LA POSIZIONE DELLE CHIESE DI FRONTE ALLA GUERRA IN IRAQ



Fonte: Missione Oggi - agosto/settembre 2003

LA POSIZIONE DELLE CHIESE DI FRONTE ALLA GUERRA IN IRAQ

M.T.


Il legame con le vittime pone le chiese nel cuore dei conflitti, là dove la
violenza gioca la sua partita decisiva, e fa che siano coerenti con il
Vangelo. Il recente conflitto in Iraq, con il dibattito che lo ha
accompagnato, è stato un momento di verifica di tutto questo.

 Il papa, nell'udienza generale di mercoledì 11 settembre 2002, a un anno
dall'anniversario delle due torri e nello stesso giorno in cui Bush presenta
il testo La strategia della sicurezza nazionale, afferma: "La sopraffazione,
la violenza armata, la guerra sono scelte che seminano e generano solo odio
e morte. Soltanto la ragione e l'amore sono mezzi validi per superare e
risolvere le contese tra le persone e i popoli".
Il giorno prima, in un'intervista a Avvenire, mons. Tauran indica la linea
della Santa Sede: "Non si può aggiungere un male a un altro male. Se la
comunità internazionale, ispirandosi al diritto internazionale e in
particolare alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, giudicasse
opportuno e proporzionato il ricorso alla forza, ciò dovrebbe avvenire con
una decisione presa nel quadro delle Nazioni Unite, dopo aver soppesato le
conseguenze per la popolazione civile irachena, nonché le ripercussioni che
potrebbero avere sui paesi della regione e sulla stabilità mondiale; se no
si imporrebbe soltanto la legge del più forte. Ma ci si può legittimamente
domandare se il tipo di operazione a cui si pensa sia un mezzo adeguato per
far maturare una vera pace".
Netta è la condanna del papa di una possibile guerra. Tauran riconosce il
diritto alle Nazioni Unite di un uso della forza, pur con precisi vincoli,
anche se si esprimono riserve sull'utilità di questo.
Il card. Ruini, al Consiglio permanente della Cei, riprende sostanzialmente
questa posizione, sostenendo la necessità della massima vigilanza nei
confronti dell'Iraq per prevenire tragedie, negando legittimità ad una
guerra preventiva, confidando nell'azione di dissuasione dell'Onu. Il
presidente dei vescovi americani scrive a Bush il 13 settembre, dichiarando
che "un uso preventivo della forza nei confronti dell'Iraq è difficile da
giustificare in questo momento".
Siamo come all'inizio di una discussione, che si farà sempre più drammatica,
ma la posizione sembra ancora porsi come una variabile della teologia della
guerra giusta.

Le chiese degli Usa
I vescovi americani, il 13 novembre, ritornano sulla questione con una
dichiarazione congiunta: "In base alle nostre attuali conoscenze,
continuiamo a ritenere che sia difficile giustificare il ricorso alla guerra
contro l'Iraq, mancando una prova chiara e adeguata di un imminente attacco
di grave natura". Essi poi riprendono i criteri della guerra giusta: la
giusta causa, l'autorità legittima , la probabilità di successo e di
proporzionalità, norme che regolano la conduzione della guerra, notando che
proprio l'applicazione rigorosa di questi principi invita a perseguire le
possibili alternative alla guerra, come un embargo militare, il mantenimento
delle sanzioni politiche, una forte dissuasione sulle possibili armi di
distruzione di massa.
Il Consiglio della chiese di Cristo negli Stati Uniti (l'istituzione
ecclesiale a cui appartiene anche la chiesa di Bush), due giorni dopo,
approva un documento in cui la critica all'amministrazione americana è molto
più forte:
"A distanza di un anno, siamo molto più preoccupati per il sorgere del
militarismo e la crescita della violenza. Il presidente e gli altri membri
del governo degli Stati Uniti dividono enfaticamente nei loro discorsi gli
Stati e i popoli in buoni e cattivi. Il fatto di demonizzare gli avversari o
i nemici nega la loro fondamentale dignità e contraddice la fede cristiana
nella dignità e nel valore di ogni uomo come figlio di Dio. Inoltre, un tale
approccio a problemi complessi e difficili dilemmi rischia di provocare
maggiore insicurezza, paura, odio, violenza fra gli Stati e i popoli,
condizioni che potrebbero favorire altri atti di terrorismo. Gli Stati Uniti
dominano il mondo unilateralmente e cercano sempre più di farlo anche
politicamente. Il Consiglio delle chiese è particolarmente preoccupato per
il fatto che gli Stati Uniti sono sempre più militaristi nella scelta degli
obbiettivi politici ed economici. Il Consiglio delle chiese continua a
essere amareggiato per il rifiuto degli Stati Uniti di saldare i propri
conti arretrati all'Onu, per l'indisponibilità a essere tra i firmatari
della corte penale internazionale, per la riluttanza a onorare i trattati di
messa al bando dei test missilistici e altri accordi internazionali che
limiterebbero l'aumento degli arsenali militari e per i tentativi selettivi
di assicurare l'attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite. Siamo particolarmente amareggiati quando sentiamo
parlare di risposte militari a problemi politici globali. Chiediamo un'
intensificazione degli sforzi per utilizzare tutti i canali diplomatici e
tutti gli altri canali internazionali per assicurare la pace con giustizia".
Il testo conclude con un invito pressante a evitare la guerra. È un testo di
grande interesse, perché non si limita a discettare sulla dottrina della
guerra, come fanno per esempio l'episcopato francese e inglese, che si
rifugiano nella guerra come extrema ratio.
C'è una critica molto forte all'amministrazione americana e alla cultura
politica, di cui si intravedono esiti assai drammatici nel medio periodo. C'
è la consapevolezza che si possa aprire un confronto drammatico con il mondo
dell'Islam. Cioè si colloca la questione della guerra in Iraq in un contesto
assai più largo e delicato.

Il papa nel gennaio 2003
Di nuovo il papa ritorna in modo importante sulla guerra in Iraq, che
intanto si sta avvicinando, nel discorso del 13 gennaio al corpo
diplomatico, discorso in cui si fa il punto dello scenario internazionale:
"Che dire delle minacce di una guerra che potrebbe abbattersi sulle
popolazioni dell'Iraq, già estenuate da più di dodici anni di embargo? Mai
la guerra può essere considerata un mezzo come un altro, da utilizzare per
regolare i contenziosi tra le nazioni. Come ricordano la Carta delle Nazioni
Unite  e il diritto internazionale, non si può fare ricorso alla guerra,
anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema
possibilità, nel rispetto di ben rigorose condizioni; né vanno trascurate le
conseguenze che esso comporta per le popolazioni civili durante e dopo le
operazioni militari".
Qui viene ripreso l'impianto tradizionale della teologia della guerra,
dentro il quale si spiega e si colloca il ruolo dell'Onu.
Ma il 23 gennaio, all'Angelus, il papa introduce una chiave diversa ed è
quella del dialogo tra le religioni, che la guerra in Iraq può mettere in
crisi, fino allo scontro di civiltà: "È doveroso per i credenti a qualunque
religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni
contro gli altri; mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato dal
terrorismo e dalla logica della guerra". Per sostenere questo, chiede ai
cristiani nel giorno delle ceneri il digiuno per la pace: "Dedicare con
particolare intensità la giornata del prossimo 5 marzo, mercoledì delle
ceneri, alla preghiera e al digiuno per la causa della pace, agli uomini di
buona volontà: un giorno di digiuno per la pace".
Il digiuno, che i cristiani condividono con fratelli e sorelle di altre
religioni, è chiamato a purificare i rapporti umani dalla violenza e a
avvicinare la pace. E definendo i cristiani sentinelle della pace, chiede
loro di "vigilare affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'
egoismo, della menzogna e della violenza".
In questa presa di posizione si esce dalla casistica, per offrire una
prospettiva più spirituale e incisiva sul tema della guerra.

Interventi degli episcopati
Nelle stesse settimane si moltiplicano le prese di posizione dei vescovi
contro la guerra preventiva: i vescovi tedeschi, il presidente della Cei, la
conferenza episcopale canadese, i vescovi francesi, i vescovi australiani. È
da notare che la critica alla guerra preventiva non è critica alla guerra,
anzi insistere sull'aggettivo è un modo per non negare in linea di principio
questa possibilità.
Il 19 febbraio mons. Migliore, osservatore permanente della Santa Sede
presso l'Onu, parlando all'assemblea delle Nazioni Unite, sostiene le
ispezioni e invita a una soluzione diplomatica e pacifica della crisi,
mantenendo aperto il "dialogo, che può portare a soluzioni per quanto
riguarda la prevenzione di una possibile guerra".
Il 20 febbraio il primate di Canterbury e l'arcivescovo di Westminster, in
un documento comune di particolare rilievo per il ruolo dell'Inghilterra
nella guerra, sostengono il ruolo dell'Onu e delle ispezioni, "che potrebbe
e dovrebbe evitare il trauma e la tragedia della guerra".
Il 23 febbraio le chiese di Gerusalemme, di Baghdad e di Sarajevo, con i
loro pastori lanciano un grido drammatico come chiese di città martiri: "Noi
che abbiamo vissuto o stiamo ancora vivendo la tragedia della guerra,
vogliamo dire al mondo intero, in particolare ai potenti della terra: non
imboccate la strada della guerra, perché è una strada senza uscita, la pace
è l'unica strada da percorrere, è direzione obbligatoria. Non c'è violenza,
non c'è terrorismo, non c'è guerra che non porti con sé altra violenza,
odio, distruzione, sofferenza e morte".
Il 24 febbraio mons. Tauran, in una conferenza all'Istituto dell'Immacolata
di Roma, ribadisce il sostegno della Santa Sede alle Nazioni Unite: "Tutto
deve essere intrapreso nel quadro definito dal diritto internazionale. Come
sappiamo, il Consiglio di sicurezza autorizza uno o più Stati a ricorrere
unilateralmente, e insisto su questo punto, unilateralmente all'uso della
forza, per cambiare un regime o la forma di un governo di un altro Stato, a
causa per esempio dell'eventuale possesso di armamenti di distruzione di
massa. Solo il Consiglio di sicurezza potrebbe, a motivo di circostanze
particolari, decidere che tali fatti costituiscono una minaccia contro la
pace, ma questo non significa che il ricorso alla forza sia, per lo stesso
Consiglio di sicurezza, la sola risposta adeguata. Molto probabilmente una
guerra generalizzata contro l'Iraq provocherebbe tra le popolazioni civili
dei danni sproporzionati in rapporto agli obiettivi da raggiungere e
violerebbe le regole fondamentali del diritto internazionale umanitario".

Una riflessione conclusiva
Il papa, all'Angelus del 9 marzo, grida di nuovo, con vigore sorprendente, a
braccio, abbandonando il testo letto, il "mai più guerra, mai più guerra",
partendo proprio dall'esperienza che egli ha fatto della guerra nella
seconda guerra mondiale, invitando i giovani a imparare da questo magistero
tragico della storia.
È noto che la guerra inizia il 20 marzo e il grido del papa e delle chiese
rimane inascoltato. Quello che conviene sottolineare è il fatto che tutte
queste prese di posizione delle chiese e dei vescovi, largamente interne
alla dottrina sociale della guerra, sono state recepite come sostegno
esplicito e netto al movimento della pace. La posizione del papa è stata
ascoltata come vera profezia di pace contro la guerra preventiva e contro la
posizione americana. La stessa attività diplomatica della Santa Sede,
culminata nel viaggio di Etchegaray a Baghdad, e di Laghi a Washington, e
nella visita di Aziz al papa, è stata vissuta dall'opinione pubblica
mondiale come perfettamente coerente con la scelta di pace della chiesa.
Questa ricezione non deve impedire di riconoscere la fragilità dell'impianto
di alcune formulazioni di molti vescovi. La casistica ha impedito di
cogliere questa guerra non come un caso speciale (la guerra preventiva), ma
come un caso di un disegno ben più largo e ambizioso e soprattutto non ha
permesso ai vescovi di abbandonare l'impianto della teologia della guerra.
Solo il papa, con il digiuno e gli appelli a non accettare in nessun modo e
in nessun caso lo scontro di civiltà, si è posto su un piano diverso, che ha
le sue radici nell'aver fatto l'esperienza storica della guerra.
Se va apprezzato il no, comunque assai netto e convinto, alla guerra che gli
Stati Uniti hanno promosso contro l'Iraq, appaiono meno convincenti le
motivazioni che hanno alimentato questo tipo di posizioni. Esse sono il
frutto di un'antica dottrina, che mostra tutti i suoi limiti nel nuovo
contesto internazionale e che soprattutto appare incapace di assumere la
questione delle vittime come questione centrale per un giudizio sulla
guerra.
Rimane il fatto che sono state assunte come critiche alla guerra e alle
posizioni americane e come sostegno al movimento della pace, ben oltre le
motivazioni che alimentano il no alla guerra.

M.T.