La nonviolenza e' in cammino. 661



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 661 del 2 settembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Alvaro Ramirez: una richiesta urgente
2. Peppe Sini: da Viterbo a Riva con la nonviolenza e la nonmenzogna
3. Maria G. Di Rienzo: come i gruppi di attivisti si autodistruggono
4. Carlo Maria Martini: guardare al dolore dell'altro
5. Donatella Di Cesare: lingua della madre, lingua della morte, condizione
dell'esilio
6. Ottavio Raimondo: scintille di luce nel mondo d'oggi
7. Giulio Vittorangeli: per Cuba
8. Marinella Correggia presenta "Another american century?" di Nicholas
Guyait
9. Vetrina dell'editoria libertaria a Firenze
10. Letture: Stefania Bartoloni (a cura di), A volto scoperto. Donne e
diritti umani
11. Letture: Stefano Curci, Pedagogia del volto. Educare dopo Levinas
12. Letture: Arnaldo De Viti, Poesia e intercultura
13. Letture: Donne in nero, Con la forza della nonviolenza. Voci di donne
curde e turche
14. Letture: Mario Lancisi, Alex Zanotelli, Fa' strada ai poveri senza farti
strada
15. Letture: Toni Maraini, Diario di viaggio in America. Tra fondamentalismo
e guerra
16. Letture: Antonella Marrone, Piero Sansonetti, Ne' un uomo ne' un soldo.
Una cronaca del pacifismo italiano del Novecento
17. La "Carta" del Movimento Nonviolento
18. Per saperne di piu'

1. APPELLI. ALVARO RAMIREZ: UNA RICHIESTA URGENTE
[Attraverso Francesco Tullio (per contatti:
psicosoluzioni at francescotullio.it), che ringraziamo, riceviamo solo adesso e
subito diffondiamo questo appello del 6 agosto. Alvaro Ramirez Durini (per
contatti: ramialvaro at yahoo.com.mx) e' coordinatore per l'America latina
delle "Forze nonviolente di pace"]
Cari amici ed organizzazioni che partecipano alle "Forze nonviolente di
pace",
dinanzi alla grave situazione di violenza politica e sociale che sta
colpendo il popolo guatemalteco, le "Forze nonviolente di pace" hanno deciso
di mettere a disposizione, col sostegno di Peace brigades international,
Nisgua e Gap, un accompagnamento internazionale per coloro che in Guatemala
sono impegnati nella difesa dei diritti umani e degli spazi di democrazia.
I volontari per il servizio di accompagnamento internazionale saranno
quattro, e si aggregheranno per un mese alle equipes delle organizzazioni
sopra indicate.
Chiediamo a tutti coloro che desiderano partecipare o conoscano operatori di
pace che siano disponibili per realizzare questo accompagnamento
internazionale, di mettersi in contatto con il coordinamento latinoamericano
delle "Forze nonviolente di pace", e-mail: ramialvaro at yahoo.com.mx
Grazie fin d'ora anche per commenti e consigli.
Un saluto di pace,
Alvaro Ramirez Durini, coordinatore per l'America Latina delle "Forze
nonviolente di pace"

2. INIZIATIVE. PEPPE SINI: DA VITERBO A RIVA CON LA NONVIOLENZA E LA
NONMENZOGNA
Nei prossimi giorni oltre alla camminata nonviolenta Assisi-Gubbio promossa
dal Movimento Nonviolento ed alla carovana per la pace 2003 dei giovani e
dei missionari comboniani, si terranno iniziative per la pace e la giustizia
anche a Viterbo e a Riva del Garda, in occasione di vertici dei ministri
europei.
Mentre nel caso della Assisi-Gubbio e della carovana per la pace la scelta
della nonviolenza e' presupposto condiviso da tutti i partecipanti, e quelle
iniziative hanno una motivazione e dimensione fortemente caratterizzata e
non subalterna, scevra da rischi di ambiguita'; nel caso degli incontri che
si terranno a Viterbo e a Riva vi e' il rischio che essi in qualche misura
possano essere, per le manovre e negli intendimenti dei soliti provocatori
(che, ripetiamolo, non mancano mai), subalterni e speculari ai vertici dei
rappresentanti dei governi, e possano quindi riprodurne in scala le menzogne
propagandistiche, l'esibizionismo narcisista, atteggiamenti di asservimento
alla violenza e di idolatria della violenza col conseguente pericolo di
contribuire allo scatenamento di essa.
Per questo e' necessario adoperarsi tutti per rendere inefficace ogni
possibile provocazione che possa aggredire e comunque danneggiare le
iniziative di necessaria e coerente opposizione al "disordine costituito"
fondato su sfruttamento, inquinamento e guerra; iniziative che devono essere
di critica precisa e meditata, di analisi adeguata e consapevole, di
proposta ragionata e praticabile; iniziative che devono essere ispirate al
"principio responsabilita'" non solo nei contenuti, ma anche nei metodi;
nelle relazioni, nei gesti, negli atteggiamenti.
Per questo e' necessario che sia chiaro a tutte le persone di volonta' buona
che prenderanno parte alle iniziative del movimento per la pace e la
giustizia globale, che quelle iniziative avranno nitidi e forti un valore e
una dignita' - e, conseguentemente, anche una effettuale utilita' - solo se
saranno caratterizzate dalla nonviolenza e dalla nonmenzogna.
La scelta della nonviolenza e della nonmenzogna deve essere, ed occorre che
sia chiaro ed evidente a tutti, la chiave interpretativa e il programma
costruttivo degli incontri pacifisti ed equosolidali di Viterbo e di Riva,
l'impegno di tutti e di ciascuno di coloro che prenderanno parte alle
iniziative di riflessione e testimonanza contro la barbarie dominante e per
l'umanita'.
E' indispensabile che sia cosi', ed e' indispensabile che sia chiaro,
esplicito ed esplicitato che e' cosi'. In caso contrario si corre il rischio
di essere - oltre che di apparire, e quindi di essere percepiti e fatti
percepire - per l'ennesima volta come una sorta di sudditi e complici della
violenza e della menzogna dominanti; e si corre il rischio - terribile,
inammissibile rischio - di mettere ancora una volta, assurdamente e
scelleratamente, a repentaglio l'incolumita' di persone innocenti: e questo
non e' ammissibile oggi, come non lo era ieri, come non lo e' mai.
Le persone che si oppongono alla guerra deve essere costruttrici di pace, le
persone che vogliono lottare per la verita' e la giustizia devono adottare
esclusivamente metodi coerenti con la verita' e la giustizia, le persone che
vogliono difendere i diritti umani devono cominciare con il rispettarli loro
stesse, sempre.
La scelta della nonviolenza e della nonmenzogna: cosi' impegnativa, cosi'
necessaria.

3. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: COME I GRUPPI DI ATTIVISTI SI
AUTODISTRUGGONO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo testo. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di
questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
La mancanza di attenzione a cio' che puo' andare storto all'interno di un
gruppo di attivisti fa si' che innumerevoli aggregazioni ed iniziative di
base nascano e muoiano repentinamente senza raggiungere alcun risultato.
Le cause principali della scomparsa dei gruppi, nonche' del basso livello di
coinvolgimento delle cittadine/dei cittadini "comuni" in essi, sono le
dinamiche interne che tendono, per esempio, ad espellere dalle aggregazioni
i membri piu' abili e motivati: c'e' una sequenza tipica, che vede un
privato cittadino unirsi ad un gruppo, uscire sulla scena pubblica in
relazione ad un'istanza qualsiasi e poi scomparire nel nulla.
Cos'e' successo? In primo luogo, ci si e' divertiti troppo poco: e non sto
scherzando. Gli attivisti da lunga data, per cosi' dire, conoscono questa
verita' fondamentale. Prendersi terribilmente sul serio 24 ore al giorno
trasforma ogni incontro, ogni lavoro, ogni singolo minuto nel quinto atto di
una tragedia o nella seduta di un tribunale: non si ammettono errori, non
c'e' tempo per sorridersi o scambiarsi una battuta, la creativita' viene
repressa (perche' "non stiamo giocando, perdinci!"). Non importa quanto
seria sia la faccenda di cui vi occupate: l'ironia, l'umorismo, la satira
sono attrezzi potenti per il cambiamento sociale, e un mondo in cui si
giochi e si danzi di piu' e' senz'altro un mondo migliore di questo.
In secondo luogo, ci si e' probabilmente concentrati molto sull'interno:
ovvero si e' data molta enfasi all'organizzazione e si e' trascurata la
missione del gruppo. Sperando di diventare piu' efficienti, numerosi piccoli
gruppi creano delle burocrazie interne che finiscono per esaurire le energie
delle persone (rapporti, bilanci, scadenze, ecc.). Seguendo questa linea di
pensiero, e' anche probabile che vi siano stati molti incontri e pochissima
azione, ovvero scarso ritorno concreto per i propri sforzi, e molta
discussione sulle decisioni senza spazio per l'apporto creativo.
In terzo luogo, si e' data grande importanza al numero delle persone
coinvolte: se attorno al tavolo siamo in 40, significa che il tavolo
funziona e produrra' risultati... ahime', non e' cosi'. Un gruppo di lavoro
decisionale per funzionare bene non dovrebbe superare le 9 persone (e' il
limite per quello che i sociologi chiamano "gruppo primario"): notate bene
che questo non preclude il lavorare e decidere anche in gruppi piu' vasti,
in coalizioni ecc., ne' preclude la comunicazione con un largo numero di
persone attraverso incontri speciali, convegni, seminari, e cosi' via. Se
siete in trenta, il mio ragionamento non significa che dovete diventare di
meno, ma che per lavorare meglio avrete necessita' di formare dei
sottogruppi attorno alle aree di interesse preferite.
Inoltre, poiche' la costruzione di comunita' e democrazia di base comporta
il lavorare con gli altri, molte persone ne deducono di dover far entrare
nel gruppo chiunque si presenti. Quest'idea e' la ricetta sicura per il
declino e la successiva scomparsa del gruppo. Ogni aggregazione puo'
maneggiare la sua piccola porzione di persone distruttive, o competitive, o
desiderose di controllare tutto, senza grossi danni, ma quando questo numero
cresce le persone inclini alla cooperazione, quelle amichevoli e competenti,
cominciano ad andarsene. Man mano che tale sbilanciamento aumenta, il clima
diverra' sempre piu' invivibile, partecipare sara' una fatica e una
seccatura, ed altri ancora lasceranno il gruppo.
In quarto luogo, e' facile che ci sia stata scarsita' di contatto: non si
mantiene una relazione proficua fra le persone vedendosi una volta al mese,
al chiuso della sede del gruppo. La scadenza migliore sarebbe settimanale,
anche perche' si adatta al modo in cui le persone programmano normalmente le
loro attivita' (lunedi' vado a trovare mia sorella, giovedi' ho il corso di
ceramica e venerdi' mi trovo con il mio gruppo di attivisti). Prima
dell'avvento delle automobili, le strade erano il luogo in cui le persone si
incontravano, chiacchieravano, costruivano il loro essere insieme; oggi
questo non e' piu' possibile, ma vi sono altri luoghi in cui potreste
decidere di incontrarvi ogni tanto in alternativa alla vostra stanzetta: il
pub, il parco, la taverna di qualcuno... E perche' non cenare insieme, una
volta, o non dare una piccola festa?
Quinto, e finale, probabile problema incontrato: gli scopi da raggiungere
non hanno avuto corrispondenza con le risorse. Mancanza di tempo, di fondi,
di disponibilita' ad istruire i nuovi arrivati, di offerta di riconoscimento
per l'impegno personale, ecc. E nel mentre, come abbiamo visto, le persone
se ne vanno, alcuni dei rimanenti si esauriranno nel tentativo di fare
sempre di piu'. Anche qui, ci si e' rifiutati di pensare in modo creativo,
di commisurare mezzi e scopi, di inventare nuovi modi per usare il tempo, le
conoscenze e le abilita' di ciascuno/a.
In sintesi: non fatevi abbagliare dal numero dei partecipanti, assicuratevi
che i membri del gruppo provino piacere nella reciproca compagnia, misurate
i vostri interventi sulle risorse a disposizione, e divertitevi.

4. RIFLESSIONE. CARLO MARIA MARTINI: GUARDARE AL DOLORE DELL'ALTRO
[Questo intervento del cardinale Carlo Maria Martini e' apparso recentemente
su alcuni siti e newsletter, noi lo abbiamo ripreso dalla newsletter
pacifista "Grillo news" n. 68 del 31 agosto 2003. Carlo Maria Martini e' una
delle figure piu' prestigiose della cultura della pace; nato a Torino nel
1927, cardinale, gia' arcivescovo di Milano, si e' caratterizzato per un
rilevante impegno sociale e per un attento e sensibile confronto con le
grandi problematiche contemporanee; e' autore di una vasta opera sia
pastorale sia di riflessione]
Torno da Gerusalemme avendo ancora negli orecchi il suono sinistro delle
sirene della polizia e delle ambulanze dopo il terribile attentato di
martedi' 19 agosto.
Ma cio' che sempre piu' ascolto dentro di me non e' soltanto il dolore, lo
sdegno, la riprovazione, che si estende a tutti gli atti di violenza, da
qualunque parte provengano. E' una parola piu' profonda e radicale, che
abita nel cuore di ogni uomo e donna di questo mondo: non fabbricarti idoli!
Questa parola risuona nella Bibbia a partire dalle prime parole del Decalogo
e la percorre tutta quanta, dalla Genesi all'Apocalisse.
E' dunque un comandamento che tocca profondamente il cuore di ebrei e
cristiani e segna un principio irrinunciabile di vita e di azione. Ed e' un
comandamento anche molto caro all'Islam, che ne fa uno dei pilastri della
sua concezione religiosa: c'e' un Dio solo, potente e misericordioso, e
nulla e' comparabile a lui.
Ma e' anche un precetto segreto che risuona nel cuore di ogni persona umana:
chi adora o serve in ogni modo un idolo ha una coscienza almeno vaga di
voler "usare" la divinita' o comunque un principio assoluto per i propri
scopi, sente che sta strumentalizzando e sottoponendo ai propri interessi un
sistema di valori a cui occorre invece rendere onore. Per questo chiunque
adora un idolo intuisce che in qualche modo si degrada, sta facendo il
proprio male e sta preparandosi a fare del male agli altri.
Ma non ci sono soltanto gli idoli visibili. Piu' radicati e potenti, duri a
morire, sono gli idoli invisibili, quelli che rimangono anche quando sembra
escluso ogni riferimento religioso. Tra essi vi sono gli idoli della
violenza, della vendetta, del potere (politico, militare, economico...)
sentito come risorsa definitiva e ultima. E' l'idolo del volere stravincere
in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare nessuna di quelle
soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche cosa in vista di un
bene complessivo. Questi idoli, anche se si presentano con le vesti
rispettabili della giustizia e del diritto, sono in realta' assetati di
sangue umano.
Essi hanno una duplice caratteristica: schiavizzano e accecano. Infatti,
come dice tante volte la Bibbia, chi adora gli idoli diviene schiavo degli
idoli, anche di quelli invisibili: non puo' piu' sottrarsi ad esempio alla
spirale perversa della vendetta e della ritorsione. E chi e' schiavo
dell'idolo diventa cieco riguardo al volto umano dell'altro. Ricordo la
frase con cui alcuni giovani ex-terroristi degli anni '80 cercavano di
descrivere come avessero potuto sparare e uccidere: "non vedevamo piu' il
volto degli altri".
Le violenze che si scatenano oggi in tante parti del mondo sono il segno che
c'e' un'adorazione di questi idoli e che essi ripagano con la loro moneta
distruttrice chiunque renda loro omaggio. Chi ha fiducia solo nella violenza
e nel potere prima o poi tende a eliminare e distruggere l'altro e alla fine
distrugge se stesso. Gia' san Paolo ammoniva: "se vi mordete e divorate a
vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri". E
ancora: "Non vi fate illusioni: non ci si puo' prendere gioco di Dio.
Ciascuno raccogliera' quello che avra' seminato" (Lettera ai Galati 5, 15 e
6, 7).
Siamo nel vortice di una crisi di umanita' che intacca il vincolo di
solidarieta' fra tutto quanto ha un volto umano. Nell'adorazione dell'idolo
della potenza e del successo totale ad ogni costo e' l'idea stessa di uomo,
di umanita' che viene offesa, e' l'immagine stessa di Dio che viene
sfigurata nell'immagine sfigurata dell'uomo. Ma proprio da questa
situazione, dalla presa di coscienza di trovarsi in un tragico vicolo cieco
di violenza - a cui ha fatto piu' volte allusione il papa Giovanni Paolo
II - puo' scaturire un grido di allarme salutare e urgente, piu' forte
dell'idolatria del potere e della violenza. E' un grido che si traduce
concretamente nel proclamare che non vi sono alternative al dialogo e alla
pace. Lo sta da tempo ripetendo in tanti modi Giovanni Paolo II. Ma esso e'
un grido che precede le dichiarazioni pubbliche, per quanto accorate.
Risuona infatti nel cuore di ogni uomo o donna di questo mondo che si ponga
il problema della sopravvivenza umana. Di alternativo alla pace oggi vi e'
solo il terrore, comunque espresso. Quando la sola alternativa e' il male
assoluto, il dialogo non e' solo una delle possibili vie di uscita, ma una
necessita' ineludibile. Per questo i leader di tutte le parti tra loro
contrastanti debbono rischiare senza esitazioni il dialogo della pace.
Tutto cio' fa emergere ancora piu' chiaramente le responsabilita' della
comunita' internazionale, quelle dell'Onu e quelle dell'Europa, quelle degli
Stati Uniti, della Russia e dei paesi arabi. E' necessario che tutti aiutino
il processo di pace che si era appena iniziato, con una pressione forte e
convinta a favore della Road Map e anche con la prontezza a fornire un
sostegno politico e finanziario alle comunita' che hanno il coraggio di
rischiare la pace. Alla costruzione di muri di cemento e di pietra per
dividere le parti contrastanti e' preferibile un ponte di uomini che, pur
garantendo la sicurezza di entrambe le parti, consenta alle due comunita' di
comunicare e di intendersi sempre piu' sulle cose essenziali e su quelle
quotidiane.
Certamente l'odio che si e' accumulato e' grande e grava sui cuori. Vi sono
persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in
vita insieme uccide. Per superare l'idolo dell'odio e della violenza e'
molto importante imparare a guardare al dolore dell'altro. La memoria delle
sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l'odio quando essa e' memoria
soltanto di se stessi, quando e' riferita esclusivamente a se', al proprio
gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guardera' solo al
proprio dolore, allora prevarra' sempre la ragione del risentimento, della
rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sara' anche
memoria della sofferenza dell'altro, dell'estraneo e persino del nemico,
allora essa puo' rappresentare l'inizio di un processo di comprensione. Dare
voce al dolore altrui e' premessa di ogni futura politica di pace.
Non fabbricarti idoli: idolo e' anche porre se stesso e i propri interessi
al disopra di tutto, dimenticando l'altro, le sue sofferenze, i suoi
problemi. Il superamento della schiavitu' dell'idolo consiste nel mettere
l'altro al centro, cosi' da creare quella base di comprensione che permette
di continuare il dialogo e le trattative.

5. RIFLESSIONE. DONATELLA DI CESARE: LINGUA DELLA MADRE, LINGUA DELLA MORTE,
CONDIZIONE DELL'ESILIO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 agosto 2003. Donatella Di Cesare, gia'
allieva di Gadamer, docente di filosofia del linguaggio, e' acuta studiosa
della riflessione filosofica contemporanea; dal sito www.donadice.com
riportamo la seguente notizia: "Donatella Di Cesare si e' laureata in
Filosofia nel 1979 all'Universita' La Sapienza di Roma. Ha proseguito gli
studi all'Universita' di Tubinga dove ha conseguito il dottorato con Eugenio
Coseriu nel 1982. Dal 1985 e' stata ricercatrice di filosofia del linguaggio
all'Universita' La Sapienza di Roma. Nel 1996 ha ottenuto la borsa di studio
Alexander von Humboldt presso Hans-Georg Gadamer all'Universita' di
Heidelberg; in questa universita' ha compiuto ricerche anche presso la
Hochschule fuer Juedische Studien. Nel 1998 ha vinto il concorso di
professore associato, nel 2000 quello di professore ordinario. Dal 2001 e'
professore ordinario di filosofia del linguaggio alla facolta' di filosofia
dell'Universita' La Sapienza di Roma. E' membro della Societa' italiana di
filosofia del linguaggio, della Societa' italiana di studi sul secolo XVIII,
della Deutsche Hamann-Gesellschaft, della Academie du Midi, della
Associazione italo-tedesca di Villa Vigoni, dello International Institut for
Hermeneutics, della Heidegger-Gesellschaft, e' membro fondatore della
Walter-Benjamin Gesellschaft. Fa parte della redazione scientifica dello
Jahrbuch fuer philosophische Hermeneutik, dirige la rivista di filosofia
Eidos. Pubblicazioni di Donatella Di Cesare: segnaliamo i seguent volumi:
Wilhelm von Humboldt y el estudio filosofico de las lenguas, Anthropos,
Barcelona 1999; Die Sprache in der Philosophie von Karl Jaspers, Francke
Verlag Tuebingen-Basel 1996; La semantica nella filosofia greca, Bulzoni,
Roma 1980; ha inoltre curato i seguenti libri: Filosofia, esistenza,
comunicazione in Karl Jaspers, a cura di D. Di Cesare e G. Cantillo,
Loffredo, Napoli 2002; L'essere che puo' essere compreso, e' linguaggio.
Omaggio a Hans-Georg Gadamer, a cura di D. Di Cesare, Il Melangolo, Genova
2001; "Caro professor Heidegger...". Lettere da Marburgo 1922-1929, a cura
di D. Di Cesare, Il melangolo, Genova 2000; Wilhelm von Humboldt, La
diversita' delle lingue, a cura di Donatella Di Cesare, Laterza, Roma-Bari
1991, 2000. Wilhelm von Humboldt, Ueber die Verschiedenheit der Sprache,
hrsg. und mit einer Einleitung von Donatella Di Cesare, Paderborn, UTB,
1998; Eugenio Coseriu, Linguistica del testo. Introduzione all'ermeneutica
del senso, a cura di Donatella Di Cesare, Carocci, Roma 1997, 2000; Lexicon
grammaticorum, a cura di T. De Mauro e D. Di Cesare, Niemeyer, Tuebingen
1996; Torah e filosofia. Percorsi del pensiero ebraico, a cura di D. Di
Cesare e M. Morselli, La Giuntina, Firenze 1993; Karl Jaspers, Il
linguaggio. Sul tragico, a cura di Donatella Di Cesare, Guida, Napoli 1993;
Le vie di Babele, a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Marietti, Milano
1987; Iter babelicum. Studien zur Historiographie der Linguistik. 1600-1800,
a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Nodus Publikationen, Muenster 1990"]
Non sentirsi a casa propria e' per Heidegger, gia' in Essere e tempo, la
peculiarita' dell'uomo moderno. Subito dopo la guerra, nella famosa Lettera
sull'umanismo del 1946, il filosofo tedesco dichiara: "La spaesatezza
diviene un destino mondiale". Ma l'assenza di patria, di Heimat, intesa
soprattutto come esilio dalla verita', lascia aperta la domanda sul ritorno.
Ci sara' ancora la possibilita', una volta perduto l'antico terreno, di
trovarne uno nuovo? Si potra' recuperare l'origine, e la propria terra
d'origine? La questione del "ritorno in patria" esplode pero' alla fine
degli anni '40, quando comincia il rientro degli emigrati nei paesi
d'origine.
Se la patria e' la Germania, e gli esuli sono ebrei, la questione diviene
conflittuale, ma anche perspicua, e offre lo spunto per una riflessione
generale sull'esilio. Nella diaspora ebraica, prima e durante la Shoah, si
comincia a vedere prefigurata la condizione umana dell'esilio nell'eta'
della mondializzazione.
"Di quanta patria ha bisogno l'uomo?" - si chiede Jean Amery, pseudonimo
francese per il tedesco Hans Mayer, nel suo libro Intellettuale a Auschwitz.
La risposta che da' e' ferma ma, nella sua fermezza, e' conservatrice:
l'uomo ha bisogno di molta patria, e ne ha tanto piu' bisogno quanto meno
puo' portarne via con se'. La patria e' il luogo d'origine insostituibile:
"una nuova patria non esiste". Se l'esilio, sopportato perche' temporaneo,
e' stato ed e' - come direbbe Cioran - solo una "Citta' del Nulla", che cosa
resta agli esuli, espatriati, privati dal nazismo della loro origine?
*
Che cosa resta? Resta la lingua materna? Quel surrogato di patria che si
puo' portare via con se'? La domanda che, in forme diverse, compare in
diari, ricordi autobiografici, interviste, articoli giornalistici, saggi
filosofici, impegna gli ebrei tedeschi nel dopo esilio. Diviene anzi una
sorta di ossessione di quella che Derrida ha chiamato la "psiche
ebraico-tedesca".
Che cosa resta nell'esilio? E che cosa resta dell'esilio dopo l'esilio?
"Resta la lingua materna" - afferma Hannah Arendt con parole certe, scandite
in un tedesco perfetto, senza traccia di accento straniero dopo anni
d'esilio, nel corso di una famosissima intervista rilasciata nel 1964.
L'identificazione con la lingua materna e' qui totale. E trapela da due
frasi ispirate a un esasperato buon senso: "Ho sempre rifiutato,
consapevolmente, di perdere la lingua materna (...). Sempre. Mi dicevo: che
cosa ci si puo' fare? Non e' la lingua tedesca ad essere impazzita! E poi,
non esistono alternative alla lingua materna". La testimonianza di Hannah
Arendt esprime bene la convinzione a cui l'esule si aggrappa. La propria
identita' trova un luogo sicuro e ben protetto nel grembo della lingua
materna. Chi mai potrebbe espatriarlo da li'? Di tutti i luoghi e' il piu'
sicuro, il piu' familiare, il piu' intimo. E' la sua vera dimora, l'unica,
nel tempo dell'erranza.
Ma questa convinzione non e' condivisa da tutti. Le vicende dell'esilio,
immense quanto singolari, potrebbero dar luogo a una complessa tassonomia
che va dagli ebrei tedeschi di lingua tedesca (Adorno, Arendt, Benjamin,
Buber, Rosenzweig, Scholem), agli ebrei non tedeschi di lingua tedesca
(Canetti, Celan, Kafka), e infine agli ebrei non tedeschi che hanno avuto un
rapporto stretto con la lingua tedesca (Levinas). E' una tassonomia che, per
quanto importante per una riflessione filosofico-linguistica, non e' stata
ancora ne' delineata ne', tanto meno, sviluppata. Ma perche' - si potrebbe
chiedere - gli ebrei, perche' gli ebrei tedeschi e perche' la lingua
tedesca?
L'attenzione rivolta alla lingua tedesca non esclude fenomeni analoghi
sull'altra riva dell'ebraismo, cioe' non solo tra gli ebrei aschenaziti, ma
anche tra quelli sefarditi. Tuttavia il rapporto tra la lingua tedesca e i
parlanti ebrei, tedeschi e non tedeschi, gia' teso prima di Auschwitz, dopo
si spezza fino a interrompersi. Auschwitz e' il nome della frattura, del
baratro, della fossa non piu' colmabile. Chi riuscira' piu' a parlare quella
lingua della madre che e' divenuta lingua della morte?
*
Il rapporto di tensione, che e' sempre presente tra lingua e parlante,
raggiunge qui il limite estremo e porta alla posizioni piu' diverse, che
vanno dal rifiuto intenzionale alla rimozione piu' o meno inconscia, dalla
ricerca strenua e ostinata della lingua perduta, o quasi perduta, alla
identificazione completa e illimitata.
Il caso di Adorno e' analogo a quello di Hannah Arendt. Nel discorso
pronunciato a Francoforte il 22 settembre del 2001 in occasione del "Premio
Adorno" - discorso pubblicato di recente in Italia (Jacques Derrida, Il
sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2003) - Derrida ritorna sul tema della
lingua materna, gia' affrontato in saggi precedenti. Was ist Deutsch?, Che
cos'e' il tedesco? e' la domanda rivolta nel 1965 ad Adorno, che senza
esitare ammette: "Neppure un istante, durante l'emigrazione, ho rinunciato
alla speranza del ritorno". La motivazione "oggettiva" che nel 1949 lo
induce a tornare in Germania e' la lingua. Nostalgicamente Adorno si
riconosce nei suoni che gli rievocano l'infanzia; ma del tutto inatteso e'
l'encomio del tedesco e delle sue "affinita' elettive con la filosofia". Pur
ritrovando nel tedesco la patria filosofica, Adorno si propone tuttavia di
dare prova di una "vigilanza instancabile" per sfuggire alle mistificazioni
che questa lingua con la sua "eccedenza metafisica" potrebbe favorire.
Aggiunge di aver scritto anche per questo Il gergo dell'autenticita'. E' una
posizione che, secondo Derrida, potrebbe risultare "esemplare" nell'Europa
di oggi, indicando la via per salvare la differenza linguistica, resistendo
percio' all'egemonia internazionale di una lingua, senza cedere tuttavia
alla "reattivita' identitaria" e alla "vecchia ideologia sovranitarista".
Diversa da quella di Adorno e' la posizione di Levinas per il quale ogni
lingua puo' essere lingua della filosofia, se "l'essenza del linguaggio e'
amicizia e ospitalita'". Levinas si riferisce qui al francese che lo ha
accolto divenendo per lui "lingua familiare", come il lituano, il russo, il
tedesco, l'ebraico.
Tra le posizioni di Adorno e quelle di Hannah Arendt da un canto, e di
Levinas dall'altro, si delineano quelle diverse, e difficilmente
unificabili, degli ebrei tedeschi in esilio in America, e in altri paesi, o
di ritorno in Germania. In molti riecheggia pero' la preoccupazione espressa
da Guenther Anders nel volume collettivo Verbannung (Esilio): "Non avevamo
ancora imparato l'inglese, il francese, lo spagnolo, e gia' il nostro
tedesco si sgretolava in modo cosi' furtivo che non ci accorgevamo della
perdita".
Il tema della perdita della lingua attraversa non solo le poesie, ma anche i
pochi importanti scritti di prosa di Paul Celan che nel 1958 confessa:
"Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa
sola: la lingua. La lingua si', nonostante tutto, rimase non perduta".
Unverloren, non perduta, vuol dire insieme il timore che vada perduta, ma
anche lo sforzo per non perderla. E nessuno forse piu' tragicamente di Celan
ha vissuto da ebreo l'esilio nell'unica patria che gli restava, in quella
lingua tedesca di cui e' stato tra i maggiori poeti dell'ultimo secolo.
*
La questione della lingua tedesca non e' dunque di poco conto. Ha anzi un
grande rilievo teorico e meriterebbe uno spazio, nel dibattito pubblico, che
sinora non ha avuto. Le eccezioni, come quella di Derrida, sono rare. E vale
la pena sottolineare che si contano tra i filosofi piu' che tra i linguisti.
Se la questione e' stata aggirata, e' perche' la risposta mette in crisi
l'idea diffusa e radicata della lingua materna: il luogo dell'intimita'
assoluta.
Sin dall'antichita' la lingua segna il confine tra un gruppo di parlanti e
un altro: noi ci comprendiamo perche' parliamo la stessa lingua, sono gli
altri a non comprendere perche' parlano un'altra lingua, una lingua
straniera, anzi una non-lingua. Per i greci gli altri sono barbari, cioe'
balbuzienti.
Anche quando le cose cambiano, quando viene riconosciuta la diversita' e la
pari dignita' delle lingue, e il linguaggio e' visto non piu' come
strumento, bensi' come organo in cui si declina storicamente la ragione, non
cambia il rapporto con la lingua materna. Nasce anzi la metafora della
lingua madre. E si intende la lingua che, come la madre, mette al mondo il
bambino, cioe' gli dischiude e gli articola il mondo. Unica e
insostituibile, la lingua materna non si puo' tradurre e non si puo'
tradire. E' una specie di seconda pelle che avvolge chi la parla dalla
nascita alla morte. Malgrado la spaesatezza dell'uomo nel mondo, il ritorno
all'origine - Heidegger lo ribadisce in un saggio del 1960, Sprache und
Heimat (Linguaggio e terra natia) - e' consentito dalla lingua materna,
l'unica patria, la sola dimora che resta. L'idea e' rassicurante. E
rassicura in effetti gli esuli - a cominciare da Hannah Arendt, in questo
profondamente heideggeriana. L'esilio ne verrebbe attutito.
*
Ma e' davvero cosi'? Davvero l'estraneita' non tocca la lingua materna?
L'estraneita' e l'ostilita' con cui la lingua tedesca investe
improvvisamente gli ebrei in Germania (e non solo in Germania) dice il
contrario. E quello che resta del nazismo, la lingua, non e' un residuo,
neutro ed esteriore, di un'appartenenza a cui non si vorrebbe rinunciare. La
lingua non e' uno strumento che possa essere conservato, ripreso e
utilizzato dopo qualsiasi evento, anche dopo Auschwitz. Se e' matrice della
ragione, deve aver avuto parte a quell'evento. Semmai lo ha reso possibile.
Cosi' la lingua tedesca non puo' essere assolta. Perche' del nazismo e'
stata complice, piu' che complice. E del nazismo si comprendera' ben poco,
se si separera' e si escludera' la lingua.
La colpa della lingua tedesca - si pensi alla rigida regolazione con cui
nella lingua e' stata nascosta la Shoah, quando ad esempio nei protocolli di
Wannsee si parla di "spostamento a est" - e' colpa in senso profondo. Lo
mostrano le ricerche che, anche a partire da Primo Levi, sono state avviate
sul gergo dei lager e sul linguaggio nell'universo concentrazionario. Ne e'
un riflesso la difficolta' di nominare lo sterminio - su cui ha scritto Anna
Vera Sullam-Calimani nel suo I nomi dello sterminio (Einaudi, 2001).
Nella tensione estrema tra la lingua tedesca e gli esuli ebrei affiora con
una chiarezza forse senza precedenti l'estraneita' irriducibile che segna il
rapporto del parlante con la propria lingua. A partire di qui va messa in
dubbio l'idea di possesso e di proprieta' secondo cui la lingua
apparterrebbe al parlante e il parlante alla lingua. "Non ho che una lingua
e non e' la mia, (...) e' la lingua dell'altro" - scrive Derrida nel libro
Le monolinguisme de l'autre ou la prothese de l'origine, del 1996. La lingua
che parlo, la mia lingua, non e' mia, ma e' sempre gia' dell'altro. A
partire, gia', dall'altro della madre. Dire "dell'altro", "altrui", non
significa dire "straniera", ma "estranea". Il destino di tutti e' quello di
nascere in una sola lingua-madre, che non si sceglie, come non si sceglie la
madre. Ma quella lingua che, pur non avendo scelto, mi attraversa da parte a
parte, che e' il luogo delle mie sofferenze, delle mie passioni, dei miei
desideri, che da' voce ai miei pensieri, alle mie speranze, proprio quel
luogo intimo, in cui non potrei non identificarmi, si rivela gia' sempre
estraneo. La lingua materna e' me prima di me, prima che io possa dire io.
La mia stessa identita', di cui mi approprio attraverso la lingua, mi viene
espropriata dalla lingua. La lingua e' sempre mia e non mia. Nessuno puo'
dire mia, tua, nostra, per la lingua.
*
La proprieta' della lingua si rivela impossibile, perche' la lingua
interdice la proprieta'. La mia, ma anche quella dell'altro. La lingua e'
dell'altro solo per la provenienza, perche' proviene dall'altro, ma non per
la proprieta'. Nessuno riesce davvero a imporre l'egemonia colonizzatrice di
una lingua - piu' insidiosa ed efficace di molte altre imprese
imperialiste - perche' sara' sempre fermato dalla lingua. Sara' la lingua a
denunciare di non essere un suo bene. La lingua e' di tutti e non e' di
nessuno. E forse si puo' dire cosi': nella lingua ci sono solo esuli,
emigranti, profughi, ma non ci sono proprietari. Presa in parola la lingua
apre a una politica, un'economia, un'etica, un diritto non ancora scritti,
prescrivendo il diritto e i limiti di un nuovo diritto diproprieta'.
Ma se non c'e' proprieta' perduta, perche' la lingua e' sempre estranea, se
non c'e' residuo di patria, se non c'e' dimora dove fare ritorno, allora non
ci sara' neppure ritorno. La spaesatezza non risparmia la lingua e anche
questo luogo intimo, il piu' intimo, ci viene sottratto. Abitare nella
lingua sara' allora piuttosto come un migrare nel deserto. L'esilio
linguistico degli ebrei tedeschi, nelle sue forme drammatiche ed estreme, ha
messo in luce questa alienazione umana originaria e destinale, cioe'
l'esilio di ogni parlante nella lingua.

6. STRUMENTI. OTTAVIO RAIMONDO: SCINTILLE DI LUCE NEL MONDO D'OGGI
[Ringraziamo padre Ottavio Raimondo (per contatti: sermis at emi.it) per averci
inviato questo testo. Ottavio Raimondo e' direttore editoriale della Emi,
l'Editrice Missionaria Italiana (sito: www.emi.it) che ha pubbllicato
innumerevoli utilissimi libri]
Sono passati 40 anni dalla comparsa dell'enciclica Pacem in terris di
Giovanni XXIII (11 aprile 1963). Non sono stati 40 anni di pace.
Guerre sanguinose e crudeli, spesso fratricide, sono scoppiate in ogni parte
del mondo: dalla "civile" Europa, all'Asia, all'Africa, all'America,
all'Oceania. E anche il secolo XXI rischia di essere un secolo di sangue: si
e' aperto con la guerra in Iraq e la superpotenza ne minaccia altre,
facendosi immagine blasfema di un Bene che combatterebbe contro il Male,
mentre e' solo un interesse (di pochi ricchi) che combatte contro
l'interesse complessivo dell'umanita' e in particolare dei poveri della
terra, i due terzi della popolazione mondiale.
Ma e' anche cresciuto, in questi 40 anni, il popolo dei "costruttori di
pace", ormai diffuso in tutto il mondo e unito al di la' di ogni differenza
di cultura, di religione, di visione politica, di condizione sociale. L'idea
di pace si e' dilatata: non piu' solo assenza di guerra, ma giustizia nei
rapporti Nord/Sud, impegno per la salvaguardia dell'ambiente, dei diritti
umani e della vita, in particolare diritti delle donne, dei bambini, dei
diversamente abili, rispetto per tutte le minoranze e tutte le culture,
dialogo interculturale e interreligioso all'interno di ogni societa'... Nel
frattempo papa Giovanni e' stato proclamato beato dalla Chiesa e la sua voce
risuona piu' che mai alta e attuale: gia' 40 anni fa chiedeva la formazione
di quella "comunita' mondiale, la cui creazione oggi e' urgentemente
reclamata dalle esigenze del bene comune universale" (n. 4).
Ma questa suprema aspirazione, che richiederebbe una profonda riforma e
un'effettiva autorita' delle Nazioni Unite, non si raggiunge che sulla base
di due principi tra i quali corre tutto il discorso del papa. Il primo, con
cui si apre l'enciclica, riguarda il fondamento: "La pace in terra, anelito
profondo degli esseri umani di tutti i tempi, puo' venire instaurata e
consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio" (n. 1). Il
secondo riguarda l'attuazione, che non resta affidata a pochi, ma richiede
l'impegno di tutti, in particolare dei credenti: "A tutti gli uomini di
buona volonta' spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i
rapporti della convivenza nella verita', nella giustizia, nell'amore, nella
liberta' (...). Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una
scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa:
e tanto piu' lo sara', quanto piu', nell'intimita' di se stesso, vive in
comunione con Dio" (nn. 87 e 88).
Su questi due principi nel libro di Joel Cruz Reyes, Riscoprirsi persone
responsabili (Emi, Bologna 2003), viene costruito un itinerario di lettura
popolare della proposta di Papa Giovanni, per riscoprirci tutti persone
responsabili, con il coraggio di assumerci il nostro impegno e farci carico
insieme del sogno di Dio, in spirito di resistenza e alternativa rispetto ai
modelli violenti del potere oggi dominante. Nel libro ci avviciniamo al
testo della Pacem in terris cercando di capirlo e di scoprirne l'attualita'
nel nostro cammino di costruttori di pace. Ogni capitolo e' diviso in tre
parti: nella prima parte si presentano le idee essenziali; nella seconda una
proposta di lettura popolare dell'enciclica anche con l'aiuto di alcune
domande; nella terza vengono offerte piste d'impegno concreto per
organizzare la speranza e passare dalla riflessione all'azione. "Riscoprirsi
persone reponsabili" e' un progetto di educazione popolare alla pace che
nasce dai giovani imepgnati nella Carovana della pace 2003.

7. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: PER CUBA
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: giulio.vittorangeli at tin.it)
per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali
collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre
1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e
alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una
lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il
responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso
numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in
rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche
un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento,
riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la
solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita'
pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti
di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni;
tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati
gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e
le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di
innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio
1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica
desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita'
umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione,
Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da
soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa
Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica,
Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali,
Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca
della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta'
internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente
insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di
politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale
viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997).
Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"]
Noam Chomsky ha scritto recentemente: "I leaders statunitensi continuano a
non curarsi degli effetti a lungo e medio termine della politica estera, che
li spinge a usare qualsiasi mezzo per imporre al mondo la propria
supremazia. Il finanziamento, per esempio, da parte dell'amministrazione
Reagan alla controrivoluzione antisandinista in Nicaragua
(cinquantasettemila vittime), l'aiuto militare fornito alla "lotta contro il
terrorismo" condotta dal governo turco contro i kurdi (con milioni di
rifugiati, decine di migliaia di vittime, trecentocinquanta citta' o
villaggi distrutti), e il sostegno incondizionato all'occupazione israeliana
dei territori palestinesi, sono tutti episodi che mostrano come i dirigenti
degli Stati Uniti non si facciano alcuno scrupolo nell'appoggiare pratiche
di violenza calcolata e 'guerre di bassa intensita'' che possono essere
equiparate al terrorismo".
Sembra quello che si sta preparando ora nei confronti di Cuba. Non a caso
l'ambasciatore Usa nella Repubblica Dominicana il 10 aprile ha affermato che
l'attacco all'Iraq deve servire da "esempio" per Cuba. Del resto, la sola
manifestazione nel mondo che ha appoggiato la guerra in Iraq, si e' svolta a
Miami, scandita dagli slogan "Iraq oggi, Cuba domani". E' evidente che Bush
jr. vuole saldare il debito elettorale contratto con gli anticastristi della
Florida e farla finita con la ingombrante "anomalia" cubana. Perche' le
scelte di Cuba, al di la' di qualunque brutale errore, hanno rappresentato e
rappresentano un precedente insopportabile per gli Stati Uniti e per l'idea
che i governi di Washington hanno del destino sottomesso dell'America
Latina.
In questa situazione sfacciatamente chiara, la reazione di estrema
brutalita', con l'arresto di 75 dissidenti accusati di sabotaggio e
tradimento condannati a pene da 6 a 28 anni di carcere e la repentina
esecuzione dopo un processo sommario di tre uomini accusati di terrorismo
per aver tentato di dirottare un traghetto, ha fatto di Cuba, agli occhi del
mondo, uno "stato canaglia"; l'esatto contrario di quello che vogliono i
cubani, che temono un'azione militare degli Stati Uniti.
In difficolta' e' quindi la stessa solidarieta' internazionale.
Ha scritto Eduardo Galeano: "La rivoluzione cubana nacque per essere
diversa. Sottoposta a un'incessante pressione imperiale, e' sopravvissuta
come ha potuto e non come avrebbe voluto. Si e' molto sacrificato quel
popolo, intrepido e generoso, per continuare a stare in piedi in un mondo di
prostrati. Ma nel duro cammino che ha percorso in tanti anni, la rivoluzione
ha perso progressivamente il volto della spontaneita' e della freschezza che
al principio l'aveva sostenuta. Lo dico con dolore. Cuba ci fa male".
Ci fa male, a noi che rifiutiamo la pena di morte nel mondo, e riteniamo che
debba essere definitivamente bandita. Perche' non si uccide, non si fucila,
ne' si perseguita nessuno, sia poeta o giornalista, sia imbecille o
traditore. Perche' non esiste una pena di morte buona e una cattiva, a
secondo del regime che la impone e la decreta.
Cuba resta una realta' complicata, ne' cosi' limpida come qualcuno la vede
(educazione, sanita', tutele sociali, cultura, pratica sportiva), ne' cosi'
oscura come altri la dipingono e la vogliono immaginare a tutti i costi
(assenza di diritti politici, di liberta' di informazione, ecc.). Va
giudicata per quello che ha conquistato e per quello in cui ha fallito.
"Quello che non e' accettabile e' favorire con le proprie azioni chi ha
deciso di cancellare a qualunque costo, anche con la provocazione e il
terrorismo, uno straordinario momento di partecipazione collettiva come e'
stata la rivoluzione cubana, pur fra tante contraddizioni, errori, miopie,
durezze" (Gianni Mina').
E' questa l'ora in cui dobbiamo difendere Cuba, e non quando Cuba sara'
caduta. Avra' poco senso domani riversarsi per le strade e protestare contro
l'invasione yankee dell'isola. E dobbiamo difenderla anche con la critica e
la denuncia di tutti gli errori e le tare dei suoi dirigenti.
"La solidarieta' con Cuba deve essere coerente con i principi e i valori
umani, nel rifiuto della pena di morte e nella ferma richiesta al  governo
della sua abolizione. Deve sostenere il popolo cubano nel suo diritto
dell'autodeterminazione e alla sovranita'. Perche' Cuba e' uno dei pochi
paesi a mantenere una autonomia decisionale che risponde alla sua identita',
ai suoi valori e alla sua sovranita'" (Alfonzo Perez Equivel, premio Nobel
per la pace).

8. LIBRI. MARINELLA CORREGGIA PRESENTA "ANOTHER AMERICAN CENTURY?" DI
NICHOLAS GUYAIT
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 agosto 2003. Marinella Correggia e'
un'apprezzata giornalista, saggista e attivista per l'ambiente, i diritti,
la pace e la nonviolenza; si occupa da anni di economia alternativa,
ecologia pratica, rapporti Nord/Sud; ha pubblicato diversi manuali e
dossier. Tra le opere di Marinella Correggia segnaliamo particolarmente il
recente Manuale pratico di ecologia quotidiana, Mondadori, Milano 2000,
2002]
La lezione di una delle grandi tragedie dell'ultimo decennio - il genocidio
del Ruanda - rischia di cadere dimenticata, insieme al ruolo che vi ha
giocato l'amministrazione Usa. Altri casi sono meglio noti - ne scrive
Nicholas Guyait nel suo libro Another American Century? (Zed Books, 2000)
che analizza il ruolo degli Usa nel mondo durante gli anni '90, sotto il
profilo economico, politico e militare. Le mai cessate anzi inasprite
sanzioni economiche all'Iraq; le aggressioni militari vere e proprie come i
bombardamenti su Baghdad nel dicembre 1998; l'intervento disastroso in
Somalia ("un esempio di quel che non dovrebbe essere un'operazione di
peacekeeping"); le ambiguita' durante la guerra in Bosnia; il ruolo
determinante di Madeleine Albright nel provocare a Rambouillet la guerra del
Kosovo.
Non e' meno degno di attenzione il ruolo degli Stati Uniti nella tragedia
del Ruanda. Guyait spiega che la "sindrome somala", impadronitasi degli
americani dopo la disastrosa operazione Restore Hope, "contribui' al
successo del genocidio in Ruanda". Dall'interventismo messianico gli Usa
erano passati a un "nuovo realismo": intervenire solo se c'era di mezzo
l'interesse nazionale.
Nel 1994, in Ruanda erano presenti i caschi blu dell'Onu - la missione
Unamir - per monitorare un precedente accordo politico. L'Unamir aveva
capito in tempo (ben prima dell'assassinio del presidente Haiyarimana) quel
che stava per accadere, e il suo comandante Romeo Dallaire aveva chiesto un
rinforzo di uomini per proteggere le popolazioni, nonche' il permesso di
disarmare le gang armate di machete e di oscurare gli incitamenti
radiofonici all'assassinio. Ma il piccolo contingente Onu fu lasciato solo
anche quando i massacri iniziarono, in aprile. Come mai?
Mentre il segretario generale dell'Onu Boutros Boutros-Ghali, destinato a
non essere rieletto per volonta' statunitense, cercava di convincere il
Consiglio di sicurezza ad aumentare le forze Onu sul terreno ruandese, la
segretaria di stato Albright minacciava il veto Usa. Ricorda Guyait: "Per
due settimane, nel mese di maggio, Albright ritardo' con successo i piani
dell'Onu di mandare subito 5.500 uomini, con il pretesto che la missione era
vaga". Non lo era affatto: Dallaire e i suoi avevano le idee chiare e una
presenza molto piu' numerosa sul terreno avrebbe salvato decine, forse
centinaia di migliaia di vite. Infatti, gli sparuti 500 caschi blu presenti
erano comunque riusciti a proteggere circa trentamila tutsi intorno a
Kigali.
Non finisce qui: nel giugno 1994 l'organizzazione per l'unita' africana
(Oua) aveva finalmente stanziato fondi per rimpolpare la missione Onu in
Ruanda; ma l'invio fu ulteriormente ritardato perche' gli Stati Uniti,
malgrado il loro enorme debito con l'Onu, avevano deciso di non prestare
gratis i carri armati alle truppe africane, bensi' di farne pagare
l'affitto... cosi', solo a luglio l'Unamir fu rafforzata. Troppo tardi: nei
cento giorni di inazione internazionale guidati dagli Usa, il genocidio si
era compiuto.
Conclude Guyait: "Riluttanti a rinunciare al proprio ruolo centrale negli
affari internazionali, ma non disposti a impegnare truppe e denaro per le
operazioni dell'Onu, gli Stati Uniti atrofizzarono la causa del peacekeeping
proprio mentre la situazione in Ruanda richiedeva una risposta flessibile e
rapida".

9. INCONTRI. VETRINA DELL'EDITORIA LIBERTARIA A FIRENZE
[Dalla prestigiosa rivista "Libertaria" (per contatti:
libertaria at libertaria.it) riceviamo e diffondiamo]
Si svolgera' a Firenze, in piazza della liberta', il 19, 20, 21 settembre
2003 la "vetrina dell'editoria anarchica e libertaria".
Aderiscono: A. rivista anarchica, Milano; Alternativa libertaria, Firenze;
Aparte, Venezia; Archivio Berneri-Chessa, Reggio Emilia; Biblioteca Franco
Serantini, Pisa; Canariah, Roma; Centro Internazionale della Grafica,
Venezia; Chersi, Brescia; Cira, Losanna; csla "G. Pinelli", Milano; csl "Di
Sciullo", Chieti; Collegamenti Wobbly, Genova; Comunarda, Cosenza;
Contropotere, Napoli; Crescita politica, Firenze; Eleuthera, Milano; La
Fiaccola, Noto; Galzerano, Salerno; Germinal, Trieste; Libertaria,
Milano-Roma; Nautilus, Torino; Nonluoghi libere edizioni; Ran, Livorno;
Rivista storica dell'anarchismo, Pisa; Seme anarchico, Colle V/E; Sicilia
Punto L, Siracusa; Sicilia Libertaria, Ragusa; Spartaco ("Il risveglio");
Tracce, Piombino; Traccedizioni, Piombino; Umanita' Nova, Torino; Zero in
Condotta, Milano; ed altri ancora.
Il programma delle iniziative oltre agli stand prevede mostre, conferenze,
dibattiti, film e video, musica e poesia, teatro, animazione e libera
espressione, convivialita'.
Per informazioni: collibfi at hotmail.com

10. LETTURE. STEFANIA BARTOLONI (A CURA DI): A VOLTO SCOPERTO. DONNE E
DIRITTI UMANI
Stefania Bartoloni (a cura di), A volto scoperto. Donne e diritti umani,
Manifestolibri, Roma 2002, pp. 206, euro 15. Promosso dalla Societa'
italiana delle storiche, con interventi sia di riflessione complessiva, sia
di analisi di situazioni concrete in varie parti del mondo, un utile libro.

11. LETTURE. STEFANO CURCI: PEDAGOGIA DEL VOLTO. EDUCARE DOPO LEVINAS
Stefano Curci, Pedagogia del volto. Educare dopo Levinas, Emi, Bologna 2002,
pp. 128, euro 9. Un libro che raccomandiamo vivamente agli educatori ed ai
formatori.

12. LETTURE. ARNALDO DE VITI: POESIA E INTERCULTURA
Arnaldo De Viti, Poesia e intercultura, Emi, Bologna 2003, pp. 176, euro 9.
Nella bella collana dei "Quaderni dell'interculturalita'", questo libro del
direttore del "Centro di educazione alla mondialita'" offre un ampio e
appassionante saggio ricco di proposte di riflessione e di piste
ermeneutiche, ed una preziosa antologia di testi poetici da tutto il mondo
(tutti rigorosamente con testo originale a  fronte).

13. LETTURE. DONNE IN NERO: CON LA FORZA DELLA NONVIOLENZA. VOCI DI DONNE
TURCHE E CURDE
Donne in nero, Con la forza della nonviolenza. Voci di donne curde e turche,
Centro stampa, Roma 2002, pp. 80, s. i. p. Una utile e commovente raccolta
di testimonianze, schede informative, materiali vari sia scritti che
fotografici.

14. LETTURE. MARIO LANCISI, ALEX ZANOTELLI: FA' STRADA AI POVERI SENZA FARTI
STRADA
Mario Lancisi, Alex Zanotelli, Fa' strada ai poveri senza farti strada, Emi,
Bologna s. d. (ma e' deducibile 2003), pp. 64, euro 2. Nell'ottantesimo
anniversario della nascita di don Lorenzo Milani (1923-1967) due interventi
ne ricordano la figura, l'opera, il messaggio.

15. LETTURE. TONI MARAINI: DIARIO DI VIAGGIO IN AMERICA. TRA FONDAMENTALISMO
E GUERRA
Toni Maraini, Diario di viaggio in America. Tra fondamentalismo e guerra, La
mongolfiera, Doria di Cassano Jonio (Cs) 2003, pp. 136, euro 12. Un
utilissimo libro che unisce l'intensa testimonianza all'acuta analisi; la
grande scrittrice, poetessa, storica dell'arte, promotrice dell'incontro tra
le culture e costruttrice di pace, racconta i suoi incontri e le sue
esperienze e riflessioni in un recente viaggio americano, spesso in dialogo
con alcune delle figure piu' belle dell'"altra America" (delle quali
presenta anche alcuni testi di grande forza poetica).

16. LETTURE. ANTONELLA MARRONE, PIERO SANSONETTI: NE' UN UOMO NE' UN SOLDO.
UNA CRONACA DEL PACIFISMO ITALIANO DEL NOVECENTO
Antonella Marrone, Piero Sansonetti, Ne' un uomo ne' un soldo. Una cronaca
del pacifismo italiano del Novecento, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano
2003, pp. 304, euro 15,20. Un utile libro di taglio giornalistico che
presenta varie esperienze, riflessioni, figure della cultura e della prassi
pacifista e nonviolenta in Italia; con due contributi di Alessandro
Marescotti e Carlo Gubitosa.

17. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

18. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 661 del 2 settembre 2003