La nonviolenza e' in cammino. 608



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 608 dell'11 luglio 2003

Sommario di questo numero:
1. "Azione nonviolenta" di luglio
2. Maura Gualco: una condanna a morte. Italiana
3. Enrico Peyretti: solidarieta' agli studenti iraniani. Nonviolenta
4. Neta Golan: lacerazioni
5. Nirmal Puwar: i volti svelati della buona meticcia
6. Francesco Tullio: candidi come colombe
7. Ida Dominijanni: le maschere della guerra
8. Presentazione di Emiliano Sbaraglia (a cura di), Cento domande a Piero
Gobetti
9. La nona newsletter di "Migra"
10. Letture: Noam Chomsky, Dopo l'11 settembre
11. Letture: Robert Fisk, Notizie dal fronte
12. Letture: Howard Zinn, Non in nostro nome
13. Riedizioni: Hermann Broch, La morte di Virgilio
14. Riedizioni: Anna Freud, Normalita' e patologia del bambino
15. Riletture: Michel Foucault, Taccuino persiano
16. Riletture: Armanda Guiducci, Donna e serva
17. La "Carta" del Movimento Nonviolento
18. Per saperne di piu'

1. INFORMAZIONE. "AZIONE NONVIOLENTA" DI LUGLIO
[Dalla redazione di "Azione nonviolenta" (per contatti:
azionenonviolenta at sis.it) riceviamo e diffondiamo]
Cari amici,
vi presentiamo il numero di luglio 2003 di "Azione nonviolenta", la rivista
mensile del Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964, di
formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in
Italia e nel mondo.
In allegato a questo numero, il pieghevole con il programma completo
del'iniziativa "In cammino per la nonviolenza", Assisi-Gubbio, dal 4 al 7
settembre 2003.
L'abbonamento annuo costa 25 euro, da versare sul ccp n. 10250363 intestato
ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona.
E' possibile chiedere una copia-saggio inviando una e-mail a:
azionenonviolenta at sis.it (nel soggetto scrivere: copia "Azione
nonviolenta").
In questo numero:
- Convegno e festa a Gubbio, il 6 e 7 settembre (di Mao Valpiana);
- Le dieci parole della nonviolenza: "Persuasione" (di Pietro Pinna);
- Il destino comune di israeliani e palestinesi (di Manuela Dviri);
- Proteggete i vostri bambini dal mostro dell'odio (di Nurit Peled);
- Un italiano dall'anima curda, Dino Frisullo (di Tiziana Valpiana);
- Il premio Langer 2003 a Gabriele Bortolozzo (di Helmut Moroder);
- I diritti naturali dei bimbi e delle bimbe (di Gianfranco Zavalloni);
- e poi le consuete rubriche: alternative (Gianni Scotto); cinema (Flavia
Rizzi); musica (Paolo Predieri); economia (Paolo Macina); Lilliput
(Massimiliano Pilati); l'azione (Luca Giusti); educazione (Angela
Dogliotti); storia (Sergio Albesano); libri.
In copertina: "In cammino per la nonviolenza" (disegno di Mauro Biani).
Per informazioni e contatti: "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123
Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it,
sito: www.nonviolenti.org

2. STORIE. MAURA GUALCO: UNA CONDANNA A MORTE. ITALIANA
[Dal quotidiano "L'unita'" dell'8 luglio 2003. Maura Gualco e' una
giornalista particolarmente impegnata sui temi dei diritti umani e dei
conflitti internazionali]
Morto sotto tortura. Tra bastonate e scosse elettriche, Mohammad Said
Al-Sahri, l'ingegnere siriano espulso dall'Italia insieme alla moglie e ai
quattro figli nel novembre scorso, sembra che sia stato ucciso. Ha
incontrato il suo boia, in un carcere di sicurezza alle porte di Damasco,
dove era detenuto da quando l'Italia lo ha rispedito nel suo paese,
nonostante avesse richiesto l'asilo politico perche' perseguitato politico.
A darne la notizia sono il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) e la
famiglia che attualmente vive a Londra. "Abbiamo avuto la notizia da alcuni
parenti che vivono a Damasco", dice Murhaf Lababidi, cognato di Mohammad, al
quale fa eco il direttore del Cir, Christopher Hein: "La notizia, che stiamo
cercando di accertare, ci e' stata data da una fonte che si trova in Siria e
che preferiamo mantenere anonima. Ma non si tratta di parenti".
E il tre luglio scorso un comunicato e' stato inviato dai legali della
famiglia Lababidi alla Corte di Strasburgo. "Da fonti attendibili - e'
scritto sulla nota - il signor Mohammad Said Al-Sahri e' stato ucciso a
causa delle torture subite in carcere". Conferme dal governo siriano non ce
ne sono. E la Farnesina interpellata sull'argomento si limita a un:
"Verificheremo".
La storia di Mohammad Al-Sahri comincia nella citta' di Hama, antica citta'
siriana, considerata dal regime di Assad la roccaforte dei Fratelli
Musulmani, i cui membri - prevede la legge del 7 luglio dell'80 e ancora in
vigore - sono condannati alla pena capitale. Teatro di una spietata
repressione della popolazione, che tenta di liberarsi del "Leone di
Damasco", Hama viene bombardata, accerchiata, distrutta dall'esercito.
Un'escalation di violenza che culmina il due febbraio dell'82 nel massacro
di oltre diecimila vite.
Mohammad Al Sahri, che all'epoca ha 24 anni, fugge. Va prima in Giordania e
poi in Iraq, dove si stabilira' con la moglie Maysun e i quattro figli. Ma
la famiglia di sua moglie, anch'essa ricercata dal regime di Damasco, si era
gia' stabilita in Europa, tra la Danimarca e l'Inghilterra. Cosi' anche
Mohammad, dopo circa vent'anni di esilio, decide di partire per l'Europa.
E il 23 novembre scorso arriva insieme ai suoi cari, proveniente da Baghdad
via Amman, all'aeroporto Malpensa di Milano. Bloccati dalla polizia di
frontiera vengono trattenuti in una zona riservata dell'aeroporto per ben
cinque giorni impedendo loro di vedere Murhaf, il fratello di Maysun, che
nel frattempo era volato da Londra in loro soccorso. Ma Murhaf era riuscito
il giorno dello sbarco a sentirla telefonicamente e non soltanto si era
assicurato che la sorella avesse richiesto l'asilo politico per lei e i suoi
cari, ma le aveva anche tradotto dall'arabo il termine "refugee". "Devi dire
alla polizia di frontiera: 'We are refugee'".
Una veloce deportazione fa seguito ai cinque giorni di detenzione in
isolamento. Vissuto libero nel paese del feroce Saddam, Mohammad non trova,
dunque, altrettanta tolleranza nella "democratica" Italia. Ma in aereo le
lacrime non servono. Destinazione: Damasco. Dove ad attendere l'ingegnere
all'aeroporto c'e' l'ascia del boia. Arrestato immediatamente dalla
sicurezza siriana, infatti, viene portato via e dalle autorita' non si e'
mai avuta alcuna informazione. Sua moglie, insieme ai bambini, vive ad Hama
dove due volte a settimana, racconta Murhaf, riceve la visita dei Mukabarat,
i servizi segreti che la intimidiscono e le bombardano di domande sui
contatti del marito e sul resto della famiglia.
In Italia, intanto, "l'Unita'" denuncia il caso e in Parlamento fioccano le
interrogazioni al governo. Il ministro dell'Interno, Giuseppe Pisanu, si
difende: "Queste persone non hanno mai avanzato domanda di asilo, sono stati
trattenuti in luoghi ospitali, trattati con umanita' e rimpatriati in Siria
nel pieno rispetto della legge Bossi-Fini". Difficile credere che in cinque
giorni di detenzione non abbiano mai espresso tale richiesta. E in ogni
caso, spiegano i legali della famiglia Lababidi che, intanto, hanno
denunciato il governo italiano alla Corte europea di Strasburgo per numerose
violazioni del diritto internazionale, la Convenzione di Strasburgo vieta
"il rimpatrio forzato verso un paese in cui vige la pena di morte".
E a rispondere a Pisanu sull'ospitalita' della polizia di frontiera ci pensa
Maysun che dai suoi "arresti domiciliari" in cui si trova, scrive al
fratello: "Abbiamo ricevuto il peggior trattamento. C'era una donna, la
stessa che ci ha scortato in Siria... Avevamo chiesto rifugio, una vita
normale... invece ci hanno rinchiuso in una stanza con le telecamere, dove
ci hanno perquisito e fatto le foto segnaletiche... Abbiamo chiesto varie
volte un interprete, un avvocato... Poi ci hanno condotto in un posto vicino
all'aeroporto... un posto freddo, gelido, senza riscaldamento, niente
coperte... Cosi' fino a giovedi' 28 novembre alle 21 quando quella donna e'
venuta con tre agenti di polizia e ci ha detto 'hanno accettato la vostra
richiesta. Raccogliete i vostri effetti personali'. Dove andiamo? 'Sarete
trasferiti in un posto migliore' mi ha risposto la donna. Solo in aereo
abbiamo capito dove eravamo diretti".
Un racconto raccapricciante, difficile da provare: la parola degli immigrati
contro quella di un funzionario di polizia. Ma che offende non solo la
famiglia Sahri, bensi' la dignita' di ogni essere umano. Si tratterebbe di
quei "trattamenti disumani e degradanti" citati nella Convenzione di Ginevra
e in quella di Strasburgo.
Perche' proprio in Siria visto che venivano dalla Giordania? Si sono
rifiutati di andare in Giordania, risponde il governo. Dunque, per andare in
Giordania si sarebbero opposti con tutte le forze, mentre per la Siria
avrebbero accettato a cuor leggero. Ma si', in fondo laggiu' ci aspetta solo
una condanna a morte.
E non e' tutto. Carlo Giovanardi, ministro per i rapporti per il Parlamento,
dagli scranni dell'aula, assicuro' alcuni mesi fa: "Naturalmente, il governo
si impegna a seguire la vicenda anche a livello europeo, nel caso in cui
emergesse la notizia che i diritti umani non vengano rispettati". Ebbene,
come si e' impegnato questo governo? Come ha ottemperato all'impegno preso?
Amnesty International non ha mai smesso di riferire, in seguito alle
inchieste da essa condotte, che in Siria la tortura e' praticata
sistematicamente ed e' concreto il pericolo di scomparsa dei detenuti
politici. Soprattutto gli appartenenti ai Fratelli Musulmani. Il governo,
quindi, non poteva non sapere. Non poteva non immaginare la fine che avrebbe
fatto Mohammad Al Sahri.
"La notizia della morte dell'ingegner Sahri che riferiscono fonti
attendibili - dice Anton Giulio Lana, uno dei legali della famiglia
Lababidi - mi lascia sconcertato ma purtroppo non sorpreso. Il rischio di un
tale epilogo era fin troppo prevedibile. Spettera' a questo punto alla Corte
Europea accertare le responsabilita' dell'Italia, anche sotto questo
profilo".

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: SOLIDARIETA' AGLI STUDENTI IRANIANI.
NONVIOLENTA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per
questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica
(ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua
fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate  e nonviolente]
La solidarieta' con gli studenti iraniani, che manifestano per le liberta'
democratiche e per la laicita' dello stato, e' giusta e doverosa.
Non si puo' manifestare insieme a chi progetta la guerra al loro paese, come
fa Bush, o a chi (destra governativa e semi-destra), lo appoggia ora come lo
ha appoggiato volendo o approvando o tollerando la guerra all'Iraq.
Non e' possibile manifestare insieme a costoro, perche', dal momento che
sanno usare la guerra, dimostrano di non amare la liberta' e i diritti
umani.
Gli studenti iraniani non hanno bisogno, e infatti hanno respinto, la
solidarieta' capziosa, strumentale e insidiosa di Bush e soci. "Timeo Danaos
et dona ferentes".
Il mirino degli Usa si sposta ora verso l'Iran, come avvertiva anche
Giulietto Chiesa il 26 giugno, presentando il libro Bandiere di pace: "Ormai
hanno deciso: o con un sovvertimento dall'interno mediante un cambio di
regime o con un sovvertimento dall'esterno mediante una guerra". Giulietto
Chiesa e' stato perentorio: "Dobbiamo sollevare il senso di allarme ed
inquietudine. Non possiamo consolarci di quanto abbiamo fatto negli scorsi
mesi, del livello di consenso raggiunto in passato. Cio' che della guerra
passa nella mente a livello di massa e' un'informazione distorta e il quadro
e' piu' grave di quanto possiamo immaginare. Negli Stati Uniti sono gia'
stati effettuati i primi sondaggi di opinione per saggiare il livello di
popolarita' di una guerra all'Iran, sondaggi che danno al Presidente
l'appoggio della maggioranza degli americani in caso di guerra per bloccare
un eventuale programma atomico iraniano. Ma cio' che e' ancora piu' grave e'
che la maggioranza degli americani, sempre secondo tali sondaggi, ritiene
che  Saddam Hussein abbia usato armi di distruzione di massa contro gli Usa.
Non solo la maggioranza degli americani non sa che le armi di distruzione di
massa non sono state trovate, ma e' addirittura convinta che tali armi siano
state usate! Sono molto angosciato. Questo e' il risultato del disfacimento
della democrazia negli Usa e del degrado e della distorsione dei mass media
in quella nazione".
La grossa informazione e' sistematica arma di falsita' e di guerra. Percio'
merita diffidenza e sospetto anche sulle vicende iraniane.
Come scrive "Infopalestina" (Peacelink, 5 luglio), gli studenti iraniani,
che hanno subito la violenta repressione dal loro governo, non si fidano di
politici che dettano le ricette politiche. Rivendicano la loro liberta' da
chiunque voglia decidere il loro futuro.
Un appoggio dalle organizzazioni non governative - e quindi del movimento
internazionale per la giustizia e la pace - solidificherebbe la loro
posizione, darebbe loro la forza di andare avanti. Non dobbiamo dirgli che
cosa fare, ma difendere il loro diritto di esprimere le loro opinioni, le
loro idee, le loro rivendicazioni, il loro diritto di costruire un mondo
diverso.
Percio', solidarieta' agli studenti iraniani, si', ma un'altra solidarieta'
da quella paternalista e strumentale, offensiva.
La grossa informazione, sensibile solo alla violenza, non ricorda che nel
1978-1979 il regime totalitario dello Scia' (riportato sul trono nel 1953
dagli Stati Uniti, che orchestrarono un colpo di stato contro il governo di
Mossadeq, colpevole di avere nazionalizzato il petrolio) fu abbattuto da un
formidabile movimento popolare di opposizione nonviolenta, che porto' fino a
sei milioni di iraniani nelle strade, per reclamare la fine della dittatura
e il ritorno alla costituzione. Le manifestazioni raggiunsero un'ampiezza
tale che lo Scia' dovette abbandonare l'Iran nel gennaio 1979, senza piu'
tornarvi.
Il movimento mise in atto azioni di disobbedienza civile tipicamente
nonviolente. Solo dopo il ritorno dell'ayatollah Khomeini dall' esilio in
Francia ci furono violenze civili e statali e si instauro' il regime
fondamentalista oppressivo. Posso fornire indicazioni bibliografiche su
quegli avvenimenti.
I veri amici degli studenti iraniani oggi in rivolta ricordano insieme a
loro questa pagina della loro storia, davvero gloriosa nella sua fase piu'
importante perche' nonviolenta, li invitano e li aiutano a stare in guardia
dai falsi amici, sostengono gli scopi democratici, giusti, nonviolenti,
antiimperiali, della loro lotta.

4. TESTIMONIANZE. NETA GOLAN: LACERAZIONI
[Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int)
per averci inviato la traduzione (di Adriana Redaelli) di questo messaggio
di Neta Golan del 24 giugno scorso. Neta Golan, israeliana, e' tra le
fondatrici  dell'International solidarity movement. Da tempo e' impegnata in
un lavoro comune con i palestinesi per una pace giusta e la fine
dell'occupazione militare israeliana. Durante la seconda Intifadah insieme
ad un gruppo di pacifisti internazionali, durante l'assedio a Ramallah della
sede centrale dell'Autorita' nazionale palestinese e di Yasser Arafat, e'
rimasta nella Muqata per un mese a protezione della vita di Arafat. Neta
attualmente vive a Nablus con il marito palestinese Nizar Kamal e la loro
bambina Nawal. Neta e Nizar, che si sono conosciuti in un gruppo di dialogo
tra palestinesi e israeliani, si sono sposati in Italia, a Gradara, di cui
sono cittadini onorari]
La settimana scorsa e' morto mio padre.
Ho preso Nawal, la mia bambina di due mesi, e ho cercato di andare a Tel Avi
v per partecipare al funerale e stare con la mia famiglia in questo momento
di dolore.
Nablus, la cittu' dove vivo, era sotto assedio e completamente isolata. Lo
e' stata per la maggior parte degli ultimi due anni. I soldati israeliani
minacciavano di sparare a chiunque si avvicinasse al checkpoint. Avevo una
lettera dell'ospedale per un check-up che Nawal avrebbe dovuto fare a
Ramallah, cosi' ci siamo presentate al checkpoint di Hawara in ambulanza.
L'ambulanza si e' fermata nel posto indicato. I soldati non hanno sparato,
grazie a dio, ma non si sono neppure avvicinati. Dopo circa mezz'ora il
conducente ha deciso di provare parlare con loro. E' sceso dall'ambulanza.
Hanno puntato i fucili su di lui. E' rientrato nell'ambulanza. Potevamo solo
aspettare. Per tutto il tempo gli autobus dei coloni diretti agli
insediamenti che circondano Nablus hanno continuato a sfrecciare
indisturbati. Inghiottendo la mia rabbia ho ringraziato dio che la mia
bambina non fosse malata e che nessuno nell'ambulanza fosse in condizioni
critiche. I soldati non potevano saperlo, ma anche se lo avessero saputo non
avrebbe fatto alcuna differenza.
*
Un anno fa stavo accompagnando un'ambulanza che doveva passare per un
checkpoint di Jenin. Un giovane con una pallottola in testa era steso sul
retro dell'ambulanza e un dottore gli mandava aria nei polmoni con un
respiratore manuale. Stavo seduta vicino al conducente e non dicevo niente
mentre guardavo le condizioni del paziente deteriorarsi. So che mettersi a
discutere con dei soldati puo' peggiorare le situazione. Non potevo
rischiare che succedesse. Mi sono calmata e ho aspettato che si aprisse uno
spiraglio. Ho offerto una sigaretta al soldato. L'ha accettata. Gliene ho
dato un'altra per l'altro soldato, e poi ho azzardato: "E' proprio
necessario che aspettiamo tanto? Questo ragazzo sta morendo". Il soldato
appariva imbarazzato. "Dobbiamo assicurarci che non sia ricercato". "Se
scoprite che e' un ricercato, potete venire a prenderlo in ospedale, non
scappa di certo con una pallottola in testa". "Vedro' che cosa posso fare".
Quel giorno abbiamo passato un'ora e mezza al checkpoint. Un tempo
sufficiente  per far si' che il danno cerebrale del giovane divenisse
irreversibile. Il soldato, anche lui un giovane, faceva il suo lavoro.
*
Il giorno del funerale di mio padre abbiamo dovuto aspettare "soltanto"
un'ora. Era la terza volta che Nawal faceva quel viaggio da quando e' nata.
Malgrado il rischio che l'entrare e l'uscire comportano sono venuta spesso
perche' sapevo che mio padre stava morendo. Volevo che vedesse la sua prima
nipotina, volevo dirgli che lo amavo, volevo salutarlo. Dopo il funerale
abbiamo passato una settimana con la mia famiglia israeliana.
A mio marito, che e' palestinese, e' proibito l'ingresso nella parte
israeliana della Palestina occupata nel 1948. E' stato duro non averlo con
me. Ma sapevo che il poter stare con la mia famiglia era un privilegio.
*
Continuavo a pensare alla mia amica Amal, una delle donne piu' belle che io
abbia mai visto. Con grandi occhi nocciola e capelli neri. La sua famiglia
e' stata costretta a lasciare la Palestina per la Giordania prima ancora che
lei nascesse. Suo marito Abed e' della Cisgiordania. Hanno due bei bambini.
Se lei lascia la Cisgiordania per andare a trovare i suoi parenti in
Giordania, non la lasciano piu' rientrare. I suoi genitori hanno visto i
nipotini solo in fotografia. Suo padre era vecchio e malato, ma lei non ha
potuto andarlo a trovare. E' morto e non ha potuto andare al funerale o a
consolare sua madre. Oggi rifiuta di accettare la morte del padre. Non e' la
morte con cui non riesce a venire a patti. Chi vive sotto l'occupazione deve
vivere ogni giorno con la morte. E' il fatto di aver dovuto scegliere tra il
marito e i figli e i genitori con i quali non puo' vivere. I suoi capelli
hanno incominciato a incanutire all'improvviso.
*
La politica di negare la residenza ai coniugi dei palestinesi e' una delle
molte forme che la pulizia etnica assume qui. La politica e' vecchia quanto
lo stato di Israele, ma Sharon ne va particolarmente orgoglioso. Nella sua
campagna elettorale andava vantandosi di aver fermato l'ingresso dei
palestinesi in Israele (la "grande" Israele), bloccando completamente le
riunificazioni familiari. Amal non vedra' mai piu' suo padre. Molte migliaia
di palestinesi condividono il suo stesso destino.
Una volta a casa a Nablus, Nawal ed io siamo ritornate alla nostra famiglia
e abbiamo ripreso la solita vita: ci svegliamo ogni notte per le esplosioni
delle case che vengono distrutte, per il rombare dei carri armati per strada
e per gli spari. Nel frattempo Nawal ha imparato a sorridere e quando
sorride splende come il sole.

5. RIFLESSIONE. NIRMAL PUWAR: I VOLTI SVELATI DELLA BUONA METICCIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 giugno 2003 riprendiamo la seguente
anticipazione per stralci di un lucido, acuminato testo della illustre
studiosa e teorica femminista, pubblicato nell'ultimo numero della rivista
"DeriveApprodi". Nirmal Puwar e' docente di sociologia alla Northampton
University in Gran Bretagna, ed una delle studiose piu' acute sui temi del
razzismo, dei rapporti neocoloniali nord/sud, dell'oppressione delle donne,
dei cambiamenti nel sud del mondo, delle problematiche globali. Ha scritto e
curato varie pubblicazioni]
Il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l'esule sono tutti
sotto i riflettori.
E' a queste figure che si volge lo sguardo dei media, delle agenzie di
governance globale e locale, dei professionisti del capitalismo in stile
multiculturale, degli accademici e degli attivisti. Ciascuno di essi ha un
proprio motivo particolare per guardare e cercare.
Alcuni cercano di pattugliare i confini, altri di regolare quei corpi il cui
lavoro e' necessario ma la cui cittadinanza (umanita') e' rifiutata. E poi
c'e' la pretesa incessante di scorgere chi sta dietro al turbante, al velo,
al pizzo, a quella pelle non-bianca; il sospetto alimenta pericolo e
risentimento. Mentre alcuni di questi corpi sono accusati di arrecare
distruzione alla terra promessa, altri - e spesso gli stessi, sebbene con
sfumature leggermente diverse - vengono celebrati perche' evocano un
paradiso tropicale. Colore e aroma avvolgono le metropoli in una fanfara
etnica. Black Cool, Asian Cool: di qualunque cosa abbiate voglia, e' la' per
essere consumata. E casomai pensassimo che la vita metropolitana e' facile,
c'e' sempre il rumore della violenza (razziale, sessuale e sul lavoro) a
sorprenderci con periodiche rivendicazioni di giustizia.
Tanto gli attivisti quanto gli accademici sono attirati dalle citta', le
citta' globali, perche' e' qui che l'incommensurabile si concentra. Il
fascino e' qui, perche' non e' possibile sapere quali novita' emergeranno
dal sangue, dal sudore, dalle lingue, dagli odori e dai suoni che si
mischiano insieme.
I corpi delle donne di colore che lavorano negli sweatshops di East End a
Londra, le collaboratrici domestiche nelle case, negli uffici e negli
aeroporti delle citta' globali, le dita che si muovono "agili" fra i
circuiti elettronici nelle zone di libero commercio, l'ibrida gioventu'
metropolitana che indossa il sari e le scarpe da ginnastica, e specialmente
coloro che ci narrano storie con l'eloquenza delle loro parole, sono in
grado di catturare l'attenzione degli accademici come mai prima d'ora.
Si pensa che il mistero della nostra condizione globalizzata risieda proprio
li', nel corpo della "donna nera", la "donna del terzo mondo" e la donna
tribale "subalterna". Ha avuto luogo una trasformazione notevole, per cui
queste "altre" donne sono passate dal non avere riconoscimento in nessun
luogo della sfera pubblica all'essere ovunque. La gente non ne ha mai
abbastanza di loro, o forse dovrei dire di "noi".
*
Viviamo un tempo in cui per coloro che vagamente si definiscono "di
sinistra" e' divenuto urgente stringere alleanze politiche attraverso i
paesi e all'interno di questi.
Si riconosce ampiamente che abbiamo bisogno di connessioni globali che ci
aiutino a esercitare pressione e a destrutturare i nodi strategici del
potere. Le linee di potere attraverso il mondo sono cosi' intrecciate e
pluridimensionali che e' importante che vi siano vettori di connessione
politica altrettanto elaborati, se non di piu'.
Non v'e' dubbio che sia necessario un dialogo capace di parlare dentro e
attraverso i nodi della differenza. E tuttavia, una cosa e' l'impegno nella
costruzione di dialogo, cooperazione e alleanza, altra cosa e' il modo in
cui onoriamo questo impegno. Quando ci sporgiamo all'esterno e cerchiamo
connessioni, e' fondamentale riflettere sullo spirito che anima tutto
questo.
Quando coloro che risiedono nelle nazioni piu' ricche si sforzano di
costruire un dialogo coi meno privilegiati, dobbiamo chiederci: come puo' il
Nord avvicinarsi al Sud? Occorre interrogare il carattere delle energie e
delle emozioni attraverso cui si formano punti di contatto nell'ambito dei
circuiti politici.
In un periodo in cui diviene un imperativo assoluto forgiare un arcobaleno
di coalizioni che lavorino con donne di colore, donne subalterne, che vivono
nel Sud, diventa altrettanto urgente chiedersi: su che basi avete invitato
queste donne a parlare?
Esiste una struttura di rappresentazione di queste figure che esercita un
impatto profondo sulle forme in cui queste donne sono invitate a far parte
di gruppi politici, iniziative creative o forum accademici. Le
rappresentazioni sono all'opera tra luoghi diversi, e i movimenti politici
radicali non ne sono immuni. E sebbene esistano importanti variazioni fra i
diversi spazi, emerge una notevole comunanza nei termini in cui viene loro
garantita la coesistenza.
*
Ci sono delle tendenze molto problematiche rispetto al modo in cui "noi"
siamo invitate a partecipare al tavolo, alla piattaforma o al corteo.
Se accettiamo che il momento dell'emergenza e' anche il momento per
emergere, allora e' tempo di ripensare su quali basi la donna subalterna
(assumendo questo termine come indicativo di una figura ampia ed eterogenea)
sia chiamata a partecipare.
E ancora, in un intenso momento di riflessione dovete chiedervi - come
organizzazione, gruppo o individui: che cosa state cercando nel corpo di
questa figura? Che cosa scegliete di vedervi? Che cosa volete sentire? State
ascoltando veramente o percepite solo l'eco delle vostre fantasie? Che cosa
le e' consentito di essere nel vostro interessamento verso di lei? E' su
tali presupposti che questo contributo invita tutte le organizzazioni,
politiche o di altro genere, a considerare in primo luogo su che basi alle
femministe nere, alle donne subalterne o del terzo mondo sia resa
disponibile una posizione di parola, e poi che cosa si cerchi in particolare
dai corpi di queste donne; in altri termini io chiedo: "che cosa andate
cercando?". Le risposte a queste domande sono nell'osservatore. E'
colui/colei che guarda a doversi interrogare.
*
In una serie di lavori intitolati "Album Pacifica", Mohini Chandra -
un'artista che gli spostamenti familiari hanno condotto in India, nelle
isole Fiji, in Australia e in Inghilterra - esibisce al pubblico una
collezione di foto di famiglia. Insolitamente, e in modo efficace, le
fotografie ci vengono presentate rovesciate. Nel cercare indizi di che cosa
la foto possa contenere dall'altra parte, quella che siamo abituati a
vedere, l'osservatore e' indotto a guardare i segni sul retro della foto.
Macchie, strappi, lacrime, timbri di passaporto, impronte digitali diventano
visibili in questa ricerca. In qualche modo lo spettatore ha la tentazione
quasi irresistibile di prendere queste foto e vedere che cosa possano
rivelare. Come osservatori non ci accontentiamo del retro.
Per aggiungere un'ulteriore dimensione, Chandra esibiva queste fotografie in
teche di vetro, rievocando le antropologiche "teche di curiosita'" che
disponevano le culture secondo tipologie gerarchicamente definite. Queste
bacheche ancora una volta ci "stuzzicano" nel disporre le foto come oggetti
preziosi da proteggere. La natura esatta dei misteri che giacciono dietro il
vetro protettivo ci e' negata.
Chandra riesce a rompere il nostro desiderio di vedere, indagare e
confermare la nostra percezione delle persone che sono dall'altra parte
della foto. Ci sfida a ripensare perche' desideriamo vedere e situare.
Interrompe il nostro sguardo, proprio nel pieno dell'atto di guardare esso
ci viene rimandato indietro. Le domande che ci rivolge sono: che cosa vai
cercando? Che cosa vuoi vedere dall'altra parte? E come mai l'immagine di
cio' che ti aspetti di vedere e' cosi' importante per il tuo senso del luogo
nel mondo?
Se intraprendiamo il viaggio che Chandra ci suggerisce, ritorniamo a noi
stessi. (...)
*
La fame di narrazioni di "vittimita'" ha una lunga storia. Al culmine
dell'antropologia, le distinzioni fra l'Occidente e il resto del mondo
diedero luogo a una giurisdizione epistemologica racchiusa in osservazioni,
misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di curiosita'. I corpi
delle donne provenienti da questi "altri" luoghi rivestirono un ruolo
centrale nella produzione della differenza fra barbarico e civilizzato,
spirituale e razionale, passivo e potente. Tutto cio' che e' percepito al
tempo stesso come attraente, repulsivo, bisognoso di correzione e' stato
proiettato da questi "altri" luoghi sulle figure femminili.
Nel rappresentare il fardello dell'uomo bianco cosi' come della donna
bianca, le donne di "altri" luoghi hanno offerto a coloro che guardavano
verso Est in cerca di carriera un sentimento di missione, definendo per loro
un senso di identita' quali politici, riformatori sociali, viaggiatori o
accademici.
Il linguaggio del femminismo e della liberazione delle donne fu utilizzato
dai colonialisti, per esempio Cromer, per rimarcare i confini tra
l'occidente liberato e l'oriente barbarico, producendo cosi' una
soggettivazione della mascolinita' coloniale bianca. Il fatto ironico e' che
mentre gli uomini bianchi dell'establishment vittoriano si opponevano alla
causa femminista nei propri paesi, essi catturarono il linguaggio del
femminismo e del colonialismo e "lo deviarono, al servizio del colonialismo,
verso gli Altri uomini e le loro culture". Guardando a tutto questo
attraverso l'immagine spettrale di un sati (la pira di fuoco dove le vedove
indiane doveno immolarsi assieme al cadavere del marito) ardente, cosi'
spesso evocato nei discorsi occidentali, Gayatry Chakravorty Spivak ha
evidenziato come l'abolizione del sati e il complesso di leggi che furono
emanate in nome delle donne indiane dai britannici costituissero un esempio
classico degli "uomini bianchi che salvano donne scure da uomini scuri",
aprendo la strada a cio' che Rajan descrive come una "metafora di
cavalleria", un rito di passaggio per giovani uomini bianchi verso la
mascolinita' amorosa.
La descrizione, nei resoconti ufficiali, delle donne che si sottoponevano
alla pratica del sati come vittime o eroine, ha precluso la possibilita' di
una "soggettivit' femminile che e' mutevole, contraddittoria,
inconsistente", ma ha alimentato la proliferazione di un "paradigma
salvifico", che spesso aveva una sfumatura di "piacere voyeuristico",
specialmente se la protagonista del sati era tragicamente considerata
giovane e bella.
Tuttavia, non fu solo il cavaliere dall'armatura sfavillante a intraprendere
la salvezza delle donne in India e in altre parti delle colonie, sotto la
masquerade del "paradigma salvifico"; le donne occidentali, queste Imperial
Ladies indossarono a loro volta questo abito - anche se con un'affettazione
diversa - per ritagliare per se stesse, forse inconsciamente, una posizione
soggettiva.
La rappresentazione delle donne occidentali come protagoniste illuminate che
avviarono la missione di alleviare le sofferenze patriarcali delle donne
coloniali, fu fondamentale per la concessione dei diritti politici e di una
soggettivita' politica femminile. Esse poterono ricorrere ad attitudini
caritatevoli per affermare se stesse come protagoniste contro l'agenda
politica escludente della mascolinita' bianca e a fronte di concezioni
dell'"individuo" politico liberale che non comprendevano le donne. I
processi di esclusione dal corpo politico imposti dal "contratto sessuale"
sono attraversati da un "contratto razziale" sessuato. (....)
*
Durante i bombardamenti e l'apparente liberazione dell'Afghanistan dopo l'11
settembre, abbiamo assistito a uno degli episodi piu' crudi di
incomprensione della vita delle donne non occidentali da parte delle donne
d'occidente. Un gruppo di ministre del governo laburista inglese ha
sollevato assieme a Cherie Blair la questione di genere e l'ha resa
pubblica. Si trattava della questione del burkha e del velo in Afghanistan;
esse parlavano di solidarieta' con le loro sorelle afgane immedesimandosi
nelle sensazioni che si provano nell'indossare questo articolo di
abbigliamento. Nel corso di questa campagna non consultarono i gruppi di
donne nere o musulmane, che avrebbero invece potuto suggerire loro come
interpretare questo oggetto senza ricorrere semplicemente a letture
orientaliste che producono nozioni essenzializzate dei civili paesi
occidentali e dei barbarici paesi orientali, in cui le donne devono esser
salvate da un occidente illuminato. Esse avrebbero potuto trarre beneficio
dalla scoperta che nessuna interpretazione uniforme si addice al fatto di
indossare il burkha o il velo.
Le femministe post-coloniali hanno discusso a lungo sul velo, ma non credo
che troverete questi libri nella biblioteca della Camera dei Comuni. Una
delle preoccupazioni principali del femminismo post-coloniale e' stata la
questione del come sia possibile criticare i regimi patriarcali di societa'
razzialmente definite, senza ricorrere a un pensiero orientalista e
razzista. E il velo rappresenta uno di quei significanti
razzializzati/sessuati (come il sati) perche', come ha fatto notare Leila
Ahmed, la storia che lo avvolge e' "gravida" di senso.
Tutto questo rende assolutamente cruciale il fatto che le modalita' di
resistenza non siano considerate esclusivamente attraverso i linguaggi
occidentali o eurocentrici.
Questo evento di grande rilievo, cui si aggiunse un'identica iniziativa
trans-atlantica, e' cosi' ricaduto in tutte quelle trappole analitiche di
cui, ormai parecchio tempo fa, ci aveva avvertito Mohanty. Nel caso qualcuno
stia ascoltando, le richiamo qui.
Fondamentalmente l'autrice sosteneva che esiste un latente etnocentrismo nei
testi femministi occidentali, i quali manifestano: 1) una tendenza a
produrre/rappresentare una categoria monolitica della "donna media del terzo
mondo"; 2) a definire e giudicare le vite di queste "altre" donne attraverso
un "metro" che assume le vite delle donne occidentali di classe media come
norma, "come referente implicito". (....)
*
Mohanty puntualizza che non sono solo le donne bianche occidentali a poter
incorrere nella trappola dell'assumere la propria posizione come norma.
Sostiene infatti che anche le donne del terzo mondo che vivono nel terzo
mondo o in Occidente, o che viaggiano fra i due contesti, possono cadere
facilmente in questi tranelli, che costituiscono un aspetto latente del
femminismo internazionale.
La domanda: "che cosa cerchi nella figura del subalterno?" deve essere
rivolta a tutte le correnti di pensiero intellettuali e politiche. Perche'
tutte si impegnano in una modalita' di osservazione che e' peculiare di
questa figura. Quante volte gli analisti che lavorano nell'area
dell'economia politica hanno dato per scontato il fatto che la loro
prospettiva fosse la piu' radicale che si potesse assumere? E in piu'
partendo dal presupposto che la loro analisi a muso duro non potesse avere
conseguenze negative per i marginali che essi cosi' accoratamente
sostenevano. Proviamo a riconsiderare il tutto.
In un'analisi dei testi femministi all'interno degli studi sullo sviluppo,
Aihwa Ong prende in considerazione delle raccolte di saggi che cercano di
guardare alla posizione femminile nell'intreccio fra le forze capitalistiche
globali e la quotidianita' del lavoro pagato e non pagato. L'autrice nota
che "il capitalismo vi e' descritto come sistema polimorfo e storicamente
determinato; esso presenta piu' contraddizioni e personalita' delle donne e
degli uomini che in apparenza sono i protagonisti del volume". E continua:
"I contributi, nel complesso, ci dicono di piu' sul pensiero
femminista-marxista riguardo al sistema capitalistico mondiale di quanto ci
dicano sull'esperienza di donne e uomini nel contesto
dell'industrializzazione".
Che cosa si cerca nel subalterno?
Esiste una tendenza a definire immagini semplici e statiche delle donne
subalterne o "nere". Esse sono commiserate perche' considerate vittime di
molteplici oppressioni, oppure esaltate con toni estatici perche'
rappresentano delle eroine che faranno crollare un mondo pericolante. (...)
*
Il nostro comprendere spesso stringe la donna subalterna fra il voyeurismo
dell'esotico fantastico e un "paradigma salvifico" alla cui origine
risiedono "motivi di salvazione" riformulati e articolati in una miriade di
contesti, compresi il "turismo rivoluzionario" e la "celebrazione della
testimonianza" che si possono riscontrare nel femminismo internazionale e
nella politica della sinistra globale piu' in generale.
Mentre inseguiamo una responsabilita' etica nei confronti del subalterno
attraverso una relazione di amore a due in cui sistematicamente nascondiamo
a noi stessi i nostri privilegi cosi' da "parlare a" e non "di", non
dobbiamo sottrarci alla domanda scomoda e cruciale: Che genere di relazione
etica con la subalterna stiamo cercando in prima istanza? Che genere di
posizione soggettiva ci permette di detenere? Se le attiviste, le
accademiche e le registe, per esempio (includo qui le femministe
post-coloniali che si trovano nel ventre della bestia, che hanno accesso a
forum pubblici, conferenze, circuiti editoriali e piattaforme dell'Onu),
sperano di trasformarla, salvarla o proteggerla, come molte di loro fanno in
un modo o nell'altro, allora devono prima di tutto demistificare
"l'illusione che, attraverso la parola privilegiata, ci si stia mobilitando
per salvare i dannati della terra".

6. RIFLESSIONE. FRANCESCO TULLIO: CANDIDI COME COLOMBE
[Ringraziamo Francesco Tullio (per contatti:
psicosoluzioni at francescotullio.it) per questo intervento. Francesco Tullio,
amico della nonviolenza, e' uno dei piu' noti peace-researcher, e presidente
onorario del Centro Studi Difesa Civile (sito: www.pacedifesa.org); nato a
Roma il 18 giugno 1952, laurea in medicina e chirurgia, specializzazione in
psichiatria, libero professionista, psicoterapeuta, esperto di gestione
delle risorse umane, di prevenzione e trasformazione dei conflitti, di
problem solving organizzativo; docente di psicoterapia breve alla
Universita' di Perugia, docente di psicologia al master "Esperto in cultura
d'impresa" all'Universita' di Perugia, 2001, ricercatore a contratto con il
Centro militare di studi strategici nell'anno 1998-1999, presidente onorario
del Centro studi difesa civile, ha coordinato ricerche per diversi enti, tra
cui quella per l'Ufficio Onu del Ministero Affari Esteri su "Ong e gestione
dei conflitti. Il confidence-building a livello di comunita' nelle crisi
internazionali. Analisi, esperienze, prospettive"; promotore del Centro di
ricerca e formazione sui conflitti e la pace presso l'Universita' di Perugia
e dell'Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e per la pace;
numerose le sue esperienze come medico, in Germania, in Nicaragua ed in
Italia, sia in reparti di medicina che di chirurgia ed in particolare in
pronto soccorso, come medico di famiglia, inoltre come psichiatra nei
servizi pubblici ed in un servizio di medicina legale, infine come libero
professionista psicosomatista e psicoterapeuta; le sue attivita' di studioso
e formatore si sono incentrate sulla ricerca teorica, la gestione pragmatica
dei conflitti, sulla mediazione e la gestione delle risorse umane per e
nelle emergenze; e' impegnato dal 1970 in attivita' di volontariato per la
prevenzione della violenza e lo sviluppo umano; quale conduttore di
incontri, seminari, laboratori teorico-pratici, si e' occupato di gestione
dei conflitti, d'affiatamento di gruppi di lavoro, di gruppi di terapia e di
crescita umana; in ambito sociale tale interesse si e' tradotto in un
contributo culturale per la prevenzione e la gestione dei conflitti
intergruppali. In particolare ha coordinato ricerche e convegni sui temi
della violenza organizzata e della guerra; e' autore e  curatore di diverse
pubblicazioni. Ci sia consentito di confermare il nostro dissenso dalla
sottovalutazione eccetera, e ricambiare un saluto affettuoso a Francesco
Tullio che e' un caro, prezioso amico da tanti anni]
Ringrazio  per la pubblicazione sul n. 600 della prima parte del mio saggio
su "Resistere o disobbidire" (la seconda parte sara' sui rischi e le
opportunita' di parlare di resistenza ora e sulla cautela necessaria nel
dare credito  a questa opposizione, prima che abbia rivisto l'approccio che
ha contribuito a portarci alla situazione attuale).
La redazione ha premesso al saggio un commento in cui si dice: "Ci sia
consentito di notare almeno che ci pare che in un passo di questo per vari
aspetti utile e nitido intervento si sottovaluti con soverchio candore la
gravita' dell'attacco eversivo alla democrazia e alla legalita'
specificamente e consapevolmente condotto dall'attuale coalizione
governativa e dal suo demiurgo e padrone".
Invece io affermo che nello stagno torbido delle comunicazioni
propagandistiche non si capisce chi inquina le acque. Bisogna prima smettere
di rimestare.
A mio avviso la redazione non ha colto la diversita' fra il soverchio
candore e lo sforzo di uscire da una situazione controproducente di accuse
reciproche e di visioni semplicistiche e manichee della realta'. Si tratta
di una proposta forse difficile da cogliere subito da parte di soggetti che
fanno della loro  verita' un dogma, ma potrebbe invece diventare un criterio
di aggregazione partendo da coloro che sono consapevoli della complessita'
della realta' e della necessita' tuttavia di usare talvolta griglie di
lettura semplificanti.
Inoltre nell'articolo si segnala che la griglia di lettura e' volutamente
semplificante per porre le condizioni di una strategia che si e' cercato di
indicare.
Riassumo: La lotta nonviolenta, e speriamo in futuro anche quella per la
democrazia,  e' sempre accompagnata da chiare e forti proposte costruttive
che offrono la opportunita' anche per la controparte di uscire onorevolmente
dal conflitto. Se tu accusi di intenzionalita' il leader della controparte
le possibilita' di uscire onorevolmente dal conflitto si riducono. Insomma,
io non so se tutte le componenti del movimento di cui Berlusconi e'
espressione intendono o non intendono fare un attacco eversivo alla
democrazia ed alla legalita', ma agisco e parlo come se non vogliano (e
sicuramente alcune fra di loro non vogliono ed e' opportuno sostenerle). Non
attribuisco intenzioni inverificabili al loro leader. Cerco di evitare un
peggioramento della situazione, e proprio per questo mi prefiguro anche gli
scenari piu' difficili e sollevo ipotesi di strategie e di intervento,
perche' il rischio in effetti lo avverto. Allora dov'e' il candore?
Segnalo infine che per mio errore tecnico nell'ultima parte dell'articolo
venivano ripetuti concetti gia' esposti all'inizio e mi scuso della
ridondanza.

7. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: LE MASCHERE DELLA GUERRA
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 luglio 2003. Ida Dominijanni (per
contatti:  idomini at ilmanifesto.it) e' una prestigiosa intellettuale
femminista]
Mentre in Iraq continua lo stillicidio dei soldati americani, nelle aree del
dissenso americano continua il dibattito sull'imbroglio ideologico e
politico allestito dall'amministrazione Bush per giustificare la guerra
all'Iraq.
E per cominciare: fu guerra "preventiva" contro la minaccia del terrorismo e
delle armi di distruzione di massa, o fu guerra "umanitaria" per la
liberazione degli iracheni dalla dittatura di Saddam? Le due giustificazioni
dell'intervento, come si ricordera', si sovrapposero durante la sua
preparazione, vennero poi usate la prima piu' da Bush e la seconda piu' da
Blair, finche' nella fase conclusiva della guerra, coronata non dalla
scoperta degli arsenali chimici ma dalle immagini truccate dell'abbattimento
della statua del dittatore, fu la seconda a prevalere nettamente sulla
prima.
Non molto diversamente era andata in Afghanistan, dove la guerra fu
presentata prevalentemente come guerra contro il terrorismo finche' si
sperava di catturare Bin Laden, e divento' prevalentemente guerra umanitaria
per la liberazione degli afghani dai talebani in corso d'opera, quando i
mullah cominciarono a dileguarsi in motocicletta.
A ricordare l'andamento parallelo dello shifting ideologico della
giustificazione delle due guerre sono il giurista californiano Richard Falk
e l'ambasciatore svedese in Germania Carl Tham, nel forum che il settimanale
"The Nation", nettamente contrario alla guerra in Iraq, dedica alla
"dottrina emergente" dell'intervento umanitario, rivolgendo a dodici
studiosi di diritto, guerra e relazioni internazionali alcune domande
spinose che essa comporta, tanto piu' se applicata al caso dell'Iraq: poteva
quella guerra essere giustificata su basi umanitarie, con l'obiettivo della
liberazione degli iracheni dalla dittatura, anche senza che il regime di
Saddam rappresentasse una vera minaccia per gli Stati Uniti o per i suoi
vicini? Secondo il principio generale dell'intervento umanitario, non
dovrebbero gli Stati Uniti sentirsi moralmente obbligati a intervenire in
soccorso di tutti i popoli che vivono sotto regimi illiberali? E ancora: con
la nozione di intervento umanitario, non c'e' il rischio di fornire una base
razionale a una nuova forma di imperialismo americano? E in ogni caso, che
diritto hanno gli Stati Uniti, o qualunque altro stato, di decidere quando e
dove intervenire?
Ripercorrendo la resistibile ascesa della nozione di "guerra umanitaria"
lungo il decennio successivo al crollo dell'ordine bipolare, Falk
ricostruisce la seduzione che essa ha a lungo esercitato piu' sulla sinistra
democratica di Clinton che sulla destra isolazionista dei Bush; fino all'11
settembre, quando la dottrina umanitaria e' ritornata utile, in alternanza
con la dottrina della guerra preventiva, per giustificare gli strappi del
governo Usa al diritto internazionale e per nascondere sotto una retorica
moraleggiante "il vero carattere delle guerre imperiali".
L'uso pratico a corrente alternata delle due dottrine, tuttavia, non deve
far perdere di vista la differenza ideologica che le distingue, la guerra
preventiva ("l'oppio delle masse", secondo la definizione di Stephen Holmes)
essendo sfacciatamente basata sulla teoria della fine della deterrenza,
laddove quella umanitaria ("l'oppio dei liberals") e' insidiosamente basata
sulla teoria dei diritti umani.
Mary Kaldor, nota studiosa delle "nuove guerre" e a suo tempo favorevole
all'intervento in Kosovo, ha ben presente questa differenza e tuttavia e'
preoccupata quanto Falk e gli altri: l'intervento umanitario, scrive,
dovrebbe essere un intervento di polizia volto a evitare catastrofi
umanitarie, non una guerra militare di aggressione.
Dunque, se si tratta di guerre, "chiamiamole con il loro nome e non
rivestiamole di fantasie di giustizia internazionale", scrive David Rieff,
autore di un libro sulla crisi dell'ideologia umanitaria.
E se sono guerre, concordano tutti, senza nuove regole condivise dalla
comunita' internazionale porteranno il mondo nel caos.
Anzi, in un nuovo ordine neo-coloniale. Dove, aggiunge Ronald Steel, la
democrazia, che e' sempre il problema, viene truffaldinamente spacciata per
la soluzione.

8. LIBRI. PRESENTAZIONE DI EMILIANO SBARAGLIA (A CURA DI), CENTO DOMANDE A
PIERO GOBETTI
[Dal sito di Nonluoghi (www.nonluoghi.it) riprendiamo il seguente comunicato
editoriale]
E' disponibile il volume di Emiliano Sbaraglia, con prefazione di Marco
Revelli, Cento domande a Piero Gobetti. Un'intervista immaginata: scuola,
cultura, politica e societa' nel pensiero di un intellettuale del Novecento,
Nonluoghi libere edizioni, 2003, pp. 96, euro 8,5, per richieste: tel.
3293123483, fax 1786022881, e-mail: edizioni at nonluoghi.org, sito:
www.nonluoghi.it.
L'autore e' riuscito a tessere un dialogo accattivante e straordinariamente
verosimile con Piero Gobetti, facendo parlare l'intellettuale piemontese
attraverso cento brani riportati testualmente con l'indicazione della fonte
(spesso articoli apparsi su "La rivoluzione liberale").
"Leggendo Gobetti - scrive Sbaraglia - ho avuto l'impressione di trovarmi di
fronte un giovane uomo che non ha mai temuto per un solo istante nella vita
di confondere il proprio ruolo con la virtualita' dell'esistenza, e questa
condizione e' come se gli avesse assicurato la continuita' dell'azione, la
fermezza dell'impegno, l'incessante partecipazione.
Gobetti e' stato inequivocabilmente un avversario straziato dalla dittatura
del suo tempo, senza pero' risultarne vittima: le parole attraverso le quali
insiste nel comunicarci le sue idee lo testimoniano chiaramente. Pur con la
consapevolezza di non poter escludere la possibilita' di cadere nella
trappola dei naturali errori di valutazione, ha sempre cercato di non
arrendersi di fronte ad alcuna difficolta', sia essa scaturita dalla realta'
concreta, sia dalla conflittualita' intima; la ricerca di una propria
verita' da relazionare senza trucchi con quella dell'altro, caratterizza il
viaggio di questo uomo nelle viscere profonde delle umane contraddizioni,
ancora oggi impossibili da comprendere sino in fondo.
Mentre scrivo piove fuoco dai cieli di Mesopotamia, terra genitrice della
nostra civilta'. Quale distorta involuzione ci ha ridotti a contemplare,
rabbiosi ma impotenti, la realizzazione di un'assurdita' tanto grande?".

9. INFORMAZIONE. LA NONA NEWSLETTER DI "MIGRA"
[Dalla redazione di "Migra" (per contatti: e-mail: redazione at migranews.net,
sito: www.migranews.net) riceviamo e diffondiamo]
"Migra" e' realizzata nel contesto del progetto comunitario Equal
"L'immagine degli immigrati in Italia". I corrispondenti dell'agenzia sono
immigrate e immigrati in una rete che si allarghera' a coprire le principali
citta' italiane.
Negli ultimi giorni su www.migranews.net in primo piano fra l'altro c'erano:
- Strane storie fra Inps, centro-sinistra e "Bossi-Fini" nella cronaca di
Saleh Zagholul;
- Abiti firmati dai rom? Li ha scovati Anelise Sanchez;
- Di altri rom (fra Soros e Jervolino) ragiona Nando Sigona;
- Un seminario di scrittori migranti nella cronaca di Helene Paraskeva;
- Se la Regione Puglia si muove fra emergenze e disinteresse: un'inchiesta
di Taysir Hasan;
- Il rapporto 2003 dell'Oim;
- Egiziana, milanese, forse palestinese: intervista di Karim Metref a Randa
Ghazy, scrittrice sedicenne;
- Perche' a Padova gli emigrati occupano le case? Le risposte di Okechukwu
Anyadiegwu;
- Jawahir Mohamed Assan racconta di Sofia, vittima dell'infibulazione, che
regala alla figlia la liberta' di scegliere;
- Poco occidentali? Troppo occidentali? Milad Basir si chiede se serva una
guida al "buon immigrato";
- Che c'e' di strano su quel bus a Vicenza? Lo scopre Jenny Tessaro;
- e molto altro.
Nelle diverse sezioni (culture, leggi, societa', speciali) potete trovare
articoli, interventi e commenti di Farid Adly, Faustin Akafack, Masturah
Alatas, Sabatino Annecchiarico, Okechukwu Anyadiegwu, Hamid Barole, Milad
Basir, Saliha Belloumi, Idil Boscia, Rhyma Boussouf, Marcelo Cafaldo, Irida
Cami, Alessandra Cecchi, Khalid Chaouki, Vitore Cokaj, Daniela Conti,
Ousmane Coulibaly, Rosa Crispim Da Costa, Alvaro Erique Duque, Ziad Elayyan,
Udo Clement Enwereuzor, Ubax Cristina Ali Farah, Nicoleta Mirela Filip,
Arturo Ghinelli, Taysir Hasan, Jawahir Mohamed Hassan, Mahmoud Kairouan,
Nabil Igui, Liana Corina Iosip, Adel Jabbar, Ylli Jasa, Maria De Lourdes
Jesus, Monica Lanfranco, Mia Lecomte, David Lifodi, Zouhir Louassini, Pape
Diaw Mbaye, Jean Mbundani, Karim Metref, Viorica Nechifor, Paul Bakolo Ngoi,
Jamal Ouzine, Salvatore Palidda, Helene Paraskeva, Silvina Perez, Franco
Pittau, Rosa Juarez Ramirez, Annamaria Rivera, Anelise Sanchez, Brunetto
Salvarani, Alex Moustapha Sarr, Romana Sansa, Igiaba Scego, Vesna
Scepanovic, Nando Sigona, Jenny Tessaro, Jan Carlos Torres, Aluisi Tosolini,
Fulvio Vassallo, Paula Baudet Vivanco, Emmanuel Zagbla, Saleh Zaghloul.
E poi ancora: l'agenda del mese, il calendario degli eventi, schede sulle
comunita' e i paesi d'origine, immagini, statistiche, link utili.
Nei prossimi giorni parleremo di legislazioni europee a confronto; torneremo
a ragionare di asilo, incontro, naufragi; cercheremo di capire se donne e
bambini "migranti" siano in Italia meno uguali; racconteremo cos'e' il
progetto Tampep; e molto altro.
"Migra" risponde al numero 0639031235; ci siamo dal lunedi' al venerdi' (ore
10-18); la mail e' redazione at migranews.net
Ovviamente questo e' anche un invito a collaborare con noi, a mandarci
notizie, a metterci nei vostri indirizzari. Pensiamo, durante l'estate, di
rivedere tecnicamente il sito e dunque se avete critiche (o lodi) e
suggerimenti inviateci un messaggio. Grazie.

10. LETTURE. NOAM CHOMSKY: DOPO L'11 SETTEMBRE
Noam Chomsky, Dopo l'11 settembre, Marco Tropea Editore, Milano 2003, pp.
160, euro 9. Una raccolta di recenti interviste e interventi di Chomsky,
l'illustre studioso nordamericano, tra le voci piu' vive dell'opposizione
alla guerra.

11. LETTURE. ROBERT FISK: NOTIZIE DAL FRONTE
Robert Fisk, Notizie dal fronte, Fandango, Roma 2003, pp. 176, euro 15. Una
raccolta di articoli dal 1996 al 2003 del prestigioso giornalista inglese
che dagli anni '70 segue come cronista presente in loco i piu' gravi
conflitti; gli articoli sono disposti in quattro parti: 11 settembre, Iraq,
Israele-Palestina, Medioriente.

12. LETTURE. HOWARD ZINN: NON IN NOSTRO NOME
Howard Zinn, Non in nostro nome, Il Saggiatore, Milano 2003, pp. 288, euro
15. Howard Zinn, storico, docente universitario, saggista, e' una delle voci
piu' influenti del movimento pacifista statunitense.

13. RIEDIZIONI. HERMANN BROCH: LA MORTE DI VIRGILIO
Hermann Broch, La morte di Virgilio, Feltrinelli, Milano 1962, 2003, pp.
548, euro 12. Il capolavoro di Broch.

14. RIEDIZIONI. ANNA FREUD: NORMALITA' E PATOLOGIA DEL BAMBINO
Anna Freud, Normalita' e patologia del bambino, Feltrinelli, Milano 1969,
2003, pp. 230, euro 8,50. Opportunamente ristampato in edizione economica
questo classico della psicoanalisi infantile.

15. RILETTURE. MICHEL FOUCAULT: TACCUINO PERSIANO
Michel Foucault, Taccuino persiano, Guerini e associati, Milano 1998, pp.
130, lire 20.000. I reportages e gli interventi di Foucault sulla e nella
rivoluzione iraniana nel 1978-'79. Arricchiscono il volume ampi saggi di
Renzo Guolo e Pierluigi Panza.

16. RILETTURE. ARMANDA GUIDUCCI: DONNA E SERVA
Armanda Guiducci, Donna e serva, Rizzoli, Milano 1983, pp. 294, lire 15.000.
"Ogni giorno milioni di donne, in milioni di cucine, si chinano sui gesti
del cibo: un gigantesco spettacolo di solitudine, in cui per molte (per le
piu') si esaurisce il tempo - e il senso - dell'esistenza. Come e' nato il
mito del lavoro femminile familiare? Fino a che punto svuota e avvilisce,
con la sua monotonia e con l'isolamento che gli e' proprio, l'interiorita'
femminile? Come infine comincia a incrinarsi nella societa' occidentale la
concezione del lavoro subalterno all'uomo entro la famiglia?" (dalla quarta
di copertina).

17. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

18. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
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Numero 608 dell'11 luglio 2003