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IL NUOVO VOLTO DEL MOVIMENTO DELLA PACE
- Subject: IL NUOVO VOLTO DEL MOVIMENTO DELLA PACE
- From: "Missione Oggi" <missioneoggi at saveriani.bs.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Wed, 30 Jul 2003 16:47:44 +0200
Fonte: Missione Oggi agosto/settembre 2003 IL NUOVO VOLTO DEL MOVIMENTO DELLA PACE M.T. C'è come uno scarto tra le motivazioni addotte, assai deboli, per un no alla guerra e la forza del movimento per la pace, che in ogni parte del mondo mostrava di trovare consensi e sostegni. Mentre i vescovi dicevano no alla guerra con ragionamenti assai prudenti e attenti, il movimento per la pace sceglieva la pace senza se e senza ma. Innanzittutto è necessario cogliere la novità di questo movimento della pace. Essa sta non tanto nel no alla guerra, ma nelle motivazioni e poi nel metodo scelto, quello della nonviolenza. Il no alla guerra è stato espresso molte volte nella seconda metà del secolo appena concluso. Basti pensare al Vietnam, la cui vicenda ha segnato un' intera generazione di giovani, ma prima le lotte per il disarmo e poi l' impegno contro gli euromissili e così via. La stessa drammatica crisi di Cuba non fu vissuta attraverso grandi manifestazioni di piazza. Al tempo della prima guerra del Golfo, il movimento pacifista si impegnò molto, ma il suo no alla guerra aveva motivazioni religiose o ideologiche. Addirittura si aprì una discussione tra coloro che sostenevano il pacifismo istituzionale, quello possibile realizzato dalle organizzazioni internazionali e dall'Onu, a cui realisticamente attenersi, e il pacifismo assoluto di carattere ideologico e religioso, che sembrava non capire il nuovo orizzonte storico. La crisi dei Balcani ha aperto crepe non piccole nelle posizioni del movimento della pace, fino a teorizzare interventi militari per fini umanitari. Non si capiva, sotto l'effetto dell'emozione prodotta da molti eccidi, che la rigiustificazione della guerra e delle armi avrebbe avuto conseguenze drammatiche, senza risolvere nessun problema. Oggi tutto questo è evidente e finalmente si sentono voci autocritiche. Il punto di arrivo è stata la guerra in Kosovo, presentata come guerra umanitaria per impedire una pulizia etnica e che alla sua conclusione ha pro dotto un'altra pulizia etnica. Si è arrivati al paradosso che la solidarietà era l'altra faccia delle bombe, con il semplice risultato che le bombe non hanno risolto i problemi e che la solidarietà ha perso la faccia. In Afghanistan molti hanno convenuto con la guerra in nome della legittima difesa e della lotta al terrorismo, cedendo a un americanismo opportunista che non ha saputo discernere gli eventi. Oggi tutto appare chiaro: il terrorismo non si è combattuto, non si è preso Bin Laden, ma è cresciuto il controllo americano di una certa area del mondo, e l'Afghanistan è rimasto con i suoi antichi problemi di sempre. Ma tutto questo non è passato invano. Molti hanno cominciato progressivamente a capire, parlando di Kosovo, di Afghanistan, della tragedia dei bambini iracheni, delle mine antipersona, dei bambini soldato, che la guerra non è più confronto tra eserciti, ma massacro deliberato e voluto di civili. E allora, di fronte alla possibile guerra in Iraq, una generazione di giovani europei il 9 novembre 2002 è venuta a Firenze per dire no alla guerra senza se e senza ma, non più o non solamente sulla base di motivazioni ideologiche o religiose, ma nella convinzione che la guerra moderna, ogni guerra, poichè è massacro organizzato e prestabilito di civili, non può avere nessuna giustificazione morale e al tempo stesso è politicamente impraticabile: perché, per come è condotta, produce una tale quantità di odio che tende a moltiplicare se stessa. Si rende visibile a Firenze un nuovo pacifismo, non più fondato su osservazioni di carattere ideologico o religioso, ma costruito su un discernimento della storia della seconda metà del secolo. Un movimento per la pace, in larghissima parte composto da giovani che rifiutano un approccio ideologico alla politica, ma che sanno comprendere il linguaggio delle vittime, la loro storia, il loro dolore. A partire da questo discernimento della storia e dalla consapevolezza della impraticabilità etica e politica della guerra, il movimento della pace fa propria la scelta della nonviolenza, non solo come metodo per manifestare le proprie convinzioni, ma anche come presa d'atto che le armi e la guerra non sono più in grado di risolvere alcun problema. Al contrario, lasciano uno strascico di odio, che complica e aggrava ogni situazione (esempio di tutto questo è la tragedia israelo-palestinese). Sta su questi punti il fondamento del pacifismo senza se e senza ma, che ha destato tante polemiche, in nome di astratte categorie di principio, che indossavano la tunica del "realismo", ma ignoravano la durezza del vero volto della guerra moderna. Esso non evita l'esame della storia e la sua sfida, anzi al contrario la assume in tutta la sua violenza devastante. Il movimento si è espresso in tutto il mondo, con le giornate del 10 dicembre e poi con quella irripetibile del 15 febbraio, mostrando una forza delle idee e un consenso delle persone assolutamente non prevedibile. E ha inciso ben più degli immediati esiti della guerra. Basterebbe considerare il valore delle bandiere dell'arcobaleno alle finestre. È stata la misura non solo dell'impegno civile di ciascuno, ma la consapevolezza della pace come valore assoluto, non negoziabile, rispetto al quale le stesse famiglie si mettevano in questione e sceglievano con il drappo alla finestra. Non è stato un movimento antipolitico o apolitico, ma ha compreso che la politica ha nella pace la sua misura ultima e più radicale. Tutto questo non significa mettere in un angolo i limiti presenti in questo movimento, molto variegato e composito. La mancanza di un retroterra culturale e spirituale più vigoroso si esprimeva in intuizioni fortemente feconde, ma senza memoria e senza radici. Soprattutto nei dibattiti si è percepita la mancanza di analisi e di riflessioni sufficientemente rigorose: si preferiva la polemica a un approccio più pacato e riflesso, che ha scontato la debolezza di una riflessione sui temi della pace, rimasta ferma al dibattito degli anni '60. Uno dei limiti, ma in certi momenti anche la forza del movimento, è stato di non avere gruppi dirigenti significativi. C'è stato un tentativo da parte di alcuni movimenti legati all'esperienza del Social Forum, utilizzando l'eco mediatica, di mettere il cappello sul movimento. La cosa per un verso si è rivelata impossibile perché la scelta della nonviolenza non è mai appartenuta alla tradizione storica a cui questi movimenti fanno riferimento e dunque c'era una distanza oggettiva tra l'onda lunga del movimento e costoro, dall'altra chi è sceso in piazza in queste settimane non rispondeva a una convocazione di una organizzazione politica, ma voleva esprimere insieme con tantissime altre persone la sua convinzione pubblica per la pace e contro la guerra senza se e senza ma. Di meno e di più di una semplice azione politica: di meno perché non si faceva riferimento ad alcuna organizzazione politica, di più perché si poneva la suprema domanda della politica. Tutto questo è divenuto visibile nelle divisioni tra le organizzazioni politiche. È apparso chiaro a molti la volontà di alcuni di lucrare rendite di posizione sulla pace, secondo un vecchio male della politica italiana, figlio di un'assenza di cultura politica. Si utilizzava la questione della guerra per rese dei conti tra partiti e organizzazioni, in questo modo offendendo chi della guerra stava pagando il prezzo più alto. Questo si è saldato con un pacifismo esibito, che passava dal blocco dei treni al festival di Sanremo, all'invasione di aeroporti e campi militari, in una ricerca di gesti spettacolari, che alla fine ha indebolito il movimento stesso. La parola delicatissima dell'obiezione di coscienza strausata per giustificare forzature apparentemente eroiche, in realtà figlie di un pacifismo mediatico, che alla fine si autoconsuma senza produrre niente. Sta di fatto che questo movimento, con l'apertura del conflitto, si è progressivamente fermato, talora con l'impressione di aver subito una sconfitta. Ma il fatto che ci sia stata la guerra e che gli americani l' hanno vinta in un tempo breve non significa la sconfitta dei pacifisti. In realtà il movimento pacifista ha inciso significativamente: sull'Italia (basterebbe ricordare il dibattito sull'art. 11 che ha impedito all'Italia di partecipare formalmente alla guerra, contrariamente al '91), sull'Europa (il documento firmato dai 15 il 17 febbraio), sull'Onu (gli americani hanno ritirato la mozione perché non sarebbe passata). Probabilmente ha inciso anche sulla guerra e sulla sua conduzione (il tema dei civili). Nessuno ha mai pensato di avere la forza politica di fermare gli americani. Questo non era a disposizione del movimento pacifista. Il suo compito non è di fermare un conflitto, soprattutto quando questo si pone al di fuori di ogni regola del diritto internazionale. Il compito del movimento pacifista è quello di riconciliare. Questa è la grande sfida, tuttora aperta nel tempo della guerra. A questa sfida il movimento pacifista arriva, avendo assunto alcuni temi ormai irrinunciabili: la nonviolenza, lo stare nella guerra dalla parte delle vittime e il rifiuto della guerra senza se e senza ma, la riconciliazione e il perdono come parole per riconoscere il dolore dell'altro e per superare il conflitto in una nuova dialettica di pace. Questo orizzonte non è imposto da ideologie o fedi religiose, ma nasce dal discernimento dei tempi e della storia. È su questo orizzonte, che tocca in modo decisivo e delicatissimo anche le chiese, che si giocherà il futuro del movimento della pace nei prossimi mesi, in questo tempo della guerra e del terrore, che non sarà breve. M.T. OLTRE LE PRUDENZE DEI DOCUMENTI EPISCOPALI Il movimento della pace ha mosso anche le chiese e le comunità parrocchiali. Ben oltre le prudenze e le formule dei documenti episcopali e le tiepide righe formulate dal pool dei movimenti ecclesiali, la spinta nelle chiese, nelle parrocchie, nelle associazioni è stata fortissima. È stato come scoprire in termini nuovi la dimensione pubblica della confessione della fede: si è capito, ben al di là delle astuzie teologiche, che la pace è luogo supremo della vita cristiana, là dove si gioca in termini radicali la nostra appartenenza al Signore e il Regno tocca la storia. Le miriadi di incontri, veglie, marce hanno mostrato il volto di comunità ecclesiali: di comprendere meglio il Vangelo e al tempo stesso di non sottrarsi alle urgenze della storia; anzi la storia le chiamava a una nuova comprensione, sine glossa, del Vangelo della pace. È significativo che nessuno tenesse nel minimo conto il dibattito sulla legittima difesa, sul disarmare l'aggressore, sulla guerra come extrema ratio, sul cosìddetto fondamentalismo pacifista. Queste sono cose per uomini religiosi che hanno bisogno della sicurezza della dottrina, che nella sua astuzia è capace di giustificare ogni comportamento. I cristiani comuni hanno compreso che il dramma delle vittime inermi della guerra in Iraq non permetteva altra lettura del Vangelo, se non quella narrata da Gesù sulla croce, là dove si consuma il suo essere vittima. Questa non era una semplificazione, ma un'intelligenza nuova del mistero di Gesù secondo la forza dello Spirito. M.T.
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