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La nonviolenza e' in cammino. 628
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 628
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 30 Jul 2003 19:58:08 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 628 del 31 luglio 2003 Sommario di questo numero: 1. Carlo Carretto: Francesco e il lupo di Gubbio 2. Lidia Menapace: siccita' 3. Marco D'Eramo: l'acqua merce 4. Luisa Morgantini: pane e anguria a Diyarbakir 5. Antonio Moscato: alcuni recenti libri sugli Stati Uniti 6. Riletture: Natalia Ginzburg, Lessico famigliare 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. MAESTRI. CARLO CARRETTO: FRANCESCO E IL LUPO DI GUBBIO [Da Carlo Carretto, Io, Francesco, Cittadella, Assisi, pp. 141-145. Ringraziamo Enrico Peyretti per averci inviato questo brano, ripreso dalla "Lettera di collegamento" dell'estate 2003 di Pax Christi e del Movimento Nonviolento di Ferrara che cosi' lo presenta: "Come contributo alla preparazione alla marcia per la nonviolenza Assisi-Gubbio, riportiamo questo splendido e profetico brano di Carlo Carretto ('piccolo fratello' di Charles de Foucauld, che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Spello, vicino ad Assisi)". Su Carlo Carretto dal sito www.diocesi.it/borgopiave/carretto riportiamo la seguente notizia biografica: "Carlo Carretto nasce ad Alessandria il 2 aprile 1910, in una famiglia di contadini proveniente dalle Langhe. E' il terzo di sei figli, di cui quattro si faranno religiosi. La famiglia si trasferisce presto a Torino, in un quartiere periferico, nel quale si trova un oratorio salesiano che avra' molta influenza sulla formazione di Carlo e su tutta la famiglia. Lo spirito salesiano si fara' sentire anche nella vita professionale che Carlo inizia all'eta' di diciotto anni, a Gattinara, come maestro elementare. Milita nell'Azione Cattolica giovanile torinese dove entra ventitreenne su invito di Luigi Gedda che ne era il presidente. Consegue la laurea in storia e filosofia e continua ad insegnare come maestro elementare, prima a Sommariva del Bosco poi a Torino. Nel 1940 vince il concorso per direttore didattico e viene assegnato come tale a Bono (Sardegna). Dopo poco tempo viene dispensato dal suo incarico per contrasti col regime fascista, dovuti al carattere del suo insegnamento e per l'influsso che esso esercita anche al di fuori della scuola, e viene inviato come confinato a Isili, poi rimandato in Piemonte. Qui gli viene consentito di riprendere il suo lavoro come direttore didattico a Condove. Con l'avvento della Repubblica di Salo' riceve da Roma l'incarico di reggere le fila dell'Azione Cattolica del Nord-Italia. Non avendo aderito al regime viene radiato dall'albo dei direttori didattici e tenuto sotto sorveglianza. Nel 1945, dopo la caduta del regime e la fine della guerra, viene chiamato a Roma da Pio XII e da Luigi Gedda per organizzare l'Associazione Nazionale Maestri Cattolici. Nel 1946 diviene presidente centrale della Gioventu' Italiana di Azione Cattolica (Giac). Nel 1948, in occasione dell'LXXX anniversario della fondazione dell'Azione Cattolica, organizza una grande manifestazione di giovani a Roma: e' la famosa adunata dei trecentomila "baschi verdi". Poco dopo fonda il Bureau International de la Jeunesse Catholique, di cui diviene vice presidente. Nel 1952 esplodono i contrasti che covavano da tempo, in campo cattolico, riguardo ai rapporti con la politica. Trovandosi in disaccordo con una frazione importante del mondo cattolico che progettava un'alleanza con la destra, Carlo deve dimettersi dal suo incarico di presidente della Giac e ricerca con altri amici nuove strade su cui indirizzare l'azione del laicato cattolico impegnato. E' in tale periodo di laboriosa e sofferta ricerca che matura la decisione di entrare a far parte della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesu' fondata da Charles de Foucauld. L'8 dicembre del 1954 parte per l'Algeria, per il noviziato di El Abiodh, vicino ad Orano. Per dieci anni conduce vita eremitica nel Sahara, dove fa una profonda esperienza di vita interiore e di preghiera, nel silenzio e nel lavoro, esperienza che esprimera' in quello che diventera' un autentico best seller, Lettere dal deserto, e in tutti i libri che scrivera' in seguito. La stessa esperienza alimentera' anche tutta la sua vita e la sua azione successiva. Dopo il ritorno in Europa, e aver trascorso alcuni periodi in diverse realta', nel 1965 va a Spello, in Umbria, per iniziare una nuova Fraternita' di preghiera e di accoglienza. Ben presto lo spirito di iniziativa di Carretto ed il prestigio di cui godeva, aprono la comunita' all'accoglienza di quanti, credenti e non, desiderano trascorrervi un periodo di riflessione e di ricerca di fede vissuto nella preghiera, nel lavoro manuale e nello scambio di esperienze. Al convento in cui la Fraternita' risiede, si aggiungono man mano molte case di campagna sparse sul monte Subasio che vengono trasformate in eremitaggi. Carretto sara' per oltre vent'anni l'instancabile animatore di questo centro, noto in Italia e all'estero. Durante questi anni continua la sua attivita' di scrittore iniziata negli anni giovanili. Tra i libri di quel periodo va ricordato Famiglia piccola chiesa (1949) che suscito' contrasti nel mondo cattolico per alcune sue idee allora avanzate. Uomo della parola e della penna, il nostro ha usato con molta efficacia questi due mezzi per comunicare agli altri le sue "scoperte" e la sua esperienza nella fede. I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue e gli hanno creato una schiera di lettori e di amici in molti paesi del mondo. Spesso veniva invitato, percio', a portare la sua parola in conferenze e incontri spirituali. La sua profonda interiorita' non lo isolava dal mondo e dai suoi problemi, ma anzi lo spingeva ad interessarsene in spirito di profezia e di servizio. Fratel Carlo Carretto ha chiuso la vita terrena nel suo eremo di san Girolamo a Spello nella notte di martedi' 4 ottobre 1988, festa di san Francesco d'Assisi del quale era stato appassionato biografo". Su Francesco d'Assisi fondamentale e' la lettura dell'ottimo volume delle Fonti francescane, Edizioni Messaggero Padova - Movimento Francescano Assisi, Padova 1983] Si', sono stato un nonviolento (...). In fondo ognuno di noi sogna un mondo cosi' pacificato dall'amore e dalla dolcezza dell'umilta'. Non e' cosi'? Qualcuno di voi puo' anche sorridere davanti all'episodio del lupo di Gubbio; ma se e' stato bambino, veramente bambino, ha certamente desiderato di risolvere cosi' i problemi, come li ho risolti io a Gubbio in quella mattina fredda per la neve caduta. Quanti sogni sono stati fatti dall'umanita' dietro quel lupo braccato dalla violenza degli uomini e messo in difficolta' dalla fame. Vi devo dire fratelli che un episodio del genere l'avevo sognato anni prima quando ero ragazzo e mi avevano detto che sulle montagne dell'Appennino c'erano i lupi che scendevano affamati a minacciare i greggi. E allora non conoscevo ancora il Cristo. Mi son trovato nel sogno ad andare incontro alla bestia armato solo di carezze. E la bestia si era fermata. Ed ora che conoscevo le carezze di Gesu' avrei avuto paura? Mi sarei armato di roncola? Avrei desiderato vedere il sangue, fosse anche quello di un lupo, sulle pietre di Gubbio? No fratelli, non ebbi paura. Io non ho piu' paura da quando ho sperimentato che il mio Dio e' anche il Dio del lupo. Cio' che e' straordinario nel fatto del lupo di Gubbio non e' che si sia ammansito lui, e' che si siano ammansiti loro, gli abitanti di Gubbio, e che davanti al lupo che si avvicinava infreddolito ed affamato gli fossero corsi incontro non con le roncole e le accette ma con pezzi di cibo e polenta calda. (...) Sta qui il principio della nonviolenza che io vorrei suggerirvi con tutto l'entusiasmo di cui sono capace. Se vi ho detto di non parlare troppo di poverta' oggi data l'ambiguita' in cui vivete e la difficolta' a spiegarvi circondati come siete da culture borghesi e socialiste, vi dico invece con forza: parlate della nonviolenza, siate apostoli della nonviolenza, diventate dei nonviolenti. (...) Il discorso della nonviolenza e' oggi percepito da tutti: e' chiaro, semplice e potreste veramente con la sua dinamica cambiare la faccia della terra. Parlate molto oggi di diritti dell'uomo ed e' giusto. Il primo diritto dell'uomo e' di non essere violentato da nessuno, di essere lasciato in pace. Il discorso e' di un'ampiezza biblica e dovete viverlo fino in fondo. Intanto diciamo subito che comincia da lontano, molto lontano. La nonviolenza riguarda innanzitutto la natura i cieli, i mari, le miniere, i boschi, l'aria, l'acqua, la casa. Sono le prime cose da non violentare e purtroppo e' un peccato che avete commesso largamente e non so se riuscirete a salvarvi. (...) Ma lasciamo per un momento l'ecologia e veniamo all'uomo che sul problema della violenza e' il vero responsabile e l'unica creatura che fa problema. Perche' la storiella del lupo di Gubbio vi interessa? Perche' l'avete raccontata con tanta dovizia di particolari? Eppure mentre vi interessa vi fa sorridere. In fondo non ci credete. Vedete nella storiella la soluzione del vostro problema che vi turba ma nello stesso tempo catalogate tra le utopie la possibilita' di vedere un lupo ammansito con una carezza. Eppure ve l'ho detto. Il miracolo che si compi' quella mattina a Gubbio non fu la conversione del lupo, fu la conversione degli abitanti di Gubbio che per un istante credettero possibile la lotta col lupo armati solo di cibo da donare invece di armi da insanguinare. Qui sta il segreto di tutto. Questo e' addirittura il segreto nascosto in tutto il piano di Dio sull'uomo. Credere possibile l'impossibile. Sperare nelle cose contro ogni speranza. Amare cio' che non sembra amabile. La proposta di Dio all'uomo e' sempre avvolta nel velo di questo mistero e sunto di questa domanda. Puoi credere? Puoi sperare? Puoi amare? Se mi dici di si', ti regalo l'impossibile. (...) Il lupo di Gubbio non e' una storiella per far addormentare i bimbi, e' la verita' piu' straordinaria per salvare gli uomini, specie oggi che sono sistemati tutti quanti su un immenso deposito di bombe atomiche. (...) Ora che l'uomo col suo ingegno e' giunto ad avere cio' che desiderava e che con la tecnica ha tolto il limite in cui si trovava prima, e' affiorata la verita', l'unica verita': il male, la violenza stanno nella paura dell'altro. Se l'uomo fara' la guerra e' perche' ha paura di qualcuno. Togliete la paura, ristabilite la fiducia e avete la pace. La nonviolenza sta nella distruzione della paura. Ecco perche' vi dico ancora, io Francesco: imparate a vincere la paura come ho fatto io quella mattina andando incontro al lupo con un sorriso. Vincendo me, ho vinto lui. Domando i miei cattivi istinti, ho domato i suoi, sforzandomi di avere fiducia in lui ho trovato che lui aveva fiducia in me. Il mio coraggio aveva stabilito la pace. Il resto lo potete dedurre da soli. Pensate soltanto a cosa puo' capitare se gli immensi capitali usati a difendervi dalla paura un giorno, divenuti nonviolenti, li userete per aiutare coloro di cui avete paura. (...) Conoscerete allora la pace. E' troppo sperarlo? Chissa' che qualcuno non mi ascolti! Io, Francesco d'Assisi, gli dico: coraggio! 2. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: SICCITA' [Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001] Provo a fare un ragionamento anche sulla siccita' e politica dell'acqua a partire da osservazioni dal quotidiano. Sono materiali che volentieri vedrei considerati per il nostro seminario "fare pace con le terra", dato che sono convinta che l'economia industriale capitalistica e' una forma di guerra verso la natura. Ma di questo parleremo un'altra volta. Adesso veglio parlare del fatto che siamo usciti/e dal clima temperato e dopo le siccita' vengono subito le alluvioni. Sappiamo il perche' e sappiamo anche che non vi e' molto tempo per rimediare, dato che il trattato di Kyoto sia un rimedio: sembra uno di quei rimedi che la farmacopea chiama "sintomatici" cioe' che non sapendo come fare per ovviare alle cause rimediano al sintomo doloroso: ma sappiamo che per guarire bisogna avere terapie vere e non palliativi, e vite portatrici di salute non di malattie. Comincio il racconto: un paio di giorni fa ascoltando il tg3 ho sentito uno scienziato dire che l'acqua in verita' c'e' in Italia (cosa che infatti tutti affermano, verso chi sostiene che dovremmo cominciare a dissalare l'acqua di mare come fanno necessariamente in Arabia Saudita): ma che essa e' appropriata dai bacini idroelettrici e non viene rilasciata se chi possiede i bacini non ne ha convenienza economica; si aggiunge (notizia data frettolosamente in qualche tg) che "per ora" i bacini rilasceranno un po' d'acqua "gratuitamente", il che significa che in seguito la faranno pagare a Regioni e Comuni. Tutto queste mi ha fatto ricordare che quando nel 1967 una famosa alluvione investi' Firenze e anche Trento, si accuso' l'Enel di avere rovesciato sulle citta' acqua senza criterio solo quando non farla uscire dai bacini stava per mettere a rischio le dighe. E sulle dighe dell'Enel sappiamo molto, dopo il Vajont. * E veniamo all'oggi, non senza esserci annotato in testa che la gestione privatistica di un bene pubblico e' pericolosa. Sappiamo dunque (non da notizie motivatamente comunicate nella loro interezza, ma da frammenti di discorsi da mettere insieme - cosa che non potrei fare se non fossi in vacanza -, dunque da una comunicazione reticente) che vi e' chi puo' decidere quando e quanto di acqua puo' rovesciare sulle citta' e negare alle campagne a seconda della propria utilita' e non per necessita' vitale. E annotiamoci in testa che anche la comunicazione di tipo privatistico e' reticente e soggetta ad interessi non dichiarati. In altri termini chi possiede bacini per uso idroelettrico puo' tenersi l'acqua per venderla a maggior prezzo d'inverno, quando e' piu' pregiata, e lasciare che tutti i raccolti vadano a male, brucino ecc. Per una maligna illazione mi sono convinta che arrivino anche a fare del terrorismo psicologico continuo a proposito di black out (ieri dicevano "dalle 9 alle 18" e credo si dovesse interpretare "tra le 9 e le 18": solo una svista stilistica?). * La valle di Non in Trentino, attraversata e scavata del fiume Noce, che e' il secondo affluente dell'Adige dopo l'Isarco, e' un biotopo alpino di notevole importanza. Valle popolatissima da popolazione stanziale e non turistica, per la conformazione non impervia e l'ampiezza che consente una buonissima insolazione e quindi adatta a colture. Era comunque povera perche l'altitudine non consentiva ne' grano, orzo, avena, ne' produzione di vino pregiata: vivevano fino alla meta' dell XIX secolo di pascolo, allevamento del baco da seta e di economia di sussistenza. E di emigrazione. Poiche' essendo sudditi dell'Impero austroungarico avevano un passaporto pregiato migravano molto nell'America del nord e in Canada, mentre dalle valli boschive piu' povere (dalla Valsugana) si accontentavano di migrazioni interne e andavano ad esempio dal paese di Broz a fare i boscaioli in Croazia, come appunto fece la famiglia d'origine del maresciallo Tito. Quelli che migrarono in Canada videro che in territori molto simili alla loro valle d'origine coltivavano con profitto mele originarie della Francia, le "renette", cioe' le "reinettes", le reginette, che riportarono in Europa e in Trentino col nome di "canada". E fecero la fortuna della valle, che ancora produce una enormita' di mele oggi standardizzate e con modi industriali che cominciano a fare danni non da poco: bisognera' ristabilire una buona biodiversita'. La valle e' molto ricca di acque e percio' negli anni cinquanta l'Enel costrui' un bacino molto grande e profondo con una altissima diga sul fiume Noce. Le conseguenze della appropriazione privatistica di un bene comune furono certo un buon costo dell'energia (nella Regione Trentino Alto Adige l'energia costa meno per statuto) e un mutamento non sgradevole del clima reso piu' mite anche se un po' piu' umido dall'invaso (detto lago di santa Giustina) che a lungo fu il quinto per grandezza in Europa; ma anche un impoverimento del fiume che divento' un puzzolente rigagnolo privo di pesci e di rive verdeggianti e di zone umide. Qui abbiamo un buon esempio da raccontare: un po' di anni fa i comuni rivieraschi fecero una vertenza contro l'Enel e pretesero che rilasciasse da una bocca di sfioramento una buona quantita' costante d'acqua per ricostruire il fiume. Oggi e' cosi', il Noce e' tornato a scorrere e ad avere fauna e flora e addirittura un piccolo parco naturalistico che si chiama "alle acque ritrovate". Tutte rose e fiori? ma no, come dicevo la produzione e' molto impoverita di varieta'. Ma il fiume c'e' ancora e la regolazione del suo corso e' tenuta sotto controllo dai comuni. A me pare un buon esempio di controllo pubblico sulla gestione privatistica di beni essenziali. * Detto incidentalmente: la storia non sarebbe tanto piu' interessante se si studiasse tenendo conto di produzioni, migrazioni, iniziative, trasformazioni del territorio, invece che a furia di battaglie e sacri confini? Ma intanto quel che sta accadendo in questa estate tropicale ci fa capire che cosa potra' avvenire quando l'acqua sara' privatizzata. Non deve succedere: i beni essenziali non possono essere gestiti con criteri privatistici. 3. RIFLESSIONE. MARCO D'ERAMO: L'ACQUA MERCE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2003. Marco D'Eramo e' uno dei piu' acuti giornalisti e saggisti, esperto di questioni internazionali, ha scritto e curato vari utili libri] Chissa' quando la Banca mondiale e il Fondo monetario chiederanno agli stati di privatizzare l'erogazione di aria? Sara' quando la mamma ricordera' al figlio: "Non dimenticarti di comprare due bombole d'aria, che domani i negozi sono chiusi". Per il momento, e da piu' di 15 anni, i registi istituzionali dell'economia globale si limitano a favorire con ogni mezzo la privatizzazione dell'altra risorsa fondamentale per i viventi: l'acqua. "L'acqua sara' per l'economia del XXI secolo quel che il petrolio e' stato per il XX secolo", aveva previsto "Fortune". Con la siccita' che incombe in Europa, con l'effetto serra che incalza, e la conseguente tropicalizzazione dei climi temperati, questa profezia si dimostra ogni giorno sempre piu' azzeccata. Gia' oggi piu' di 1,1 miliardi di persone vivono in condizioni di penuria d'acqua (e nel mondo 12 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie derivate da problemi idrici: mancanza o inquinamento). E si prevede che nel 2025 due terzi dell'umanita' avranno problemi d'approvvigionamento idrico: intanto il 12% della popolazione mondiale usa e spreca l'85% delle risorse d'acqua. La mercificazione di questa risorsa accelera man mano che l'acqua potabile si fa piu' rara (o perche' le falde sono sfruttate fino all'esaurimento o perche' vengono inquinate da pesticidi e da scarti industriali). La canadese Global Water sprona i suoi investitori a "mietere le opportunita' in via di accelerazione, via via che le fonti tradizionali di acqua nel mondo si esauriscono e si degradano" e dichiara che "l'acqua ha smesso di essere un risorsa illimitatamente disponibile che puo' essere presa per garantita, per diventare una necessita' razionata che puo' essere presa con la forza". Da notare che la Global Water Corporation ha di recente firmato un contratto per imbarcare per la Cina - dove saranno imbottigliati - 58 miliardi di litri l'anno di acqua proveniente dai ghiacciai dell'Alaska. E questo perche' in Cina il costo del lavoro e' piu' economico. La mercificazione assume due forme. La prima riguarda il consumo dell'acqua in bottiglia a scapito di quella del rubinetto (ogni anno vengono venduti piu' di 100 miliardi di litri di acqua imbottigliati) e, per esempio, il 54% degli americani beve regolarmente acqua in bottiglia (che costa 1.000 volte di piu' di quella dell'acquedotto). La seconda forma appalta ai privati la gestione e distribuzione degli acquedotti, privatizza l'acqua stessa di rubinetto. Poiche' della prima forma in questa rubrica ci si e' occupati l'anno scorso (cfr. "Il manifesto" del 19 agosto 2002), adesso ci concentreremo sulla privatizzazione delle municipalizzate idriche che rappresenta di sicuro la fetta piu' succosa del business. Oggi le multinazionali gestiscono e distribuiscono acqua solo per il 7% della popolazione mondiale, eppure il loro fatturato si aggira intorno ai 200 miliardi di euro e le proiezioni della Banca mondiale stimano che nel 2021 sara' di mille miliardi di euro (una somma equivalente a tutto il prodotto nazionale lordo annuo dell'Italia). * Peculiarita' del mercato idrico: e' l'unico in cui l'Europa e' all'avanguardia delle privatizzazioni. Infatti, secondo Philip Rohmer, co-manager di un fondo d'investimento globale per l'acqua lanciato da Swisss Pictet Funds, citato dal "Christian Science Monitor", in Europa occidentale il 40% degli acquedotti sono appaltati ai privati mentre negli Usa sono solo il 15%; e nel 2015 saranno privatizzati il 75% degli acquedotti europei e il 65% di quegli Usa. L'acqua e' anche l'unico settore in cui le grandi multinazionali sono europee. Il che produce uno strano fenomeno mediatico: la grande stampa Usa che fa campagna contro l'imperialismo e lo sfruttamento capitalista delle grandi multinazionali europee. Suez e Vivendi sono considerate la General Motor e la Ford dell'acqua, seguite dall'anglotedesca Rwe/Thames Water che hanno praticato un'aggressiva politica di acquisizioni negli Stati Uniti. Viene quarta a ruota la Bechtel di San Francisco, compagnia di cui e' stato amministratore delegato ed e' presidente George Schulz, che fu segretario di stato sotto Reagan. Nel consiglio d'amministrazione della Bechtel sedeva anche Caspar Weinberger che di Reagan fu ministro della difesa. (ma non e' il solo caso in cui acqua e politica si trovano connesse: una ditta idrica emergente, Azurix, faceva parte del fallito gigante energetico Enron che era legato a doppio filo con l'attuale vicepresidente Dick Cheney). * La privatizzazione degli acquedotti segue una sceneggiatura immutabile. Viene invocata in nome di una maggior efficienza rispetto alla gestione "burocratica degli enti pubblici", come soluzione per trovare i fondi per riparare e modernizzare acquedotti che erano stati costruiti per un numero molto minore di utenti. Cosi', per esempio, negli Stati Uniti, l'Agenzia per la protezione ambientale (Epa) stima che nei prossimi 20 anni i comuni Usa dovranno spendere circa 151 miliardi di dollari per riparare o modernizzare tubature, filtri e bacini di riserva (e i comuni dovranno spendere altri 460 miliardi di dollari per rimettere in sesto i sistemi fognari, altro settore su cui si stanno avventando le multinazionali). Alla privatizzazione spingono Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale, che ne fanno spesso una condizione per concedere i loro prestiti. Cosi', la Banca mondiale ha posto come condizione al Cile che fosse garantito a Suez Lyonnaise des Eaux un margine di profitto del 33%. Stati e municipalita' firmano appalti con queste multinazionali a prezzi bassissimi che si rivelano illusori. Per rientrare nei costi le multinazionali licenziano il personale e lesinano sulle riparazioni. La qualita' dell'acqua diventa sempre meno potabile, finche' si hanno casi di epidemie, malattie. I comuni protestano. Le multinazionali dicono: "Sorry, a questi prezzi non possiamo provvedere a tutto, dobbiamo rinegoziare il contratto". Il contratto viene rinegoziato e le tariffe dell'acqua vengono alzate in modo insopportabile. Ecco alcuni sequels di questa trama immutabile: 1. Londra 1989. Margaret Thatcher privatizza l'acqua. Negli anni '90 le bollette rincarano del 141%. Persino il conservatore "Daily Mirror" dichiara che "le dieci maggiori compagnie idriche inglesi sono state in grado di sfruttare la propria posizione monopolistica di fornitori per organizzare la piu' grande rapina legale della nostra storia". 2. Buenos Aires 1992. Suez vince un appalto trentennale nella periferia della capitale argentina per gestire acquedotti e fognature, ma poiche' la costruzione delle fognature va a rilento, le case sono perpetuamente inondate dai liquami. Proteste. Contratti rinegoziati decine di volte. Infine nel 2001-2002, lavori bloccati a causa della crisi economica argentina. Ma Suez Argentina "e' fiera di quel che ha compiuto nel paese". 3. Provincia argentina di Tucuman, 1995. Vivendi ottiene l'appalto del sistema idrico. La bolletta dell'acqua passa da 24 a 59 pesos (aumento del 140%). La popolazione proclama uno sciopero dei pagamenti. Dopo aver razionalizzato il sistema di fatturazione Vivendi era riuscita a farsi pagare il 70% delle bollette, ma con lo sciopero il tasso di raccolta crolla al 10%. Vivendi smette di effettuare le riparazioni e cosi' il manganese - che era sempre stato presente nell'acqua - sale a una concentrazione tale che l'acqua prese il colore della coca cola. Le proteste degli abitanti aumentano tanto che nel 1998 Vivendi e' costretta a rescindere l'appalto. 4. Bolivia 1999, citta' di Cochabamba (800.000 abitanti). Un consorzio controllato da Bechtel vince l'appalto per il sistema idrico. Le bollette aumentano del 300% fino a ingoiare un quarto del reddito di una famiglia. Le proteste s'intensificano fino a diventare una vera e propria rivolta di massa, con centinaia di migliaia di dimostranti. Nell'aprile 2000 la polizia spara sulla folla uccidendo una persona. Il governo rompe il contratto con il consorzio privato e Bechtel fa causa, chiedendo 25 milioni di dollari dai poveracci boliviani. "25 milioni di dollari sono pari allo 0,017% del fatturato della Bechtel, ma per i boliviani con quei soldi si possono pagare 3.000 medici rurali per un anno o 125.000 nuovi allacciamenti all'acquedotto" dice la Coordinadora che ha condotto la protesta. 5. Sudafrica, 2000. Incoraggiato dal Fmi, il governo dell'African National Congress (Anc) lancia una politica di cost recovery dei servizi pubblici ("recupero del costi"). A Soweto questa politica ha portato a un aumento del 400% delle bollette elettriche e del sistema idrico, con l'obiettivo di pareggiare spese e entrate. Nel settore idrico la privatizzazione ha fatto si' che la bolletta dell'acqua assorba un quarto delle entrate di famiglie che hanno un reddito di soli 100 dollari al mese. Il paradosso e' che poiche' le aree residenziali bianche comprano l'acqua all'ingrosso, un litro d'acqua di una piscina bianca costa meno della meta' di un litro d'acqua da bere per una famiglia nera povera. I ricercatori dell'Universita' di Witwatersrand riportano che ogni mese a Johannesburg piu' di 20.000 persone perdono la loro acqua domestica a causa dell'aumento dei costi. Le famiglie che non possono permettersi l'acqua di rubinetto attingono ormai l'acqua dei fiumi che sono inquinati perche' le stesse famiglie non sono allacciate a sistemi fognari, cosi' bevono l'acqua in cui defecano. Risultato, tra il 2000 e il 2002 gli ospedali pubblici del KwaZulu-Natal hanno riportato 114.000 casi di dissenteria, il quintuplo di quanto e' stato registrato in quella provincia in tutti i 20 anni precedenti messi insieme. 6. Questi eventi non si limitano ai paesi sottosviluppati. In Canada, dopo che il governo dell'Ontario ha "sregolato" il mercato dell'acqua, nel 2000 nel paesetto di Walkerton 14 persone (tra cui un bambino) sono morte dopo aver bevuto acqua contaminata da scoli: fino ad allora Walkerton era stata rinomata per la purezza della sua acqua. Negli Stati Uniti, ad Atlanta (Georgia) il comune ha appaltato a United Water (di proprieta' di Suez) il sistema idrico per 24 milioni di dollari all'anno. Dopo un anno un rapporto dell'ispettorato comunale mostrava che l'acqua distribuita violava tutte le regole sanitarie: tra l'altro i livelli di cloro erano sei volte superiori a quelli consentiti. * In tutta questa faccenda vi sono due aspetti che sarebbero ironici se non fossero tragici. Il primo e' che la privatizzazione e' giustificata con la necessita' di attirare investimenti privati. Ma in realta' le multinazionali investono denaro preso a prestito dai governi locali. Cosi', per esempio, in Sudafrica l'80% del denaro di un recente progetto di acquedotto veniva dalla Development Bank of South Africa. In Peru', il 100% del denaro per un progetto simile e' stato versato dalla Interamerican Development Bank. L'altra ironia e' che tutte le politiche di estorsione delle multinazionali idriche vertono sulle bollette dei privati, mentre e' noto che nei centri urbani il consumo d'acqua e' al 70% industriale, al 20% istituzionale e al 6-10% domestico. Ma nessuno cerca di far pagare di piu' alle compagnie che hanno sviluppato tutto un settore, e un vocabolario, per approvvigionarsi di questa preziosa materia prima. Cosi', a Silicon Valley il settore high tech usa immani quantita' d'acqua, cercando di procurarsela in tutti i modi. Ecco le diverse tecniche: water pricing, quando l'industria fa pressione sullo stato per sussidi e aggira le strutture idriche urbane per pompare direttamente acqua, quindi pagando molto meno di quanto la pagano gli utenti residenziali; water mining, quando le compagnie conquistano il diritto di sfruttare fino a esaurimento falde acquifere sbarrandone l'accesso agli utenti minori come le fattorie familiari; water ranching, quando l'industria compra i diritti d'acqua da contadini e rancheros; water dumping quando l'industria contamina le fonti d'acqua e quindi scarica sulla comunita' i costi della depurazione. Insomma se l'acqua e' una merce, si hanno "miniere di acqua", "allevamenti di acqua", "discariche di acqua". * Non si pensi che noi italiani siamo risparmiati. Anzi: nel suo bilancio per il 2002 Vivendi annuncia tutta fiera che ha ottenuto l'appalto trentennale per la gestione dell'acqua potabile e per il risanamento di tutto l'Ambito territoriale di Latina, comprendente 38 comuni e 600.000 abitanti, per 64,5 milioni di euro l'anno. Fino alla prossima rinegoziazione del contratto. * Scheda: i tre colossi che sfruttano la sete planetaria Si contano sulla punta delle dita le compagnie globali che dominano l'industria dell'acqua. Le prime tre sono europee, la quarta e' l'americana Bechtel. I dati sulle tre big europee dell'acqua sono tratti dai siti web delle compagnie, dal dossier sulla privatizzazione dell'acqua ("Un prezzo per ogni goccia") pubblicato nel dicembre 2002 dal magazine "Mother Jones" di San Francisco e dal "New York Times" (22 agosto 2002). - Suez: e' nata nel 1997 dalla fusione della Lyonnaise des Eaux (che, come dice il nome, era stata fondata intorno al 1880 per gestire le acque della metropoli sul Rodano) e della banca di Suez che nel 1958 aveva costruito l'omonimo canale (poi nazionalizzato da Nasser nel 1956). La divisione acqua di Suez, Ondeo, ha riportato per il 2001 un fatturato di 9 miliardi di dollari, circa un quarto dell'introito complessivo di Suez (37,7 miliardi di dollari). Negli Stati Uniti Suez ha acquisito nel 1999 per complessivi 6 miliardi di dollari Nalco, un produttore di sostanze chimiche per il trattamento dell'acqua, e United Water Resources che gestisce i sistemi idrici di Atalanta, Portorico, Milwaukee e Washington D. C., e briga per ottenere l'appalto delle fognature di New Orleans. Ondeo opera in 130 paesi incluse Francia, Gran Bretagna, Argentina, Indonesia, Filippine, Camerun; gestisce i sistemi idrici in decine di citta', tra cui Buenos Aires, Casablanca e Amman. Ha 120 milioni di clienti di cui un terzo in Europa e Medio Oriente, un quinto in Sudamerica, un altro quinto in Asia e nel Pacifico, un sesto in Nordamerica e il resto in Africa. - Vivendi/Veolia: la Compagnie Generale des Eaux fu fondata nel 1853 quando un decreto imperiale di Napoleone III privatizzo' il settore idrico. Negli anni '90 (del '900) fu rinominata Vivendi divenendo un conglomerato attivo nei media e nello spettacolo, che pero' e' crollato nel 2002. A questo punto il settore idrico Vivendi Environnement ha ricambiato nome e si chiama ora Veolia. Nel 2001 Vivendi acqua ha riportato un fatturato di 13,6 miliardi di euro (e un utile di 1,1 miliardi di euro), circa la meta' del fatturato totale dell'allora compagnia. Negli Stati Uniti nel 1999 Vivendi aveva acquisito per quasi 8 miliardi di dollari Us Filter Corporation, la seconda compagnia idrica Usa che gestisce acquedotti di piu' di 500 municipalita'. Il 45% del suo fatturato e' stato realizzato in Francia, ma opera in 100 paesi tra cui Ungheria, Cina, Corea del Sud, Kazakistan, Libano, Ciad, Romania e Colombia. Ha 113 milioni di clienti nel mondo cosi' ripartiti: 26 milioni di Francia, 32 in Europa e Medio Oriente, 19 in Asia e nel Pacifico, 11 nel Nordamerica, 9 in Africa, 7 in Sudamerica. - Rwe/Thames Water: Thames Water fu creata nel 1989 per prendere il controllo di quello che era stato il sistema idrico pubblico di Londra dopo che Margaret Thatcher privatizzo' l'acqua. Nel 1999 Thames Water fu acquistata dalla tedesca Rwe per 9,8 miliardi di dollari e ne divenne la sua divisione idrica. Nell'anno 2001 la divisione acqua ha riportato un fatturato di 1,4 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti ha comprato nel 2002 per 7,6 miliardi di dollari American Water Works, che gestisce acquedotti in 27 stati Usa. Opera in 44 paesi tra cui Regno Unito, Germania, Turchia e Giappone. Ha 54 milioni di clienti cosi' distribuiti: 15 milioni in Gran Bretagna e Irlanda, 20 nel resto dell'Europa e in Medio Oriente, 14 in Asia e nel Pacifico, 3 in America del Nord e 3 in quella del Sud. 4. TESTIMONIANZE. LUISA MORGANTINI: PANE E ANGURIA A DIYARBAKIR [Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int) per questo intervento scritto di ritorno da Diyarbakir. Luisa Morgantini, europarlamentare e impegnata nelle Donne in nero, oltre a recarsi nel Kurdistan turco, ha assistito ad Ankara all'udienza processuale di Leyla Zana, Hatip Dicle, Orhen Dogan, Sedat Saddak del 18 luglio con i parlamentari europei Felknas Uca e Luigi Vinci, le parlamentari italiane Elettra Deiana e Silvana Pisa, Silvana Barbieri di Punto rosso e Nadia Cervoni delle Donne in nero. Ritornera' in Turchia per assistere alla prossima udienza del processo a Leyla Zana che si terra' ad Ankara il 15 agosto 2003] E' davvero dolce l'anguria di Diyarbakir. I palestinesi si offenderanno molto quando raccontando dei miei incontri nel Kurdistan turco diro' che mi e' sembrata persino migliore di quella di Jenin, e sara' ancora peggio per il pane che mi e' sembrato piu' buono di quello di Nablus. Pane e anguria, e' il pasto che ho condiviso con una decina di ex prigioniere/i curdi, nella loro sede, dove ad una parete, dipinto da una ex carcerata, e' appeso un quadro con una donna che guarda l'isola di Imrali, la prigione di Ocalan. Pane e anguria, per me un pasto eccezionale, per loro la quotidianita', l'unico pasto che possono permettersi insieme al bicchierino di te' che si servono dolcissimo. Molte/i di loro hanno sguardi lontani e segnati dalla depressione, i loro volti e corpi piagati dalla sofferenza, dalle torture, dalle privazioni. * Mezgin invece ha gli occhi allegri, e' bella, ha piu' di quarant'anni, si e' sposata, come succedeva a quasi tutte le donne curde, in eta' giovanissima. Appena la vedo e ci stringiamo le mani non penso che lei sia stata in carcere, troppo diretta, spavalda. Invece ci e' stata tre anni, il marito e' in carcere da piu' di 9 anni, il figlio nella guerriglia e' stato ucciso durante un bombardamento dell'esercito turco, la figlia di 22 anni e' ancora sulle montagne. Mezgin non sa nulla di lei da lungo tempo, spera che sia viva e intanto organizza l'associazione dei prigionieri, perche' quelli ancora in carcere abbiano assistenza e quelli usciti non siano soli, abbandonati agli incubi, alla impossibilita' di trovare un lavoro, al riadattamento alla vita "normale". Hanno aperto centri culturali, cooperative, tutte gestite da ex-prigionieri, ma sono una goccia nell'oceano. * Mohammed aveva 17 anni quando e' entrato in carcere. E' uscito lo scorso aprile dopo 15 anni, ne ha girati parecchi di carceri. Torturato come tutti, tenuto in piedi per giorni e notti, botte, elettroshock, costretto a mangiare le sue feci, diversi scioperi della fame, a volte in isolamento, una volta per giorni e giorni ammucchiato con tanti altri in una cella di due metri per due, non riuscivano quasi a sedersi, ma "ho studiato, ho imparato molto dagli altri compagni, e' stata la nostra universita', e poi quando c'era una cosa per qualcuno era per tutti". * La prigione, come la tortura, sembrano uguali in tutto il mondo, quante volte l'ho sentito dire da italiani antifascisti, da spagnoli, cileni, brasiliani, argentini, sudafricani e dai palestinesi. Penso a Nizar che si e' sposato l'anno scorso in Italia con Neta, una pacifista israeliana. Quando lo incontrai a Nablus nel corso dell'Intifada, nel '91, aveva 19 anni, era appena uscito dal famigerato campo di Ansar tre, nel deserto del Negev. Non aveva perso le splendore del suo sguardo verde ma sembrava anoressico tanto era magro. Di fronte alla mia pena per lui, mi disse quasi la stessa cosa: "si', e' stato duro, sotto le tende caldo, freddo e fame, ma accanto a me c'erano tutti i miei miti, leader che non avrei mai conosciuto, si prendevano cura di me, discutevamo, di questo non mi scordero' mai". * Mentre inghiotto l'anguria, faccio la solita, banale, domanda: come ci si riadatta al fuori? Ridono e raccontano qualche storia, per esempio di un carcerato di Mersin, che non aveva mai visto un ascensore, quando stava per entrarci ha letto "per tre persone", si e' fermato in attesa che arrivassero gli altri due. Si guardano e dicono che non possono fare a meno l'uno dell'altro, solo quando sono insieme si sentono sicuri, fuori "e' un mondo in rovina". E poi arriva da parte loro la solita domanda-invocazione: "perche' l'Europa ha abbandonato Ocalan, perche' non impone al governo turco la democrazia, perche' noi dobbiamo andare in carcere solo perche' vogliamo parlare, cantare, amare nella nostra lingua ed essere rappresentati in parlamento?". Non sono l'Europa, rispondo, faccio parte di quell'Europa che si ribella ai due pesi e due misure, che crede nei diritti umani per tutte e tutti, per questo sono qui, per questo dobbiamo unire le nostre debolezze, per farci forti. * Ci sono ancora piu' di ottomila prigionieri politici nelle carceri turche. A partire dal 1999 ne sono usciti circa 3.000 e, pur restando piene di check point militari turchi, nelle diverse province curde e' finito lo stato di emergenza e il coprifuoco. Ha contato la scelta di pace voluta dal presidente Ocalan ponendo fine alla lotta armata ed hanno contato le pressioni europee sul governo turco. Il varo di un settimo pacchetto di riforme ha visto sulla carta l'eliminazione dell'art. 8 del codice penale per il quale migliaia e migliaia di curdi, giornalisti, avvocati, insegnanti, donne, parlamentari come Leyla Zana, Hatip Dicle, Sedat Sadak, Orhen Dogan sono stati incarcerati e condannati a decine di anni di prigione. Ma e' solo sulla carta, ripetono i curdi, come la possibilita' di parlare e scrivere il curdo; le repressioni continuano, le sedi e i giornali chiusi, e negli ultimi mesi riprendono le azioni di provocazione per riportare la guerra, si paventa un accordo Usa-Turchia di cui a farne le spese saranno ancora una volta i curdi che non possono contare su nessuno, tantomeno sul governo curdo-iracheno. * L'associazione dei prigionieri, il partito Dehap, movimenti di donne e di societa' civile mentre ribadiscono che sono le mobilitazioni pacifiche ad aprire la strada della democrazia, hanno avviato una campagna per l'amnistia generale per i prigionieri, per i rifugiati e per i militanti del Kadek che sono ancora nelle montagne curde-turche o nei campi del Nord Iraq o in Siria o nella Bekaa, e chiedono a tutti i democratici, soprattutto all'Unione Europea, di premere sul governo turco per respingere quella che, presentata dalla Commissione Giustizia e che dovra' essere votata il 31 luglio dal Parlamento turco, viene chiamata legge per l'aministia parziale e condizionata. Infatti, malgrado il Ministro della Giustizia Cicek sostenga che non sia una legge per i pentiti, in realta' di questo si tratta. Si esclude dall'aministia chi ha avuto ruoli dirigenti nel Pkk, si prevede la scarcerazione per chi non ha partecipato o aiutato formazioni militari ma previe dichiarazioni di abiura, sconti di pena che variano per chi e' gia' stato condannato ed ha partecipato o aiutato azioni militari ma che si mette al servizio della polizia per collaborare, lo stesso per chi si consegna di ritorno dalla montagna, insomma la delazione. * Il 15 agosto riprende il processo contro Leyla Zana e gli altri parlamentari curdi, il processo e' stato riaperto su imposizione delle Corte di Strasburgo, finora si e' svolto in modo arbitrario. Se nella prossima udienza il giudice decidesse la liberta' per i parlamentari, sarebbe un gesto, certamente dovuto al diritto, e segnerebbe una svolta politica per lo sviluppo della democrazia in Turchia. Non avverra' magicamente, le resistenze kemaliste e i militari fondamentalisti sono ancora molto forti, servono tutte le pressioni della comunita' internazionale. 5. LIBRI. ANTONIO MOSCATO: ALCUNI RECENTI LIBRI SUGLI STATI UNITI [Dalla mailing list "Bandiera rossa news" (per contatti: ba.ro.news at inwind.it) riprendiamo questo articolo di Antonio Moscato, docente all'Universita' di Lecce, prestigioso studioso e militante del movimento operaio e dei movimenti di liberazione] Nell'ultimo anno sono usciti molti libri sugli Stati Uniti: pochissimi apologetici o tendenti a giustificarne la politica, altri - spesso scritti da autori di quel paese - severissimi sulle vicende piu' recenti che hanno preceduto e seguito l'11 settembre, ma anche sulla storia piu' remota, a partire dalla sua formazione. Ne segnaliamo tre che non si pongono solo l'interrogativo "perche' ci odiano tanto?", ma cercano di capire dove stanno andando a finire gli Stati Uniti. * Un sociologo e demografo francese, Emmanuel Todd, affronta i problemi in un testo provocatorio fin dal titolo (Dopo l'impero. La dissoluzione dell'impero americano, Marco Tropea, Milano 2003). Riallacciandosi a tesi di Brzezinski, Paul Kennedy e Chalmers Johnson, Todd sostiene che il rischio maggiore per gli Stati Uniti e' di "rimanere isolati nel loro nuovo mondo", di fronte a "un'Eurasia riunificata dal crollo del comunismo". Anche se alcune argomentazioni sono bizzarre (Todd ad esempio si vanta di aver previsto nel 1976 il crollo finale del sistema sovietico basandosi su statistiche demografiche, in particolare sul calo della fecondita', e ora ripropone lo stesso metodo per altre previsioni, tra cui "il ritorno della Russia sulla scena mondiale"), la tesi centrale e' che all'inizio del XX secolo gli Stati Uniti "non avevano bisogno del mondo" mentre il mondo aveva bisogno di loro, come si vide al momento delle due guerre mondiali. Tuttavia, se nel 1945 il Pnl statunitense rappresentava piu' della meta' di quello mondiale, e "l'effetto di dominazione fu automatico, immediato" anche per il compito assuntosi (e delegato agli Usa da tutti i paesi capitalisti) di "arginare il comunismo", nel corso degli anni "quello stesso predominio ha colpito, ma in profondita', anche la struttura interna della nazione dominante, indebolendone l'economia e deformandone la societa'". Anche se all'inizio il processo ' stato lento e graduale, e l'inversione del rapporto di dipendenza e' cominciata "senza che gli attori della storia se ne siano resi conto", negli ultimi due decenni "il deficit commerciale americano e' comparso come un elemento strutturale dell'economia mondiale". Tra il 1990 e il 2000 e' passato da 100 a 450 miliardi di dollari, e "per riequilibrare i suoi conti esteri, l'America ha bisogno di un flusso di capitali stranieri di volume equivalente. In quest'inizio di terzo millennio, gli Stati Uniti non possono piu' vivere della loro produzione". La conclusione di Todd e' che "nel momento stesso in cui il mondo, in corso di stabilizzazione educativa, demografica e democratica (sic!), e' sul punto di scoprire che puo' fare a meno dell'America, l'America si accorge che non puo' piu' fare a meno del mondo". Todd descrive di fatto una superpotenza che vive alla giornata, e che vede ridursi di anno in anno i vantaggi acquisiti in passato: ad esempio se la produzione Usa alla vigilia del 1929 rappresentava il 44,5% di quella mondiale contro l'11,6% della Germania, il 9,3% della Gran Bretagna, il 2,4 del Giappone, oggi il prodotto industriale statunitense e' di poco inferiore a quelle dell'Unione Europea e appena superiore a quello del Giappone; e cio' vale anche per le produzioni ad alto livello tecnologico, tanto e' vero che nel 2003 l'europea Airbus produrra' la stessa quantita' di aerei di Boeing. Todd vede come probabile e anzi gia' annunciata da vari sintomi l'ipotesi di un avvicinamento tra Europa e Giappone, che renderebbe piu' difficile la "riscossione del tributo" (come Todd chiama il ruolo schiacciante degli Usa nell'esportazione di armi, mentre ritiene che la posizione dominante delle multinazionali americane del petrolio, se puo' spiegare la "fissazione ossessiva della politica estera americana su questo bene particolare", non puo' bastare "a finanziare le importazioni americane di beni di ogni genere"). Che tuttavia vengono pagati, facendo dire ad alcuni economisti che il "ruolo economico mondiale degli Stati Uniti non e' piu' produrre beni, come le altre nazioni, ma moneta". Il libro di Todd ha anche un intero capitolo sul ritorno della Russia sulla scena mondiale, che egli ritiene possibile e necessario. Egli sostiene che le indecisioni degli Stati Uniti hanno impedito di raggiungere i due obiettivi essenziali indicati a suo tempo da Brzezinski: la totale disintegrazione della Russia, e il "mantenimento di un certo livello di tensione tra gli Stati Uniti e la Russia", che avrebbe dovuto "impedire il riavvicinamento tra l'Europa e la Russia", di cui invece Todd scorge le solide basi materiali (un intercambio di beni tra Russia e Europa per 75 miliardi di euro, mentre quello con gli Usa e' appena di 10 miliardi). Emmanuel Todd ritiene che l'innegabile superiorita' militare degli Usa non annulla gli effetti negativi della loro strategia: "Non potendo padroneggiare le vere potenze del suo tempo - controllare il Giappone e l'Europa in campo industriale, distruggere la Russia in campo militare nucleare - l'America, per mettere in scena una parvenza di impero, ha dovuto scegliere un'azione militare e diplomatica che si esercita nel campo delle non-potenze: l'asse del male e il mondo arabo, due sfere la cui intersezione e' l'Iraq. L'azione militare, per il suo livello d'intensita' e di rischio, ormai si situa tra la guerra vera e il videogioco. Si mettono sotto embargo dei paesi incapaci di difendersi, e si bombardano eserciti insignificanti". * Per molti aspetti il secondo libro preso in esame e' ancora piu' stimolante. John Mearsheimer e' uno studioso della prestigiosa e "laica" Universita' di Chicago, discepolo della scuola realista di Hans Morgenthau e convinto che sia meglio "guardare il mondo cosi' com'e', e non come ci piacerebbe che fosse". Nel suo volume (La logica di potenza. L'America, le guerre, il controllo del mondo, Universita' Bocconi Editore, Milano 2003) che nell'edizione originale aveva il titolo piu' inquietante di The Tragedy of Great Power, si tenta un compendio della storia mondiale dalle guerre napoleoniche a oggi, smantellando a una a una le certezze ottimistiche e tranquillizzanti sull'evitabilita' dei conflitti. Identificando le varie ragioni che hanno portato alle guerre, e soprattutto quelle che hanno determinato la vittoria di una coalizione sull'altra, spesso contro tutte le previsioni basate solo sulla forza degli eserciti (esempio classico i rapporti di forza tra la Francia napoleonica e la Russia nel 1812, quando il fattore morale peso' piu' del numero dei combattenti e della qualita' degli armamenti), Mearsheimer traccia un grande affresco a volte prolisso, a volte perfino con affermazioni lapalissiane, ma sempre nel complesso avvincente e utile per spazzare via illusioni infondate. Nella prefazione Sergio Romano, uno dei piu' intelligenti e lucidi tra i conservatori italiani (e per giunta con una notevole esperienza di storico, oltre che di diplomatico e di politico), valorizza questa impostazione, che riassume efficacemente cosi': "I grandi Stati - ricorda Mearsheimer - non sono ne' buoni ne' cattivi, non perseguono la virtu' ma l'egemonia, non si conformano alle tavole della legge morale ma alle dure regole della sopravvivenza". Per orientarsi, bisogna dunque "ricordare che la societa' internazionale e' anarchica" (e a questo proposito va ricordato che solo in due pagine delle 460 del libro si fa un accenno all'Onu, ma per sottolinearne l'impotenza); che le grandi potenze dispongono di una considerevole forza militare e sono quindi, nei loro reciproci rapporti, potenzialmente pericolose; che nessuno Stato puo' essere certo delle intenzioni degli altri; che la principale preoccupazione di ogni Stato e' la sopravvivenza; che i comportamenti dei singoli Stati sono tuttavia razionali e quindi attenti a calcolare, per quanto possibile, le reazioni altrui". Sergio Romano aggiunge che Mearsheimer sa bene "che la maggioranza dei suoi connazionali non condivide queste premesse, crede ottimisticamente nel progresso e si ostina a giudicare il mondo secondo criteri morali" ma sa anche che il moralismo dell'opinione pubblica non ha un'influenza determinante sulla politica estera degli Stati Uniti. Al massimo i governanti statunitensi "sono costretti ad avvolgere le loro decisioni nelle argomentazioni dell'ottimismo liberale e umanitario", senza che questo impedisca loro di parlare "il linguaggio del potere" quando si riuniscono a porte chiuse. Sergio Romano osserva che se questo libro "fosse stato pubblicato dopo lo scoppio della crisi irachena, Mearsheimer avrebbe constatato che gli ultimi sviluppi della politica estera americana confermano la sua analisi. Quando si e' accorto che il disarmo dell'Iraq non giustificava, per una parte della pubblica opinione, il ricorso alle armi, Bush ha sostenuto che la guerra avrebbe permesso la diffusione della democrazia nel mondo arabo", cioe' ha "appiccicato un obiettivo ideale su un obiettivo politico-militare". In genere l'autore si spinge piu' lontano dei suoi maestri "nel descrivere e prescrivere comportamenti che un pacifista definirebbe probabilmente cinici e brutali", e nella franchezza con cui afferma di non credere che gli Stati democratici possano trovare piu' facilmente soluzioni pacifiche alle loro divergenze. L'ultimo capitolo su La politica di potenza nel XXI secolo abbozza alcune previsioni sul ruolo degli Stati Uniti nel prossimo futuro, in un mondo in cui tutte le fantasie sulla fine dei conflitti appaiono campate in aria. Mearsheimer non cita mai Toni Negri o Michael Hardt, ma ne fa a pezzi le teorie. Probabilmente non sa neppure chi siano, dato che frequenta altri ambienti, ma evidentemente polemizza con gli autori statunitensi "non realisti" che li hanno ispirati. "Il mondo reale rimane un mondo realista", scrive polemizzando con le fumisterie di Clinton, e osservando che "gli Stati continuano ad aver paura l'uno dell'altro e a cercare di guadagnare potere a spese altrui, perche' l'anarchia internazionale - principale determinante del comportamento delle grandi potenze - non e' terminata con la fine della guerra fredda, e vi sono ben pochi segni che un tale cambiamento si verifichi in tempi brevi. Gli Stati restano i principali attori della politica mondiale e non c'e' ancora nessun guardiano notturno che vigili su di essi". Anche se e' innegabile che il crollo dell'Unione Sovietica ha provocato uno spostamento radicale nella distribuzione globale del potere, tuttavia "non ha dato origine ad alcun attenuamento della struttura anarchica del sistema - semmai il contrario - e non c'e' quindi motivo di aspettarsi che le grandi potenze assumano nel nuovo secolo comportamenti molto diversi da quelli adottati nei due secoli precedenti". La miglior prova di cio' sta, secondo Mearsheimer, nel fatto "che gli Stati Uniti mantengono circa centomila soldati di stanza in ciascuno dei due continenti, l'europeo e l'asiatico". Egli non e' sicuro che cio' sia utile oggi, e che non esistano altri mezzi meno costosi per ottenere il risultato di mantenere l'egemonia nell'emisfero occidentale e impedire la nascita di un rivale in Europa o in Asia Orientale. Non c'e' dubbio che egli teme soprattutto la Cina, che tuttavia non e' ancora un pericolo militare, e che va fronteggiata per ora con altri mezzi: "gli Stati Uniti- dice senza reticenza - hanno un forte interesse a determinare una minore crescita dell'economia cinese nei prossimi anni". * Abbiamo gia' ricordato Sergio Romano come attento prefatore del libro di Mearsheimer, ma va detto che in un breve e incisivo saggio (Il rischio americano. L'America imperiale, l'Europa irrilevante, Longanesi, Milano 2003) egli ha gettato nel dibattito politico italiano le stesse tesi. Egli spazza via tutte le ricostruzioni apologetiche del ruolo morale degli Stati Uniti, spiegando ad esempio che gia' la dottrina Monroe non era cosi' idealistica e anticoloniale, ma copriva la volonta' di concentrare le forze sul proprio continente escludendone i rivali europei. Fin dai primi anni, scrive "la giovane repubblica non fu mai ne' pacifista ne' indifferente all'importanza delle armi nelle vicende della politica internazionale". Uscita dalla guerra di secessione avendone ricavato, "con qualche anno di anticipo rispetto ai grandi Stati europei, una straordinaria lezione sull'uso di grandi masse, attrezzate con armi nuove" la "giovane repubblica" era pronta ad altre imprese: "Frenate e assopite dalla guerra civile, le energie imperiali si risvegliarono verso la fine del secolo. La guerra di Cuba fu un'operazione maramaldesca, decisa con un futile pretesto (l'esplosione dell'incrociatore americano Maine nel porto dell'Avana non fu provocata dagli spagnoli)". Viva la franchezza! Il libro ripercorre le varie tappe del periodico disimpegno degli Stati Uniti in altri continenti, in genere dettato dalla speranza che i contendenti si logorassero a vicenda. L'entrata nella Prima Guerra Mondiale fu decisa quando emerse il pericolo per la liberta' di navigazione e di commercio rappresentato dalla guerra sottomarina della Germania, e sorse il timore di una sconfitta della Gran Bretagna, con cui da quasi un secolo si era stabilita una ragionevole divisione di compiti, mentre nella Seconda, fu decisiva la percezione della minaccia giapponese ai possedimenti diretti nel Pacifico e agli interessi statunitensi in Cina (mentre Truman, che era presidente del congresso, auspicava ancora il disimpegno, per lasciare che Germania e Unione Sovietica si dissanguassero reciprocamente). Roosevelt, come e' stato ricordato subito dopo l'11 settembre, era stato preavvertito dell'attacco a Pearl Harbor, ma evito' di prendere misure per usare quei morti per vincere le resistenze isolazioniste o apertamente filonaziste in molti ambienti politici e militari. Sergio Romano paragona poi la politica di Kissinger a quella bismarckiana dell'equilibrio tra le potenze, basata sul rientro in gioco della Cina in funzione antisovietica, e accenna a nuove tentazioni imperiali emerse con l'elezione di Ronald Reagan nel 1980, ma si concentra soprattutto sul periodo successivo al 1989: "Capimmo subito che gli Stati Uniti erano ormai, dopo il collasso dell'impero sovietico e la disintegrazione dell'Urss, la sola grande potenza mondiale. Ma non capimmo quale uso avrebbero fatto dello straordinario potere che la fine della guerra fredda aveva depositato nelle loro mani". In tutti i capitoli successivi Romano ripercorre le scelte statunitensi dell'ultimo decennio con inquietudine, giungendo pero' alla conclusione che cio' e' stato facilitato dal fatto che l'Europa e' "irrilevante", perche' divisa, non adeguatamente attrezzata sul piano militare, ecc. La tesi e' discutibile, perche' sorvola sulle affinita' politiche e morali degli imperialismi europei con gli Stati Uniti, ma non e' questo l'essenziale. Sergio Romano e' fortemente preoccupato per il futuro perche', se e' vero - come dicono i "partigiani dell'egemonia americana" - che gli Stati Uniti "sono una grande democrazia", perche' ha una stampa vivace e un forte associazionismo, egli sa bene che "le democrazie non sono necessariamente sagge e la maggioranza, in molte circostanze, puo' avere clamorosamente torto. Fu la maggioranza che linciava i neri nel Sud e voleva la segregazione razziale, (...) che sostenne il senatore McCarthy, (...) che sollecita il Congresso di approvare le leggi extraterritoriali con cui l'America pretende di estendere la sua giurisdizione a qualsiasi Paese straniero, (...) che autorizza il presidente e il Congresso a respingere i maggiori accordi internazionali stipulati negli ultimi anni: dal trattato contro le mine antiuomo ai protocolli di Tokyo", ecc. "Gli errori delle democrazie non mi sorprendono e non mi scandalizzano" scrive Romano. "Sarei sorpreso, al contrario, se il numero fosse garanzia di verita'". Il pericolo, se mai, e' nella convinzione che "la democrazia sia sempre virtuosa e giusta". D'altra parte "quando fa politica estera, l'America e' la prima a non farsi illusioni. Anche se affermano il contrario, i suoi uomini di Stato sanno che la democrazia non e' una Gerusalemme terrestre". E a questo punto Sergio Romano elenca tutte le dittature appoggiate dagli Stati Uniti, osservando che "pericoloso e fuorviante e' invece (...) il sovrappiu' di miele retorico con cui viene continuamente condita e spacciata la ricetta democratica". "Una certa dose di retorica e' fisiologica e accettabile. I veri guai cominciano quando l'America, trascinata dalle proprie inclinazioni morali o dalla necessita' di meglio giustificare i propri obiettivi, pretende di agire in nome di un principio ideale". E fa l'esempio della scelta di Bush di "mascherare le intenzioni originali della sua politica irachena dietro un ambizioso disegno politico-morale: la creazione di un Iraq democratico come passo iniziale per la trasformazione democratica dell'intera regione". Nel migliore dei casi, se tradira' la promessa, suscitera' delusioni e critiche, ma "nel peggiore, se cerchera' di mantenerla, creera' regimi artificiali che avranno una vita breve, un trapasso traumatico e incalcolabili effetti sulla stabilita' del Medio Oriente. Ecco perche' il mondo ha bisogno dell'Europa". Probabilmente la fiducia di Sergio Romano nell'Europa non e' ben riposta, ma la sfiducia nella capacita' degli Stati Uniti di gestire il dopoguerra in Iraq mi sembra fondatissima. Vedremo. * Nessuno di questi saggi, ovviamente, ci dice davvero "dove sta andando l'impero americano" (per parafrasare il titolo dell'articolo di Hobsbawm), ma un po' tutti, da varie angolazioni e con metodologie a volte molto diverse, ci dicono che questa fase della politica statunitense, pur riallacciandosi a precedenti ben radicati nella storia del paese, si scontra oggi con problemi nuovi e pericolosi di "sovraesposizione", e soprattutto con difficolta' - sul terreno dell'economia - probabilmente sottovalutate dall'attuale gruppo dirigente. Ci dicono insomma che dobbiamo seguire con grande attenzione le vicende degli Stati Uniti, senza ignorare la complessita' di un paese che ha saputo o dovuto mutare la sua politica piu' volte nell'ultimo secolo, e che contrariamente a quel che puo' pensare Donald Runsfeld, e' potente ma non onnipotente. 6. RILETTURE. NATALIA GINZBURG: LESSICO FAMIGLIARE Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963, Mondadori, Milano 1974 (ma naturalmente anche successivamente piu' volte ristampato presso entrambi gli editori), pp. XVI + 200. E' uno di quei libri che non si cesserebbe mai di riprendere in mano e rileggere. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 628 del 31 luglio 2003
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