gradevole stare insieme e scambiare qualche parola (penso a Nanni Salio, Enrico Peyretti, a padre Angelo Cavagna di cui sono omonimo) e conoscerne ovviamente altre e altri. Tuttavia mi rimane un interrogativo rispetto alla "visibilita'". Non so se la concomitanza con il vertice di Riva del Garda sia stata casuale o meno. Se da un lato non condivido la forzatura nella scelta di iniziative che abbiano a tutti i costi un impatto mediatico e penso che il tempo dei controvertici o dell'opposizione di piazza ad ogni vertice sia passato e le necessita' siano altre, a fronte del fatto che ormai questi hanno una frequenza quasi uguale alle partite di calcio, dall'altro tuttavia le scelte un po' "aventiniane" non mi convincono del tutto. Quale "visibilita'" ha avuto la camminata? Intendiamoci: e' un umile interrogativo: mi piacerebbe che qualcuno rispondesse. Non a me, per carita', ma a quest'interrogativo. Anche perche' le perplessita' con cui sono uscito dal convegno in qualche modo lo acuisono. Purtroppo vedo alcuni rischi: in generale mi trovo spesso a chiedermi se coloro che hanno impedito la diffusione del pensiero e dell'azione nonviolenti non siamo stati proprio noi, nel momento in cui abbiamo voluto imporre la nostra adesione alla nonviolenza ad altri compagni di strada. E' il problema della comunicazione. Potrei sbagliarmi, ma credo che cio' che trasforma la testimonianza in politica potrebbe essere proprio la comunicazione. * E dunque dal convegno di Gubbio mi sono scaturite alcune domande. Indubbiamente la riflessione di Nanni sull'"incontro con il lupo", che e' anche stata sintetizzata su "La nonviolenza e' in cammino", e' bellissima, profondissima, una sintesi splendida di poesia e metafisica, piena di immagini bellissime (una per tutte: camminare come portare il piede che resta piu' indietro allo stesso livello di quello che va sempre avanti), ma fino a che punto smuove, con chi comunica? Nonostante la disarmante semplicita' con cui Nanni l'ha esposta, sua tipica, antiretorica, lontana da toni solenni, ieratici, oratorii in genere. Le riflessioni alte portate come sono comunicabili almeno a quei 110 milioni di persone che sono scese in piazza contro la guerra, per trasformare il movimento contro la guerra in movimento per la pace? Mi chiedo, forse impietosamente, se nell'intervento di Enrico, che ha candidamente ammesso di provare "odio" nei confronti di chi commette certe ingiustizie, non si possa proprio cogliere il segno dell'impotenza dell'intellettuale di fronte al rischio che la "teoria" diventi il surrogato dell'azione che non si riesce o non ci si sente di fare. In definitiva, mi chiedo se la nonviolenza non possa e debba essere anche una "forma" del pensiero rivoluzionario. E sentendomi molto nella felice espressione di "amico della nonviolenza", piu' che "nonviolento", la mia adesione e' determinata dal credere che la rivoluzione alla cui preparazione provo a dare il mio modestissimo contributo non potra' che essere nonviolenta, perche' sara' soprattutto delle e nelle coscienze e quindi senza bisogno di armi. E questo spazza anche via ogni possibile ipotesi di adesione alla cultura cosiddetta riformista imperante. * Il limite del convegno di Gubbio mi pare che sia stato proprio nella sua portata troppo pendente dalla parte della "teoria". Mentre mi sembrerebbe che abbiamo necessita' di cercare di sviluppare una progettualita' che cerchi di dare risposte ad un futuro di guerra, di riarmo, di sfruttamento, di oppressione e di morte. E, nel contempo, mi pare anche che abbiamo necessita' di individuare gli strumenti per arrivare ad un "governo mondiale condiviso", soprattutto di fronte allo sfascio di un'Onu che nella sua forma attuale sembra giunta ormai al capolinea come la Societa' della Nazioni alla vigilia della seconda guerra mondiale. E di individuare il percorso graduale attraverso cui portare prima che sia troppo tardi il messaggio di riduzione dei consumi e di revisione della nostra cultura ad orecchie che sarebbero nell'immediato refrattarie. Direi che abbiamo anche bisogno di ricostruire la fiducia nelle istituzioni portate ormai allo sfacelo da chi le occupa. Abbiamo bisogno, se posso tornare su quest'immagine, di dimostrare che la nostra non e' affatto "utopia", ma forse "l'unico realismo possibile". 7. RIFLESSIONE. FAUSTO CONCER: LA VIOLENZA STRUTTURALE [Ringraziamo Fausto Concer (per contatti: faustoconcer at libero.it) per questo intervento che estraiamo da una piu' ampia lettera personale. Fausto Concer e' impegnato in varie esperienze, particolarmente a Bolzano e a Bologna, per la pace, i diritti dei popoli, la difesa della Costituzione, un'economia di giustizia e di solidarieta'] Occorre affermare la necessita' dell'eguaglianza sostanziale tra tutte le donne e gli uomini di tutte le parti del mondo, un'eguaglianza che non sia solo formale (quella astratta, seppur necessaria, dello stato di diritto borghese), che porti con se', conseguentemente, il principio e la convinzione profonda che il primo e piu' grave crimine contro l'umanita' e' che ci siano donne e uomini che, giornalmente, muoiono di fame. La violenza par excellence, a parer mio, e' proprio questa, la violenza strutturale, insita nel modo di produzione dominante, che condanna alla fame, alla morte, alla malattia, all'odio (si', perche' anche l'odio germoglia e prospera a partire da questa violenza strutturale), all'abbrutimento, all'ignoranza, all'alienazione totale, ovvero alla negazione di se' e degli altri nella propria e loro umanita'... Occorre affermare la necessita' quindi di una diversa produzione, che tuteli i diritti dei lavoratori, che ascolti i loro bisogni, che tenga conto delle loro scelte ecc., e di una piu' equa distribuzione... La prima, la piu' devastante e la piu' criminale delle violenze e' quella strutturale. 8. MARIA G. DI RIENZO: "DONNE COMBATTENTI", UN'ANALISI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] Cosa sappiamo delle donne che compiono atti terroristici, che combattono in armi, o che si fanno esplodere bombe addosso in luoghi affollati e autobus? Le donne, ovviamente, non costituiscono un gruppo separato ed omogeneo. Molte sono figlie, madri, mogli e amanti di uomini (e donne) che combattono, in eserciti regolari o irregolari, o in gruppi terroristici: le loro vite non sono separabili con un taglio netto da quelle dei loro parenti e vicini, esse condividono lo stesso territorio, le stesse problematiche politiche e sociali. Nel concentrarmi sulle donne combattenti, riconosco questa continuita'. Numerose esperienze che uomini e donne fanno agendo un conflitto armato sono simili, ma vi sono anche delle chiare differenze: la posizione sociale di donne ed uomini precedente il conflitto differisce nettamente. Le une e gli altri hanno diversi ruoli sociali, possono accedere a tipi diversi di risorse e rispondono alla crisi in modo diverso, a seconda delle responsabilita' e delle aspettative che sono state loro ascritte. Ad esempio, in molte societa' gli uomini si percepiscono come i protettori delle donne e dei bambini, mentre dalle donne ci si aspetta che provvedano al cibo, all'assistenza medica, e in genere al benessere delle loro famiglie. In questi casi, e' visto come "naturale" che un uomo combatta in armi e le donne sono classificate come bersagli vulnerabili bisognosi di protezione. In tal senso, i diversi ruoli sociali fanno si' che l'esperienza del conflitto fatta da uomini e donne diverga. * Da quello che possiamo desumere dai resoconti giornalistici, vi sono due "identita' fittizie" con cui vengono definite e narrate le donne combattenti. L'una, promossa dai media ufficiali, da' come cornice alle loro azioni la loro bellezza fisica, o l'aver sofferto violenza di genere (stupri, matrimoni forzati, ecc.). La "bella terrorista" o la "bella guerrigliera" appare come una persona che sta principalmente cercando vendetta per i torti subiti da lei stessa, e la sua relazione con ideologie o visioni politiche appare secondaria: esse sarebbero motivazionali solo per le sue controparti maschili. L'identita' femminilizzata gerarchicamente oscura l'identita' politica. L'altro tipo di resoconto, che si trova nelle pubblicazioni "militanti", la descrive come la donna liberata, una donna cosi' "diversa" e migliore da essere in grado di combattere e morire per la liberta' del suo popolo, per la liberazione della sua terra, e cosi' via. E' la brava e coraggiosa figlia della sua gente, e nell'obbedire alla legge patriarcale della morte non ha dubbi ne' paure. Le cornici descrittive suddette non ci aiutano veramente a capire le motivazioni individuali di queste donne. * Una delle prime terroriste ad essere pesantemente mitizzata dalla stampa fu Leila Khaled, una donna palestinese che dirotto' un aereo nel 1969 e tento' di dirottarne un secondo l'anno successivo. La pubblicita' che questi due atti ricevettero non fu dovuta alla richiesta che li motivava, ovvero la liberazione dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane, ma soprattutto al fatto che fra il commando dei dirottatori c'era una "bella donna terrorista". In un'intervista fatta a Leila Khaled nel 2000, il giornalista le disse: "Eri la ragazza glamour del terrorismo internazionale. Eri la regina dei dirottatori. Tutti conoscevano il tuo volto". Khaled rispose: "Io non volevo questo. Non volevo neppure essere intervistata. Tutto quello che volevo e voglio e' essere coinvolta in altre operazioni". L'attenzione che la "bella terrorista" ricevette dai media fu usata dallo stesso movimento palestinese a cui lei apparteneva, che le ordino' di rilasciare interviste. Piu' di recente (2002) cosi' un quotidiano ha descritto un'altra palestinese, una giovane donna pronta a farsi saltare in aria: "Ha le unghie curate e i capelli ben pettinati. Chiede di essere chiamata con il termine arabo che significa stella cadente: "Suha". Ci parla della sua decisione di suicidarsi facendo esplodere una bomba. E' alta, ha una bella pelle chiara ed e' molto graziosa... Il suo modo di sorriderci e stringerci la mano e' rapido e delicato... Questa donna di neppure trent'anni, in possesso di licenza liceale, in jeans e felpa, e' una delle armi piu' efficaci dell'arsenale palestinese". Come vedete, la dettagliata descrizione romantica del suo fisico (che non ci sarebbe stata offerta nel caso l'aspirante suicida/omicida fosse stato un maschio: di sicuro non ci avrebbero detto nulla sullo stato delle sue unghie) oscura completamente le ragioni che l'hanno spinta a divenire una bomba umana. Le combattenti separatiste dello Sri Lanka (le donne che fanno parte delle "Tigri di liberazione del Tamil") vengono descritte dai media come "vergini armate". In un'intervista ad una di esse, la giovane combattente descrive la sua sofferenza per l'assassinio dei genitori e spiega di essersi unita alle "Tigri" perche' loro le hanno promesso "salvezza attraverso una sanguinosa vendetta". L'autrice dell'intervista ci informa che le donne militanti sono addestrate ad abbracciare una sorta di androginia, ad abbandonare tutto cio' che e' tradizionalmente "femminile", ma non manca di chiedere all'intervistata se abbia un amante o un fidanzato e quale sia lo stato della sua virtu' in mezzo ai compagni combattenti (non mi e' mai capitato di leggere la stessa domanda rivolta ad un uomo). C'e' un'evidente ansia, in questi resoconti, di sottolineare la femminilita' delle donne armate, mentre l'esperienza dell'uomo armato e' vista nel contesto politico, e comprende concetti quali coraggio e sprezzo del pericolo. Sebbene entrambe le immagini siano costruite ad arte, l'identita' del militante uomo e' affermativa (anche nei suoi tratti negativi di agente violento), mentre quella attribuita alla militante donna e' composta nella cornice femminilita'/vittimizzazione. * Comincia a delinearsi, sullo sfondo, un concetto chiave: per essere donne libere, bisognerebbe liberarsi del proprio essere donne, e il modo per farlo e' il mantenere un altissimo standard di brutalita'. Le ribelli liberiane sono un esempio della messa in opera del concetto, secondo le testimonianze di donne raccolte nel 1994 da Judy El Bushra: "Arrivavano e comandavano. Dovevi dar loro i tuoi gioielli, se li avevi, ti strappavano gli orecchini, qualsiasi cosa carina avessi addosso te la portavano via e in cambio ti davano quei vestiti stracciati e strambi che loro stesse portavano. Ed erano svelte a uccidere. Al minimo errore che facevi potevi essere morta. Facevano davvero paura. Se si seccavano per qualcosa alzavano il fucile, ed era finita". E anche la storia di Finda mostra con chiarezza il medesimo sfondo. Finda aveva 12 anni quando fu catturata, nel 1996, a Tombodu (Sierra Leone) da una capitana guerrigliera: "Mi prese come membro della sua squadra, ed io divenni la sua aiutante di campo. Mi insegno' ad usare un mitra AK 58 e la pistola. Attaccammo Tongo, Koidu, Kongoteh e una citta' sul confine con la Guinea che si chiamava Fokonia: li' abbiamo bruciato le case e il cibo, e tagliato le mani alle persone. Quando ci costrinsero a lasciare la base di Koidu, arrivammo al confine liberiano e cominciammo ad aprirci la strada combattendo verso Freetown. Tutti/e fumavamo marijuana, prendevamo pillole e ci facevamo iniezioni di cocaina". * La percezione esterna della guerrigliera o terrorista, la sua narrazione, andrebbe quindi riesaminata nel contesto delle sue reali esperienze; evitare le seduzioni della propaganda (a favore o contro) e' sempre difficile, ma diviene assai difficoltoso mentre un conflitto e' in corso. Quando una comunita' o un gruppo sono impegnati in azioni armate o atti terroristici lo spazio per articolare un'identita' individuale si restringe e viene via via negato: la dedizione alla "causa", ai leader, alla guerra necessita di un'obbedienza completa al volere/decidere altrui. Le individualita' dei/delle militanti possono quindi essere articolate e narrate solo in modo romanzato. Le militanti spesso finiscono per identificarsi strettamente con le proprie rappresentazioni create dai media. Tuttavia, tali rappresentazioni vengono prodotte per scopi altrui e divengono spesso problematiche per le donne, dopo la cessazione del conflitto. Le ex combattenti del Salvador, rievocando le loro esperienze, parlano dell'aver sperimentato una sorta di liberazione dalle restrizioni sociali, dalle regole morali sul sesso, dalle percezioni convenzionali sulla maternita'. Si sentivano finalmente ascoltate e speravano, dicono, in un futuro migliore. Ma la realta' della smobilitazione ha cancellato le loro speranze: sono state tutte rimandate a casa, a riprendere il ruolo tradizionale a loro attribuito prima del conflitto. La ragione per cui queste testimonianze sono importanti, e' che esse mostrano come le immagini romantiche della "bella guerrigliera" o della "donna liberata" non coincidono con la realta' vissuta dalle donne cosi' descritte, e rendono loro piu' difficile negoziare un proprio spazio. La smobilitazione non ha significato per le ex combattenti del Salvador solo il "tornare a casa" (ed essere stigmatizzate cola' per cio' che avevano fatto) ma anche la frustrazione derivata dal comprendere che il movimento per cui si erano battute le aveva messe da parte. L'identita' creata ad arte, la donna "liberata" pronta a morire per la causa, non viene piu' sostenuta nel momento in cui della donna-arma non c'e' piu' bisogno. 9. RIFLESSIONE. AUGUSTO CAVADI: CHIESA E MAFIA, DIECI ANNI DOPO L'UCCISIONE DI DON PINO PUGLISI [Ringraziamo Augusto Cavadi (per contatti: acavadi at lycos.com) per averci trasmesso questo suo intervento gia' apparso su "Centonove" del 26 settembre 2003, a p. 45. Augusto Cavadi, prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, seconda ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa). Giuseppe Puglisi, sacerdote cattolico, dal 1990 alla guida della parrocchia di san Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo, un quartiere dominato dal potere mafioso; dal 1990 al 1993 un impegno sereno e inflessibile per i diritti e la dignita', per aiutare chi ha bisogno e promuovere la civile convivenza; la sera del 15 settembre 1993, mentre rincasava, con un colpo di pistola alla tempia un killer mafioso lo uccide. Opere su Giuseppe Puglisi: F. Anfossi, Puglisi. Un piccolo prete tra i grandi boss, Edizioni Paoline, Milano 1994; F. Deliziosi, "3 P". Padre Pino Puglisi. La vita e la pastorale del prete ucciso dalla mafia, Edizioni Paoline, Milano 1994; Bianca Stancanelli, A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe siciliano, Einaudi, Torino 2003; cfr. anche Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia. Inchiesta sulle chiese di frontiera, Rizzoli, Milano 1994; segnaliamo anche i contributi (molto interessanti) pubblicati in "Una citta' per l'uomo", nel fascicolo 4/5 dell'ottobre 1994 e nel fascicolo 1/2 dell'aprile 1995; e quelli pubblicati in "Segno", nel fascicolo 247-248 del luglio-agosto 2003] Il 15 settembre scorso in varie parti della Sicilia, e con varie modalita', si e' commemorato il decennale della morte di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio che - come "per delicatezza" evita di dire la targa affissa alla facciata del suo centro di accoglienza "Padre nostro" - e' stato assassinato sotto casa su commissione dei mafiosi del quartiere. Un colpo micidiale per quanti lo conoscevamo e, in generale, per la coscienza civile di chi aveva tentato di reagire alle stragi di Capaci e via d'Amelio del terribile anno precedente. Come spesso accade nella storia, la tragedia non fu priva di risvolti positivi: anche la Chiesa cattolica, sino a quel momento presente solo marginalmente nel movimento antimafia, sembro' scuotersi dal letargo e fare fronte comune con la costernazione dei concittadini migliori. Poi e' trascorso del tempo, quel tempo che il pitagorico Parone definiva "molto ignorante" perche' "e' in esso che si dimentica". E il dovere della memoria c'incombe in un'altra epoca, quasi in un altro mondo. In quale contesto? * Alla questione piu' generale - a che punto siano i rapporti fra Chiesa e mafia - non e' facile dare risposte secche. Da una parte, infatti, sembrerebbe che, ancora una volta, il sangue dei martiri sia stato fecondo: lo sparuto manipolo di preti coraggiosi attestati nei quartieri difficili resiste, anche senza riflettori accesi; ai vertici della gerarchia arrivano personalita' come gli arcivescovi di Monreale Pio Vigo prima, e Cataldo Naro ora, distanti dal predecessore Salvatore Cassisa quanto il giorno dalla notte; case editrici cattoliche, come le Paoline, non lesinano ne' titoli di libri ne' articoli su riviste (cfr. lo "speciale" sul mensile "Jesus" in edicola) dedicati all'analisi del fenomeno e a possibili terapie. Dall'altra parte, pero', abbondano segnali in direzione opposta. Recentemente una sociologa attenta come Alessandra Dino ha ricordato, nel corso di un seminario, la valutazione che un parroco dava dei collaboratori di giustizia rispondendo alle domande di un'inchiesta: "Tradire e' sempre un peccato. Chi lo fa e' nemico a Dio e agli amici suoi". Esponenti di primo piano del laicato cattolico impegnato in politica sono inquisiti per reati attinenti alle attivita' delle cosche mafiose e, invece di dimettersi, invocano la protezione della Madonna per evitare esiti giudiziari imbarazzanti. Con le mie orecchie, poi, ho udito, in occasione di riunioni alquanto riservate, delle dichiarazioni allucinanti sull'operato dei giudici negli ultimi dieci anni ("un vero e proprio regime totalitario") da parte di intellettuali organicamente legati alla Curia: i magistrati presenti hanno potuto solo balbettare, esterrefatti, qualche ovvia obiezione. Come si spiegano queste tendenze contraddittorie nella medesima area religiosa? A parte le considerazioni - che mi e' capitato di proporre altre volte - riguardanti l'incredibile pluralismo brulicante nel mondo cattolico, va tenuta presente una disastrosa lacuna culturale (non certo esclusiva di questo ambiente): una visione parziale della mafia. Intesa soprattutto, o esclusivamente, come fabbrica militare di omicidi e stragi, non anche - e soprattutto - come articolato sistema di potere ideologico, economico, politico. Per cui puo' apparire pacifico stigmatizzare il killer o l'esecutore di attentati e "convivere" con i loro mandanti e con i "manutengoli" in colletto bianco che li affiancano (dal docente universitario che presta la sua consulenza finanziaria all'assessore regionale che stipula patti elettorali sottobanco). La partita si gioca tutta qui. Per dirla con una formula brutalmente semplificatoria, ma scientificamente corretta: o fallisce la riproduzione, sotto altra etichetta, del sistema politico-mafioso di stampo democristiano o la dialettica fra Chiesa e mafia non si spostera' di un centimetro rispetto al 15 settembre del 1993. * Un breve cenno non si puo' non dedicare all'interrogativo, piu' volte ricorrente, circa l'opportunita' di canonizzare don Pino Puglisi. I motivi a favore sono evidenti: sarebbe, da parte dell'istituzione ecclesiastica, un messaggio forte di approvazione dell'atteggiamento radicalmente antimafioso di un suo ministro, di carattere mite e bonario. Meno noti, ma non meno fondati, i motivi di perplessita': un don Puglisi elevato alla gloria degli altari non e' anche strappato alla "normalita'" sociologica, proiettato in una nicchia che - nel momento stesso in cui ne sottolinea l'eroicita' - lo rende per cio' stesso meno imitabile nella quotidianita'? Francamente anche a questa domanda non so rispondere con nettezza. Ci sono motivi per supporre che il culto dei santi continui a subire quel ridimensionamento che, anche nell'ambito cattolico, ha registrato negli ultimi quarant'anni dal Concilio Vaticano II in poi (con eccezioni clamorose come padre Pio da Pietralcina): la fede nel vangelo di Gesu' Cristo ne guadagnerebbe in essenzialita' e le manifestazioni religiose in serieta'. Ma, in questa fase di possibile transizione, tutto sommato penso che una solenne celebrazione a Roma che evidenziasse il coraggio del piccolo prete palermitano avrebbe effetti piu' positivi che negativi. Servirebbe per far capire senza equivoci, a chi non ha tempo da investire in sottili distinzioni teologiche, che non si puo' essere contemporaneamente cristiani e mafiosi (ne' amici di mafiosi ne' amici degli amici dei mafiosi). Come e' noto, la proclamazione di un santo presuppone l'identificazione di alcuni miracoli operati da Dio per sua intercessione: se le comunita' credenti (in quanto tali, non solo nei casi di singole persone illuminate) imparassero a considerare peccaminoso votare per partiti o candidati adusi ad alimentare clientelismi, raccomandazioni, abusivismi e "scambi di favori", la nuova tendenza potrebbe considerarsi un primo "miracolo" da accreditare al parroco di Brancaccio. 10. I QUESITI DI MARGUTTE: "A RETI UNIFICATE" E chi sara' mai il povero pesciolino che nelle reti resta imprigionato, e gia' presagisce che finira' in padella? Ho un brutto presentimento. 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 690 del primo ottobre 2003
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