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La nonviolenza e' in cammino. 681
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 681
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 21 Sep 2003 22:43:46 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 681 del 22 settembre 2003 Sommario di questo numero: 1. Enrico Peyretti: sulla proposta di Lidia Menapace per un'"Europa neutrale" 2. La newsletter della Libreria delle donne di Milano 3. Sveva Haertter: obiettori di coscienza in Israele 4. Avraham Burg: e' morta la rivoluzione sionista 5. Joseph Halevi: su due recenti interventi di Haim Hanegbi e Meron Benvenisti 6. Riletture: Simona Forti, Il totalitarismo 7. Riletture: Alberto L'Abate, Consenso, conflitto e mutamento sociale 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: SULLA PROPOSTA DI LIDIA MENAPACE PER UN'"EUROPA NEUTRALE" [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; della sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, una edizione a stampa - ma il lavoro e' stato successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001, un'edizione aggiornata e' apparsa recentemente in questo stesso notiziario (e contiamo di presentarne prossimamente un'edizione nuovamente aggiornata). Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 477 del 15 gennaio 2003 di questo notiziario] Europa neutrale e' il tema posto da Lidia Menapace e dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre. Non e' possibile intendere questa idea come atteggiamento disinteressato, avalutativo e astensionista rispetto ai conflitti nel mondo intero. Chi sta equidistante tra vittima e carnefice non e' neutrale, ma complice del carnefice. Distogliere l'occhio da una rissa non e' buona neutralita'. Scrive Lidia Menapace ("La nonviolenza e' in cammino", n. 671, 11 settembre 2003): "Essere neutrali significa invece prendere posizione e agire nelle varie situazioni in tutti i modi tranne che con le armi", ed esemplificava chiaramente. Percio' e' opportuno esplicitare, anche nella formula, che si vuole una neutralita' attiva e pacifica, solidale, nonviolenta-positiva: Europa neutrale, attiva per la pace coi mezzi della pace. Come si puo' cercare questo obiettivo? * Certamente, la politica e' trattativa, mediazione e compromesso. Non e' imporre i propri principi e persuasioni, fossero anche le piu' giuste e disinteressate, altrimenti e' totalitaria: una parte si fa tutto e schiaccia il "tutto" di quella polis. Ma la politica e' anche verita': i diritti e doveri di tutti verso tutti; la dignita' imprescrittibile di ogni persona, anche di chi la smarrisce per se'; la condanna di ogni violenza, anche della nostra e dei nostri amici o alleati. Si tratta della verita' umana, non di una verita' filosofica o religiosa, persuasione di alcuni, non di tutti; non di una verita' teorica, che convince alcuni, non tutti. Si tratta del fatto che la politica, organizzazione del vivere in molti su un territorio, ormai sull'intero pianeta umano, esige che si realizzi un vivere insieme, un con-vivere, dunque che il vivere di uno non uccida alcun altro, non opprima ne' derubi alcuno. La ragione e' questa: il diritto che ciascuno sente in se' e' da lui stesso negato anche per se', se non lo riconosce nel proprio simile, pur se sconosciuto, pur se avversario. Diseguaglianza e oppressione sono l'abolizione della politica. Non c'e' una politica violenta: se c'e' la violenza e' soppressa la politica (come dimostra Hannah Arendt). Contrariamente al concetto di Carl Schmitt, c'e' politica non dove c'e' l'opposizione totale amico-nemico - sicche' citta', polis, sarebbe il cerchio degli unificati, resi amici (?!), dall'assedio del nemico esterno - ma dove piu' uomini e donne costruiscono una casa comune. Oggi e' il mondo l'unica casa comune, messa in pericolo, che sta o cade tutta insieme. Oggi, se mai c'e' stato, non c'e' piu' un vero interno-esterno: se sei nemico del tuo nemico sei nemico anche del tuo amico, anzi di te stesso. Vale l'immagine dell'unica barca: nemico e' il pericolo, alleati tutti gli imbarcati. * E' ben vero che nella varieta' sociale ci sono differenze e anche conflitti. La politica e' l'arte della tessitura, non e' la semplificazione gordiana. La trasformazione nonviolenta e costruttiva dei conflitti e' la caratteristica di un'azione politica che difenda e promuova la vita. La politica, di fatto, e' stata ed e' abuso di potere. Ma il potere e' dato per costruire convivenza: e' "potere-di", che dovra' essere di tutti, e non "potere-su", di alcuni su altri. La nonviolenza positiva e attiva realizza la politica, perche' e' la scienza, l'arte, l'esperienza della conduzione vitale, e non mortale, dei conflitti. Questa e' una verita' politica, non metafisica. Infatti, senza questa verita', non c'e' piu' politica (citta' umana, polis), ma selva pre-civile, vita sub-umana, selvatica, tutti nemici di tutti, con una violenza crescente fino al suicidio collettivo. La politica, arte umana nata per organizzare la vita comune, per tutti, costruisce morte universale se non comprende la novita' epocale, che ha mutato le condizioni assolutamente basilari. Il lampo di Hiroshima ha rivelato definitivamente che la violenza interumana (bellica, ma anche economica, sociale, giuridica) ha alzato la sua distruttivita' al punto che non difende piu' assolutamente nessuno e minaccia ugualmente tutti: esattamente tanto chi la usa quanto il "nemico" contro cui e' usata. La "razionalita'" cruenta della guerra e' finita, si e' rovesciata in auto-guerra, auto-distruzione. L'incubo del kamikaze grava su tutto il mondo perche' la guerra e' essa stessa quel kamikaze che dice di combattere, non ne e' l'opposto, ma il gemello, nati insieme dall'ingiustizia, la guerra per difenderla, il kamikaze per aggredirla con altra ingiustizia. La guerra si illude di scacciare la morte abbracciandola e cavalcandola, come fa l'uomo-bomba. La forza di Sansone uccide lui come i filistei. Una enorme pazzia siede oggi sui troni. * Fino a ieri, la violenza era quantitativamente limitata, e cosi' poteva orrendamente "servire" a tutelare la vita di una parte contro l'altra: "mors tua vita mea", era gia' una negazione morale della vita e dei valori, ma pareva una sua affermazione fisica. La glorificazione del guerriero in nome di valori umani era sostanzialmente falsa, ma sembrava vera e giusta. Oggi, la sorte umana e' diventata unica, indivisibile. Il mondo e' un'unica polis, ed e' costretto, pena la morte generale, ad organizzarsi come unica polis, sebbene articolata in ricche varieta'. Il lampo di Hiroshima ha rivelato (apocalissi significa rivelazione) che la morte inflitta non e' divisibile, non si stacca dalla mano omicida; ha rivelato che uccidere e' uccidersi, non solo moralmente, come e' sempre stato, ma fisicamente, come ora e' possibile, e gia' sta avvenendo. Solo per fortuna, o per divina provvidenza, non e' gia' avvenuto del tutto. Non solo la guerra atomica, ma tutte le precedenti guerre sono rivelate nella loro essenza dalla luce fulminante di Hiroshima. Ieri gli antenati potevano non vedere cio' che noi vediamo, e solo gli illuminati scorgevano e indicavano che l'arma d'un uomo contro un uomo non difende il primo ma uccide entrambi. Oggi non abbiamo scuse ne' attenuanti, se restiamo nella paralisi mentale del pensiero della guerra salvifica. Oggi tolemaici e copernicani si distinguono su questa questione. Mi sembra di sprecare tempo nel richiamare queste cose, che le piu' luminose voci e testimoni della pace hanno detto e vissuto specialmente dal 6 agosto 1945 (la vera data che ha cambiato tutto; l'11 settembre, per chi sa vedere, non ha fatto che confermare). I popoli sanno queste cose, ma confusamente e spesso contraddittoriamente. I decisori politici non dimostrano di averle capite. Non ci sono chiari interlocutori di pace, nella classe politica. Ma non e' tempo sprecato: queste sono verita' da dire e da ripetere per poter pensare l'Europa che nasce, nel suo porsi di fronte a guerra e pace, armi e civilta', violenza e umanita'. Nulla e' piu' importante, nessuna moneta, nessun commercio, nessuna regola. * Tra verita' e compromesso, si muove la politica. La verita' umana piu' elementare e decisiva non puo' tradursi tutta in decisioni politiche, perche' la societa' e' composita e pluralista, anche divisa e lacerata, e vi allignano anche pensieri ciechi e suicidi, mentre la politica deve gestire queste opposizioni. Percio' la politica e' mediazione. Percio', per affermare la verita' umana, e' necessario cercare consensi con la persuasione, guadagnare la forza del numero e non solo quella della ragione. Eppure, la verita' umana (dignita' inviolabile di ognuno) e la verita' della cose (diffusa violazione di tale dignita') sono piu' importanti del compromesso e della mediazione, non per scavalcarli, ma per valutarli. Un compromesso politico senza sufficiente verita', che rinunci a troppa verita', non e' arte ne' saggezza politica, non organizza ma danneggia la vita dell'umanita'. Gradualita' positiva puo' essere la regola. Il senso piu' usato della parola suona: andare piano, rallentare, o meglio fermarsi. Serve a mantenere lo stato esistente e i suoi ritardi. Il senso umano di gradualita', invece, e' il procedere passo dopo passo (gradus, passo, gradino). Siamo nel tempo e non sopra, camminiamo e non voliamo, non ci e' lecito forzare i processi vitali, che sarebbe stroncarli. Il compromesso accettabile e' nei passi, anche parziali, ma nella direzione della verita' umana, e non nell'appoggio all'impero della diseguaglianza violenta e del dominio. * Come sta camminando l'Europa? Davanti alla illegalissima guerra preventiva degli Usa all'Iraq, si e' divisa. Meno male! Questa divisione (certo, non tutta soltanto per motivi nobilissimi) fa meno male che non il caso in cui tutta l'Europa fosse stata unita con i governi - non i popoli! - di Gran Bretagna, Spagna e Italia. Quando il compromesso viola l'elementare verita', va rifiutato. Il costo della divisione e' doverosamente preferibile ai vantaggi della complicita'. Poi va cercata di nuovo la collaborazione, ma nella direzione giusta e nel giudizio chiaro. Quando la coscienza di una persona o di un popolo obietta contro una decisione che si pretende "politica", e' questo rifiuto, e non il compromesso, che costituisce un passo avanti nella gradualita' positiva. Rifiutare la violazione di umanita', non e' una negazione, se non in apparenza, ma una affermazione di umanita'; e' un atto politico positivo, perche' non e' fatto per se', ma per tutti. La poderosa obiezione popolare alla guerra Usa-Iraq e all'illegalita' imperiale, in tutto il mondo, e' creazione politica che l'Europa non puo' perdere. E se la perde, noi obiettiamo all'Europa, dentro l'Europa, per l'Europa migliore contro l'Europa di fatto. Quella obiezione popolare e' il ripudio della guerra, che noi vogliamo scritto nella nascente Costituzione europea, perche' sia un vincolo e un dovere, ma soprattutto una via di liberta. Certo, l'art. 11, gloria della Costituzione italiana, e' stato violato anche dai partiti di centro-sinistra, nel 1999, e lo devono confessare pentiti. L'attuale governo lo cancellerebbe volentieri, e l'avrebbe pia' apertamente violato (lo ha fatto alla chetichella), nella brama di servire l'Impero, se il popolo pacifico delle bandiere e delle strade non glielo avesse impedito con la forza nonviolenta della ragione umana. * Da quella verita' umana e politica, discendono le linee di un cammino giusto, anche se graduale, dell'Europa. 1. La politica estera e commerciale, prima che unitaria e compatta, con la tentazione di un'Europa-potenza, Europa-fortezza, deve essere giusta, planetaria, dettata dall'eguaglianza di diritti e dignita' di tutti popoli e le culture, deve procedere a rinunciare ai propri privilegi offensivi, violenti e causa di violenza (a Cancun l'Europa non si e' disposta a questo), deve privilegiare i popoli sfavoriti pagando il conto delle proprie violenze storiche, non puo' accettare accordi conservatori del privilegio violento.Una tale conversione storica richiede sia urgenza, sia pazienza. Il compromesso giusto sta nei passi parziali, ma ben orientati. 2. Nella politica di pace, la verita' e' nelle istituzioni e nel diritto internazionale di pace, vigente e obbligante, nato nel 1945-'48, momento di rinsavimento seguito al crimine della guerra mondiale: l'Onu rispettata, realizzata, democratizzata con l'abolizione del diritto di veto, difesa contro l'illegalita' imperiale; i diritti umani realizzati tutti per tutti. Il compromesso accettabile e' nei passi, anche parziali, in questa chiara direzione, e dunque nell'affrontamento civile e culturale dell'impero monopolare della diseguaglianza, dell'illegalita' e del dominio. 3. Nella politica di difesa, la verita' e' che la tutela dei giusti diritti, non dei privilegi (la cui difesa e' offesa), puo' e deve ormai avvenire senza la violenza delle armi, ma con la capacita' propria dei popoli, se ne diventano consapevoli, di opporsi, resistere e frustrare coraggiosamente la violenza, interna o esterna, senza riprodurla, ma con la sola superiore forza popolare nonviolenta. Tanti sono i casi storici (vedi http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_1616.html) che dimostrano questa capacita', non utopistica ma reale, sebbene improvvisata finora senza quella preparazione, addestramento, organizzazione (prescritta dalla legge italiana 230/1998, disobbedita da tutti i governi), che la potenzierebbe di molto. La verita' e' che gli eserciti - che offendono, affamano, minacciano tutti e non difendono nessuno, ne' alcuna vera ragione e diritto - devono essere semplicemente aboliti. La forza di polizia, interna e internazionale, ha un senso e un'etica opposta all'esercito: deve ridurre la violenza, col minimo uso di forza materiale, e non massimizzarla, come esige ogni guerra. * Cominci in questa competizione di civilta' il paese piu' saggio, con l'abolire il proprio esercito, anticipando gli altri invece di attenderli, e cosi' riducendo il pericolo generale. Questa e' la verita' umana, storica, per rendere possibile il futuro della specie umana. E' necessaria la difesa non solo dall'uso ma dall'esistenza stessa degli eserciti, ormai privi di ogni onore, posti ormai come mine anti-umanita' sul nostro comune cammino, dato che la guerra degli eserciti e' piu' che mai contro i civili. Ma questa convinzione e' di pochi, anche tra i democratici, che ammettono ancora l'esercito omicida come strumento possibile della politica, quasi che la liberta' democratica assolvesse il delitto. Ed anche nella sinistra, e' convinzione di pochi. La sinistra troppo poco ha riflettuto e analizzato la violenza, e troppo ha ceduto, nella sua storia, verso l'illusione tragica e stolta della violenza risolutiva. Il movimento operaio ha respinto la suggestione violenta ed ha lottato con mezzi nonviolenti, come lo sciopero, potenza umana della volonta' e dell'unita' resistenti, opposta alla prepotenza economica. Ma la politica di sinistra si e' emancipata troppo lentamente dal mito della rivoluzione violenta, dopo avervi troppo creduto, e forse e' uscita dall'illusione del socialismo imposto, piu' a causa del suo fallimento economico che a causa della sua violenza disonorevole e ingiusta. Per non dire della destra. Nella destra la violenza e' coerenza con la volonta' di conservazione dell'esistente ingiusto, mentre nella sinistra la violenza e' contraddizione con la volonta' di giustizia. Con la violenza la destra si consolida, la sinistra si autodistrugge. La violenza della sinistra gioca a favore della destra. E' una dura lezione della storia. * Se la convinzione del superamento storico della difesa militare e' minoritaria, se non ha consenso democratico sufficiente, il compromesso giusto, graduale, accettabile, e' nel transarmo. Fino dagli anni '80, si diceva con questo termine la transizione da una difesa offensiva (come e' in generale l'apparato militare attuale) ad una difesa strutturalmente ed esclusivamente difensiva. Ricordo dei pacifisti tedeschi, nei convegni fiorentini promossi da Balducci, che chiedevano una necessaria "incapacita' strutturale di aggressione". Allora, un esercito europeo puramente e strutturalmente difensivo - cioe' con armi a portata limitata al nostro territorio, a differenza dei programmi e degli apparati Nato attuali - e' un compromesso possibile, uno stato transitorio (transarmo) verso il disarmo. Un esercito europeo cosi' orientato sarebbe, secondo alcuni esperti, assai meno costoso e meno dannoso dei tanti eserciti nazionali attuali. Non e' accettabile e va disobbedita e boicottata una "difesa" europea capace di aggredire, di colpire lontano, di avere armi nucleari, di competere in potenza militare con gli Usa o con altri. Quell'esercito difensivo e storicamente transitorio, giustificato dall'art. 51 della carta dell'Onu, per guadagnare legittimita' dovra' mettersi agli ordini dell'Onu, riconosciuta come unica legittima autorita' mondiale, responsabile della difesa globale e non parziale. Questa e' la giusta competizione con la potenza imperiale che disprezza la legge e l'istituzione planetaria di pace. * Non basta. L'Europa, per essere positivamente pacifica, dovra' finalmente realizzare i Corpi civili di pace (proposta di Alex Langer nel Parlamento Europeo, ancora giacente nei cassetti), come istituzione della comunita' politica e non solo iniziativa di volontari coraggiosi pionieri, come sono oggi. Un'altra proposta politica, saggia e graduale, che dovrebbe venire dalla sinistra se avesse un solido pensiero di pace, e' il dirottamento del 5% annuo dalle spese militari al finanziamento dei Corpi civili di pace. Quale lista o candidato alle elezioni europee vorra' qualificarsi cosi', per meritare il voto di chi vuole una concreta politica di pace? Oggi le spese per i mezzi pacifici si aggirano tra il millesimo e il decimillesimo delle spese per i mezzi militari. Non e' vero che, nella distretta, si puo' solo fare la guerra: se compro solo patate, quando mi verra' fame non potro' mangiare pomodori. Il problema della difesa e' culturale, anzi e' una questione di salute mentale e di sopravvivenza fisica: quale modello di difesa? quale difesa difende davvero? difendere che cosa? da che cosa? difendere come? chi difende chi? La ricerca e' aperta, ma non e' affatto al punto zero. Chiarissimo e' il punto di partenza: l'abbandono della guerra. "E' insensato (alienum a ratione, cioe' pazzesco) pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia" (Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 43, 11 aprile 1963). 2. INFORMAZIONE. LA NEWSLETTER DELLA LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO [Riceviamo e diffondiamo la newsletter n. 5 del 21 settembre 2003 della "Libreria delle donne di Milano" (per contatti: info at libreriadelledonne.it) a cura di Elisabetta Marano] Segnaliamo alcuni nuovi materiali che possono essere letti nel sito della libreria delle donne di Milano, www.libreriadelledonne.it * Femministe: ecco dove sono. Il nuovo femminismo In questa nuova sezione potete trovare traccia di alcuni articoli, comparsi prima dell'estate, a seguito dell'uscita in Francia del libro di Elisabeth Badinter. Tra questi vogliamo segnalare l'articolo di Eugenio Scalfari che, provocatoriamente, chiede alle giovani donne cosa se ne fanno del femminismo. Alcune di noi hanno risposto, e chi legge puo' dire la sua, scrivendoci una e-mail. * Della serie... imparare dagli uomini. Padri comboniani: "Lotta per la dignita' dell'Africa d'Italia" di Enrico Fierro Torna la serie "della serie". Dopo "imparare dalle donne" vogliamo mostrare come si possa imparare anche dagli uomini. Questa e' la storia di padre Giorgio, che a Castelvolturno lotta a fianco delle donne africane costrette a prostituirsi. Tutto cio' senza alcun paternalismo. * Stanza: movimento di movimenti. Il "commercio giusto" del controvertice Ecco l'ennesimo smascheramento del WTO: a chi vuole "portare soccorso" questo organismo? di chi fa veramente gli interessi? Le considerazioni di Rigoberta Menchu e Vandana Shiva. * In libreria Dalla vetrina del "Cosa c'e' di nuovo" segnaliamo: Guida all'impero per la gente comune, di Arundhati Roy. * Catalogo E' stato aggiornato il catalogo dei libri in vendita. E' possibile ordinarli con una e-mail e riceverli via posta. * Per informazioni e contatti Libreria delle donne di Milano, via Pietro Calvi 29 Milano, tel. 0270006265, e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito: www.libreriadelledonne.it 3. VOCI DI PACE. SVEVA HAERTTER: OBIETTORI DI COSCIENZA IN ISRAELE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2003. Sveva Haertter, fortemente impegnata per la pace, la giustizia e il dialogo, fa parte della rete "Ebrei contro l'occupazione"] Alcuni piloti della riserva dell'aviazione israeliana stanno progettando di annunciare pubblicamente il rifiuto di partecipare ad operazioni per l'uccisione di ricercati palestinesi. E' quanto ha affermato ieri il sito Internet del quotidiano "Haaretz", citando esponenti dei refuseniks. La difficilissima discussione e' in corso da mesi. Pare che l'idea di aderire ad uno dei gruppi esistenti (ad esempio "Omez Le Sarev" - Il coraggio di rifiutare - creato 18 mesi fa da 50 riservisti firmatari di una lettera che ormai ha raccolto oltre 600 adesioni) sia stata per ora abbandonata, preferendo creare un gruppo a se'. Ora i promotori stanno raccogliendo firme, e attendono "il momento buono" per rendere pubblica la presa di posizione. I gruppi di militari isreaeliani legati al rifiuto ritengono che un simile gesto potrebbe scuotere l'opinione pubblica piu' di quanto abbia fatto ad oggi il rifiuto "ordinario". E' infatti un fatto dirompente, se si considera la responsabilita' nella rottura iniziale della tregua delle esecuzioni mirate volute a tutti i costi da Sharon e il peso di questa "strategia" nella tensione dentro i territori occupati, al punto che perfino il segretario di stato Usa Colin Powell in questi giorni ripete al governo israeliano che l'amministrazione Usa condanna il terrorismo palestinese ma non e' d'accordo con gli omicidi selettivi di leader palestinesi. Gia' nella guerra del Libano si erano verificati episodi di piloti che rifiutavano di bombardare particolari obiettivi ed e' noto il caso di almeno un pilota che nel corso della seconda Intifada si e' rifiutato di colpire un edificio per la presenza di civili, ma una dichiarazione di un gruppo organizzato di piloti e' una novita' straordinaria, capace di riavviare il dibattito sull'occupazione dei territori palestinesi e sull'operato dell'esercito israeliano. "E' uno sviluppo interessante perche' la nostra aviazione non solo ha le armi piu' micidiali, ma e' anche la parte piu' elitaria, piu' disciplinata dell'esercito - ci dice Peretz Kidron di "Yesh Gvul" (C'e' un limite) -. Significherebbe che la nostra iniziativa, il dibattito sul rifiuto, ha smosso davvero qualcosa nelle forze armate. Il rifiuto militare selettivo limitato a specifiche azioni, anche se non riferito al servizio nei territori occupati, e' un segnale chiaro: queste persone denunciano qual e' il limite che non intendono oltrepassare, la loro personale linea rossa". * Solo giovedi' e' ripreso il processo ai giovani che rifiutano di servire nell'esercito di occupazione. Il pubblico ministero, capitano Yaron Kosteliz, interrogando Haggai Matar e Matan Kaminer, ha premesso che "coscienza" e' solo una bella parola da usare come pretesto per fare quello che si vuole. "Vedo azioni inumane compiute dall'esercito israeliano. Dato che questi sono atti immorali e a mio avviso illegali, in base alla mia coscienza, nelle attuali condizioni rifiuto di far parte dell'esercito" ha detto Haggai. Quando il pubblico ministero ha affermato che cio' che Haggai aveva definito illegale era stato legale per l'Alta corte di giustizia, il giovane ha fatto notare che alcune delle decisioni prese dalla Corte sono considerate illegali dalle leggi internazionali. Al tentativo di dimostrare che il suo rifiuto e' una scelta politica e non di coscienza, Haggai ha replicato che e' impossibile separare le due cose: "La coscienza non e' la piattaforma di un partito politico... - ha risposto - Cio' che la coscienza impone e' molto chiaro se si tratta di rifiutare determinate cose, lo e' invece di meno quando si tratta dell'obbligo di compiere determinate azioni". Matan Kaminer cosi' ha risposto alle domande del giudice: "Solo condizioni estreme renderebbero legittimo l'uso della violenza e tali condizioni estreme al momento non sono date. Se lasciassimo completamente i territori occupati, permettessimo la costituzione di uno stato palestinese indipendente in grado di vivere e se vivessimo in pace ed uguaglianza accanto a esso collaborando a livello economico e culturale, la situazione in questa regione sarebbe drasticamente diversa. Non ci sarebbero attentati suicidi - ha continuato -, ne' violenza da parte di palestinesi contro cittadini israeliani. La leva obbligatoria sarebbe irrilevante. A quel punto, se fosse comunque necessario un esercito, sarei disposto a farne parte". Ha poi spiegato che le sue ragioni per l'obiezione di coscienza si basano su una concezione umanistica e democratica e sono quindi molto diverse da quelle fondate su motivazioni religiose. "Io amo questo paese e la gente che ci vive - ha concluso - voglio restarci e cambiarlo perche' diventi un posto migliore in cui vivere. Il mio rifiuto fa parte di questo cambiamento". Alla domanda sull'obbligo di obbedire alle leggi di uno stato democratico, sia Haggai che Matan hanno risposto che Israele "e' uno stato che esercita il proprio dominio su 3,5 milioni di persone prive del diritto al voto, non puo' affermare che le proprie decisioni sono prese in modo democratico. Il Sud Africa dell'apartheid non era uno stato democratico". Nella prossima udienza, il 20 ottobre, verranno sentiti Shimri Tzameret, Adam Maor e Noam Bahat. * Oltre a loro ed a Yoni Ben-Artzi sono in carcere Salman Salame, obiettore di coscienza druso in attesa di essere convocato dalla corte marziale, i riservisti Asaf Albertstein, Asaf Berewald e Nathanel Elzas, che per il rifiuto di servire nei territori occupati sono stati condannati rispettivamente a 21, 21 e 28 giorni di carcere militare. E adesso stanno per arrivare anche i piloti dell'aviazione. 4. RIFLESSIONE. AVRAHAM BURG: E' MORTA LA RIVOLUZIONE SIONISTA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 settembre 2003, che a sua volta lo riprende dalla rivista elettronica "Z-net". Avraham Burg e' deputato del Partito laburista israeliano, ex presidente della Knesset (1999-2003), ex presidente dell'Agenzia ebraica. Abbiamo esitato a riprodurre il testo di Avraham Burg, poiche' esso e' di una cosi' estrema espressionistica crudezza che una sua lettura non avvertita potrebbe dar luogo a dei fraintendimenti anche profondi; inoltre sia sulla presentazione del sionismo (come ideologia e proposta politica e come movimento storico) come su quella della storia dello stato di Israele date in queste righe naturalmente molto si potrebbe discutere, e discutere ci sembra necessario per evitare semplificazioni e forzature mitologiche e propagandistiche in un senso o nel suo opposto, cogliendo invece la complessita' e fin la contradittorieta' della realta'; non avendo qui lo spazio per gli approfondimenti necessari, e tuttavia ritenendo necessario indicare l'opportunita' di letture utili per la contestualizzazione e la piu' adeguata conoscenza (e la comprensione e la conoscenza sono elementi fondamentali per opporsi ad ogni razzismo e ad ogni ideologia e pratica della violenza, a tutte le uccisioni ed a tutte le denegazioni di dignita' umana), ci limitiamo a segnalare qualche minimo riferimento bibliografico (con l'illusione, certo, che i lettori di queste righe vogliano impegnarsi in piu' ampie letture), scegliendo tra i testi e gli autori piu' conosciuti e accessibili, e naturalmente indicando quelli che alla nostra riflessione sono stati tra i piu' giovevoli. Un assai utile libro, come e' noto, e' quello di Benny Morris, Vittime, Rizzoli, Milano 2001, 2003; due autori che hanno scritto cose a nostro parere importanti ed acute sono Uri Avnery e Edward Said; un'ottima rivista italiana che ha pubblicato alcuni saggi rilevanti e' "Keshet. Vita e cultura ebraica"; una casa editrice che ha pubblicato diversi libri che occorre aver letto per aver nozione almeno di parte del retroterra storico e culturale di cio' di cui stiamo parlando e' la Giuntina di Firenze; sono disponibili in italiano molti libri di scrittori israeliani impegnati anche nel movimento per la pace (e citiamo en passant il libriccino di Abraham Yehoshua, Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare, edito da e/o - e' un saggio estratto da una piu' ampia raccolta edita dalla Giuntina), ed ancora pochi libri di autori palestinesi (perlopiu' antologie) ma alcuni sono veri gioielli; un grande intellettuale americano, Noam Chomsky, ha scritto molto sul conflitto israelo-palestinese, sovente con grande acutezza, sempre con grande passione civile, non sempre con sufficiente approfondimento (deriva dalla generosita' del Chomsky pubblicista questo suo esser sempre disponibile ad intervenire, e talvolta con ridondanza, e talvolta con eccessiva unilateralita'); ci pare assai utile anche il piccolo ma prezioso libro di Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003. Sulle ideologie del nazionalismo arabo - un argomento che a nostro avviso mantiene una importanza notevole, anche se oggi offuscato nella percezione e nella memoria collettiva occidentale dall'emergere del ruolo politico del fondamentalismo religioso islamico - sono a nostro avviso ancora utili introduttivamente alcuni vecchi libri come l'antologia a cura di Anouar Abdel-Malek, Il pensiero politico arabo, Editori Riuniti, Roma 1973 (utile anche per cogliere quale fosse la ricezione all'epoca nella sinistra italiana). Per un accostamento alla problematica dei fondamentalismi religiosi cfr. per un avvio Enzo Pace, Renzo Guolo, I fondamentalismi, Laterza; e per un avvio all'analisi del tema terribile del fenomeno sacrificale cfr. Cristiano Grottanelli, Il sacrificio, sempre presso Laterza, ma ovviamente un riferimento fondamentale e' la grande riflessione di Rene' Girard. Sulla decisiva questione del rapporto all'altro naturalmente occorre leggere i capolavori filosofici di Emmanuel Levinas. Sul principio del dialogo ha scritto pagine fondamentali Martin Buber. Infine due libri che ogni europeo dovrebbe leggere anche (ma naturalmente non solo) per accostarsi a una riflessione sul sionismo e sullo stato di Israele: Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Einaudi; e Tom Segev, Il settimo milione, Mondadori] Il sionismo e' morto, e i suoi aggressori sono seduti sulle poltrone del governo a Gerusalemme. Non perdono un'occasione per far scomparire tutto cio' che c'era di bello nella rinascita nazionale. La rivoluzione sionista poggiava su due pilastri: la sete di giustizia e una leadership sottomessa alla morale civica. L'una e l'altra sono scomparse. La nazione israeliana ormai non e' altro che un ammasso informe di corruzione, oppressione e ingiustizia. La fine dell'avventura sionista e' vicina. Si', e' ormai probabile che la nostra generazione sia l'ultima del sionismo. Quello che restera' dopo sara' uno stato ebraico irriconoscibile e detestabile. Chi di noi vorra' essere patriota di tale stato? L'opposizione e' scomparsa, la coalizione resta muta, Ariel Sharon si e' trincerato dietro un muro di silenzio. Questa societa' di instancabili chiacchieroni e' diventata afona. Semplicemente non c'e' piu' nulla da dire: i nostri fallimenti sono evidenti. Certo, abbiamo resuscitato la lingua ebraica, il nostro teatro e' eccellente, la nostra moneta abbastanza stabile, nel nostro popolo ci sono talenti stupefacenti e siamo quotati al Nasdaq. Ma e' per questo che abbiamo creato uno stato? No, non e' per inventare armi sofisticate, strumenti di irrigazione efficacissimi, programmi di sicurezza informatica o missili antimissile che il popolo ebraico e' sopravvissuto. La nostra vocazione e' diventare un modello, la "luce delle nazioni", e abbiamo fallito. La realta', dopo duemila anni di lotte per la sopravvivenza, e' uno stato che sviluppa delle colonie guidato da una cricca di corrotti incuranti della morale civica e della legge. Ma uno stato amministrato nel disprezzo della giustizia perde la sua forza di sopravvivenza. Chiedete ai vostri figli se sono sicuri di essere ancora in vita fra venticinque anni. Le risposte piu' lungimiranti rischiano di scioccarvi, perche' il conto alla rovescia della societa' israeliana e' gia' cominciato. * Non c'e' nulla di piu' affascinante che essere sionista a Beth El o Ofra. Il paesaggio biblico e' incantevole. Dalla finestra ornata di gerani e bougainville, non si vede l'occupazione. Sulla nuova strada che costeggia Gerusalemme da nord a sud, ad appena un chilometro dagli sbarramenti, si circola velocemente e senza problemi. Chi si preoccupa di cio' che subiscono gli arabi umiliati e disprezzati, obbligati a trascinarsi per ore su strade dissestate e continuamente interrotte da check point? Una strada per l'occupante, una strada per l'occupato. Per il sionista, il tempo e' rapido, efficiente, moderno. Per l'arabo "primitivo", manodopera senza permesso in Israele, il tempo e' di una lentezza esasperante. Ma cosi' non puo' durare. Anche se gli arabi piegassero la testa e ingoiassero la loro umiliazione, verra' un momento in cui nulla funzionera' piu'. Ogni edificio costruito sull'insensibilita' alla sofferenza altrui e' destinato a crollare fragorosamente. Attenti a voi! State ballando su un tetto che poggia su fondamenta barcollanti! Poiche' siamo indifferenti alla sofferenza delle donne arabe bloccate ai check point, non percepiamo piu' i lamenti delle donne picchiate dietro la porta dei nostri vicini, ne' quelli delle ragazze madri che lottano per la propria dignita'. Abbiamo smesso di contare i cadaveri delle donne assassinate dal loro marito. Indifferenti alla sorte dei bambini palestinesi, come ci possiamo sorprendere quando, con un ghigno di odio sulla bocca, si fanno saltare per aria come martiri di Allah nei luoghi del nostro svago perche' la loro vita e' un tormento; nei nostri centri commerciali perche' non hanno neanche la speranze di fare, come noi, degli acquisti? Fanno scorrere il sangue nei nostri ristoranti per farci passare l'appetito. A casa loro, figli e genitori soffrono la fame e l'umiliazione. Anche se uccidessimo mille terroristi al giorno, non cambierebbe nulla. I loro leader e i loro istigatori sono generati dall'odio, dalla collera e dalle misure insensate prese dalle nostre istituzioni moralmente corrotte. Fintanto che un Israele arrogante, terrorizzato e insensibile a se stesso e agli altri si trovera' di fronte una Palestina umiliata e disperata, non potremo andare avanti. Se tutto cio' fosse inevitabile e frutto dei disegni di una forza soprannaturale, anche io starei zitto. Ma c'e' un'altra opzione. Ed e' per questo che bisogna urlare. * Ecco quello che il primo ministro deve dire al popolo: il tempo delle illusioni e' finito. Non possiamo piu' rimandare le decisioni. Si', amiamo il paese dei nostri antenati nella sua totalita'. Si', ci piacerebbe viverci da soli. Ma cosi' non funziona, anche gli arabi hanno i loro sogni e le loro esigenze. Tra il Giordano e il mare, gli ebrei non sono piu' maggioranza. Conservare tutto gratuitamente, senza pagarne il prezzo, miei cari concittadini, e' impossibile. E' impossibile che la maggioranza palestinese sia sottomessa al pugno di ferro dei militari israeliani. E' impossibile credere che siamo la sola democrazia del Medioriente, perche' non lo siamo. Senza l'uguaglianza completa degli arabi, non c'e' democrazia. Conservare i territori e una maggioranza di ebrei solo nello stato ebraico, ripettando i valori dell'umanesimo e della morale ebraica, rappresenta un'equazione insolubile. Volete la totalita' del territorio del Grande Israele? Perfetto. Avete rinunciato alla democrazia. Realizzeremo allora un sistema efficace di segregazione etnica, di campi di internamento, di citta'-carceri: il ghetto Kalkilya e il gulag Jenin. Volete una maggioranza ebraica? O ammasseremo tutti gli arabi in vagoni di treno, in autobus, su cammelli o asini per espellerli. Oppure dobbiamo separarci da loro in modo radicale. Non ci sono mezzi termini. Cio' implica lo smantellamento di tutti - dico bene: tutti - gli insediamenti e la determinazione di una frontiera internazionale riconosciuta tra lo stato nazionale ebraico e lo stato nazionale palestinese. La legge del ritorno ebraica sara' applicabile soltanto all'interno dello stato nazionale ebraico. Il diritto al ritorno arabo sara' applicabile esclusivamente all'interno dello stato nazionale arabo. Se e' la democrazia cio' che volete, avete due opzioni: o rinunciate al sogno del Grande Israele nella sua totalita', alle colonie e ai loro abitanti, oppure concedete a tutti, compresi gli arabi, la piena cittadinanza con diritto di voto alle elezioni politiche. In quest'ultimo caso, coloro che non volevano gli arabi nello stato palestinese vicino li avranno alle urne, a casa propria. E loro saranno maggioranza, noi minoranza. Questo e' il linguaggio che deve adottare il primo ministro. Spetta a lui presentare coraggiosamente le alternative. Bisogna scegliere tra la discriminazione etnica praticata da ebrei e la democrazia. Tra le colonie e la speranza per due popoli. Tra l'illusione di un muro di filo spinato, dei check point e dei kamikaze e una frontiera internazionale accettata dalle due parti con Gerusalemme capitale comune dei due stati. Ma, purtroppo, non c'e' alcun primo ministro a Gerusalemme. Il cancro che divora il corpo del sionismo ha gia' raggiunto la testa. Le metastasi fatali sono lassu'. * E' accaduto in passato che Ben Gurion commettesse un errore, ma e' rimasto comunque di una rettitudine irreprensibile. Quando Begin sbagliava, nessuno metteva in discussione la sua buona fede. E lo stesso succedeva quando Shamir non faceva nulla. Oggi, secondo un sondaggio recente, la maggioranza degli israeliani non crede nella rettitudine del primo ministro, anche se continua ad accordargli la propria fiducia sul piano politico. Detto in altri termini, la personalita' dell'attuale primo ministro simboleggia le due facce della nostra disgrazia: un uomo di dubbia moralita', gaudente, incurante della legge e modello negativo di indentificazione. Il tutto combinato con la sua brutalita' verso gli occupati, che rappresenta un ostacolo insuperabile alla pace. Da cio' deriva una conclusione indiscutibile: la rivoluzione sionista e' morta. E l'opposizione? Perche' mantiene il silenzio? Forse perche' siamo in estate? O perche' e' stanca? Perche', mi chiedo, una parte dei miei compagni vuole un governo a ogni costo, foss'anche quello dell'identificazione con la malattia piuttosto che della solidarieta' con le vittime della malattia? Le forze del bene perdono la speranza, fanno le valige e ci abbandonano, insieme al sionismo. Uno stato sciovinista e crudele in cui imperversa la discriminazione; uno stato dove i ricchi sono all'estero e i poveri deambulano nelle strade; uno stato in cui il potere e' corrotto e la politica corruttrice; uno stato di poveri e di generali; uno stato di razziatori e di coloni: questo e' in sunto il sionismo nella fase piu' critica della propria storia. * L'alternativa e' una presa di posizione radicale: il bianco o il nero - tirarsi indietro equivarrebbe a essere complici dell'abiezione. Queste sono le componenti dell'opzione sionista autentica: una frontiera incontestata; un piano sociale globale per guarire la societa' israeliana dalla sua insensibilita' e dalla sua assenza di solidarieta'; la messa al bando del personale politico corrotto oggi al potere. Non si tratta piu' di laburisti contro il Likud, di destra contro sinistra. Al posto di tutto cio', bisogna opporre cio' che e' permesso a cio' che e' proibito; il rispetto della legge alla delinquenza. Non possiamo piu' accontentarci di un'alternativa politica al governo Sharon. Ci vuole un'alternativa di speranza alla rovina del sionismo e dei suoi valori da parte di demolitori muti, ciechi e privi di ogni sensiblita'. 5. RIFLESSIONE. JOSEPH HALEVI: SU DUE RECENTI INTERVENTI DI HAIM HANEGBI E MERON BENVENISTI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2003. Joseph Halevi e' un prestigioso economista, insegna all'Universita' di Sidney in Australia e a quella di Grenoble in Francia, e' autore di molti rilevanti saggi ed articoli. Anche su vari punti di questo articolo, cosi' come su vari punti di quello che lo precede, sarebbe necessario discutere; ma ancora una volta qui manca lo spazio, bastera' averlo segnalato, ed affidarci alla capacita' critica dei lettori che sanno che il punto di vista di questo notiziario e' il punto di vista della scelta della nonviolenza e della nonmenzogna. Se una opinione possiamo esprimere su un punto centrale di questo articolo, ci pare che la prospettiva di un solo stato binazionale, che per un lungo periodo e' stata la proposta condivisa da tanta parte della sinistra internazionale, potrebbe forse divenire una prospettiva praticabile in un futuro non prossimo, ma oggi quello che occorre, e con la massima urgenza, e' la fine dell'occupazione dei territori e il riconoscimento dello stato palestinese, un piano di aiuti e di interposizione nonviolenta che faccia cessare miseria e stragi, che garantisca sicurezza e prospettive di crescente democratizzazione a due popoli in due stati. Possiamo sbagliarci, ma ci pare che questa adesso sia la priorita': due stati riconosciuti e sostenuti e garantiti dalla comunita' internazionale; due popoli cui vanno garantiti pienamente i diritti all'indipendenza, alla sicurezza, a una vita liberata dagli stenti, dalle umiliazioni e dalle minacce, a una cittadinanza piena e democratica in una terra propria. Solo con la pace, la cessazione dell'occupazione, il riconoscimento e la difesa dell'esistenza di due stati e due popoli, si puo' aprire la via al futuro. I tanti altri problemi che restano aperti si potranno affrontare poi, con il dialogo e la comprensione, con la cooperazione di due popoli liberi e sicuri e due stati indipendenti e sovrani, con il sostegno della comunita' internazionale] L'intervento di Avraham Burg sulla morte del sionismo, pubblicato anche dal "Manifesto", ha avuto un effetto esplosivo sulla stampa mondiale ma la discussione, che comprova come Israele sia arrivato al capolinea, era stata lanciata da "Haaretz". A fine agosto e all'inizio di questo mese il maggior quotidiano israeliano ha pubblicato due interventi dirompenti che riabilitavano l'idea di una soluzione binazionale: un solo unico stato per i due popoli. Il primo articolo e' di Haim Hanegbi, che quarant'anni orsono fu tra i fondatori del movimento trotzkista Mazpen, Il secondo scaturisce dalla tastiera di Meron Benvenisti gia' vicesindaco di Gerusalemme sotto il Teddy Kollek, vero ideatore dell'espansione tentacolare di questa citta' pianificata per escludere, soffocare ed espropriare i palestinesi. E' sintomatico che un giornale di orientamento liberale come "Haaretz" abbia dato spazio a dei contributi che rimettono in causa la ragion d'essere dello Stato. Non era mai successo prima. In merito alla legittimita' storica della formazione dello Stato d'Israele la stampa isrealiana e' sempre stata di regime. Anche i comunisti osannavano l'Urss sia per essere stata nel 1947 l'indefessa portatrice presso l'Onu del progetto di spartizione, contro la ritirata di Washington che aveva proposto un'amministrazione (trusteeship) gestita dall'Onu, che per aver fornito nel 1948-'49, attraverso la Cecoslovacchia e non solo, un aiuto militare determinante al nascente Stato d'Israele. * I trotzkisti di Mazpen invece si erano sempre opposti al concetto di uno stato formalmente ebraico, per cui, scrive Hanegbi, "quando vidi che Peace Now esisteva realmente e che vi era un un certo movimento nelle strade pensai che non fosse giusto restar imbottigliati nei dogmi. Di conseguenza conclusi che l'idea dei due stati era valida". Dopo aver spiegato al pubblico la fiducia riposta negli accordi di Oslo ed in Rabin come politico, Hanegbi individua due fondamentali elementi alla radice della sua illusione. La prima riguarda la tattica politica di Israele, la seconda la natura storica del paese. "Negli ultimi due anni ho capito di aver commesso un errore e che, come i palestinesi, sono stato abbindolato. Avevo preso il discorso israeliano sul serio senza curarmi delle azioni di Israele. Quando un giorno mi accorsi che gli insediamenti erano raddoppiati mi resi anche conto che Israele aveva mancato all'appuntamento, aveva respinto la rara possibilita' che gli veniva offerta. Capii allora che Isreale non poteva liberarsi della sua trama espansionista. Israele e' legato mani e piedi alla sua ideologia d'origine ed al suo atto di nascita che fu un atto di spoliazione". Esiste, sostiene giustamente Hanegbi, una continuita' tra gli insediamenti effettuati nei primi decenni del Novecento e quelli creati dopo l'occupazione della Cisgiordania e di Gaza: "Capii che la ragione per cui e' cosi' tremendamente difficile per Israele smantellare gli insediamenti risiede nel fatto che ogni ammissione che gli insediamenti nel West Bank si trovino su terreni depredati ai palestinesi, getta un'ombra minacciosa sulla valle di Esdrelon" (valle vicino a Haifa colonizzata dai sionisti durante il mandato britannico espellendone i fellahin palestinesi). * Passiamo ora a Meron Benvenisti ex colonizzatore di Al Quds (Gerusalemme) e dintorni. Per molti aspetti la sua requisitoria e' piu' dura di quella di Hanegbi. "La mia analisi del conflitto - dice Benvenisti - era sbagliata" perche' partiva dall'ipotesi di "una lotta di due movimenti nazionali per una stessa terra... Invece negli ultimi due anni sono giunto alla conclusione che si tratta di un conflitto tra una societa' di immigranti ed una societa' di autoctoni". La prospettiva quindi muta radicalmente perche' "la storia di fondo e' quella di indigeni e coloni. E' la storia dei nativi che percepiscono come le persone venute d'oltremare abbiano infiltrato il loro habitat e le abbiano spossessate". E' stata l'intensita' della seconda Intifada ad aprigli gli occhi sulla natura del conflitto: "Di colpo capii che era impossibile spiegare il tipo di insediamento e di riscatto della terra solo nei termini di un conflitto nazionale. E' impossibile spiegare il fenomeno dei kamikaze unicamente in termini di conflitto nazionale... Non raggiungeremo mai una situazione in cui gli arabi di Israele rinunceranno alla rivendicazione dei loro diritti collettivi". * Una soluzione fondata su due stati appare superata tanto a Benvenisti quanto a Hanegbi. Quest'ultimo infatti si e' scontrato con Uri Avnery uscendo dal movimento "Gush Shalom". Il numero di abitanti ebrei nel West Bank e' ormai tale da rendere impossibile la loro evacuazione per cui la Palestina deve essere considerata come un'unica entita' politica. In tale spazio geografico gli ebrei sono una minoranza per cui, nelle parole di Benvenisti, "l'establishment israeliano deve rendersi conto di non esser capace di imporre le sue concezioni egemoniche a tre milioni e mezzo di palestinesi nel West Bank ed a Gaza ed a 1,2 milioni in Israele". La proposta e' quindi di costituire uno stato binazionale magari strutturato per cantoni tra i quali uno anche per i coloni. Secondo Benvenisti "e' arrivato il momento di dichiarare chiusa la rivoluzione sionista", magari con un atto ufficiale "fissando una data per l'abrogazione della Legge del Ritorno" (la legge che conferisce agli ebrei nel mondo la liberta' assoluta di immigrare in Israele e l'ottenimento immediato delle cittadinanza israeliana). In conclusione, "l'idea sionista era mutilata sin dalla nascita: non aveva tenuto conto della presenza di un altro gruppo nazionale". Per Benvenisti sia i palestinesi che gli ebrei devono rinunciare alla sovranita' nazionale dato che "quella terra non permette due sovranita'". * Si tratta di interventi che vanno al cuore della storia del conflitto. L'idea di formare "un solo Stato democratico" su tutto il territorio della Palestina fu propria dell'Olp quando Arafat ne prese la guida nel 1964. L'allora posizione dell'Olp era migliore di quella di Benvenisti perche' la proposta dei cantoni, soprattutto quello riservato ai coloni, puo' anche significare cantoni apartheid: alcuni ricchi con strutture avanzate, con l'acqua, piscine e terre coltivabili, e molti poveri e sovraffolati. Inoltre, malgrado la loro spregiudicatezza gli articoli danno l'impressione che i palestinesi siano i grandi assenti. In altre parole i ragionamenti sono tutti interni ai processi storico-politici sionisti-israeliani. Le idee, le rappresentanze politiche e le istituzioni palestinesi non appaiono mai. Tutto sommato ha ragione Uri Avnery che, partendo dall'ipotesi dell'incontro tra due nazionalismi, assegna, come Avraham Burg, priorita' assoluta all'evacuazione di tutti gli insediamenti e vede nelle istituzioni palestinesi il referente e l'interlocutore principale, cosa che Burg ancora non dice a gran voce. 6. RILETTURE. SIMONA FORTI: IL TOTALITARISMO Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. X + 150, euro 9,30. Una pregevole monografia introduttiva dell'acuta studiosa di Hannah Arendt. 7. RILETTURE. ALBERTO L'ABATE: CONSENSO, CONFLITTO E MUTAMENTO SOCIALE Alberto L'Abate, Consenso, conflitto e mutamento sociale, Angeli, Milano 1990, pp. 328, lire 28.000. "Introduzione a una sociologia della nonviolenza" recita il sottotitolo di questo utilissimo volume di uno dei piu' grandi studiosi ed amici della nonviolenza. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 681 del 22 settembre 2003
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