IL NUOVO VOLTO DEL MOVIMENTO DELLA PACE



Fonte: Missione Oggi agosto/settembre 2003

IL NUOVO VOLTO DEL MOVIMENTO DELLA PACE

M.T.


C'è come uno scarto tra le motivazioni addotte, assai deboli, per un no alla
guerra e la forza del movimento per la pace, che in ogni parte del mondo
mostrava di trovare consensi e sostegni. Mentre i vescovi dicevano no alla
guerra con ragionamenti assai prudenti e attenti, il movimento per la pace
sceglieva la pace senza se e senza ma.

 Innanzittutto è necessario cogliere la novità di questo movimento della
pace. Essa sta non tanto nel no alla guerra, ma nelle motivazioni e poi nel
metodo scelto, quello della nonviolenza.
Il no alla guerra è stato espresso molte volte nella seconda metà del secolo
appena concluso. Basti pensare al Vietnam, la cui vicenda ha segnato un'
intera generazione di giovani, ma prima le lotte per il disarmo e poi l'
impegno contro gli euromissili e così via. La stessa drammatica crisi di
Cuba non fu vissuta attraverso grandi manifestazioni di piazza. Al tempo
della prima guerra del Golfo, il movimento pacifista si impegnò molto, ma il
suo no alla guerra aveva motivazioni religiose o ideologiche. Addirittura si
aprì una discussione tra coloro che sostenevano il pacifismo istituzionale,
quello possibile realizzato dalle organizzazioni internazionali e dall'Onu,
a cui realisticamente attenersi, e il pacifismo assoluto di carattere
ideologico e religioso, che sembrava non capire il nuovo orizzonte storico.
La crisi dei Balcani ha aperto crepe non piccole nelle posizioni del
movimento della pace, fino a teorizzare interventi militari per fini
umanitari. Non si capiva, sotto l'effetto dell'emozione prodotta da molti
eccidi, che la rigiustificazione della guerra e delle armi avrebbe avuto
conseguenze drammatiche, senza risolvere nessun problema. Oggi tutto questo
è evidente e finalmente si sentono voci autocritiche.
Il punto di arrivo è stata la guerra in Kosovo, presentata come guerra
umanitaria per impedire una pulizia etnica e che alla sua conclusione ha pro
dotto un'altra pulizia etnica. Si è arrivati al paradosso che la solidarietà
era l'altra faccia delle bombe, con il semplice risultato che le bombe non
hanno risolto i problemi e che la solidarietà ha perso la faccia.
In Afghanistan molti hanno convenuto con la guerra in nome della legittima
difesa e della lotta al terrorismo, cedendo a un americanismo opportunista
che non ha saputo discernere gli eventi. Oggi tutto appare chiaro: il
terrorismo non si è combattuto, non si è preso Bin Laden, ma è cresciuto il
controllo americano di una certa area del mondo, e l'Afghanistan è rimasto
con i suoi antichi problemi di sempre.
Ma tutto questo non è passato invano. Molti hanno cominciato
progressivamente a capire, parlando di Kosovo, di Afghanistan, della
tragedia dei bambini iracheni, delle mine antipersona, dei bambini soldato,
che la guerra non è più confronto tra eserciti, ma massacro deliberato e
voluto di civili. E allora, di fronte alla possibile guerra in Iraq, una
generazione di giovani europei il 9 novembre 2002 è venuta a Firenze per
dire no alla guerra senza se e senza ma, non più o non solamente sulla base
di motivazioni ideologiche o religiose, ma nella convinzione che la guerra
moderna, ogni guerra, poichè è massacro organizzato e prestabilito di
civili, non può avere nessuna giustificazione morale e al tempo stesso è
politicamente impraticabile: perché, per come è condotta, produce una tale
quantità di odio che tende a moltiplicare se stessa.
Si rende visibile a Firenze un nuovo pacifismo, non più fondato su
osservazioni di carattere ideologico o religioso, ma costruito su un
discernimento della storia della seconda metà del secolo. Un movimento per
la pace, in larghissima parte composto da giovani che rifiutano un approccio
ideologico alla politica, ma che sanno comprendere il linguaggio delle
vittime, la loro storia, il loro dolore.
A partire da questo discernimento della storia e dalla consapevolezza della
impraticabilità etica e politica della guerra, il movimento della pace fa
propria la scelta della nonviolenza, non solo come metodo per manifestare le
proprie convinzioni, ma anche come presa d'atto che le armi e la guerra non
sono più in grado di risolvere alcun problema. Al contrario, lasciano uno
strascico di odio, che complica e aggrava ogni situazione (esempio di tutto
questo è la tragedia israelo-palestinese).
Sta su questi punti il fondamento del pacifismo senza se e senza ma, che ha
destato tante polemiche, in nome di astratte categorie di principio, che
indossavano la tunica del "realismo", ma ignoravano la durezza del vero
volto della guerra moderna. Esso non evita l'esame della storia e la sua
sfida, anzi al contrario la assume in tutta la sua violenza devastante.
Il movimento si è espresso in tutto il mondo, con le giornate del 10
dicembre e poi con quella irripetibile del 15 febbraio, mostrando una forza
delle idee e un consenso delle persone assolutamente non prevedibile. E ha
inciso ben più degli immediati esiti della guerra. Basterebbe considerare il
valore delle bandiere dell'arcobaleno alle finestre. È stata la misura non
solo dell'impegno civile di ciascuno, ma la consapevolezza della pace come
valore assoluto, non negoziabile, rispetto al quale le stesse famiglie si
mettevano in questione e sceglievano con il drappo alla finestra. Non è
stato un movimento antipolitico o apolitico, ma ha compreso che la politica
ha nella pace la sua misura ultima e più radicale.
Tutto questo non significa mettere in un angolo i limiti presenti in questo
movimento, molto variegato e composito. La mancanza di un retroterra
culturale e spirituale più vigoroso si esprimeva in intuizioni fortemente
feconde, ma senza memoria e senza radici. Soprattutto nei dibattiti si è
percepita la mancanza di analisi e di riflessioni sufficientemente rigorose:
si preferiva la polemica a un approccio più pacato e riflesso, che ha
scontato la debolezza di una riflessione sui temi della pace, rimasta ferma
al dibattito degli anni '60.
Uno dei limiti, ma in certi momenti anche la forza del movimento, è stato di
non avere gruppi dirigenti significativi. C'è stato un tentativo da parte di
alcuni movimenti legati all'esperienza del Social Forum, utilizzando l'eco
mediatica, di mettere il cappello sul movimento. La cosa per un verso si è
rivelata impossibile perché la scelta della nonviolenza non è mai
appartenuta alla tradizione storica a cui questi movimenti fanno riferimento
e dunque c'era una distanza oggettiva tra l'onda lunga del movimento e
costoro, dall'altra chi è sceso in piazza in queste settimane non rispondeva
a una convocazione di una organizzazione politica, ma voleva esprimere
insieme con tantissime altre persone la sua convinzione pubblica per la pace
e contro la guerra  senza se e senza ma. Di meno e di più di una semplice
azione politica: di meno perché non si faceva riferimento ad alcuna
organizzazione politica, di più perché si poneva la suprema domanda della
politica.
Tutto questo è divenuto visibile nelle divisioni tra le organizzazioni
politiche. È apparso chiaro a molti la volontà di alcuni di lucrare rendite
di posizione sulla pace, secondo un vecchio male della politica italiana,
figlio di un'assenza di cultura politica. Si utilizzava la questione della
guerra per rese dei conti tra partiti e organizzazioni, in questo modo
offendendo chi della guerra stava pagando il prezzo più alto. Questo si è
saldato con un pacifismo esibito, che passava dal blocco dei treni al
festival di Sanremo, all'invasione di aeroporti e campi militari, in una
ricerca di gesti spettacolari, che alla fine ha indebolito il movimento
stesso. La parola delicatissima dell'obiezione di coscienza strausata per
giustificare forzature apparentemente eroiche, in realtà figlie di un
pacifismo mediatico, che alla fine si autoconsuma senza produrre niente.
Sta di fatto che questo movimento, con l'apertura del conflitto, si è
progressivamente fermato, talora con l'impressione di aver subito una
sconfitta. Ma il fatto che ci sia stata la guerra e che gli americani l'
hanno vinta in un tempo breve non significa la sconfitta dei pacifisti. In
realtà il movimento pacifista ha inciso significativamente: sull'Italia
(basterebbe ricordare il dibattito sull'art. 11 che ha impedito all'Italia
di partecipare formalmente alla guerra, contrariamente al '91), sull'Europa
(il documento firmato dai 15 il 17 febbraio), sull'Onu (gli americani hanno
ritirato la mozione perché non sarebbe passata). Probabilmente ha inciso
anche sulla guerra e sulla sua conduzione (il tema dei civili). Nessuno ha
mai pensato di avere la forza politica di fermare gli americani. Questo non
era a disposizione del movimento pacifista. Il suo compito non è di fermare
un conflitto, soprattutto quando questo si pone al di fuori di ogni regola
del diritto internazionale.
Il compito del movimento pacifista è quello di riconciliare. Questa è la
grande sfida, tuttora aperta nel tempo della guerra. A questa sfida il
movimento pacifista arriva, avendo assunto alcuni temi ormai irrinunciabili:
la nonviolenza, lo stare nella guerra dalla parte delle vittime e il rifiuto
della guerra senza se e senza ma, la riconciliazione e il perdono come
parole per riconoscere il dolore dell'altro e per superare il conflitto in
una nuova dialettica di pace.
Questo orizzonte non è imposto da ideologie o fedi religiose, ma nasce dal
discernimento dei tempi e della storia. È su questo orizzonte, che tocca in
modo decisivo e delicatissimo anche le chiese, che si giocherà il futuro del
movimento della pace nei prossimi mesi, in questo tempo della guerra e del
terrore, che non sarà breve.

M.T.

 OLTRE LE PRUDENZE
DEI DOCUMENTI EPISCOPALI


Il movimento della pace ha mosso anche le chiese e le comunità parrocchiali.
Ben oltre le prudenze e le formule dei documenti episcopali e le tiepide
righe formulate dal pool dei movimenti ecclesiali, la spinta nelle chiese,
nelle parrocchie, nelle associazioni è stata fortissima. È stato come
scoprire in termini nuovi la dimensione pubblica della confessione della
fede: si è capito, ben al di là delle astuzie teologiche, che la pace è
luogo supremo della vita cristiana, là dove si gioca in termini radicali la
nostra appartenenza al Signore e il Regno tocca la storia.
Le miriadi di incontri, veglie, marce hanno mostrato il volto di comunità
ecclesiali: di comprendere meglio il Vangelo e al tempo stesso di non
sottrarsi alle urgenze della storia; anzi la storia le chiamava a una nuova
comprensione, sine glossa, del Vangelo della pace.
È significativo che nessuno tenesse nel minimo conto il dibattito sulla
legittima difesa, sul disarmare l'aggressore, sulla guerra come extrema
ratio, sul cosìddetto fondamentalismo pacifista. Queste sono cose per uomini
religiosi che hanno bisogno della sicurezza della dottrina, che nella sua
astuzia è capace di giustificare ogni comportamento. I cristiani comuni
hanno compreso che il dramma delle vittime inermi della guerra in Iraq non
permetteva altra lettura del Vangelo, se non quella narrata da Gesù sulla
croce, là dove si consuma il suo essere vittima. Questa non era una
semplificazione, ma un'intelligenza nuova del mistero di Gesù secondo la
forza dello Spirito.

M.T.