INFORMAZIONE 103 - L'EREDITA' DI CANCUN



GRANELLO DI SABBIA (n°103)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Martedì, 23-09-2003
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Indice degli argomenti

1 - Cosa cambia dopo Cancun
di Walden Bello
Il fallimento, domenica 14 settembre, della quinta conferenza ministeriale
dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) tenutasi a Cancun, in
Messico, rappresenta un evento di proporzioni storiche. L'esito di Cancun
presenta infatti alcune implicazioni importantissime. (.) Traduzione di
Sabrina Fusari

2 - L'ipocrita Pascal Lamy
di George Monbiot
L'aver costretto i paesi poveri ad abbandonare i negoziati di Cancun
potrebbe rivelarsi un boomerang per l'occidente. (.) Traduzione di
Lorraine
Buckley

3 - Libertà di commercio e schiavismo del lavoro (l'importazione di 12.000
cinesi alle Mauritius)
di Eric Wattez
Nelle isole Mauritius, 12.000 "cinesi importate" sgobbano fino a sedici ore
al giorno. Per continuare a rifornire i giganti mondiali del tessile al
prezzo più conveniente la zona franca dell'isola fa arrivare interi charter
pieni di piccole mani asiatiche. Malleabili, a buon mercato e sistemate in
condizioni spaventose. (.) Traduzione di Umberto G.B. Bardella

4 - Il turismo che crea povertà
di Claudia Pape
Testimonianze di culture passate, rovine di città a 3000 metri di
altitudine, rafting in torrenti selvaggi, relax in spiagge con sabbia
incontaminata e acque tropicali! Di questi e altri slogan simili potranno
presto far mostra le agenzie turistiche di tutto il mondo promuovendo nuove
aree turistiche di lusso esclusivo nel nord del Perù: Playa Hermosa a
Tumbes e Kuelap in Amazzonia. (.) Traduzione di Genoveffa Corbo

5 - Servizi finanziari, mancano ancora le regole essenziali
di Luigi Spaventa (da www.lavoce.info)
Il mercato unico dei servizi finanziari è un argomento poco sexy: non se ne
occupa, comprensibilmente, il grande pubblico; poco se ne occupano gli
economisti, se non quando sono chiamati da parti interessate a scrivere
pareri pro veritate.


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1 - Cosa cambia dopo Cancun
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di Walden Bello*

Il fallimento, domenica 14 settembre, della quinta conferenza ministeriale
dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) tenutasi a Cancun, in
Messico, rappresenta un evento di proporzioni storiche. L'esito di Cancun
presenta infatti alcune implicazioni importantissime. Innanzitutto, questo
fallimento ha rappresentato una vittoria per i popoli di tutto il mondo, e
non un'"occasione perduta" per un accordo globale tra Nord e Sud. A Doha
non è stato inaugurato alcun "ciclo dello sviluppo", e le pur trascurabili
promesse che il piano poteva riservare erano già state tradite ben prima di
Cancun. A Cancun, nessun paese in via di sviluppo, nemmeno il più
ottimista, si aspettava di strappare concessioni ai paesi ricchi
nell'interesse dello sviluppo. La maggioranza dei governi dei paesi in via
di sviluppo si è invece presentata al vertice con un atteggiamento
difensivo: la grande sfida non consisteva infatti nel forgiare uno storico
New Deal, ma nell'impedire agli Stati Uniti e all'Unione Europea di imporre
nuove pretese ai paesi in via di sviluppo sfuggendo a qualunque accordo
multilaterale sui propri regimi commerciali.
Va detto che non sono stati i paesi in via di sviluppo a provocare il
fallimento del vertice, come ha lasciato intendere il rappresentante Usa al
Wto, Robert Zoellick, nella conferenza stampa conclusiva. La responsabilità
è infatti da ascriversi completamente agli Stati Uniti e all'Europa. Quando
è stata presentata la seconda bozza del testo ministeriale, all'inizio
della giornata di sabato 13, è stato evidente che gli Usa e l'Unione
Europea non intendevano tagliare in modo significativo gli elevati sussidi
alle loro agricolture, pur continuando a richiedere con intransigenza che i
paesi in via di sviluppo abbassassero i dazi. È emersa altrettanto
chiaramente la determinazione, da parte degli Stati Uniti e dell'Unione
Europea, ad ignorare la clausola della Dichiarazione di Doha secondo cui
occorre il consenso esplicito di tutti i paesi membri per avviare negoziati
sui "temi di Singapore".
La trattativa si fa alle nostre condizioni, oppure non si fa: era questo il
significato della seconda bozza. Non c'è quindi da stupirsi che i paesi in
via di sviluppo non abbiano dato il consenso ad un negoziato contrario ai
loro interessi. In secondo luogo, il Wto ne è uscito gravemente
danneggiato. Due conferenze fallite e una che è riuscita a malapena (Doha)
non rappresentano un buon biglietto da visita per questa istituzione. Per
le superpotenze commerciali, ormai non rappresenta più un valido strumento
per imporre il loro volere agli altri, mentre per i paesi in via di
sviluppo, appartenere al Wto non significa essere protetti dagli abusi
delle economie più potenti, e ancor meno disporre di un meccanismo di
sviluppo. Ciò non significa però che il Wto sia morto e sepolto:
assisteremo senz'altro ad una serie di misure volte a rimetterlo in
carreggiata, come quelle realizzate dagli Usa e dall'Unione Europea già a
Doha. Tuttavia, è assai probabile che, in mancanza dell'impulso che sarebbe
derivato dal successo della conferenza, il meccanismo subirà un forte
rallentamento. Zoellick ha ragione di dubitare che "il ciclo di Doha" venga
completato entro la scadenza del gennaio 2005, mentre il commissario
europeo per il commercio, Pascal Lamy, ha soltanto cercato di fare buon
viso a cattivo gioco affermando che il Wto avrebbe già completato il 30%
delle misure annunciate a Doha. A parte la perdita del giusto impulso e il
deterioramento del meccanismo di base dell'organizzazione, l'aumento del
protezionismo da parte dei paesi ricchi, la prolungata stagnazione
dell'economia globale e la crisi dell'Alleanza Atlantica dovuta a
divergenze politiche non determinano un clima favorevole affinché il Wto
possa servire da meccanismo principale per la liberalizzazione e la
globalizzazione dei commerci. Il Wto potrebbe finire per subire lo stesso
destino che esso stesso contribuì ad infliggere all'Unctad (la Conferenza
delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo): sopravviverebbe, ma
risulterebbe sempre più inefficace e irrilevante. A questo punto, viene
spontaneo chiedersi: anche se ci rallegra il fallimento di una conferenza
contraria agli interessi dei paesi in via di sviluppo, è giusto festeggiare
l'indebolimento del Wto? Dopo tutto, sostengono alcuni, il Wto impegna ad
una serie di regole e rappresenta un meccanismo che, con il giusto
equilibrio delle forze in gioco, potrebbe anche essere invocato a tutela
degli interessi dei paesi in via di sviluppo.
Chi la pensa così ritiene preferibile il Wto rispetto agli accordi
commerciali bilaterali a cui, secondo quanto ha affermato il delegato
statunitense Robert Zoellick in conferenza stampa, Washington darà la
priorità dopo il fallimento della conferenza di Cancun. Di fatto, si tratta
di una falsa alternativa. Il Wto non implica una serie di regole, procedure
ed istituzioni neutrali da utilizzare a scopo difensivo per tutelare gli
interessi degli attori più deboli. Le stesse regole - tra cui le principali
sono il primato del libero commercio, il principio della nazione favorita e
il principio del trattamento nazionale - non fanno che ufficializzare
l'attuale assetto globale, basato sulle disuguaglianze economiche. Le
deboli armi a disposizione dei paesi poveri sono poche e raramente
utilizzabili. Inoltre, il principio del trattamento differenziato per i
paesi in via di sviluppo non gode di grande considerazione al Wto. Anzi, a
Cancun, gli Usa e l'Unione Europea hanno escluso dai negoziati i punti
all'ordine del giorno riguardanti il trattamento differenziato, benché
fossero previsti dalla Dichiarazione di Doha. Se ne deduce che il Wto non è
un'organizzazione davvero multilaterale, ma un meccanismo volto a
perpetuare il dominio congiunto di Usa e Ue sull'economia globale. In terzo
luogo, la società civile di tutto il mondo ha rivestito un ruolo
determinante a Cancun. Dal vertice di Seattle ad oggi, il grado di
interazione tra società civile e governi in materia di accordi commerciali
è aumentato. Le organizzazioni non governative hanno prestato assistenza ai
governi dei paesi in via di sviluppo per quanto riguarda gli aspetti
politici e tecnici dei negoziati: hanno mobilitato l'opinione pubblica
internazionale contro le posizioni retrograde dei governi dei paesi ricchi,
come nel caso dei brevetti sui farmaci e dell'assistenza sanitaria
pubblica. Ne sono nate, nei vari paesi, solide coalizioni popolari che
hanno preteso maggiori resistenze nei confronti di ulteriori concessioni ai
paesi ricchi: a Cancun, molti paesi in via di sviluppo hanno resistito alle
pressioni provenienti da Usa e Ue proprio perché temevano una risposta
politica interna da parte delle organizzazioni della società civile. Mentre
i movimenti sfilavano nel centro cittadino e le Ong manifestavano ora dopo
ora dentro e fuori la sede del summit, fin dalla sua inaugurazione, Cancun
diveniva un microcosmo delle dinamiche globali che coinvolgono gli Stati e
la società civile. Il suicidio dell'agricoltore coreano Lee Kyung Hae
davanti alle barricate della polizia ha fatto chiaramente comprendere ai
delegati che non si poteva più ignorare la causa dei piccoli agricoltori, e
questo fatto è stato riconosciuto dai governi nel minuto di silenzio
osservato in memoria dell'agricoltore scomparso. In realtà, il fallimento
del vertice di Cancun rappresenta un'ulteriore conferma dell'osservazione
del New York Times, secondo cui la società civile è la seconda superpotenza
globale.
In quarto luogo, il G21 è da considerarsi come un nuovo elemento di grande
importanza, in grado di contribuire a modificare l'equilibrio delle forze a
livello globale. Capeggiato da Brasile, India, Cina e Sudafrica, questo
nuovo Gruppo ha bloccato i tentativi europei e statunitensi di fare di
Cancun l'ennesimo triste episodio nella storia del sottosviluppo. Le sue
potenzialità sono state illustrate da Celso Amorin, il Ministro del
Commercio brasiliano che se ne è fatto portavoce, quando ha affermato che
il G21 rappresenta oltre la metà della popolazione mondiale e oltre due
terzi degli agricoltori del pianeta. E i delegati statunitensi non hanno
torto a ritenere che il G21 rappresenti una ripresa delle pressioni, già
effettuate dal Sud del mondo negli anni Settanta, per un "nuovo ordine
economico internazionale".
Tuttavia, molti elementi rientrano nella sfera della possibilità, e le
potenzialità di questa nuova formazione non devono essere sopravvalutate.
Allo stato attuale, si tratta di fatto di un'alleanza che si prefigge una
drastica riduzione dei sussidi all'agricoltura del Nord del mondo, e che
non ha ancora affrontato in modo esauriente l'aspirazione a tutele più
complete per i piccoli agricoltori che operano nei paesi più piccoli,
dediti principalmente ad una produzione che soddisfa il solo mercato
interno. Tutto questo è comprensibile, in quanto i membri di spicco del G21
sono grandi esportatori di prodotti agricoli, benché la maggioranza
annoveri anche molte produzioni familiari che servono il mercato interno.
Ciononostante, non vi è ragione di ritenere che non si possa porre al
centro del programma del G21 anche un'agenda positiva per un'agricoltura
sostenibile basata sulle piccole colture. Né vi è ragione per cui il G21
non possa proporsi di elaborare un programma comune che coinvolga anche
industria e servizi. Ancora più interessante è l'eventualità che il G21
serva da volano per una cooperazione tra i vari paesi del Sud, estesa al di
là del commercio, fino a comprendere anche un coordinamento delle politiche
sugli investimenti, sulla circolazione dei capitali, nonché sulle politiche
industriali, sociali ed ambientali. Sono proprio queste formazioni
finalizzate alla cooperazione tra i paesi del Sud del mondo, con priorità
allo sviluppo sul commercio e sui mercati, a rappresentare l'alternativa
sia al Wto, sia agli accordi bilaterali sul libero commercio attualmente
perseguiti da Usa ed Unione Europea.
Nel definire la propria agenda, il G21 troverà un alleato naturale nella
società civile. Mentre gli Usa e l'Unione Europea sono decisi a mantenere
lo status quo, compito di questa alleanza è passare dalla potenzialità alla
realtà il prima possibile. Naturalmente non sarà facile. I movimenti
progressisti si troveranno a loro agio con il governo brasiliano guidato
dal Partito dei Lavoratori, ma non altrettanto con il governo indiano,
fondamentalista e neoliberista, e con il governo cinese, autoritario e
neoliberista. Tuttavia, le alleanze vanno saggiate nella pratica, e nessun
governo va automaticamente etichettato come incapace di lasciarsi
trascinare dalla parte dello sviluppo sostenibile nell'interesse dei
popoli. In conclusione, poco dopo il vertice di Doha, diverse
organizzazioni della società civile hanno sostenuto che, per i paesi in via
di sviluppo, sarebbe stato preferibile far fallire la conferenza
successiva, quella di Cancun, piuttosto che cercare di trasformarla in un
forum per la riforma del Wto. Con l'avvicinarsi del vertice di Cancun,
l'intransigenza dei paesi più potenti ha portato le trattative con il Sud
del mondo ad una situazione di stallo su tutti i fronti. Alla vigilia di
Cancun, non si parlava ormai più di riforme. Lo scenario era ormai
chiarissimo: poiché Usa e Ue erano decisi a fare il bello e il cattivo
tempo, non raggiungere alcun accordo sarebbe stato meglio che raggiungerne
uno pessimo: un negoziato fallito sarebbe stato comunque preferibile
rispetto ad un negoziato che, seppure riuscito, non avrebbe rappresentato
altro che un ulteriore cappio al collo dei paesi in via di sviluppo.
Dopo Cancun, alla società civile di tutto il mondo si pone la sfida di
duplicare gli sforzi volti a smantellare le strutture della disuguaglianza
e di spingere a favore di accordi alternativi per la cooperazione economica
globale che siano davvero nell'interesse dei poveri, degli emarginati e dei
deboli.

*Walden Bello è docente di sociologia e amministrazione pubblica
all'Università delle Filippine e direttore generale del programma di
ricerca e azione Focus on the Global South, con sede a Bangkok.

Tratto in lingua originale da Focus on Global South (www.focusweb.org), in
italiano ripreso da Liberazione

Traduzione di Sabrina Fusari


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2 - L'ipocrita Pascal Lamy
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di George Monbiot*

L'aver costretto i paesi poveri ad abbandonare i negoziati di Cancun
potrebbe rivelarsi un boomerang per l'occidente

Se ci fosse un Premio Nobel per l'Ipocrisia, quest'anno il vincitore
sarebbe Pascal Lamy, commissario Ue per il commercio. Una settimana fa, nel
supplemento Affari di The Guardian, asseriva che l'Organizzazione Mondiale
del Commercio (Omc) "ci aiuta a passare da un mondo Hobbesiano di
illegalità diffusa verso un mondo più Kantiano - magari non proprio di pace
perpetua, ma per lo meno un mondo in cui i rapporti commerciali non sono al
di sopra della legge". Domenica scorsa, comportandosi come se le trattative
commerciali fossero, per dirla con le parole di Thomas Hobbes, "una guerra
di ogni uomo contro ogni altro uomo", Lamy ha fatto naufragare i negoziati,
e forse di conseguenza distrutto anche la stessa organizzazione . Se ciò
fosse vero, potrebbe uscirne un regime commerciale sotto il quale , secondo
le teorie di Hobbes, "la forza e la frode sono . le due virtù cardinali".
Le relazioni entro le nazioni ritornerebbero allora allo stato naturale
temuto dal filosofo, ove il comportamento scorretto e brutale dei potenti
garantisce che le vite dei poveri rimangano brevi. Ai negoziati di Cancun,
Messico, Lamy ha fatto un'offerta che le nazioni povere non potevano in
alcun modo accettare.  A quanto pare cercava di far risorgere, attraverso
un "trattato sugli investimenti", il famigerato Accordo Multilaterale sugli
Investimenti (Mai). Questa proposta avrebbe permesso alle multinazionali di
costringere i governi ad abrogare qualunque legge che limitasse la loro
capacità di generare profitti, ed era stata respinta da una rivolta
mondiale nel 1998.
In cambio della cessione della sovranità dei propri governi alle
multinazionali, le nazioni povere avrebbero ricevuto esattamente . niente.
Le concessioni sui sussidi agricoli offerte da Lamy ammontavano a poco più
che un rimescolamento dei fondi pagati agli agricoltori europei. Avrebbero
continuato a permettere ai baroni europei dei sussidi per promuovere il
dumping dei loro prodotti dai prezzi artificialmente bassi nei paesi
poveri, mandando in rovina gli agricoltori locali. E' evidente che, come
sapeva anche Hobbes, "se gli altri non sono disposti a rinunciare ai loro
diritti . allora non c'è motivo che qualcun altro rinunci ai propri; perché
farlo significherebbe porsi in una posizione di estrema vulnerabilità. Un
contratto - osservava il filosofo - è il trasferimento reciproco di
diritti" , in cui il sottoscrittore firma un patto "o in considerazione di
un qualche diritto che gli viene reciprocamente trasferito, oppure per
qualche altro vantaggio che spera di trarne".  Offrendo niente alle nazioni
povere in cambio di quasi tutto, Lamy li ha costretti ad abbandonare le
trattative. Il commissario al commercio ha adottato questa posizione perché
ritiene che i suoi doveri pubblici consistano nel difendere le
multinazionali e gli agricoltori industriali dell'Ue contro tutti gli
altri, siano essi cittadini europei o i popoli di altre nazioni. Egli
credeva che, seguendo le leggi naturali che hanno fin qui contraddistinto
la gestione dell'Omc, le parti più deboli sarebbero state costrette a
capitolare, concedendo alle multinazionali quel poco che non era già stato
rubato loro. E' rimasto su questa posizione anche quando è diventato
evidente che le nazioni povere erano, per la prima volta, disposte a
mobilitarsi - come lo stato naturale richiede loro - per una risposta
collettiva ad un'aggressione subita. Mi dilungo sull'adesione di Pascal
Lamy all'amata filosofia di Kant perché tutto ciò che egli ha fatto fin
qui, lo ha fatto nel nostro nome. I paesi europei non negoziano
direttamente con l'Omc, ma attraverso l'Ue: perciò Lamy è il nostro
negoziatore, che dovrebbe difendere i nostri interessi.  Ma è difficile
trovare un solo europeo , che non sia dipendente o debitore di qualche
grande multinazionale, che consideri la posizione di Lamy ai negoziati o
auspicabile o giusta.
Diversi governi europei, rendendosi conto che la sua posizione minacciava
il successo dei negoziati e della stessa organizzazione del commercio, se
ne sono gradatamente distanziati. Tra lo stupore generale, il Regno Unito è
tra questi. Benché Pascal Lamy non sia certamente l'unico uomo di potere in
Europa a essere ossessionato dai diritti delle multinazionali, il suo
comportamento parrebbe confermare i più luridi "racconti dell'orrore" dei
tabloid che scrivono di Eurocrati che imperversano fuori da ogni controllo.
Ma mentre quest'uomo ha inflitto danni durevoli alla reputazione globale
della Gran Bretagna, può darsi che non sia riuscito a distruggere le
speranze dei paesi più poveri.  Perché adesso qualcos'altro comincia a
risvegliarsi.  I paesi in via di sviluppo, per la prima volta in vent'anni,
cominciano a coalizzarsi e muoversi come un corpo unico.
Il fatto che questo sia la prima volta testimonia  gli effetti corrosivi
della guerra fredda, e conferma inoltre la continuata capacità delle
nazioni ricche e potenti  di corrompere, ricattare e soggiogare quelle
povere. Ogni volta che si intravedeva una possibile coalizione tra i
deboli, i forti - ed in particolare, gli Stati Uniti - sono riusciti a
dividerli ed imperare, a forza di promettere concessioni a chi abbandonava
e minacciare di sanzioni chi restava. Ma ora i ricchi sono rimasti vittime
del proprio potere. Sin dalla costituzione dell'OMC, i paesi ricchi hanno
cercato di portare dentro l'organizzazione quanti più paesi in via di
sviluppo possibil e, in modo da poter aprire i mercati dei paesi emergenti,
e costringerli a pratiche commerciali onerose.  Però così facendo, i ricchi
possono ritrovarsi  in fortissima inferiorità numerica. Può darsi che l'UE
e gli Stati Uniti si siano già pentiti di aver speso tanti sforzi per
convincere la Cina ad entrare. Ora essa e' diventata la roccia - troppo
grande per tiranneggiarla e minacciarla - attorno alla quale le nazioni
indipendenti cominciano a raggrupparsi.
Paradossalmente, è stata proprio l'assurdità delle pretese di Lamy e (in
misura minore) degli Stati Uniti a spingere le nazioni più piccole ad
aggrapparsi a questa nuova coalizione. Qualunque cosa offrissero gli Stati
Uniti sotto forma di promesse o minacce, avevano sempre troppo da perdere
qualora i paesi poveri avessero permesso che passassero le proposte del
blocco dei ricchi. E questa loro solidarietà è la loro  forza. A Cancun i
paesi deboli hanno affrontato i più potenti negoziatori della terra, e non
si sono lasciati sopraffare. La lezione che si portano a casa e' che, se e'
stato possibile questo, quasi qualunque altra cosa lo e'.  Improvvisamente
le proposte di giustizia globale,  che dipendevano dalla solidarietà per la
loro implementazione, possono prendere forma.  Mentre l'Omc può forse
considerarsi morta e sepolta, queste nazioni potrebbero, se utilizzassero
intelligentemente il loro potere collettivo, ancora trovare un punto di
partenza per negoziati congiunti.  Potrebbero perfino disseppellire l'Omc
sotto la forma di quel corpo democratico che da sempre si intendeva fosse.
La Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale faranno bene a
guardarsi le spalle ora.  Il consiglio di sicurezza dell'Onu farà sempre
più fatica a mantenere i propri poteri anomali.
Le nazioni povere, se rimangono unite, potranno cominciare a rappresentare
una minaccia collettiva per i ricchi.  Per fare questo, hanno bisogno di
forza contrattuale, cosa che possiedono sotto forma del loro indebitamento.
Insieme, devono così tanto denaro da essere i padroni di tutti i sistemi
finanziari del mondo.  Minacciando l'inadempienza collettiva, possono
cominciare a gestire il genere di potere finora gestito solamente dai
ricchi, e pretendere concessioni in cambio dell'impegno a non usare la
forza.
Quindi Pascal Lamy, il "nostro" negoziatore, ha forse, per sbaglio, creato
un mondo migliore a forza di combattere così ferocemente per crearne uno
peggiore

*Tratto da The Guardian e www.monbiot.com

Traduzione di Lorraine Buckley


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3 - Libertà di commercio e schiavismo del lavoro (l'importazione di 12.000
cinesi alle Mauritius)
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di Eric Wattez*

Nelle isole Maurizio (o Mauritius, come viene correntemente chiamato l'
arcipelago dell'oceano indiano meta di vacanzieri, NdT), 12.000 "cinesi
importate" sgobbano fino a sedici ore al giorno. Per continuare a rifornire
i giganti mondiali del tessile al prezzo più conveniente la zona franca
dell'isola fa arrivare interi charter pieni di piccole mani asiatiche.
Malleabili, a buon mercato e sistemate in condizioni spaventose.
"Pantaloni. Sempre lavoro!". Ecco il riassunto dell'esistenza di San Chu,
una cinese di 32 anni, dopo il suo arrivo all'isola  Mauritius, a fine
2001. Le restano sedici mesi da far passare, secondo il contratto stipulato
con un'azienda tessile. 16 mesi a confezionare jeans, da 60 a 80 ore alla
settimana, per ditte statunitensi (Ralph Laureen, Tommy Hilfiger...): molto
al disopra del massimo legale possibile in loco (55 ore, comprese 10 di
straordinario). Nel poco tempo libero, San Chu ammazza il tempo a
Coromandel, il quartiere industriale della capitale Port Louis. "Niente
denaro per la spiaggia", sospira. Il lungo recinto sbarra l'accesso al
dormitorio dove alloggia con un centinaio di compatriote, dove  le
discussioni si troncano alle 10 di sera. All'entrata, il vigilante farà
rispettare le condizioni del coprifuoco.
Famosa stazione turistica dell'Oceano Indiano, Mauritius nasconde un brutto
segreto: operaie "importate", come vengono chiamate, più o meno 12.000
cinesi sgobbano nella zona franca (ZFE, letteralmente "Zona Franca di
Esportazione") creata nel 1970. Un paradiso per le multinazionali
dell'abbigliamento perché le industrie appaltatrici tessili del territorio
esportano verso l'Unione Europea senza dazi né quote prefissate. E senza
dare troppa importanza alle leggi locali: nel mondo, le 3000 zone di questo
tipo censite dall'Ufficio Internazionale del Lavoro impiegano 37 milioni di
persone, spesso in condizioni paragonabili alle peggiori "sweatshops"
(lett. "fabbriche del sudore", NdT). Le piccole mani cinesi di Mauritius
(il 12% della forza-lavoro del settore tessile) non sfuggono alla regola.
Certo, con una paga che oscilla tra 200 e 300 euro al mese, guadagnano due
o tre volte in più che in patria. Ma questo è dovuto alla produttività
demenziale (sono pagate a cottimo) e agli orari impossibili, compreso il
sabato e la domenica.
"Queste ragazze sono supersfruttate" afferma un dirigente della FPU, il
sindacato più combattivo del paese. E un padrone locale: "Sono delle grandi
lavoratrici, e qualche datore di lavoro ne approfitta, ma, dopotutto, non
hanno molto di cui lamentarsi".
Non hanno da lamentarsi? In realtà, la sorte riservata a questa manodopera
della quale si può disporre a piacimento non rientra certo negli aspetti
positivi della democrazia locale né delle griffes che ne approfittano.
Abbiamo potuto constatarlo di persona, intrufolandoci in una delle
"residenze" riservati agli stranieri al centro dell'isola. Nell'entrata
alcune donne, spossate dalla giornata di lavoro, si sono addormentate
davanti a una piccola postazione telefonica. Al primo piano, niente muri
divisori: delle coperte tirate da un parete all'altra delimitano otto box,
con tre letti sovrapposti ognuno. Alla promiscuità, al pasto
inidentificabile servito nella piccola cucina al piano, si aggiunge la
paura palpabile per la nostra presenza. "Tutti abbiamo paura di voi, noi
parliamo solo con i cinesi" ripete la responsabile del dormitorio.
Al sud dell'isola, situazione analoga: cinque ragazze per camera, niente
ventilatore nonostante il calore e l'ossessionante odore di cucina. La
somma mensile versata dal padrone per il pasto si limita a 300 rupie (10
euro), le occupanti . Per garantirsi almeno l'ordinario.
L'importazione sistematica dei cinesi è iniziata nel 1992, quando
l'industria tessile mauriziana ha iniziato ad essere carente di manodopera
(la popolazione locale preferisce lavorare nel settore turistico) e perdere
il suo vantaggio competitivo: il Lesotho o la Cina, con gli stipendi più
bassi di tre o quattro volte, erano un disastro. La soluzione venne da
gruppi di Hong Kong installati alle Mauritius per sfuggire alle quote
imposte alle esportazioni cinesi. Sono loro che hanno messo in piedi questo
traffico alimentato da un vivaio interminabile .
Nelle regioni del tessile di Jiang Su, al sud della Cina, o dello Hunan,
nel centro, ci pensano i reclutatori ufficiali de PC a trovare manodopera
specializzata nel settore. Quelle che abboccano, abbagliate dalla promessa
di un salario elevato e di una vita piacevole ai tropici, firmano un
contratto di tre anni. I datori di lavoro, da parte loro, pagano agli
agenti circa 1.000 dollari a persona. Sono anche a loro carico viaggio,
vitto e alloggio delle operaie.
Le industrie locali hanno presto imparato a sfruttare direttamente il
filone, impressionati dall'operosità delle cinesi.Una visita da Summit, uno
specialista in maglie che lavora per Carrefour, H&M e Zara, è istruttiva:
con una temperatura di 30 gradi le operaie, chine sulle loro macchine da
cucire. "Vanno tre volte più veloci dei Mauriziani (?)", si entusiasma un
caposquadra. L'orario? "Può arrivare a 65 ore alla settimana", ammette.
Grazie a questa docilità, i fornitori hanno ottenuto una flessibilità che
piace a chi ordina. "Le cinesi hanno salvato le nostre industrie, senza di
loro i nostri clienti se ne sarebbero andati", afferma un rappresentante
della Redoute e di Decathlon. Un altro padroncino locale, che lavora molto
con la Francia, mette in causa più direttamente le responsabilità delle
multinazionali: "Ci impongono dei codici etici pensati per proteggere il
personale, ma, visto il prezzo che ci impongono, ditemi che cosa devo
fare!".
Ci sono voluti due drammi perché qualcuno si interessasse finalmente alle
"straniere".
Nel marzo 2002, le operaie di Novel, un gruppo di Hong Kong che fornisce i
pantaloni a Gap, sono scese in sciopero. In 48 ore due delle loro compagne
erano morte, una di polmonite e l'altra di congestione cerebrale. 800
cinesi sulle 1200 di Novel si sono ribellate, sono scese in sciopero e poi
hanno occupato per cinque giorni l'ambasciata cinese. Hanno così potuto
raccontare delle 16 ore di lavoro quotidiano, del racket del reclutamento,
che talvolta pretende 1500 dollari in cambio della promessa di lavoro.
Sotto la pressione delle autorità locali, Novel ha pagato il viaggio di
ritorno a 200 operaie che non ne potevano proprio più ed ha sostituito gli
agenti reclutatori. Nel gennaio scorso è stata la volta delle operaie di
Richfield, che producono le T-shirts Celio, Lafuma e Lotto, di occupare
l'ambasciata. Dopo l'incendio dei dormitori, dove avevano perso ogni loro
avere, e anche i risparmi, la direzione non proponeva che 3.000 rupie (100
euro) di risarcimento. Dopo  l'intervento del governo e dell'ambasciatore,
sono riuscite a raddoppiare la cifra; segno che l'isola Mauritius si sta
preoccupando della sua immagine - e dei suoi affari: Gap, spesso sotto
accusa per i rapporti con le "sweathshops", ha sospeso gli ordini a Novel.
Oggi il governo afferma di lottare contro i comportamenti scorretti: "Noi
sorvegliamo da vicino la concessione dei permessi di lavoro" assicura
Sangeet Fowdar, Ministro del Lavoro, mostrando il dossier su Aquarelle, un
fornitore di Marks & Spencer, al quale proibisce l'assunzione di una
trentina di cinesi per le cattive condizioni degli alloggiamenti. La
"Labour Unit", l'organismo incaricato delle ispezioni del lavoro, si è
impegnata per l'autunno  prossimo a visitare tutti gli alloggi dei
lavoratori importati.
Auguriamo molto coraggio a questa numerosa équipe... di trenta funzionari.

* tratto da La gazette des transnationales, 21 maggio 2003

Traduzione a cura di Umberto G.B. Bardella


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4 - Il turismo che crea povertà
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di Claudia Pape*

Testimonianze di culture passate, rovine di città a 3000 metri di
altitudine, rafting in torrenti selvaggi, relax in spiagge con sabbia
incontaminata e acque tropicali! Di questi e altri slogan simili potranno
presto far mostra le agenzie turistiche di tutto il mondo promuovendo nuove
aree turistiche di lusso esclusivo nel nord del Perù: Playa Hermosa a
Tumbes e Kuelap in Amazzonia.
Dopo la "privatizzazione" di miniere, porti, aeroporti, acqua ed energia
elettrica, restano ancora, come proprietà inalienate del popolo peruviano,
gli attraenti paesaggi turistici e i monumenti della cultura inca e dei
loro predecessori. Chi ci guadagna da queste "privatizzazioni" sono gli
interessi stranieri, ai quali viene inoltre concessa una notevole esenzione
dalle tasse. Il governo peruviano sta organizzando come prossima
"privatizzazione" la commercializzazione turistica di estese regioni del
Paese a favore di consorzi stranieri, con diritti esclusivi di utilizzo. Il
che significa espropriazione e sottrazione delle risorse vitali per circa
diecimila contadini e pescatori. Nonostante queste espropriazioni violino
la Costituzione peruviana, il governo, a spese della popolazione colpita,
appoggia legalmente le "privatizzazioni".
Playa Hermosa, vicino a Tumbes, non lontano dalla frontiera  con l'Ecuador,
fino ad ora una spiaggia di sabbia praticamente inviolata, con acque
limpide e incontaminate del Pacifico e un attraente paesaggio tropicale, è
stata dichiarata per legge "zona inviolabile" per una lunghezza di nove
chilometri e per un chilometro dentro il mare. Vale a dire che lo Stato si
riserva il potere esclusivo di disporre della zona in questione. E la
stessa sorte riguarda i 1000 ettari di proprietà privata dei vicini
coltivatori di riso e di banane, che sono costretti a vendere allo Stato le
loro proprietà, ad un valore minimo rispetto a quello reale.
Il governo ha intenzione di cedere il suo diritto esclusivo di gestione,
per un periodo di 50/60 anni, a stranieri per costruire strutture
alberghiere di lusso, con campi da tennis, da golf ecc.; insomma per il
turismo di lusso di pochi eletti. Se i contadini proprietari non accettano
di vendere i loro terreni per il prezzo offerto dal governo, verranno
espropriati senza indennizzo, anche se possiedono un documento che attesta
la loro proprietà. La proprietà privata dei contadini è difesa
dall'articolo 132 della Costituzione. L'indennizzo offerto copre al massimo
i debiti che i contadini dovettero contrarre per far fronte ai danni
causati dalle inondazioni del 1997 (il famoso "El Niño").
La "privatizzazione" impedirebbe ai pescatori l'accesso al mare. Renderebbe
impossibile non solo la pesca, ma anche l'allevamento di aragoste. Le
risorse fondamentali di molti paesini di pescatori verrebbero eliminate, le
famiglie si troverebbero di fronte al niente. "Dicono che tutti noi
beneficeremo del turismo. Ma come? Nessuno di noi parla inglese, non
abbiamo mai imparato niente se non coltivare le nostre terre" dice un
contadino indicando i suoi verdi campi di riso. "Di cosa vivranno i miei
figli, se noi lasciamo la terra?".
Le leggi che autorizzano questa "privatizzazione" sono già in vigore. Manca
solo la firma di uno straniero interessato. Il 20 giugno 2003 sono state
pubblicate a Lima le dichiarazioni del Vice Presidente della Repubblica e
Ministro del Turismo, Raùl Dìez Canseco: "entro il 20 e il 25 agosto
prossimo si realizzerà la concessione internazionale di Playa Hermosa". Ciò
significa che in questo mese (giugno 2003, NdR), o forse già nel luglio del
2003 si attuerà l'espropriazione delle terre degli agricoltori di Playa
Hermosa e che i pescatori non avranno già più accesso al mare. Inoltre,
tutte queste persone saranno cacciate dalle loro proprietà. Se qualcuno dei
contadini vuole restare, deve ottenere da queste imprese straniere una
"concessione", cioè un permesso di utilizzo, che stabilisce unilateralmente
- cioè dall'alto - il prezzo e le condizioni dello stesso. Queste legge
della "privatizzazione" rispettano la Costituzione Peruviana? Giudici di
Lima, indipendenti rispetto al governo, dicono di no. Ciò che è evidente è
che i progetti del Governo, per soddisfare la fame di guadagni di
imprenditori stranieri, violano i diritti umani. Prima della promulgazione
della legge della "privatizzazione" della Playa Hermosa, i contadini
coinvolti non sono stati informati, né i rappresentanti delle loro
associazioni sono stati ammessi alla delibera. Le lamentele e le petizioni
di annullamento della legge sono stati ignorate. Ora i rappresentanti delle
associazioni dei contadini vogliono impugnare la legge per via legale. In
prima istanza il processo non ha avuto successo; non c'è da sperare che lo
otterrà nella seconda e ultima. " Non ci opponiamo allo sviluppo del
turismo in Perù, al contrario. Ma vogliamo che il turismo serva per una
migliore qualità della vita degli abitanti della nostra regione, o per lo
meno che lo Stato ci paghi un prezzo giusto per le nostre terre. Solo così
avremo forse una possibilità, l'unica per un nuovo inizio - con tutto ciò
che questo significa per una persona di mezza età", dice Rositte Rosales
Medina, Presidente dell'associazione dei coltivatori di riso della regione.
Però forse un miracolo o un'inversione di tendenza nella politica
internazionale potrebbe obbligare il Governo di Lima a riflettere meglio. I
piani del Governo rispetto a Kuelap sono praticamente gli stessi. Kuelap è
uno dei complessi di rovine preincaiche archeologicamente più importanti
del Perù. Qui fiorì la cultura dei Chachapoyas dal secolo X fino alla
conquista per mano degli Incas nel secolo XV. Questi, dopo 70 anni di
dominio, dovettero lasciare la città ai conquistatori spagnoli. I
successori di diritto, decine di famiglia nel paese di Kuelap, sotto il
complesso archeologico, e altre centinaia di famiglie di paesi vicini alla
fortezza temono la terza "colonizzazione", questa volta per mano dei
consorzi turistici stranieri.
Fino ad ora, gli abitanti del paesino di Kuelap sono stati attenti alla
conservazione delle rovine, per rispetto degli predecessori della cultura
Chachapoya. Con questo intervento del Governo, sia le rovine stesse, che
altri resti minori dei dintorni saranno aperti - cioè "concessi" ai
promotori del turismo di lusso ed esclusivo. Il fatto che anche qui venga
ripetuto il termine "zona intangibile", non fa sperare niente di buono,
nonostante le campagne di propaganda organizzate dal Governo organizza. In
una Risoluzione Suprema del dicembre 2001, firmata dal Presidente Toledo,
il Vice Presidente Raúl Díez Canseco, già citato prima, e l'allora Ministro
dell'Economia e delle Finanze Pedro Pablo Kuczynky, Playa Hermosa e Kuelap
si menzionano nello stesso contesto, dichiarandole "aree di industria
turistica". Sembra che tutto il paesino di Kuelap, sarà dichiarato "zona
intangibile"; ma il significato di questo termine in riferimento alla
costruzione di strutture alberghiere, o all'utilizzo di queste stesse
terre, e quali sono precisamente queste terre, è "strettamente
confidenziale", anche se può sembrare incredibile. Juanita Rubio, la cui
famiglia vive da generazioni a Kuelap - praticando un'agricoltura di
sussistenza, con una modesta vendita di patate - esprime così le
inquietudini degli abitanti del villaggio: "Ogni volta abbiamo informazioni
diverse: privatizzazione sì, privatizzazione no. Dovremo abbandonare i
nostri campi, sì o no? Nessuno qui ne capisce di leggi. Come possiamo
difenderci, se non sappiamo neppure contro cosa combattere? Pretendiamo che
ci venga detto di cosa vivremo in futuro".
E' chiaro che i progetti sono più concreti di quello che il Governo
ammette. Il Governo sta ristrutturando la strada verso Kuélap, costruita
agli inizi degli anni '90 per migliorare la viabilità della zona. "Di notte
illumineremo le rovine per renderle più attraenti ai turisti", dice con
orgoglio il signor Manuel Cabañas López, funzionario del Governo Regionale
del Dipartimento dell'Amazzonia Peruviana, commentando i programmi per lo
sviluppo turistico della regione. La fornitura di corrente elettrica al
paesino di Kuélap, che si trova a soli 200 metri dalle rovine, non è stato
ancora pianificato, poiché lo Stato pensa ad allontanare la popolazione.
Già alle sei di sera, il villaggio è avvolto dall'oscurità. La preparazione
della cena, i doveri scolastici, si fa tutto a lume di candela ma forse
presto (per i paesani che resteranno dopo lo sfratto forzato, se poi
qualcuno resterà) resterà solo il chiarore delle rovine illuminate -
immagine e simbolo di ciò che veramente interessa al neoliberalismo, che
tutto governa tutto, anche nell' "era Toledo" - di Alejandro Toledo, che si
è auto-proclamato successore del leggendario Inca Pachacuti.

* Claudia Pape giornalista militante di ALASEI-Bonn, tratto da
Alai-Amlatina

Traduzione di Genoveffa Corbo


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5 - Servizi finanziari, mancano ancora le regole essenziali
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di Luigi Spaventa*

Premessa della Redazione de Il Granello: questo articolo non è di quelli
che di solito hanno ospitalità sulle pagine del Granello. Tutt'altro. Per
stavolta, abbiamo fatto un'eccezione approfittando dell'insospettabile
qualifica dell'autore (è stato fino a poco tempo fa Presidente della
Consob, la commissione che dovrebbe controllare la borsa italiana) per
porre in evidenza un fatto: finanza e regole non vanno d'accordo. I potenti
non vogliono alcuna norma (ci ricordiamo i "lacci e lacciuoli" di Carli?).
Vogliono poter fare quello che interessa in un dato momento: Opa amichevoli
o ostili, aumenti di capitale, insider trading, e chi più ne ha più ne
metta. Così vince il più grosso (qualche volta anche il più furbo, ma
raramente) e paga sempre Pantalone. L'articolo è tratto da www.lavoce.info


Il mercato unico dei servizi finanziari è un argomento poco sexy: non se ne
occupa, comprensibilmente, il grande pubblico; poco se ne occupano gli
economisti, se non quando sono chiamati da parti interessate a scrivere
pareri pro veritate.

Perché esiste un problema?
Singolarmente, il Trattato non si occupa specificamente di servizi
finanziari. Si ritenne probabilmente che bastassero le regole del mercato
unico, quasi che non vi fosse differenza con le mele o con le automobili.
Eppure le differenze sono notevoli. Al di là delle alchimie, l'industria
finanziaria offre servizi e prodotti per l'investimento del risparmio. È
perciò, ovunque e da quasi sempre, fortemente regolata, ben più di quella
delle mele o delle automobili: per ottime e ovvie ragioni, condivise in
linea di principio dalla più parte degli economisti.
Ma ogni Paese ha le sue leggi, le sue regole, le sue prassi: e ciò pone
ostacoli all'offerta transfrontaliera di prodotti e di servizi; anche
perché la specificità delle regole serve a volte a proteggere le industrie
nazionali. Donde la necessità di intervenire a livello europeo, con
legislazione comunitaria. Segue un'altra questione.

Non bastava l'euro a risolvere la questione?
La moneta unica, eliminando la differenziazione fra prodotti provocata dal
rischio di cambio, ha fatto molto: lo sviluppo notevole delle
euro-obbligazioni e la sostanziale integrazione del mercato dei titoli di
Stato ne sono prova. Ma non basta la denominazione in moneta comune a
smantellare gli ostacoli regolamentari alla offerta di prodotti o alla
provvista di servizi in paesi diversi.
La soluzione semplice non sarebbe quella del mutuo riconoscimento, con
l'obbligo di accettazione delle regole del Paese d'origine? È, da sempre,
la tesi della City di Londra, contraria (per motivi non solo filosofici) a
un'armonizzazione delle regole con legislazione comunitaria: sarà il
mercato a scegliere la giurisdizione che offre le regole più acconce. La
tesi della City ha qualche buon argomento: una stessa misura può non andar
bene a tutti (one size cannot fit all), anche tenendo presenti le
differenze di ambiente legale e istituzionale. Tuttavia, un'armonizzazione,
sia pure graduale e non spinta all'estremo, pare una premessa
indispensabile per il mutuo riconoscimento.

Un problema importante e uno studio da non leggere
Ma il problema è davvero così importante? Lo è, ma non certo per le ragioni
spurie usate dalla Commissione europea onde giustificare il suo pur
meritorio attivismo. Le ragioni spurie sono contenute in uno studio
intitolato "Quantificazione dell'impatto macro-economico dell'integrazione
dei mercati finanziari dell'Unione" commissionato a un istituto chiamato
London Economics: si consiglia all'economista di non leggerlo; in
alternativa, di leggerlo per manifestare salutare indignazione sul merito e
sul metodo. Mettendo nel cestino le variazioni a breve termine sul tema
Finanza & Sviluppo, ci si fermi alla ragione valida: una maggiore
concorrenza nell'industria finanziaria, con auspicabili benefici per i
consumatori.
A che punto siamo? Quattro anni fa la Commissione presentò un ambizioso
Piano d'azione dei servizi finanziari (Fsap), con una lista delle misure da
adottare. Sorprendentemente l'attuazione di quel piano è a buon punto
(anche se non sempre lo è il recepimento delle direttive nelle legislazioni
nazionali) con un'accelerazione nell'ultimo anno. Delle quarantadue misure
elencate, trentaquattro sono già in vigore, anche se quelle mancanti sono
le più difficili (v. oltre ). Cito fra le ultime approvate: la direttiva
(per noi importantissima) su insider trading e manipolazione; quella sugli
organismi di investimento collettivo (fondi comuni, ecc.); il regolamento
che impone l'adozione degli stessi schemi contabili internazionali (Ias)
per i bilanci consolidati (e, se si vuole, anche per i bilanci d'impresa)
delle società quotate in tutti i Paesi membri. Non è poco.

Che cosa resta da fare?
Resta da fare ancora un bel po', e con tempi incerti, perché le materie in
discussione sono terreno di scontri cruenti sia fra interessi nazionali sia
fra interessi industriali.
Cominciando dal più facile, la direttiva sui prospetti, doterebbe di un
passaporto europeo i prospetti di emissione approvati in qualsiasi Stato
membro, consentendo la raccolta di capitali anche negli altri Paesi. Le
obiezioni londinesi riguardano i prospetti per le euro-obbligazioni. Vi è
poi la direttiva sulle offerte pubbliche, che mena vita grama da almeno
quindici anni: il problema (su cui si sono molto esercitati gli economisti,
solitamente in ritardo sull'ultima versione) riguarda le tecniche di difesa
contro le offerte ostili. Il contenzioso è fra nordici - tedeschi e
scandinavi - e non ci riguarda (anche se qualche norma ci avrebbe fatto
comodo), poiché la nostra legislazione è in sostanza allineata con il City
Code inglese.

La direttiva sulla trasparenza è ancora nella sua infanzia e dovrà
aspettare il prossimo Parlamento europeo.
Il piatto forte è la direttiva sui servizi di investimento, essenziale per
consentire la concorrenza transfrontaliera fra intermediari, con
l'armonizzazione delle regole di condotta, e la concorrenza fra mercati
regolamentati e di questi con i sistemi di scambio alternativi.
L'innovazione delle tecnologie e dei prodotti ha reso obsoleta la
precedente direttiva: la nuova rappresenterebbe un progresso di grande
rilievo, anche se potrebbe innescare processi di ristrutturazione
nell'industria. L'ostacolo principale è posto ancora una volta da Londra e
riguarda il rifiuto dei grandi intermediari inglesi (si fa per dire: sono
tutti americani) di accettare l'obbligo di pre-trade transparency, ovvero
di pubblicazione di prezzi e quantità prima della negoziazione, nel caso di
transazioni "internalizzate", in cui la banca è controparte del cliente. Il
problema è di non poco conto. Se si accetta, come si deve accettare,
l'abolizione del principio di concentrazione degli scambi su un solo
mercato, ammettendo la frammentazione dei luoghi di negoziazione, diviene
difficile imporre o accertare la cosiddetta best execution dell'ordine:
tanto più importanti divengono dunque i requisiti di trasparenza nella
formazione dei prezzi onde offrire adeguati mezzi di difesa ai clienti. Nel
migliore dei casi, su questa direttiva si potrà raggiungere un accordo di
massima, con una possibile approvazione nella seconda metà del 2004: tempi
europei!

Il mercato e le istituzioni
Una legislazione adeguata è condizione necessaria, ma non sufficiente per
la costruzione del mercato unico dei servizi finanziari. I costi
dell'attuale segmentazione (in Europa una transazione transfrontaliera
costa 7-10 volte di più che una transazione sul mercato americano)
dipendono anche da classici fallimenti di mercato. Mi riferisco alla
frammentazione in monopoli locali dei servizi successivi alla negoziazione,
come clearing, settlement e custodia: la questione è stata esaminata a
fondo in due ottimi rapporti del gruppo presieduto da Alberto Giovannini.
Vi sono poi le istituzioni. Una prima questione riguarda il lentissimo
passo della legislazione comunitaria: si è cercato di affrontarla con la
cosiddetta procedura Lamfalussy. Un'altra questione è una sorta di mostro
di Loch Ness, che riemerge periodicamente: se sia condizione necessaria per
l'integrazione mettere su un regolatore unico europeo (a European Sec, come
dicono i proponenti). La mia risposta è che si tratta di un falso problema.
I limiti di spazio, già ampiamente superati, non mi consentono di motivare
questa perentoria affermazione.

Tratto da www.lavoce.info



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