La nonviolenza e' in cammino. 681



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 681 del 22 settembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Enrico Peyretti: sulla proposta di Lidia Menapace per un'"Europa
neutrale"
2. La newsletter della Libreria delle donne di Milano
3. Sveva Haertter: obiettori di coscienza in Israele
4. Avraham Burg: e' morta la rivoluzione sionista
5. Joseph Halevi: su due recenti interventi di Haim Hanegbi e Meron
Benvenisti
6. Riletture: Simona Forti, Il totalitarismo
7. Riletture: Alberto L'Abate, Consenso, conflitto e mutamento sociale
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER
UN'"EUROPA NEUTRALE"
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per
questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; della sua fondamentale ricerca
bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate e nonviolente, una edizione a stampa - ma il lavoro e' stato
successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla
pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios,
Trieste 2001, un'edizione aggiornata e' apparsa recentemente in questo
stesso notiziario (e contiamo di presentarne prossimamente un'edizione
nuovamente aggiornata). Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti
di Enrico Peyretti e' nel n. 477 del 15 gennaio 2003 di questo notiziario]
Europa neutrale e' il tema posto da Lidia Menapace e dalla Convenzione
permanente di donne contro le guerre.
Non e' possibile intendere questa idea come atteggiamento disinteressato,
avalutativo e astensionista rispetto ai conflitti nel mondo intero. Chi sta
equidistante tra vittima e carnefice non e' neutrale, ma complice del
carnefice. Distogliere l'occhio da una rissa non e' buona neutralita'.
Scrive Lidia Menapace ("La nonviolenza e' in cammino", n. 671, 11 settembre
2003): "Essere neutrali significa invece prendere posizione e agire nelle
varie situazioni in tutti i modi tranne che con le armi", ed esemplificava
chiaramente.
Percio' e' opportuno esplicitare, anche nella formula, che si vuole una
neutralita' attiva e pacifica, solidale, nonviolenta-positiva: Europa
neutrale, attiva per la pace coi mezzi della pace.
Come si puo' cercare questo obiettivo?
*
Certamente, la politica e' trattativa, mediazione e compromesso. Non e'
imporre i propri principi e persuasioni, fossero anche le piu' giuste e
disinteressate, altrimenti e' totalitaria: una parte si fa tutto e schiaccia
il "tutto" di quella polis.
Ma la politica e' anche verita': i diritti e doveri di tutti verso tutti; la
dignita' imprescrittibile di ogni persona, anche di chi la smarrisce per
se'; la condanna di ogni violenza, anche della nostra e dei nostri amici o
alleati. Si tratta della verita' umana, non di una verita' filosofica o
religiosa, persuasione di alcuni, non di tutti; non di una verita' teorica,
che convince alcuni, non tutti. Si tratta del fatto che la politica,
organizzazione del vivere in molti su un territorio, ormai sull'intero
pianeta umano, esige che si realizzi un vivere insieme, un con-vivere,
dunque che il vivere di uno non uccida alcun altro, non opprima ne' derubi
alcuno.
La ragione e' questa: il diritto che ciascuno sente in se' e' da lui stesso
negato anche per se', se non lo riconosce nel proprio simile, pur se
sconosciuto, pur se avversario.
Diseguaglianza e oppressione sono l'abolizione della politica.
Non c'e' una politica violenta: se c'e' la violenza e' soppressa la politica
(come dimostra Hannah Arendt).
Contrariamente al concetto di Carl Schmitt, c'e' politica non dove c'e'
l'opposizione totale amico-nemico - sicche' citta', polis, sarebbe il
cerchio degli unificati, resi amici (?!), dall'assedio del nemico esterno -
ma dove piu' uomini e donne costruiscono una casa comune.
Oggi e' il mondo l'unica casa comune, messa in pericolo, che sta o cade
tutta insieme. Oggi, se mai c'e' stato, non c'e' piu' un vero
interno-esterno: se sei nemico del tuo nemico sei nemico anche del tuo
amico, anzi di te stesso. Vale l'immagine dell'unica barca: nemico e' il
pericolo, alleati tutti gli imbarcati.
*
E' ben vero che nella varieta' sociale ci sono differenze e anche conflitti.
La politica e' l'arte della tessitura, non e' la semplificazione gordiana.
La trasformazione nonviolenta e costruttiva dei conflitti e' la
caratteristica di un'azione politica che difenda e promuova la vita.
La politica, di fatto, e' stata ed e' abuso di potere. Ma il potere e' dato
per costruire convivenza: e' "potere-di", che dovra' essere di tutti, e non
"potere-su", di alcuni su altri. La nonviolenza positiva e attiva realizza
la politica, perche' e' la scienza, l'arte, l'esperienza della conduzione
vitale, e non mortale, dei conflitti.
Questa e' una verita' politica, non metafisica. Infatti, senza questa
verita', non c'e' piu' politica (citta' umana, polis), ma selva pre-civile,
vita sub-umana, selvatica, tutti nemici di tutti, con una violenza crescente
fino al suicidio collettivo.
La politica, arte umana nata per organizzare la vita comune, per tutti,
costruisce morte universale se non comprende la novita' epocale, che ha
mutato le condizioni assolutamente basilari.
Il lampo di Hiroshima ha rivelato definitivamente che la violenza interumana
(bellica, ma anche economica, sociale, giuridica) ha alzato la sua
distruttivita' al punto che non difende piu' assolutamente nessuno e
minaccia ugualmente tutti: esattamente tanto chi la usa quanto il "nemico"
contro cui e' usata. La "razionalita'" cruenta della guerra e' finita, si e'
rovesciata in auto-guerra, auto-distruzione.
L'incubo del kamikaze grava su tutto il mondo perche' la guerra e' essa
stessa quel kamikaze che dice di combattere, non ne e' l'opposto, ma il
gemello, nati insieme dall'ingiustizia, la guerra per difenderla, il
kamikaze per aggredirla con altra ingiustizia. La guerra si illude di
scacciare la morte abbracciandola e cavalcandola, come fa l'uomo-bomba. La
forza di Sansone uccide lui come i filistei. Una enorme pazzia siede oggi
sui troni.
*
Fino a ieri, la violenza era quantitativamente limitata, e cosi' poteva
orrendamente "servire" a tutelare la vita di una parte contro l'altra: "mors
tua vita mea", era gia' una negazione morale della vita e dei valori, ma
pareva una sua affermazione fisica. La glorificazione del guerriero in nome
di valori umani era sostanzialmente falsa, ma sembrava vera e giusta. Oggi,
la sorte umana e' diventata unica, indivisibile. Il mondo e' un'unica polis,
ed e' costretto, pena la morte generale, ad organizzarsi come unica polis,
sebbene articolata in ricche varieta'.
Il lampo di Hiroshima ha rivelato (apocalissi significa rivelazione) che la
morte inflitta non e' divisibile, non si stacca dalla mano omicida; ha
rivelato che uccidere e' uccidersi, non solo moralmente, come e' sempre
stato, ma fisicamente, come ora e' possibile, e gia' sta avvenendo. Solo per
fortuna, o per divina provvidenza, non e' gia' avvenuto del tutto.
Non solo la guerra atomica, ma tutte le precedenti guerre sono rivelate
nella loro essenza dalla luce fulminante di Hiroshima. Ieri gli antenati
potevano non vedere cio' che noi vediamo, e solo gli illuminati scorgevano e
indicavano che l'arma d'un uomo contro un uomo non difende il primo ma
uccide entrambi. Oggi non abbiamo scuse ne' attenuanti, se restiamo nella
paralisi mentale del pensiero della guerra salvifica. Oggi tolemaici e
copernicani si distinguono su questa questione.
Mi sembra di sprecare tempo nel richiamare queste cose, che le piu' luminose
voci e testimoni della pace hanno detto e vissuto specialmente dal 6 agosto
1945 (la vera data che ha cambiato tutto; l'11 settembre, per chi sa vedere,
non ha fatto che confermare).
I popoli sanno queste cose, ma confusamente e spesso contraddittoriamente. I
decisori politici non dimostrano di averle capite. Non ci sono chiari
interlocutori di pace, nella classe politica.
Ma non e' tempo sprecato: queste sono verita' da dire e da ripetere per
poter pensare l'Europa che nasce, nel suo porsi di fronte a guerra e pace,
armi e civilta', violenza e umanita'. Nulla e' piu' importante, nessuna
moneta, nessun commercio, nessuna regola.
*
Tra verita' e compromesso, si muove la politica.
La verita' umana piu' elementare e decisiva non puo' tradursi tutta in
decisioni politiche, perche' la societa' e' composita e pluralista, anche
divisa e lacerata, e vi allignano anche pensieri ciechi e suicidi, mentre la
politica deve gestire queste opposizioni. Percio' la politica e' mediazione.
Percio', per affermare la verita' umana, e' necessario cercare consensi con
la persuasione, guadagnare la forza del numero e non solo quella della
ragione.
Eppure, la verita' umana (dignita' inviolabile di ognuno) e la verita' della
cose (diffusa violazione di tale dignita') sono piu' importanti del
compromesso e della mediazione, non per scavalcarli, ma per valutarli. Un
compromesso politico senza sufficiente verita', che rinunci a troppa
verita', non e' arte ne' saggezza politica, non organizza ma danneggia la
vita dell'umanita'.
Gradualita' positiva puo' essere la regola. Il senso piu' usato della parola
suona: andare piano, rallentare, o meglio fermarsi. Serve a mantenere lo
stato esistente e i suoi ritardi. Il senso umano di gradualita', invece, e'
il procedere passo dopo passo (gradus, passo, gradino). Siamo nel tempo e
non sopra, camminiamo e non voliamo, non ci e' lecito forzare i processi
vitali, che sarebbe stroncarli. Il compromesso accettabile e' nei passi,
anche parziali, ma nella direzione della verita' umana, e non nell'appoggio
all'impero della diseguaglianza violenta e del dominio.
*
Come sta camminando l'Europa?
Davanti alla illegalissima guerra preventiva degli Usa all'Iraq, si e'
divisa. Meno male! Questa divisione (certo, non tutta soltanto per motivi
nobilissimi) fa meno male che non il caso in cui tutta l'Europa fosse stata
unita con i governi - non i popoli! - di Gran Bretagna, Spagna e Italia.
Quando il compromesso viola l'elementare verita', va rifiutato. Il costo
della divisione e' doverosamente preferibile ai vantaggi della complicita'.
Poi va cercata di nuovo la collaborazione, ma nella direzione giusta e nel
giudizio chiaro.
Quando la coscienza di una persona o di un popolo obietta contro una
decisione che si pretende "politica", e' questo rifiuto, e non il
compromesso, che costituisce un passo avanti nella gradualita' positiva.
Rifiutare la violazione di umanita', non e' una negazione, se non in
apparenza, ma una affermazione di umanita'; e' un atto politico positivo,
perche' non e' fatto per se', ma per tutti.
La poderosa obiezione popolare alla guerra Usa-Iraq e all'illegalita'
imperiale, in tutto il mondo, e' creazione politica che l'Europa non puo'
perdere. E se la perde, noi obiettiamo all'Europa, dentro l'Europa, per
l'Europa migliore contro l'Europa di fatto.
Quella obiezione popolare e' il ripudio della guerra, che noi vogliamo
scritto nella nascente Costituzione europea, perche' sia un vincolo e un
dovere, ma soprattutto una via di liberta.
Certo, l'art. 11, gloria della Costituzione italiana, e' stato violato anche
dai partiti di centro-sinistra, nel 1999, e lo devono confessare pentiti.
L'attuale governo lo cancellerebbe volentieri, e l'avrebbe pia' apertamente
violato (lo ha fatto alla chetichella), nella brama di servire l'Impero, se
il popolo pacifico delle bandiere e delle strade non glielo avesse impedito
con la forza nonviolenta della ragione umana.
*
Da quella verita' umana e politica, discendono le linee di un cammino
giusto, anche se graduale, dell'Europa.
1. La politica estera e commerciale, prima che unitaria e compatta, con la
tentazione di un'Europa-potenza, Europa-fortezza, deve essere giusta,
planetaria, dettata dall'eguaglianza di diritti e dignita' di tutti popoli e
le culture, deve procedere a rinunciare ai propri privilegi offensivi,
violenti e causa di violenza (a Cancun l'Europa non si e' disposta a
questo), deve privilegiare i popoli sfavoriti pagando il conto delle proprie
violenze storiche, non puo' accettare accordi conservatori del privilegio
violento.Una tale conversione storica richiede sia urgenza, sia pazienza. Il
compromesso giusto sta nei passi parziali, ma ben orientati.
2. Nella politica di pace, la verita' e' nelle istituzioni e nel diritto
internazionale di pace, vigente e obbligante, nato nel 1945-'48, momento di
rinsavimento seguito al crimine della guerra mondiale: l'Onu rispettata,
realizzata, democratizzata con l'abolizione del diritto di veto, difesa
contro l'illegalita' imperiale; i diritti umani realizzati tutti per tutti.
Il compromesso accettabile e' nei passi, anche parziali, in questa chiara
direzione, e dunque nell'affrontamento civile e culturale dell'impero
monopolare della diseguaglianza, dell'illegalita' e del dominio.
3. Nella politica di difesa, la verita' e' che la tutela dei giusti diritti,
non dei privilegi (la cui difesa e' offesa), puo' e deve ormai avvenire
senza la violenza delle armi, ma con la capacita' propria dei popoli, se ne
diventano consapevoli, di opporsi, resistere e frustrare coraggiosamente la
violenza, interna o esterna, senza riprodurla, ma con la sola superiore
forza popolare nonviolenta. Tanti sono i casi storici (vedi
http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_1616.html) che dimostrano
questa capacita', non utopistica ma reale, sebbene improvvisata finora senza
quella preparazione, addestramento, organizzazione (prescritta dalla legge
italiana 230/1998, disobbedita da tutti i governi), che la potenzierebbe di
molto. La verita' e' che gli eserciti - che offendono, affamano, minacciano
tutti e non difendono nessuno, ne' alcuna vera ragione e diritto - devono
essere semplicemente aboliti. La forza di polizia, interna e internazionale,
ha un senso e un'etica opposta all'esercito: deve ridurre la violenza, col
minimo uso di forza materiale, e non massimizzarla, come esige ogni guerra.
*
Cominci in questa competizione di civilta' il paese piu' saggio, con
l'abolire il proprio esercito, anticipando gli altri invece di attenderli, e
cosi' riducendo il pericolo generale. Questa e' la verita' umana, storica,
per rendere possibile il  futuro della specie umana. E' necessaria la difesa
non solo dall'uso ma dall'esistenza stessa degli eserciti, ormai privi di
ogni onore, posti ormai come mine anti-umanita' sul nostro comune cammino,
dato che la guerra degli eserciti e' piu' che mai contro i civili.
Ma questa convinzione e' di pochi, anche tra i democratici, che ammettono
ancora l'esercito omicida come strumento possibile della politica, quasi che
la liberta' democratica assolvesse il delitto.
Ed anche nella sinistra, e' convinzione di pochi. La sinistra troppo poco ha
riflettuto e analizzato la violenza, e troppo ha ceduto, nella sua storia,
verso l'illusione tragica e stolta della violenza risolutiva.
Il movimento operaio ha respinto la suggestione violenta ed ha lottato con
mezzi nonviolenti, come lo sciopero, potenza umana della volonta' e
dell'unita' resistenti, opposta alla prepotenza economica. Ma la politica di
sinistra si e' emancipata troppo lentamente dal mito della rivoluzione
violenta, dopo avervi troppo creduto, e forse e' uscita dall'illusione del
socialismo imposto, piu' a causa del suo fallimento economico che a causa
della sua violenza disonorevole e ingiusta.
Per non dire della destra. Nella destra la violenza e' coerenza con la
volonta' di conservazione dell'esistente ingiusto, mentre nella sinistra la
violenza e' contraddizione con la volonta' di giustizia. Con la violenza la
destra si consolida, la sinistra si autodistrugge. La violenza della
sinistra gioca a favore della destra. E' una dura lezione della storia.
*
Se la convinzione del superamento storico della difesa militare e'
minoritaria, se non ha consenso democratico sufficiente, il compromesso
giusto, graduale, accettabile, e' nel transarmo.
Fino dagli anni '80, si diceva con questo termine la transizione da una
difesa offensiva (come e' in generale l'apparato militare attuale) ad una
difesa strutturalmente ed esclusivamente difensiva.
Ricordo dei pacifisti tedeschi, nei convegni fiorentini promossi da
Balducci, che chiedevano una necessaria "incapacita' strutturale di
aggressione". Allora, un esercito europeo puramente e strutturalmente
difensivo - cioe' con armi a portata limitata al nostro territorio, a
differenza dei programmi e degli apparati Nato attuali - e' un compromesso
possibile, uno stato transitorio (transarmo) verso il disarmo.
Un esercito europeo cosi' orientato sarebbe, secondo alcuni esperti, assai
meno costoso e meno dannoso dei tanti eserciti nazionali attuali.
Non e' accettabile e va disobbedita e boicottata una "difesa" europea capace
di aggredire, di colpire lontano, di avere armi nucleari, di competere in
potenza militare con gli Usa o con altri.
Quell'esercito difensivo e storicamente transitorio, giustificato dall'art.
51 della carta dell'Onu, per guadagnare legittimita' dovra' mettersi agli
ordini dell'Onu, riconosciuta come unica legittima autorita' mondiale,
responsabile della difesa globale e non parziale. Questa e' la giusta
competizione con la potenza imperiale che disprezza la legge e l'istituzione
planetaria di pace.
*
Non basta. L'Europa, per essere positivamente pacifica, dovra' finalmente
realizzare i Corpi civili di pace (proposta di Alex Langer nel Parlamento
Europeo, ancora giacente nei cassetti), come istituzione della comunita'
politica e non solo iniziativa di volontari coraggiosi pionieri, come sono
oggi.
Un'altra proposta politica, saggia e graduale, che dovrebbe venire dalla
sinistra se avesse un solido pensiero di pace, e' il dirottamento del 5%
annuo dalle spese militari al finanziamento dei Corpi civili di pace. Quale
lista o candidato alle elezioni europee vorra' qualificarsi cosi', per
meritare il voto di chi vuole una concreta politica di pace? Oggi le spese
per i mezzi pacifici si aggirano tra il millesimo e il decimillesimo delle
spese per i mezzi militari. Non e' vero che, nella distretta, si puo' solo
fare la guerra: se compro solo patate, quando mi verra' fame non potro'
mangiare pomodori.
Il problema della difesa e' culturale, anzi e' una questione di salute
mentale e di sopravvivenza fisica: quale modello di difesa? quale difesa
difende davvero? difendere che cosa? da che cosa? difendere come? chi
difende chi?
La ricerca e' aperta, ma non e' affatto al punto zero. Chiarissimo e' il
punto di partenza: l'abbandono della guerra. "E' insensato (alienum a
ratione, cioe' pazzesco) pensare che nell'era atomica la guerra possa essere
utilizzata come strumento di giustizia" (Giovanni XXIII, Pacem in terris, n.
43, 11 aprile 1963).

2. INFORMAZIONE. LA NEWSLETTER DELLA LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO
[Riceviamo e diffondiamo la newsletter n. 5 del 21 settembre 2003 della
"Libreria delle donne di Milano" (per contatti: info at libreriadelledonne.it)
a cura di Elisabetta Marano]
Segnaliamo alcuni nuovi materiali che possono essere letti nel sito della
libreria delle donne di Milano, www.libreriadelledonne.it
*
Femministe: ecco dove sono. Il nuovo femminismo
In questa nuova sezione potete trovare traccia di alcuni articoli, comparsi
prima dell'estate, a seguito dell'uscita in Francia del libro di Elisabeth
Badinter. Tra questi vogliamo segnalare l'articolo di Eugenio Scalfari che,
provocatoriamente, chiede alle giovani donne cosa se ne fanno del
femminismo. Alcune di noi hanno risposto, e chi legge puo' dire la sua,
scrivendoci una e-mail.
*
Della serie... imparare dagli uomini. Padri comboniani: "Lotta per la
dignita' dell'Africa d'Italia" di Enrico Fierro
Torna la serie "della serie". Dopo "imparare dalle donne" vogliamo mostrare
come si possa imparare anche dagli uomini. Questa e' la storia di padre
Giorgio, che a Castelvolturno lotta a fianco delle donne africane costrette
a prostituirsi. Tutto cio' senza alcun paternalismo.
*
Stanza: movimento di movimenti. Il "commercio giusto" del controvertice
Ecco l'ennesimo smascheramento del WTO: a chi vuole "portare soccorso"
questo organismo? di chi fa veramente gli interessi? Le considerazioni di
Rigoberta Menchu e Vandana Shiva.
*
In libreria
Dalla vetrina del "Cosa c'e' di nuovo" segnaliamo: Guida all'impero per la
gente comune, di Arundhati Roy.
*
Catalogo
E' stato aggiornato il catalogo dei libri in vendita. E' possibile ordinarli
con una e-mail e riceverli via posta.
*
Per informazioni e contatti
Libreria delle donne di Milano, via Pietro Calvi 29 Milano, tel. 0270006265,
e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito: www.libreriadelledonne.it

3. VOCI DI PACE. SVEVA HAERTTER: OBIETTORI DI COSCIENZA IN ISRAELE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2003. Sveva Haertter,
fortemente impegnata per la pace, la giustizia e il dialogo, fa parte della
rete "Ebrei contro l'occupazione"]
Alcuni piloti della riserva dell'aviazione israeliana stanno progettando di
annunciare pubblicamente il rifiuto di partecipare ad operazioni per
l'uccisione di ricercati palestinesi.
E' quanto ha affermato ieri il sito Internet del quotidiano "Haaretz",
citando esponenti dei refuseniks. La difficilissima discussione e' in corso
da mesi. Pare che l'idea di aderire ad uno dei gruppi esistenti (ad esempio
"Omez Le Sarev" - Il coraggio di rifiutare - creato 18 mesi fa da 50
riservisti firmatari di una lettera che ormai ha raccolto oltre 600
adesioni) sia stata per ora abbandonata, preferendo creare un gruppo a se'.
Ora i promotori stanno raccogliendo firme, e attendono "il momento buono"
per rendere pubblica la presa di posizione.
I gruppi di militari isreaeliani legati al rifiuto ritengono che un simile
gesto potrebbe scuotere l'opinione pubblica piu' di quanto abbia fatto ad
oggi il rifiuto "ordinario". E' infatti un fatto dirompente, se si considera
la responsabilita' nella rottura iniziale della tregua delle esecuzioni
mirate volute a tutti i costi da Sharon e il peso di questa "strategia"
nella tensione dentro i territori occupati, al punto che perfino il
segretario di stato Usa Colin Powell in questi giorni ripete al governo
israeliano che l'amministrazione Usa condanna il terrorismo palestinese ma
non e' d'accordo con gli omicidi selettivi di leader palestinesi.
Gia' nella guerra del Libano si erano verificati episodi di piloti che
rifiutavano di bombardare particolari obiettivi ed e' noto il caso di almeno
un pilota che nel corso della seconda Intifada si e' rifiutato di colpire un
edificio per la presenza di civili, ma una dichiarazione di un gruppo
organizzato di piloti e' una novita' straordinaria, capace di riavviare il
dibattito sull'occupazione dei territori palestinesi e sull'operato
dell'esercito israeliano.
"E' uno sviluppo interessante perche' la nostra aviazione non solo ha le
armi piu' micidiali, ma e' anche la parte piu' elitaria, piu' disciplinata
dell'esercito - ci dice Peretz Kidron di "Yesh Gvul" (C'e' un limite) -.
Significherebbe che la nostra iniziativa, il dibattito sul rifiuto, ha
smosso davvero qualcosa nelle forze armate. Il rifiuto militare selettivo
limitato a specifiche azioni, anche se non riferito al servizio nei
territori occupati, e' un segnale chiaro: queste persone denunciano qual e'
il limite che non intendono oltrepassare, la loro personale linea rossa".
*
Solo giovedi' e' ripreso il processo ai giovani che rifiutano di servire
nell'esercito di occupazione.
Il pubblico ministero, capitano Yaron Kosteliz, interrogando Haggai Matar e
Matan Kaminer, ha premesso che "coscienza" e' solo una bella parola da usare
come pretesto per fare quello che si vuole.
"Vedo azioni inumane compiute dall'esercito israeliano. Dato che questi sono
atti immorali e a mio avviso illegali, in base alla mia coscienza, nelle
attuali condizioni rifiuto di far parte dell'esercito" ha detto Haggai.
Quando il pubblico ministero ha affermato che cio' che Haggai aveva definito
illegale era stato legale per l'Alta corte di giustizia, il giovane ha fatto
notare che alcune delle decisioni prese dalla Corte sono considerate
illegali dalle leggi internazionali. Al tentativo di dimostrare che il suo
rifiuto e' una scelta politica e non di coscienza, Haggai ha replicato che
e' impossibile separare le due cose: "La coscienza non e' la piattaforma di
un partito politico... - ha risposto - Cio' che la coscienza impone e' molto
chiaro se si tratta di rifiutare determinate cose, lo e' invece di meno
quando si tratta dell'obbligo di compiere determinate azioni".
Matan Kaminer cosi' ha risposto alle domande del giudice: "Solo condizioni
estreme renderebbero legittimo l'uso della violenza e tali condizioni
estreme al momento non sono date. Se lasciassimo completamente i territori
occupati, permettessimo la costituzione di uno stato palestinese
indipendente in grado di vivere e se vivessimo in pace ed uguaglianza
accanto a esso collaborando a livello economico e culturale, la situazione
in questa regione sarebbe drasticamente diversa. Non ci sarebbero attentati
suicidi - ha continuato -, ne' violenza da parte di palestinesi contro
cittadini israeliani. La leva obbligatoria sarebbe irrilevante. A quel
punto, se fosse comunque necessario un esercito, sarei disposto a farne
parte". Ha poi spiegato che le sue ragioni per l'obiezione di coscienza si
basano su una concezione umanistica e democratica e sono quindi molto
diverse da quelle fondate su motivazioni religiose. "Io amo questo paese e
la gente che ci vive - ha concluso - voglio restarci e cambiarlo perche'
diventi un posto migliore in cui vivere. Il mio rifiuto fa parte di questo
cambiamento".
Alla domanda sull'obbligo di obbedire alle leggi di uno stato democratico,
sia Haggai che Matan hanno risposto che Israele "e' uno stato che esercita
il proprio dominio su 3,5 milioni di persone prive del diritto al voto, non
puo' affermare che le proprie decisioni sono prese in modo democratico. Il
Sud Africa dell'apartheid non era uno stato democratico".
Nella prossima udienza, il 20 ottobre, verranno sentiti Shimri Tzameret,
Adam Maor e Noam Bahat.
*
Oltre a loro ed a Yoni Ben-Artzi sono in carcere Salman Salame, obiettore di
coscienza druso in attesa di essere convocato dalla corte marziale, i
riservisti Asaf Albertstein, Asaf Berewald e Nathanel Elzas, che per il
rifiuto di servire nei territori occupati sono stati condannati
rispettivamente a 21, 21 e 28 giorni di carcere militare.
E adesso stanno per arrivare anche i piloti dell'aviazione.

4. RIFLESSIONE. AVRAHAM BURG: E' MORTA LA RIVOLUZIONE SIONISTA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 settembre 2003, che a sua volta lo
riprende dalla rivista elettronica "Z-net". Avraham Burg e' deputato del
Partito laburista israeliano, ex presidente della Knesset (1999-2003), ex
presidente dell'Agenzia ebraica. Abbiamo esitato a riprodurre il testo di
Avraham Burg, poiche' esso e' di una cosi' estrema espressionistica crudezza
che una sua lettura non avvertita potrebbe dar luogo a dei fraintendimenti
anche profondi; inoltre sia sulla presentazione del sionismo (come ideologia
e proposta politica e come movimento storico) come su quella della storia
dello stato di Israele date in queste righe naturalmente molto si potrebbe
discutere, e discutere ci sembra necessario per evitare semplificazioni e
forzature mitologiche e propagandistiche in un senso o nel suo opposto,
cogliendo invece la complessita' e fin la contradittorieta' della realta';
non avendo qui lo spazio per gli approfondimenti necessari, e tuttavia
ritenendo necessario indicare l'opportunita' di letture utili per la
contestualizzazione e la piu' adeguata conoscenza (e la comprensione e la
conoscenza sono elementi fondamentali per opporsi ad ogni razzismo e ad ogni
ideologia e pratica della violenza, a tutte le uccisioni ed a tutte le
denegazioni di dignita' umana), ci limitiamo a segnalare qualche minimo
riferimento bibliografico (con l'illusione, certo, che i lettori di queste
righe vogliano impegnarsi in piu' ampie letture), scegliendo tra i testi e
gli autori piu' conosciuti e accessibili, e naturalmente indicando quelli
che alla nostra riflessione sono stati tra i piu' giovevoli. Un assai utile
libro, come e' noto, e' quello di Benny Morris, Vittime, Rizzoli, Milano
2001, 2003; due autori che hanno scritto cose a nostro parere importanti ed
acute sono Uri Avnery e Edward Said; un'ottima rivista italiana che ha
pubblicato alcuni saggi rilevanti e' "Keshet. Vita e cultura ebraica"; una
casa editrice che ha pubblicato diversi libri che occorre aver letto per
aver nozione almeno di parte del retroterra storico e culturale di cio' di
cui stiamo parlando e' la Giuntina di Firenze; sono disponibili in italiano
molti libri di scrittori israeliani impegnati anche nel movimento per la
pace (e citiamo en passant il libriccino di Abraham Yehoshua, Ebreo,
israeliano, sionista: concetti da precisare, edito da e/o - e' un saggio
estratto da una piu' ampia raccolta edita dalla Giuntina), ed ancora pochi
libri di autori palestinesi (perlopiu' antologie) ma alcuni sono veri
gioielli; un grande intellettuale americano, Noam Chomsky, ha scritto molto
sul conflitto israelo-palestinese, sovente con grande acutezza, sempre con
grande passione civile, non sempre con sufficiente approfondimento (deriva
dalla generosita' del Chomsky pubblicista questo suo esser sempre
disponibile ad intervenire, e talvolta con ridondanza, e talvolta con
eccessiva unilateralita'); ci pare assai utile anche il piccolo ma prezioso
libro di Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano
2003. Sulle ideologie del nazionalismo arabo - un argomento che a nostro
avviso mantiene una importanza notevole, anche se oggi offuscato nella
percezione e nella memoria collettiva occidentale dall'emergere del ruolo
politico del fondamentalismo religioso islamico - sono a nostro avviso
ancora utili introduttivamente alcuni vecchi libri come l'antologia a cura
di Anouar Abdel-Malek, Il pensiero politico arabo, Editori Riuniti, Roma
1973 (utile anche per cogliere quale fosse la ricezione all'epoca nella
sinistra italiana). Per un accostamento alla problematica dei
fondamentalismi religiosi cfr. per un avvio Enzo Pace, Renzo Guolo, I
fondamentalismi, Laterza; e per un avvio all'analisi del tema terribile del
fenomeno sacrificale cfr. Cristiano Grottanelli, Il sacrificio, sempre
presso Laterza, ma ovviamente un riferimento fondamentale e' la grande
riflessione di Rene' Girard. Sulla decisiva questione del rapporto all'altro
naturalmente occorre leggere i capolavori filosofici di Emmanuel Levinas.
Sul principio del dialogo ha scritto pagine fondamentali Martin Buber.
Infine due libri che ogni europeo dovrebbe leggere anche (ma naturalmente
non solo) per accostarsi a una riflessione sul sionismo e sullo stato di
Israele: Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi; e Tom
Segev, Il settimo milione, Mondadori]
Il sionismo e' morto, e i suoi aggressori sono seduti sulle poltrone del
governo a Gerusalemme. Non perdono un'occasione per far scomparire tutto
cio' che c'era di bello nella rinascita nazionale. La rivoluzione sionista
poggiava su due pilastri: la sete di giustizia e una leadership sottomessa
alla morale civica. L'una e l'altra sono scomparse. La nazione israeliana
ormai non e' altro che un ammasso informe di corruzione, oppressione e
ingiustizia. La fine dell'avventura sionista e' vicina. Si', e' ormai
probabile che la nostra generazione sia l'ultima del sionismo. Quello che
restera' dopo sara' uno stato ebraico irriconoscibile e detestabile. Chi di
noi vorra' essere patriota di tale stato? L'opposizione e' scomparsa, la
coalizione resta muta, Ariel Sharon si e' trincerato dietro un muro di
silenzio. Questa societa' di instancabili chiacchieroni e' diventata afona.
Semplicemente non c'e' piu' nulla da dire: i nostri fallimenti sono
evidenti.
Certo, abbiamo resuscitato la lingua ebraica, il nostro teatro e'
eccellente, la nostra moneta abbastanza stabile, nel nostro popolo ci sono
talenti stupefacenti e siamo quotati al Nasdaq. Ma e' per questo che abbiamo
creato uno stato? No, non e' per inventare armi sofisticate, strumenti di
irrigazione efficacissimi, programmi di sicurezza informatica o missili
antimissile che il popolo ebraico e' sopravvissuto. La nostra vocazione e'
diventare un modello, la "luce delle nazioni", e abbiamo fallito.
La realta', dopo duemila anni di lotte per la sopravvivenza, e' uno stato
che sviluppa delle colonie guidato da una cricca di corrotti incuranti della
morale civica e della legge. Ma uno stato amministrato nel disprezzo della
giustizia perde la sua forza di sopravvivenza. Chiedete ai vostri figli se
sono sicuri di essere ancora in vita fra venticinque anni. Le risposte piu'
lungimiranti rischiano di scioccarvi, perche' il conto alla rovescia della
societa' israeliana e' gia' cominciato.
*
Non c'e' nulla di piu' affascinante che essere sionista a Beth El o Ofra. Il
paesaggio biblico e' incantevole. Dalla finestra ornata di gerani e
bougainville, non si vede l'occupazione. Sulla nuova strada che costeggia
Gerusalemme da nord a sud, ad appena un chilometro dagli sbarramenti, si
circola velocemente e senza problemi. Chi si preoccupa di cio' che subiscono
gli arabi umiliati e disprezzati, obbligati a trascinarsi per ore su strade
dissestate e continuamente interrotte da check point? Una strada per
l'occupante, una strada per l'occupato. Per il sionista, il tempo e' rapido,
efficiente, moderno. Per l'arabo "primitivo", manodopera senza permesso in
Israele, il tempo e' di una lentezza esasperante.
Ma cosi' non puo' durare. Anche se gli arabi piegassero la testa e
ingoiassero la loro umiliazione, verra' un momento in cui nulla funzionera'
piu'. Ogni edificio costruito sull'insensibilita' alla sofferenza altrui e'
destinato a crollare fragorosamente. Attenti a voi! State ballando su un
tetto che poggia su fondamenta barcollanti!
Poiche' siamo indifferenti alla sofferenza delle donne arabe bloccate ai
check point, non percepiamo piu' i lamenti delle donne picchiate dietro la
porta dei nostri vicini, ne' quelli delle ragazze madri che lottano per la
propria dignita'. Abbiamo smesso di contare i cadaveri delle donne
assassinate dal loro marito. Indifferenti alla sorte dei bambini
palestinesi, come ci possiamo sorprendere quando, con un ghigno di odio
sulla bocca, si fanno saltare per aria come martiri di Allah nei luoghi del
nostro svago perche' la loro vita e' un tormento; nei nostri centri
commerciali perche' non hanno neanche la speranze di fare, come noi, degli
acquisti? Fanno scorrere il sangue nei nostri ristoranti per farci passare
l'appetito. A casa loro, figli e genitori soffrono la fame e l'umiliazione.
Anche se uccidessimo mille terroristi al giorno, non cambierebbe nulla. I
loro leader e i loro istigatori sono generati dall'odio, dalla collera e
dalle misure insensate prese dalle nostre istituzioni moralmente corrotte.
Fintanto che un Israele arrogante, terrorizzato e insensibile a se stesso e
agli altri si trovera' di fronte una Palestina umiliata e disperata, non
potremo andare avanti. Se tutto cio' fosse inevitabile e frutto dei disegni
di una forza soprannaturale, anche io starei zitto. Ma c'e' un'altra
opzione. Ed e' per questo che bisogna urlare.
*
Ecco quello che il primo ministro deve dire al popolo: il tempo delle
illusioni e' finito. Non possiamo piu' rimandare le decisioni. Si', amiamo
il paese dei nostri antenati nella sua totalita'. Si', ci piacerebbe viverci
da soli. Ma cosi' non funziona, anche gli arabi hanno i loro sogni e le loro
esigenze. Tra il Giordano e il mare, gli ebrei non sono piu' maggioranza.
Conservare tutto gratuitamente, senza pagarne il prezzo, miei cari
concittadini, e' impossibile.
E' impossibile che la maggioranza palestinese sia sottomessa al pugno di
ferro dei militari israeliani. E' impossibile credere che siamo la sola
democrazia del Medioriente, perche' non lo siamo. Senza l'uguaglianza
completa degli arabi, non c'e' democrazia. Conservare i territori e una
maggioranza di ebrei solo nello stato ebraico, ripettando i valori
dell'umanesimo e della morale ebraica, rappresenta un'equazione insolubile.
Volete la totalita' del territorio del Grande Israele? Perfetto. Avete
rinunciato alla democrazia. Realizzeremo allora un sistema efficace di
segregazione etnica, di campi di internamento, di citta'-carceri: il ghetto
Kalkilya e il gulag Jenin.
Volete una maggioranza ebraica? O ammasseremo tutti gli arabi in vagoni di
treno, in autobus, su cammelli o asini per espellerli. Oppure dobbiamo
separarci da loro in modo radicale. Non ci sono mezzi termini. Cio' implica
lo smantellamento di tutti - dico bene: tutti - gli insediamenti e la
determinazione di una frontiera internazionale riconosciuta tra lo stato
nazionale ebraico e lo stato nazionale palestinese. La legge del ritorno
ebraica sara' applicabile soltanto all'interno dello stato nazionale
ebraico. Il diritto al ritorno arabo sara' applicabile esclusivamente
all'interno dello stato nazionale arabo.
Se e' la democrazia cio' che volete, avete due opzioni: o rinunciate al
sogno del Grande Israele nella sua totalita', alle colonie e ai loro
abitanti, oppure concedete a tutti, compresi gli arabi, la piena
cittadinanza con diritto di voto alle elezioni politiche. In quest'ultimo
caso, coloro che non volevano gli arabi nello stato palestinese vicino li
avranno alle urne, a casa propria. E loro saranno maggioranza, noi
minoranza.
Questo e' il linguaggio che deve adottare il primo ministro. Spetta a lui
presentare coraggiosamente le alternative. Bisogna scegliere tra la
discriminazione etnica praticata da ebrei e la democrazia. Tra le colonie e
la speranza per due popoli. Tra l'illusione di un muro di filo spinato, dei
check point e dei kamikaze e una frontiera internazionale accettata dalle
due parti con Gerusalemme capitale comune dei due stati.
Ma, purtroppo, non c'e' alcun primo ministro a Gerusalemme. Il cancro che
divora il corpo del sionismo ha gia' raggiunto la testa. Le metastasi fatali
sono lassu'.
*
E' accaduto in passato che Ben Gurion commettesse un errore, ma e' rimasto
comunque di una rettitudine irreprensibile. Quando Begin sbagliava, nessuno
metteva in discussione la sua buona fede. E lo stesso succedeva quando
Shamir non faceva nulla. Oggi, secondo un sondaggio recente, la maggioranza
degli israeliani non crede nella rettitudine del primo ministro, anche se
continua ad accordargli la propria fiducia sul piano politico. Detto in
altri termini, la personalita' dell'attuale primo ministro simboleggia le
due facce della nostra disgrazia: un uomo di dubbia moralita', gaudente,
incurante della legge e modello negativo di indentificazione. Il tutto
combinato con la sua brutalita' verso gli occupati, che rappresenta un
ostacolo insuperabile alla pace. Da cio' deriva una conclusione
indiscutibile: la rivoluzione sionista e' morta.
E l'opposizione? Perche' mantiene il silenzio? Forse perche' siamo in
estate? O perche' e' stanca? Perche', mi chiedo, una parte dei miei compagni
vuole un governo a ogni costo, foss'anche quello dell'identificazione con la
malattia piuttosto che della solidarieta' con le vittime della malattia? Le
forze del bene perdono la speranza, fanno le valige e ci abbandonano,
insieme al sionismo. Uno stato sciovinista e crudele in cui imperversa la
discriminazione; uno stato dove i ricchi sono all'estero e i poveri
deambulano nelle strade; uno stato in cui il potere e' corrotto e la
politica corruttrice; uno stato di poveri e di generali; uno stato di
razziatori e di coloni: questo e' in sunto il sionismo nella fase piu'
critica della propria storia.
*
L'alternativa e' una presa di posizione radicale: il bianco o il nero -
tirarsi indietro equivarrebbe a essere complici dell'abiezione. Queste sono
le componenti dell'opzione sionista autentica: una frontiera incontestata;
un piano sociale globale per guarire la societa' israeliana dalla sua
insensibilita' e dalla sua assenza di solidarieta'; la messa al bando del
personale politico corrotto oggi al potere. Non si tratta piu' di laburisti
contro il Likud, di destra contro sinistra. Al posto di tutto cio', bisogna
opporre cio' che e' permesso a cio' che e' proibito; il rispetto della legge
alla delinquenza. Non possiamo piu' accontentarci di un'alternativa politica
al governo Sharon. Ci vuole un'alternativa di speranza alla rovina del
sionismo e dei suoi valori da parte di demolitori muti, ciechi e privi di
ogni sensiblita'.

5. RIFLESSIONE. JOSEPH HALEVI: SU DUE RECENTI INTERVENTI DI HAIM HANEGBI E
MERON BENVENISTI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2003. Joseph Halevi e' un
prestigioso economista, insegna all'Universita' di Sidney in Australia e a
quella di Grenoble in Francia, e' autore di molti rilevanti saggi ed
articoli. Anche su vari punti di questo articolo, cosi' come su vari punti
di quello che lo precede, sarebbe necessario discutere; ma ancora una volta
qui manca lo spazio, bastera' averlo segnalato, ed affidarci alla capacita'
critica dei lettori che sanno che il punto di vista di questo notiziario e'
il punto di vista della scelta della nonviolenza e della nonmenzogna. Se una
opinione possiamo esprimere su un punto centrale di questo articolo, ci pare
che la prospettiva di un solo stato binazionale, che per un lungo periodo e'
stata la proposta condivisa da tanta parte della sinistra internazionale,
potrebbe forse divenire una prospettiva praticabile in un futuro non
prossimo, ma oggi quello che occorre, e con la massima urgenza, e' la fine
dell'occupazione dei territori e il riconoscimento dello stato palestinese,
un piano di aiuti e di interposizione nonviolenta che faccia cessare miseria
e stragi, che garantisca sicurezza e prospettive di crescente
democratizzazione a due popoli in due stati. Possiamo sbagliarci, ma ci pare
che questa adesso sia la priorita': due stati riconosciuti e sostenuti e
garantiti dalla comunita' internazionale; due popoli cui vanno garantiti
pienamente i diritti all'indipendenza, alla sicurezza, a una vita liberata
dagli stenti, dalle umiliazioni e dalle minacce, a una cittadinanza piena e
democratica in una terra propria. Solo con la pace, la cessazione
dell'occupazione, il riconoscimento e la difesa dell'esistenza di due stati
e due popoli, si puo' aprire la via al futuro. I tanti altri problemi che
restano aperti si potranno affrontare poi, con il dialogo e la comprensione,
con la cooperazione di due popoli liberi e sicuri e due stati indipendenti e
sovrani, con il sostegno della comunita' internazionale]
L'intervento di Avraham Burg sulla morte del sionismo, pubblicato anche dal
"Manifesto", ha avuto un effetto esplosivo sulla stampa mondiale ma la
discussione, che comprova come Israele sia arrivato al capolinea, era stata
lanciata da "Haaretz".
A fine agosto e all'inizio di questo mese il maggior quotidiano israeliano
ha pubblicato due interventi dirompenti che riabilitavano l'idea di una
soluzione binazionale: un solo unico stato per i due popoli.
Il primo articolo e' di Haim Hanegbi, che quarant'anni orsono fu tra i
fondatori del movimento trotzkista Mazpen, Il secondo scaturisce dalla
tastiera di Meron Benvenisti gia' vicesindaco di Gerusalemme sotto il Teddy
Kollek, vero ideatore dell'espansione tentacolare di questa citta'
pianificata per escludere, soffocare ed espropriare i palestinesi.
E' sintomatico che un giornale di orientamento liberale come "Haaretz" abbia
dato spazio a dei contributi che rimettono in causa la ragion d'essere dello
Stato. Non era mai successo prima. In merito alla legittimita' storica della
formazione dello Stato d'Israele la stampa isrealiana e' sempre stata di
regime. Anche i comunisti osannavano l'Urss sia per essere stata nel 1947
l'indefessa portatrice presso l'Onu del progetto di spartizione, contro la
ritirata di Washington che aveva proposto un'amministrazione (trusteeship)
gestita dall'Onu, che per aver fornito nel 1948-'49, attraverso la
Cecoslovacchia e non solo, un aiuto militare determinante al nascente Stato
d'Israele.
*
I trotzkisti di Mazpen invece si erano sempre opposti al concetto di uno
stato formalmente ebraico, per cui, scrive Hanegbi, "quando vidi che Peace
Now esisteva realmente e che vi era un un certo movimento nelle strade
pensai che non fosse giusto restar imbottigliati nei dogmi. Di conseguenza
conclusi che l'idea dei due stati era valida". Dopo aver spiegato al
pubblico la fiducia riposta negli accordi di Oslo ed in Rabin come politico,
Hanegbi individua due fondamentali elementi alla radice della sua illusione.
La prima riguarda la tattica politica di Israele, la seconda la natura
storica del paese. "Negli ultimi due anni ho capito di aver commesso un
errore e che, come i palestinesi, sono stato abbindolato. Avevo preso il
discorso israeliano sul serio senza curarmi delle azioni di Israele. Quando
un giorno mi accorsi che gli insediamenti erano raddoppiati mi resi anche
conto che Israele aveva mancato all'appuntamento, aveva respinto la rara
possibilita' che gli veniva offerta. Capii allora che Isreale non poteva
liberarsi della sua trama espansionista. Israele e' legato mani e piedi alla
sua ideologia d'origine ed al suo atto di nascita che fu un atto di
spoliazione". Esiste, sostiene giustamente Hanegbi, una continuita' tra gli
insediamenti effettuati nei primi decenni del Novecento e quelli creati dopo
l'occupazione della Cisgiordania e di Gaza: "Capii che la ragione per cui e'
cosi' tremendamente difficile per Israele smantellare gli insediamenti
risiede nel fatto che ogni ammissione che gli insediamenti nel West Bank si
trovino su terreni depredati ai palestinesi, getta un'ombra minacciosa sulla
valle di Esdrelon" (valle vicino a Haifa colonizzata dai sionisti durante il
mandato britannico espellendone i fellahin palestinesi).
*
Passiamo ora a Meron Benvenisti ex colonizzatore di Al Quds (Gerusalemme) e
dintorni.
Per molti aspetti la sua requisitoria e' piu' dura di quella di Hanegbi. "La
mia analisi del conflitto - dice Benvenisti - era sbagliata" perche' partiva
dall'ipotesi di "una lotta di due movimenti nazionali per una stessa
terra... Invece negli ultimi due anni sono giunto alla conclusione che si
tratta di un conflitto tra una societa' di immigranti ed una societa' di
autoctoni". La prospettiva quindi muta radicalmente perche' "la storia di
fondo e' quella di indigeni e coloni. E' la storia dei nativi che
percepiscono come le persone venute d'oltremare abbiano infiltrato il loro
habitat e le abbiano spossessate".
E' stata l'intensita' della seconda Intifada ad aprigli gli occhi sulla
natura del conflitto: "Di colpo capii che era impossibile spiegare il tipo
di insediamento e di riscatto della terra solo nei termini di un conflitto
nazionale. E' impossibile spiegare il fenomeno dei kamikaze unicamente in
termini di conflitto nazionale... Non raggiungeremo mai una situazione in
cui gli arabi di Israele rinunceranno alla rivendicazione dei loro diritti
collettivi".
*
Una soluzione fondata su due stati appare superata tanto a Benvenisti quanto
a Hanegbi.
Quest'ultimo infatti si e' scontrato con Uri Avnery uscendo dal movimento
"Gush Shalom".
Il numero di abitanti ebrei nel West Bank e' ormai tale da rendere
impossibile la loro evacuazione per cui la Palestina deve essere considerata
come un'unica entita' politica. In tale spazio geografico gli ebrei sono una
minoranza per cui, nelle parole di Benvenisti, "l'establishment israeliano
deve rendersi conto di non esser capace di imporre le sue concezioni
egemoniche a tre milioni e mezzo di palestinesi nel West Bank ed a Gaza ed a
1,2 milioni in Israele". La proposta e' quindi di costituire uno stato
binazionale magari strutturato per cantoni tra i quali uno anche per i
coloni.
Secondo Benvenisti "e' arrivato il momento di dichiarare chiusa la
rivoluzione sionista", magari con un atto ufficiale "fissando una data per
l'abrogazione della Legge del Ritorno" (la legge che conferisce agli ebrei
nel mondo la liberta' assoluta di immigrare in Israele e l'ottenimento
immediato delle cittadinanza israeliana).
In conclusione, "l'idea sionista era mutilata sin dalla nascita: non aveva
tenuto conto della presenza di un altro gruppo nazionale". Per Benvenisti
sia i palestinesi che gli ebrei devono rinunciare alla sovranita' nazionale
dato che "quella terra non permette due sovranita'".
*
Si tratta di interventi che vanno al cuore della storia del conflitto.
L'idea di formare "un solo Stato democratico" su tutto il territorio della
Palestina fu propria dell'Olp quando Arafat ne prese la guida nel 1964.
L'allora posizione dell'Olp era migliore di quella di Benvenisti perche' la
proposta dei cantoni, soprattutto quello riservato ai coloni, puo' anche
significare cantoni apartheid: alcuni ricchi con strutture avanzate, con
l'acqua, piscine e terre coltivabili, e molti poveri e sovraffolati.
Inoltre, malgrado la loro spregiudicatezza gli articoli danno l'impressione
che i palestinesi siano i grandi assenti. In altre parole i ragionamenti
sono tutti interni ai processi storico-politici sionisti-israeliani. Le
idee, le rappresentanze politiche e le istituzioni palestinesi non appaiono
mai.
Tutto sommato ha ragione Uri Avnery che, partendo dall'ipotesi dell'incontro
tra due nazionalismi, assegna, come Avraham Burg, priorita' assoluta
all'evacuazione di tutti gli insediamenti e vede nelle istituzioni
palestinesi il referente e l'interlocutore principale, cosa che Burg ancora
non dice a gran voce.

6. RILETTURE. SIMONA FORTI: IL TOTALITARISMO
Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. X + 150, euro
9,30. Una pregevole monografia introduttiva dell'acuta studiosa di Hannah
Arendt.

7. RILETTURE. ALBERTO L'ABATE: CONSENSO, CONFLITTO E MUTAMENTO SOCIALE
Alberto L'Abate, Consenso, conflitto e mutamento sociale, Angeli, Milano
1990, pp. 328, lire 28.000. "Introduzione a una sociologia della
nonviolenza" recita il sottotitolo di questo utilissimo volume di uno dei
piu' grandi studiosi ed amici della nonviolenza.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 681 del 22 settembre 2003