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LA POSIZIONE DELLE CHIESE DI FRONTE ALLA GUERRA IN IRAQ
- Subject: LA POSIZIONE DELLE CHIESE DI FRONTE ALLA GUERRA IN IRAQ
- From: "Missione Oggi" <missioneoggi at saveriani.bs.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Wed, 30 Jul 2003 16:47:16 +0200
Fonte: Missione Oggi - agosto/settembre 2003 LA POSIZIONE DELLE CHIESE DI FRONTE ALLA GUERRA IN IRAQ M.T. Il legame con le vittime pone le chiese nel cuore dei conflitti, là dove la violenza gioca la sua partita decisiva, e fa che siano coerenti con il Vangelo. Il recente conflitto in Iraq, con il dibattito che lo ha accompagnato, è stato un momento di verifica di tutto questo. Il papa, nell'udienza generale di mercoledì 11 settembre 2002, a un anno dall'anniversario delle due torri e nello stesso giorno in cui Bush presenta il testo La strategia della sicurezza nazionale, afferma: "La sopraffazione, la violenza armata, la guerra sono scelte che seminano e generano solo odio e morte. Soltanto la ragione e l'amore sono mezzi validi per superare e risolvere le contese tra le persone e i popoli". Il giorno prima, in un'intervista a Avvenire, mons. Tauran indica la linea della Santa Sede: "Non si può aggiungere un male a un altro male. Se la comunità internazionale, ispirandosi al diritto internazionale e in particolare alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, giudicasse opportuno e proporzionato il ricorso alla forza, ciò dovrebbe avvenire con una decisione presa nel quadro delle Nazioni Unite, dopo aver soppesato le conseguenze per la popolazione civile irachena, nonché le ripercussioni che potrebbero avere sui paesi della regione e sulla stabilità mondiale; se no si imporrebbe soltanto la legge del più forte. Ma ci si può legittimamente domandare se il tipo di operazione a cui si pensa sia un mezzo adeguato per far maturare una vera pace". Netta è la condanna del papa di una possibile guerra. Tauran riconosce il diritto alle Nazioni Unite di un uso della forza, pur con precisi vincoli, anche se si esprimono riserve sull'utilità di questo. Il card. Ruini, al Consiglio permanente della Cei, riprende sostanzialmente questa posizione, sostenendo la necessità della massima vigilanza nei confronti dell'Iraq per prevenire tragedie, negando legittimità ad una guerra preventiva, confidando nell'azione di dissuasione dell'Onu. Il presidente dei vescovi americani scrive a Bush il 13 settembre, dichiarando che "un uso preventivo della forza nei confronti dell'Iraq è difficile da giustificare in questo momento". Siamo come all'inizio di una discussione, che si farà sempre più drammatica, ma la posizione sembra ancora porsi come una variabile della teologia della guerra giusta. Le chiese degli Usa I vescovi americani, il 13 novembre, ritornano sulla questione con una dichiarazione congiunta: "In base alle nostre attuali conoscenze, continuiamo a ritenere che sia difficile giustificare il ricorso alla guerra contro l'Iraq, mancando una prova chiara e adeguata di un imminente attacco di grave natura". Essi poi riprendono i criteri della guerra giusta: la giusta causa, l'autorità legittima , la probabilità di successo e di proporzionalità, norme che regolano la conduzione della guerra, notando che proprio l'applicazione rigorosa di questi principi invita a perseguire le possibili alternative alla guerra, come un embargo militare, il mantenimento delle sanzioni politiche, una forte dissuasione sulle possibili armi di distruzione di massa. Il Consiglio della chiese di Cristo negli Stati Uniti (l'istituzione ecclesiale a cui appartiene anche la chiesa di Bush), due giorni dopo, approva un documento in cui la critica all'amministrazione americana è molto più forte: "A distanza di un anno, siamo molto più preoccupati per il sorgere del militarismo e la crescita della violenza. Il presidente e gli altri membri del governo degli Stati Uniti dividono enfaticamente nei loro discorsi gli Stati e i popoli in buoni e cattivi. Il fatto di demonizzare gli avversari o i nemici nega la loro fondamentale dignità e contraddice la fede cristiana nella dignità e nel valore di ogni uomo come figlio di Dio. Inoltre, un tale approccio a problemi complessi e difficili dilemmi rischia di provocare maggiore insicurezza, paura, odio, violenza fra gli Stati e i popoli, condizioni che potrebbero favorire altri atti di terrorismo. Gli Stati Uniti dominano il mondo unilateralmente e cercano sempre più di farlo anche politicamente. Il Consiglio delle chiese è particolarmente preoccupato per il fatto che gli Stati Uniti sono sempre più militaristi nella scelta degli obbiettivi politici ed economici. Il Consiglio delle chiese continua a essere amareggiato per il rifiuto degli Stati Uniti di saldare i propri conti arretrati all'Onu, per l'indisponibilità a essere tra i firmatari della corte penale internazionale, per la riluttanza a onorare i trattati di messa al bando dei test missilistici e altri accordi internazionali che limiterebbero l'aumento degli arsenali militari e per i tentativi selettivi di assicurare l'attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Siamo particolarmente amareggiati quando sentiamo parlare di risposte militari a problemi politici globali. Chiediamo un' intensificazione degli sforzi per utilizzare tutti i canali diplomatici e tutti gli altri canali internazionali per assicurare la pace con giustizia". Il testo conclude con un invito pressante a evitare la guerra. È un testo di grande interesse, perché non si limita a discettare sulla dottrina della guerra, come fanno per esempio l'episcopato francese e inglese, che si rifugiano nella guerra come extrema ratio. C'è una critica molto forte all'amministrazione americana e alla cultura politica, di cui si intravedono esiti assai drammatici nel medio periodo. C' è la consapevolezza che si possa aprire un confronto drammatico con il mondo dell'Islam. Cioè si colloca la questione della guerra in Iraq in un contesto assai più largo e delicato. Il papa nel gennaio 2003 Di nuovo il papa ritorna in modo importante sulla guerra in Iraq, che intanto si sta avvicinando, nel discorso del 13 gennaio al corpo diplomatico, discorso in cui si fa il punto dello scenario internazionale: "Che dire delle minacce di una guerra che potrebbe abbattersi sulle popolazioni dell'Iraq, già estenuate da più di dodici anni di embargo? Mai la guerra può essere considerata un mezzo come un altro, da utilizzare per regolare i contenziosi tra le nazioni. Come ricordano la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale, non si può fare ricorso alla guerra, anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità, nel rispetto di ben rigorose condizioni; né vanno trascurate le conseguenze che esso comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari". Qui viene ripreso l'impianto tradizionale della teologia della guerra, dentro il quale si spiega e si colloca il ruolo dell'Onu. Ma il 23 gennaio, all'Angelus, il papa introduce una chiave diversa ed è quella del dialogo tra le religioni, che la guerra in Iraq può mettere in crisi, fino allo scontro di civiltà: "È doveroso per i credenti a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra". Per sostenere questo, chiede ai cristiani nel giorno delle ceneri il digiuno per la pace: "Dedicare con particolare intensità la giornata del prossimo 5 marzo, mercoledì delle ceneri, alla preghiera e al digiuno per la causa della pace, agli uomini di buona volontà: un giorno di digiuno per la pace". Il digiuno, che i cristiani condividono con fratelli e sorelle di altre religioni, è chiamato a purificare i rapporti umani dalla violenza e a avvicinare la pace. E definendo i cristiani sentinelle della pace, chiede loro di "vigilare affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell' egoismo, della menzogna e della violenza". In questa presa di posizione si esce dalla casistica, per offrire una prospettiva più spirituale e incisiva sul tema della guerra. Interventi degli episcopati Nelle stesse settimane si moltiplicano le prese di posizione dei vescovi contro la guerra preventiva: i vescovi tedeschi, il presidente della Cei, la conferenza episcopale canadese, i vescovi francesi, i vescovi australiani. È da notare che la critica alla guerra preventiva non è critica alla guerra, anzi insistere sull'aggettivo è un modo per non negare in linea di principio questa possibilità. Il 19 febbraio mons. Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso l'Onu, parlando all'assemblea delle Nazioni Unite, sostiene le ispezioni e invita a una soluzione diplomatica e pacifica della crisi, mantenendo aperto il "dialogo, che può portare a soluzioni per quanto riguarda la prevenzione di una possibile guerra". Il 20 febbraio il primate di Canterbury e l'arcivescovo di Westminster, in un documento comune di particolare rilievo per il ruolo dell'Inghilterra nella guerra, sostengono il ruolo dell'Onu e delle ispezioni, "che potrebbe e dovrebbe evitare il trauma e la tragedia della guerra". Il 23 febbraio le chiese di Gerusalemme, di Baghdad e di Sarajevo, con i loro pastori lanciano un grido drammatico come chiese di città martiri: "Noi che abbiamo vissuto o stiamo ancora vivendo la tragedia della guerra, vogliamo dire al mondo intero, in particolare ai potenti della terra: non imboccate la strada della guerra, perché è una strada senza uscita, la pace è l'unica strada da percorrere, è direzione obbligatoria. Non c'è violenza, non c'è terrorismo, non c'è guerra che non porti con sé altra violenza, odio, distruzione, sofferenza e morte". Il 24 febbraio mons. Tauran, in una conferenza all'Istituto dell'Immacolata di Roma, ribadisce il sostegno della Santa Sede alle Nazioni Unite: "Tutto deve essere intrapreso nel quadro definito dal diritto internazionale. Come sappiamo, il Consiglio di sicurezza autorizza uno o più Stati a ricorrere unilateralmente, e insisto su questo punto, unilateralmente all'uso della forza, per cambiare un regime o la forma di un governo di un altro Stato, a causa per esempio dell'eventuale possesso di armamenti di distruzione di massa. Solo il Consiglio di sicurezza potrebbe, a motivo di circostanze particolari, decidere che tali fatti costituiscono una minaccia contro la pace, ma questo non significa che il ricorso alla forza sia, per lo stesso Consiglio di sicurezza, la sola risposta adeguata. Molto probabilmente una guerra generalizzata contro l'Iraq provocherebbe tra le popolazioni civili dei danni sproporzionati in rapporto agli obiettivi da raggiungere e violerebbe le regole fondamentali del diritto internazionale umanitario". Una riflessione conclusiva Il papa, all'Angelus del 9 marzo, grida di nuovo, con vigore sorprendente, a braccio, abbandonando il testo letto, il "mai più guerra, mai più guerra", partendo proprio dall'esperienza che egli ha fatto della guerra nella seconda guerra mondiale, invitando i giovani a imparare da questo magistero tragico della storia. È noto che la guerra inizia il 20 marzo e il grido del papa e delle chiese rimane inascoltato. Quello che conviene sottolineare è il fatto che tutte queste prese di posizione delle chiese e dei vescovi, largamente interne alla dottrina sociale della guerra, sono state recepite come sostegno esplicito e netto al movimento della pace. La posizione del papa è stata ascoltata come vera profezia di pace contro la guerra preventiva e contro la posizione americana. La stessa attività diplomatica della Santa Sede, culminata nel viaggio di Etchegaray a Baghdad, e di Laghi a Washington, e nella visita di Aziz al papa, è stata vissuta dall'opinione pubblica mondiale come perfettamente coerente con la scelta di pace della chiesa. Questa ricezione non deve impedire di riconoscere la fragilità dell'impianto di alcune formulazioni di molti vescovi. La casistica ha impedito di cogliere questa guerra non come un caso speciale (la guerra preventiva), ma come un caso di un disegno ben più largo e ambizioso e soprattutto non ha permesso ai vescovi di abbandonare l'impianto della teologia della guerra. Solo il papa, con il digiuno e gli appelli a non accettare in nessun modo e in nessun caso lo scontro di civiltà, si è posto su un piano diverso, che ha le sue radici nell'aver fatto l'esperienza storica della guerra. Se va apprezzato il no, comunque assai netto e convinto, alla guerra che gli Stati Uniti hanno promosso contro l'Iraq, appaiono meno convincenti le motivazioni che hanno alimentato questo tipo di posizioni. Esse sono il frutto di un'antica dottrina, che mostra tutti i suoi limiti nel nuovo contesto internazionale e che soprattutto appare incapace di assumere la questione delle vittime come questione centrale per un giudizio sulla guerra. Rimane il fatto che sono state assunte come critiche alla guerra e alle posizioni americane e come sostegno al movimento della pace, ben oltre le motivazioni che alimentano il no alla guerra. M.T.
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