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La nonviolenza e' in cammino. 608
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 608
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 10 Jul 2003 20:48:26 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 608 dell'11 luglio 2003 Sommario di questo numero: 1. "Azione nonviolenta" di luglio 2. Maura Gualco: una condanna a morte. Italiana 3. Enrico Peyretti: solidarieta' agli studenti iraniani. Nonviolenta 4. Neta Golan: lacerazioni 5. Nirmal Puwar: i volti svelati della buona meticcia 6. Francesco Tullio: candidi come colombe 7. Ida Dominijanni: le maschere della guerra 8. Presentazione di Emiliano Sbaraglia (a cura di), Cento domande a Piero Gobetti 9. La nona newsletter di "Migra" 10. Letture: Noam Chomsky, Dopo l'11 settembre 11. Letture: Robert Fisk, Notizie dal fronte 12. Letture: Howard Zinn, Non in nostro nome 13. Riedizioni: Hermann Broch, La morte di Virgilio 14. Riedizioni: Anna Freud, Normalita' e patologia del bambino 15. Riletture: Michel Foucault, Taccuino persiano 16. Riletture: Armanda Guiducci, Donna e serva 17. La "Carta" del Movimento Nonviolento 18. Per saperne di piu' 1. INFORMAZIONE. "AZIONE NONVIOLENTA" DI LUGLIO [Dalla redazione di "Azione nonviolenta" (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) riceviamo e diffondiamo] Cari amici, vi presentiamo il numero di luglio 2003 di "Azione nonviolenta", la rivista mensile del Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964, di formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo. In allegato a questo numero, il pieghevole con il programma completo del'iniziativa "In cammino per la nonviolenza", Assisi-Gubbio, dal 4 al 7 settembre 2003. L'abbonamento annuo costa 25 euro, da versare sul ccp n. 10250363 intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona. E' possibile chiedere una copia-saggio inviando una e-mail a: azionenonviolenta at sis.it (nel soggetto scrivere: copia "Azione nonviolenta"). In questo numero: - Convegno e festa a Gubbio, il 6 e 7 settembre (di Mao Valpiana); - Le dieci parole della nonviolenza: "Persuasione" (di Pietro Pinna); - Il destino comune di israeliani e palestinesi (di Manuela Dviri); - Proteggete i vostri bambini dal mostro dell'odio (di Nurit Peled); - Un italiano dall'anima curda, Dino Frisullo (di Tiziana Valpiana); - Il premio Langer 2003 a Gabriele Bortolozzo (di Helmut Moroder); - I diritti naturali dei bimbi e delle bimbe (di Gianfranco Zavalloni); - e poi le consuete rubriche: alternative (Gianni Scotto); cinema (Flavia Rizzi); musica (Paolo Predieri); economia (Paolo Macina); Lilliput (Massimiliano Pilati); l'azione (Luca Giusti); educazione (Angela Dogliotti); storia (Sergio Albesano); libri. In copertina: "In cammino per la nonviolenza" (disegno di Mauro Biani). Per informazioni e contatti: "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org 2. STORIE. MAURA GUALCO: UNA CONDANNA A MORTE. ITALIANA [Dal quotidiano "L'unita'" dell'8 luglio 2003. Maura Gualco e' una giornalista particolarmente impegnata sui temi dei diritti umani e dei conflitti internazionali] Morto sotto tortura. Tra bastonate e scosse elettriche, Mohammad Said Al-Sahri, l'ingegnere siriano espulso dall'Italia insieme alla moglie e ai quattro figli nel novembre scorso, sembra che sia stato ucciso. Ha incontrato il suo boia, in un carcere di sicurezza alle porte di Damasco, dove era detenuto da quando l'Italia lo ha rispedito nel suo paese, nonostante avesse richiesto l'asilo politico perche' perseguitato politico. A darne la notizia sono il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) e la famiglia che attualmente vive a Londra. "Abbiamo avuto la notizia da alcuni parenti che vivono a Damasco", dice Murhaf Lababidi, cognato di Mohammad, al quale fa eco il direttore del Cir, Christopher Hein: "La notizia, che stiamo cercando di accertare, ci e' stata data da una fonte che si trova in Siria e che preferiamo mantenere anonima. Ma non si tratta di parenti". E il tre luglio scorso un comunicato e' stato inviato dai legali della famiglia Lababidi alla Corte di Strasburgo. "Da fonti attendibili - e' scritto sulla nota - il signor Mohammad Said Al-Sahri e' stato ucciso a causa delle torture subite in carcere". Conferme dal governo siriano non ce ne sono. E la Farnesina interpellata sull'argomento si limita a un: "Verificheremo". La storia di Mohammad Al-Sahri comincia nella citta' di Hama, antica citta' siriana, considerata dal regime di Assad la roccaforte dei Fratelli Musulmani, i cui membri - prevede la legge del 7 luglio dell'80 e ancora in vigore - sono condannati alla pena capitale. Teatro di una spietata repressione della popolazione, che tenta di liberarsi del "Leone di Damasco", Hama viene bombardata, accerchiata, distrutta dall'esercito. Un'escalation di violenza che culmina il due febbraio dell'82 nel massacro di oltre diecimila vite. Mohammad Al Sahri, che all'epoca ha 24 anni, fugge. Va prima in Giordania e poi in Iraq, dove si stabilira' con la moglie Maysun e i quattro figli. Ma la famiglia di sua moglie, anch'essa ricercata dal regime di Damasco, si era gia' stabilita in Europa, tra la Danimarca e l'Inghilterra. Cosi' anche Mohammad, dopo circa vent'anni di esilio, decide di partire per l'Europa. E il 23 novembre scorso arriva insieme ai suoi cari, proveniente da Baghdad via Amman, all'aeroporto Malpensa di Milano. Bloccati dalla polizia di frontiera vengono trattenuti in una zona riservata dell'aeroporto per ben cinque giorni impedendo loro di vedere Murhaf, il fratello di Maysun, che nel frattempo era volato da Londra in loro soccorso. Ma Murhaf era riuscito il giorno dello sbarco a sentirla telefonicamente e non soltanto si era assicurato che la sorella avesse richiesto l'asilo politico per lei e i suoi cari, ma le aveva anche tradotto dall'arabo il termine "refugee". "Devi dire alla polizia di frontiera: 'We are refugee'". Una veloce deportazione fa seguito ai cinque giorni di detenzione in isolamento. Vissuto libero nel paese del feroce Saddam, Mohammad non trova, dunque, altrettanta tolleranza nella "democratica" Italia. Ma in aereo le lacrime non servono. Destinazione: Damasco. Dove ad attendere l'ingegnere all'aeroporto c'e' l'ascia del boia. Arrestato immediatamente dalla sicurezza siriana, infatti, viene portato via e dalle autorita' non si e' mai avuta alcuna informazione. Sua moglie, insieme ai bambini, vive ad Hama dove due volte a settimana, racconta Murhaf, riceve la visita dei Mukabarat, i servizi segreti che la intimidiscono e le bombardano di domande sui contatti del marito e sul resto della famiglia. In Italia, intanto, "l'Unita'" denuncia il caso e in Parlamento fioccano le interrogazioni al governo. Il ministro dell'Interno, Giuseppe Pisanu, si difende: "Queste persone non hanno mai avanzato domanda di asilo, sono stati trattenuti in luoghi ospitali, trattati con umanita' e rimpatriati in Siria nel pieno rispetto della legge Bossi-Fini". Difficile credere che in cinque giorni di detenzione non abbiano mai espresso tale richiesta. E in ogni caso, spiegano i legali della famiglia Lababidi che, intanto, hanno denunciato il governo italiano alla Corte europea di Strasburgo per numerose violazioni del diritto internazionale, la Convenzione di Strasburgo vieta "il rimpatrio forzato verso un paese in cui vige la pena di morte". E a rispondere a Pisanu sull'ospitalita' della polizia di frontiera ci pensa Maysun che dai suoi "arresti domiciliari" in cui si trova, scrive al fratello: "Abbiamo ricevuto il peggior trattamento. C'era una donna, la stessa che ci ha scortato in Siria... Avevamo chiesto rifugio, una vita normale... invece ci hanno rinchiuso in una stanza con le telecamere, dove ci hanno perquisito e fatto le foto segnaletiche... Abbiamo chiesto varie volte un interprete, un avvocato... Poi ci hanno condotto in un posto vicino all'aeroporto... un posto freddo, gelido, senza riscaldamento, niente coperte... Cosi' fino a giovedi' 28 novembre alle 21 quando quella donna e' venuta con tre agenti di polizia e ci ha detto 'hanno accettato la vostra richiesta. Raccogliete i vostri effetti personali'. Dove andiamo? 'Sarete trasferiti in un posto migliore' mi ha risposto la donna. Solo in aereo abbiamo capito dove eravamo diretti". Un racconto raccapricciante, difficile da provare: la parola degli immigrati contro quella di un funzionario di polizia. Ma che offende non solo la famiglia Sahri, bensi' la dignita' di ogni essere umano. Si tratterebbe di quei "trattamenti disumani e degradanti" citati nella Convenzione di Ginevra e in quella di Strasburgo. Perche' proprio in Siria visto che venivano dalla Giordania? Si sono rifiutati di andare in Giordania, risponde il governo. Dunque, per andare in Giordania si sarebbero opposti con tutte le forze, mentre per la Siria avrebbero accettato a cuor leggero. Ma si', in fondo laggiu' ci aspetta solo una condanna a morte. E non e' tutto. Carlo Giovanardi, ministro per i rapporti per il Parlamento, dagli scranni dell'aula, assicuro' alcuni mesi fa: "Naturalmente, il governo si impegna a seguire la vicenda anche a livello europeo, nel caso in cui emergesse la notizia che i diritti umani non vengano rispettati". Ebbene, come si e' impegnato questo governo? Come ha ottemperato all'impegno preso? Amnesty International non ha mai smesso di riferire, in seguito alle inchieste da essa condotte, che in Siria la tortura e' praticata sistematicamente ed e' concreto il pericolo di scomparsa dei detenuti politici. Soprattutto gli appartenenti ai Fratelli Musulmani. Il governo, quindi, non poteva non sapere. Non poteva non immaginare la fine che avrebbe fatto Mohammad Al Sahri. "La notizia della morte dell'ingegner Sahri che riferiscono fonti attendibili - dice Anton Giulio Lana, uno dei legali della famiglia Lababidi - mi lascia sconcertato ma purtroppo non sorpreso. Il rischio di un tale epilogo era fin troppo prevedibile. Spettera' a questo punto alla Corte Europea accertare le responsabilita' dell'Italia, anche sotto questo profilo". 3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: SOLIDARIETA' AGLI STUDENTI IRANIANI. NONVIOLENTA [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica (ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente] La solidarieta' con gli studenti iraniani, che manifestano per le liberta' democratiche e per la laicita' dello stato, e' giusta e doverosa. Non si puo' manifestare insieme a chi progetta la guerra al loro paese, come fa Bush, o a chi (destra governativa e semi-destra), lo appoggia ora come lo ha appoggiato volendo o approvando o tollerando la guerra all'Iraq. Non e' possibile manifestare insieme a costoro, perche', dal momento che sanno usare la guerra, dimostrano di non amare la liberta' e i diritti umani. Gli studenti iraniani non hanno bisogno, e infatti hanno respinto, la solidarieta' capziosa, strumentale e insidiosa di Bush e soci. "Timeo Danaos et dona ferentes". Il mirino degli Usa si sposta ora verso l'Iran, come avvertiva anche Giulietto Chiesa il 26 giugno, presentando il libro Bandiere di pace: "Ormai hanno deciso: o con un sovvertimento dall'interno mediante un cambio di regime o con un sovvertimento dall'esterno mediante una guerra". Giulietto Chiesa e' stato perentorio: "Dobbiamo sollevare il senso di allarme ed inquietudine. Non possiamo consolarci di quanto abbiamo fatto negli scorsi mesi, del livello di consenso raggiunto in passato. Cio' che della guerra passa nella mente a livello di massa e' un'informazione distorta e il quadro e' piu' grave di quanto possiamo immaginare. Negli Stati Uniti sono gia' stati effettuati i primi sondaggi di opinione per saggiare il livello di popolarita' di una guerra all'Iran, sondaggi che danno al Presidente l'appoggio della maggioranza degli americani in caso di guerra per bloccare un eventuale programma atomico iraniano. Ma cio' che e' ancora piu' grave e' che la maggioranza degli americani, sempre secondo tali sondaggi, ritiene che Saddam Hussein abbia usato armi di distruzione di massa contro gli Usa. Non solo la maggioranza degli americani non sa che le armi di distruzione di massa non sono state trovate, ma e' addirittura convinta che tali armi siano state usate! Sono molto angosciato. Questo e' il risultato del disfacimento della democrazia negli Usa e del degrado e della distorsione dei mass media in quella nazione". La grossa informazione e' sistematica arma di falsita' e di guerra. Percio' merita diffidenza e sospetto anche sulle vicende iraniane. Come scrive "Infopalestina" (Peacelink, 5 luglio), gli studenti iraniani, che hanno subito la violenta repressione dal loro governo, non si fidano di politici che dettano le ricette politiche. Rivendicano la loro liberta' da chiunque voglia decidere il loro futuro. Un appoggio dalle organizzazioni non governative - e quindi del movimento internazionale per la giustizia e la pace - solidificherebbe la loro posizione, darebbe loro la forza di andare avanti. Non dobbiamo dirgli che cosa fare, ma difendere il loro diritto di esprimere le loro opinioni, le loro idee, le loro rivendicazioni, il loro diritto di costruire un mondo diverso. Percio', solidarieta' agli studenti iraniani, si', ma un'altra solidarieta' da quella paternalista e strumentale, offensiva. La grossa informazione, sensibile solo alla violenza, non ricorda che nel 1978-1979 il regime totalitario dello Scia' (riportato sul trono nel 1953 dagli Stati Uniti, che orchestrarono un colpo di stato contro il governo di Mossadeq, colpevole di avere nazionalizzato il petrolio) fu abbattuto da un formidabile movimento popolare di opposizione nonviolenta, che porto' fino a sei milioni di iraniani nelle strade, per reclamare la fine della dittatura e il ritorno alla costituzione. Le manifestazioni raggiunsero un'ampiezza tale che lo Scia' dovette abbandonare l'Iran nel gennaio 1979, senza piu' tornarvi. Il movimento mise in atto azioni di disobbedienza civile tipicamente nonviolente. Solo dopo il ritorno dell'ayatollah Khomeini dall' esilio in Francia ci furono violenze civili e statali e si instauro' il regime fondamentalista oppressivo. Posso fornire indicazioni bibliografiche su quegli avvenimenti. I veri amici degli studenti iraniani oggi in rivolta ricordano insieme a loro questa pagina della loro storia, davvero gloriosa nella sua fase piu' importante perche' nonviolenta, li invitano e li aiutano a stare in guardia dai falsi amici, sostengono gli scopi democratici, giusti, nonviolenti, antiimperiali, della loro lotta. 4. TESTIMONIANZE. NETA GOLAN: LACERAZIONI [Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int) per averci inviato la traduzione (di Adriana Redaelli) di questo messaggio di Neta Golan del 24 giugno scorso. Neta Golan, israeliana, e' tra le fondatrici dell'International solidarity movement. Da tempo e' impegnata in un lavoro comune con i palestinesi per una pace giusta e la fine dell'occupazione militare israeliana. Durante la seconda Intifadah insieme ad un gruppo di pacifisti internazionali, durante l'assedio a Ramallah della sede centrale dell'Autorita' nazionale palestinese e di Yasser Arafat, e' rimasta nella Muqata per un mese a protezione della vita di Arafat. Neta attualmente vive a Nablus con il marito palestinese Nizar Kamal e la loro bambina Nawal. Neta e Nizar, che si sono conosciuti in un gruppo di dialogo tra palestinesi e israeliani, si sono sposati in Italia, a Gradara, di cui sono cittadini onorari] La settimana scorsa e' morto mio padre. Ho preso Nawal, la mia bambina di due mesi, e ho cercato di andare a Tel Avi v per partecipare al funerale e stare con la mia famiglia in questo momento di dolore. Nablus, la cittu' dove vivo, era sotto assedio e completamente isolata. Lo e' stata per la maggior parte degli ultimi due anni. I soldati israeliani minacciavano di sparare a chiunque si avvicinasse al checkpoint. Avevo una lettera dell'ospedale per un check-up che Nawal avrebbe dovuto fare a Ramallah, cosi' ci siamo presentate al checkpoint di Hawara in ambulanza. L'ambulanza si e' fermata nel posto indicato. I soldati non hanno sparato, grazie a dio, ma non si sono neppure avvicinati. Dopo circa mezz'ora il conducente ha deciso di provare parlare con loro. E' sceso dall'ambulanza. Hanno puntato i fucili su di lui. E' rientrato nell'ambulanza. Potevamo solo aspettare. Per tutto il tempo gli autobus dei coloni diretti agli insediamenti che circondano Nablus hanno continuato a sfrecciare indisturbati. Inghiottendo la mia rabbia ho ringraziato dio che la mia bambina non fosse malata e che nessuno nell'ambulanza fosse in condizioni critiche. I soldati non potevano saperlo, ma anche se lo avessero saputo non avrebbe fatto alcuna differenza. * Un anno fa stavo accompagnando un'ambulanza che doveva passare per un checkpoint di Jenin. Un giovane con una pallottola in testa era steso sul retro dell'ambulanza e un dottore gli mandava aria nei polmoni con un respiratore manuale. Stavo seduta vicino al conducente e non dicevo niente mentre guardavo le condizioni del paziente deteriorarsi. So che mettersi a discutere con dei soldati puo' peggiorare le situazione. Non potevo rischiare che succedesse. Mi sono calmata e ho aspettato che si aprisse uno spiraglio. Ho offerto una sigaretta al soldato. L'ha accettata. Gliene ho dato un'altra per l'altro soldato, e poi ho azzardato: "E' proprio necessario che aspettiamo tanto? Questo ragazzo sta morendo". Il soldato appariva imbarazzato. "Dobbiamo assicurarci che non sia ricercato". "Se scoprite che e' un ricercato, potete venire a prenderlo in ospedale, non scappa di certo con una pallottola in testa". "Vedro' che cosa posso fare". Quel giorno abbiamo passato un'ora e mezza al checkpoint. Un tempo sufficiente per far si' che il danno cerebrale del giovane divenisse irreversibile. Il soldato, anche lui un giovane, faceva il suo lavoro. * Il giorno del funerale di mio padre abbiamo dovuto aspettare "soltanto" un'ora. Era la terza volta che Nawal faceva quel viaggio da quando e' nata. Malgrado il rischio che l'entrare e l'uscire comportano sono venuta spesso perche' sapevo che mio padre stava morendo. Volevo che vedesse la sua prima nipotina, volevo dirgli che lo amavo, volevo salutarlo. Dopo il funerale abbiamo passato una settimana con la mia famiglia israeliana. A mio marito, che e' palestinese, e' proibito l'ingresso nella parte israeliana della Palestina occupata nel 1948. E' stato duro non averlo con me. Ma sapevo che il poter stare con la mia famiglia era un privilegio. * Continuavo a pensare alla mia amica Amal, una delle donne piu' belle che io abbia mai visto. Con grandi occhi nocciola e capelli neri. La sua famiglia e' stata costretta a lasciare la Palestina per la Giordania prima ancora che lei nascesse. Suo marito Abed e' della Cisgiordania. Hanno due bei bambini. Se lei lascia la Cisgiordania per andare a trovare i suoi parenti in Giordania, non la lasciano piu' rientrare. I suoi genitori hanno visto i nipotini solo in fotografia. Suo padre era vecchio e malato, ma lei non ha potuto andarlo a trovare. E' morto e non ha potuto andare al funerale o a consolare sua madre. Oggi rifiuta di accettare la morte del padre. Non e' la morte con cui non riesce a venire a patti. Chi vive sotto l'occupazione deve vivere ogni giorno con la morte. E' il fatto di aver dovuto scegliere tra il marito e i figli e i genitori con i quali non puo' vivere. I suoi capelli hanno incominciato a incanutire all'improvviso. * La politica di negare la residenza ai coniugi dei palestinesi e' una delle molte forme che la pulizia etnica assume qui. La politica e' vecchia quanto lo stato di Israele, ma Sharon ne va particolarmente orgoglioso. Nella sua campagna elettorale andava vantandosi di aver fermato l'ingresso dei palestinesi in Israele (la "grande" Israele), bloccando completamente le riunificazioni familiari. Amal non vedra' mai piu' suo padre. Molte migliaia di palestinesi condividono il suo stesso destino. Una volta a casa a Nablus, Nawal ed io siamo ritornate alla nostra famiglia e abbiamo ripreso la solita vita: ci svegliamo ogni notte per le esplosioni delle case che vengono distrutte, per il rombare dei carri armati per strada e per gli spari. Nel frattempo Nawal ha imparato a sorridere e quando sorride splende come il sole. 5. RIFLESSIONE. NIRMAL PUWAR: I VOLTI SVELATI DELLA BUONA METICCIA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 giugno 2003 riprendiamo la seguente anticipazione per stralci di un lucido, acuminato testo della illustre studiosa e teorica femminista, pubblicato nell'ultimo numero della rivista "DeriveApprodi". Nirmal Puwar e' docente di sociologia alla Northampton University in Gran Bretagna, ed una delle studiose piu' acute sui temi del razzismo, dei rapporti neocoloniali nord/sud, dell'oppressione delle donne, dei cambiamenti nel sud del mondo, delle problematiche globali. Ha scritto e curato varie pubblicazioni] Il soggetto nero, la donna subalterna, il migrante e l'esule sono tutti sotto i riflettori. E' a queste figure che si volge lo sguardo dei media, delle agenzie di governance globale e locale, dei professionisti del capitalismo in stile multiculturale, degli accademici e degli attivisti. Ciascuno di essi ha un proprio motivo particolare per guardare e cercare. Alcuni cercano di pattugliare i confini, altri di regolare quei corpi il cui lavoro e' necessario ma la cui cittadinanza (umanita') e' rifiutata. E poi c'e' la pretesa incessante di scorgere chi sta dietro al turbante, al velo, al pizzo, a quella pelle non-bianca; il sospetto alimenta pericolo e risentimento. Mentre alcuni di questi corpi sono accusati di arrecare distruzione alla terra promessa, altri - e spesso gli stessi, sebbene con sfumature leggermente diverse - vengono celebrati perche' evocano un paradiso tropicale. Colore e aroma avvolgono le metropoli in una fanfara etnica. Black Cool, Asian Cool: di qualunque cosa abbiate voglia, e' la' per essere consumata. E casomai pensassimo che la vita metropolitana e' facile, c'e' sempre il rumore della violenza (razziale, sessuale e sul lavoro) a sorprenderci con periodiche rivendicazioni di giustizia. Tanto gli attivisti quanto gli accademici sono attirati dalle citta', le citta' globali, perche' e' qui che l'incommensurabile si concentra. Il fascino e' qui, perche' non e' possibile sapere quali novita' emergeranno dal sangue, dal sudore, dalle lingue, dagli odori e dai suoni che si mischiano insieme. I corpi delle donne di colore che lavorano negli sweatshops di East End a Londra, le collaboratrici domestiche nelle case, negli uffici e negli aeroporti delle citta' globali, le dita che si muovono "agili" fra i circuiti elettronici nelle zone di libero commercio, l'ibrida gioventu' metropolitana che indossa il sari e le scarpe da ginnastica, e specialmente coloro che ci narrano storie con l'eloquenza delle loro parole, sono in grado di catturare l'attenzione degli accademici come mai prima d'ora. Si pensa che il mistero della nostra condizione globalizzata risieda proprio li', nel corpo della "donna nera", la "donna del terzo mondo" e la donna tribale "subalterna". Ha avuto luogo una trasformazione notevole, per cui queste "altre" donne sono passate dal non avere riconoscimento in nessun luogo della sfera pubblica all'essere ovunque. La gente non ne ha mai abbastanza di loro, o forse dovrei dire di "noi". * Viviamo un tempo in cui per coloro che vagamente si definiscono "di sinistra" e' divenuto urgente stringere alleanze politiche attraverso i paesi e all'interno di questi. Si riconosce ampiamente che abbiamo bisogno di connessioni globali che ci aiutino a esercitare pressione e a destrutturare i nodi strategici del potere. Le linee di potere attraverso il mondo sono cosi' intrecciate e pluridimensionali che e' importante che vi siano vettori di connessione politica altrettanto elaborati, se non di piu'. Non v'e' dubbio che sia necessario un dialogo capace di parlare dentro e attraverso i nodi della differenza. E tuttavia, una cosa e' l'impegno nella costruzione di dialogo, cooperazione e alleanza, altra cosa e' il modo in cui onoriamo questo impegno. Quando ci sporgiamo all'esterno e cerchiamo connessioni, e' fondamentale riflettere sullo spirito che anima tutto questo. Quando coloro che risiedono nelle nazioni piu' ricche si sforzano di costruire un dialogo coi meno privilegiati, dobbiamo chiederci: come puo' il Nord avvicinarsi al Sud? Occorre interrogare il carattere delle energie e delle emozioni attraverso cui si formano punti di contatto nell'ambito dei circuiti politici. In un periodo in cui diviene un imperativo assoluto forgiare un arcobaleno di coalizioni che lavorino con donne di colore, donne subalterne, che vivono nel Sud, diventa altrettanto urgente chiedersi: su che basi avete invitato queste donne a parlare? Esiste una struttura di rappresentazione di queste figure che esercita un impatto profondo sulle forme in cui queste donne sono invitate a far parte di gruppi politici, iniziative creative o forum accademici. Le rappresentazioni sono all'opera tra luoghi diversi, e i movimenti politici radicali non ne sono immuni. E sebbene esistano importanti variazioni fra i diversi spazi, emerge una notevole comunanza nei termini in cui viene loro garantita la coesistenza. * Ci sono delle tendenze molto problematiche rispetto al modo in cui "noi" siamo invitate a partecipare al tavolo, alla piattaforma o al corteo. Se accettiamo che il momento dell'emergenza e' anche il momento per emergere, allora e' tempo di ripensare su quali basi la donna subalterna (assumendo questo termine come indicativo di una figura ampia ed eterogenea) sia chiamata a partecipare. E ancora, in un intenso momento di riflessione dovete chiedervi - come organizzazione, gruppo o individui: che cosa state cercando nel corpo di questa figura? Che cosa scegliete di vedervi? Che cosa volete sentire? State ascoltando veramente o percepite solo l'eco delle vostre fantasie? Che cosa le e' consentito di essere nel vostro interessamento verso di lei? E' su tali presupposti che questo contributo invita tutte le organizzazioni, politiche o di altro genere, a considerare in primo luogo su che basi alle femministe nere, alle donne subalterne o del terzo mondo sia resa disponibile una posizione di parola, e poi che cosa si cerchi in particolare dai corpi di queste donne; in altri termini io chiedo: "che cosa andate cercando?". Le risposte a queste domande sono nell'osservatore. E' colui/colei che guarda a doversi interrogare. * In una serie di lavori intitolati "Album Pacifica", Mohini Chandra - un'artista che gli spostamenti familiari hanno condotto in India, nelle isole Fiji, in Australia e in Inghilterra - esibisce al pubblico una collezione di foto di famiglia. Insolitamente, e in modo efficace, le fotografie ci vengono presentate rovesciate. Nel cercare indizi di che cosa la foto possa contenere dall'altra parte, quella che siamo abituati a vedere, l'osservatore e' indotto a guardare i segni sul retro della foto. Macchie, strappi, lacrime, timbri di passaporto, impronte digitali diventano visibili in questa ricerca. In qualche modo lo spettatore ha la tentazione quasi irresistibile di prendere queste foto e vedere che cosa possano rivelare. Come osservatori non ci accontentiamo del retro. Per aggiungere un'ulteriore dimensione, Chandra esibiva queste fotografie in teche di vetro, rievocando le antropologiche "teche di curiosita'" che disponevano le culture secondo tipologie gerarchicamente definite. Queste bacheche ancora una volta ci "stuzzicano" nel disporre le foto come oggetti preziosi da proteggere. La natura esatta dei misteri che giacciono dietro il vetro protettivo ci e' negata. Chandra riesce a rompere il nostro desiderio di vedere, indagare e confermare la nostra percezione delle persone che sono dall'altra parte della foto. Ci sfida a ripensare perche' desideriamo vedere e situare. Interrompe il nostro sguardo, proprio nel pieno dell'atto di guardare esso ci viene rimandato indietro. Le domande che ci rivolge sono: che cosa vai cercando? Che cosa vuoi vedere dall'altra parte? E come mai l'immagine di cio' che ti aspetti di vedere e' cosi' importante per il tuo senso del luogo nel mondo? Se intraprendiamo il viaggio che Chandra ci suggerisce, ritorniamo a noi stessi. (...) * La fame di narrazioni di "vittimita'" ha una lunga storia. Al culmine dell'antropologia, le distinzioni fra l'Occidente e il resto del mondo diedero luogo a una giurisdizione epistemologica racchiusa in osservazioni, misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di curiosita'. I corpi delle donne provenienti da questi "altri" luoghi rivestirono un ruolo centrale nella produzione della differenza fra barbarico e civilizzato, spirituale e razionale, passivo e potente. Tutto cio' che e' percepito al tempo stesso come attraente, repulsivo, bisognoso di correzione e' stato proiettato da questi "altri" luoghi sulle figure femminili. Nel rappresentare il fardello dell'uomo bianco cosi' come della donna bianca, le donne di "altri" luoghi hanno offerto a coloro che guardavano verso Est in cerca di carriera un sentimento di missione, definendo per loro un senso di identita' quali politici, riformatori sociali, viaggiatori o accademici. Il linguaggio del femminismo e della liberazione delle donne fu utilizzato dai colonialisti, per esempio Cromer, per rimarcare i confini tra l'occidente liberato e l'oriente barbarico, producendo cosi' una soggettivazione della mascolinita' coloniale bianca. Il fatto ironico e' che mentre gli uomini bianchi dell'establishment vittoriano si opponevano alla causa femminista nei propri paesi, essi catturarono il linguaggio del femminismo e del colonialismo e "lo deviarono, al servizio del colonialismo, verso gli Altri uomini e le loro culture". Guardando a tutto questo attraverso l'immagine spettrale di un sati (la pira di fuoco dove le vedove indiane doveno immolarsi assieme al cadavere del marito) ardente, cosi' spesso evocato nei discorsi occidentali, Gayatry Chakravorty Spivak ha evidenziato come l'abolizione del sati e il complesso di leggi che furono emanate in nome delle donne indiane dai britannici costituissero un esempio classico degli "uomini bianchi che salvano donne scure da uomini scuri", aprendo la strada a cio' che Rajan descrive come una "metafora di cavalleria", un rito di passaggio per giovani uomini bianchi verso la mascolinita' amorosa. La descrizione, nei resoconti ufficiali, delle donne che si sottoponevano alla pratica del sati come vittime o eroine, ha precluso la possibilita' di una "soggettivit' femminile che e' mutevole, contraddittoria, inconsistente", ma ha alimentato la proliferazione di un "paradigma salvifico", che spesso aveva una sfumatura di "piacere voyeuristico", specialmente se la protagonista del sati era tragicamente considerata giovane e bella. Tuttavia, non fu solo il cavaliere dall'armatura sfavillante a intraprendere la salvezza delle donne in India e in altre parti delle colonie, sotto la masquerade del "paradigma salvifico"; le donne occidentali, queste Imperial Ladies indossarono a loro volta questo abito - anche se con un'affettazione diversa - per ritagliare per se stesse, forse inconsciamente, una posizione soggettiva. La rappresentazione delle donne occidentali come protagoniste illuminate che avviarono la missione di alleviare le sofferenze patriarcali delle donne coloniali, fu fondamentale per la concessione dei diritti politici e di una soggettivita' politica femminile. Esse poterono ricorrere ad attitudini caritatevoli per affermare se stesse come protagoniste contro l'agenda politica escludente della mascolinita' bianca e a fronte di concezioni dell'"individuo" politico liberale che non comprendevano le donne. I processi di esclusione dal corpo politico imposti dal "contratto sessuale" sono attraversati da un "contratto razziale" sessuato. (....) * Durante i bombardamenti e l'apparente liberazione dell'Afghanistan dopo l'11 settembre, abbiamo assistito a uno degli episodi piu' crudi di incomprensione della vita delle donne non occidentali da parte delle donne d'occidente. Un gruppo di ministre del governo laburista inglese ha sollevato assieme a Cherie Blair la questione di genere e l'ha resa pubblica. Si trattava della questione del burkha e del velo in Afghanistan; esse parlavano di solidarieta' con le loro sorelle afgane immedesimandosi nelle sensazioni che si provano nell'indossare questo articolo di abbigliamento. Nel corso di questa campagna non consultarono i gruppi di donne nere o musulmane, che avrebbero invece potuto suggerire loro come interpretare questo oggetto senza ricorrere semplicemente a letture orientaliste che producono nozioni essenzializzate dei civili paesi occidentali e dei barbarici paesi orientali, in cui le donne devono esser salvate da un occidente illuminato. Esse avrebbero potuto trarre beneficio dalla scoperta che nessuna interpretazione uniforme si addice al fatto di indossare il burkha o il velo. Le femministe post-coloniali hanno discusso a lungo sul velo, ma non credo che troverete questi libri nella biblioteca della Camera dei Comuni. Una delle preoccupazioni principali del femminismo post-coloniale e' stata la questione del come sia possibile criticare i regimi patriarcali di societa' razzialmente definite, senza ricorrere a un pensiero orientalista e razzista. E il velo rappresenta uno di quei significanti razzializzati/sessuati (come il sati) perche', come ha fatto notare Leila Ahmed, la storia che lo avvolge e' "gravida" di senso. Tutto questo rende assolutamente cruciale il fatto che le modalita' di resistenza non siano considerate esclusivamente attraverso i linguaggi occidentali o eurocentrici. Questo evento di grande rilievo, cui si aggiunse un'identica iniziativa trans-atlantica, e' cosi' ricaduto in tutte quelle trappole analitiche di cui, ormai parecchio tempo fa, ci aveva avvertito Mohanty. Nel caso qualcuno stia ascoltando, le richiamo qui. Fondamentalmente l'autrice sosteneva che esiste un latente etnocentrismo nei testi femministi occidentali, i quali manifestano: 1) una tendenza a produrre/rappresentare una categoria monolitica della "donna media del terzo mondo"; 2) a definire e giudicare le vite di queste "altre" donne attraverso un "metro" che assume le vite delle donne occidentali di classe media come norma, "come referente implicito". (....) * Mohanty puntualizza che non sono solo le donne bianche occidentali a poter incorrere nella trappola dell'assumere la propria posizione come norma. Sostiene infatti che anche le donne del terzo mondo che vivono nel terzo mondo o in Occidente, o che viaggiano fra i due contesti, possono cadere facilmente in questi tranelli, che costituiscono un aspetto latente del femminismo internazionale. La domanda: "che cosa cerchi nella figura del subalterno?" deve essere rivolta a tutte le correnti di pensiero intellettuali e politiche. Perche' tutte si impegnano in una modalita' di osservazione che e' peculiare di questa figura. Quante volte gli analisti che lavorano nell'area dell'economia politica hanno dato per scontato il fatto che la loro prospettiva fosse la piu' radicale che si potesse assumere? E in piu' partendo dal presupposto che la loro analisi a muso duro non potesse avere conseguenze negative per i marginali che essi cosi' accoratamente sostenevano. Proviamo a riconsiderare il tutto. In un'analisi dei testi femministi all'interno degli studi sullo sviluppo, Aihwa Ong prende in considerazione delle raccolte di saggi che cercano di guardare alla posizione femminile nell'intreccio fra le forze capitalistiche globali e la quotidianita' del lavoro pagato e non pagato. L'autrice nota che "il capitalismo vi e' descritto come sistema polimorfo e storicamente determinato; esso presenta piu' contraddizioni e personalita' delle donne e degli uomini che in apparenza sono i protagonisti del volume". E continua: "I contributi, nel complesso, ci dicono di piu' sul pensiero femminista-marxista riguardo al sistema capitalistico mondiale di quanto ci dicano sull'esperienza di donne e uomini nel contesto dell'industrializzazione". Che cosa si cerca nel subalterno? Esiste una tendenza a definire immagini semplici e statiche delle donne subalterne o "nere". Esse sono commiserate perche' considerate vittime di molteplici oppressioni, oppure esaltate con toni estatici perche' rappresentano delle eroine che faranno crollare un mondo pericolante. (...) * Il nostro comprendere spesso stringe la donna subalterna fra il voyeurismo dell'esotico fantastico e un "paradigma salvifico" alla cui origine risiedono "motivi di salvazione" riformulati e articolati in una miriade di contesti, compresi il "turismo rivoluzionario" e la "celebrazione della testimonianza" che si possono riscontrare nel femminismo internazionale e nella politica della sinistra globale piu' in generale. Mentre inseguiamo una responsabilita' etica nei confronti del subalterno attraverso una relazione di amore a due in cui sistematicamente nascondiamo a noi stessi i nostri privilegi cosi' da "parlare a" e non "di", non dobbiamo sottrarci alla domanda scomoda e cruciale: Che genere di relazione etica con la subalterna stiamo cercando in prima istanza? Che genere di posizione soggettiva ci permette di detenere? Se le attiviste, le accademiche e le registe, per esempio (includo qui le femministe post-coloniali che si trovano nel ventre della bestia, che hanno accesso a forum pubblici, conferenze, circuiti editoriali e piattaforme dell'Onu), sperano di trasformarla, salvarla o proteggerla, come molte di loro fanno in un modo o nell'altro, allora devono prima di tutto demistificare "l'illusione che, attraverso la parola privilegiata, ci si stia mobilitando per salvare i dannati della terra". 6. RIFLESSIONE. FRANCESCO TULLIO: CANDIDI COME COLOMBE [Ringraziamo Francesco Tullio (per contatti: psicosoluzioni at francescotullio.it) per questo intervento. Francesco Tullio, amico della nonviolenza, e' uno dei piu' noti peace-researcher, e presidente onorario del Centro Studi Difesa Civile (sito: www.pacedifesa.org); nato a Roma il 18 giugno 1952, laurea in medicina e chirurgia, specializzazione in psichiatria, libero professionista, psicoterapeuta, esperto di gestione delle risorse umane, di prevenzione e trasformazione dei conflitti, di problem solving organizzativo; docente di psicoterapia breve alla Universita' di Perugia, docente di psicologia al master "Esperto in cultura d'impresa" all'Universita' di Perugia, 2001, ricercatore a contratto con il Centro militare di studi strategici nell'anno 1998-1999, presidente onorario del Centro studi difesa civile, ha coordinato ricerche per diversi enti, tra cui quella per l'Ufficio Onu del Ministero Affari Esteri su "Ong e gestione dei conflitti. Il confidence-building a livello di comunita' nelle crisi internazionali. Analisi, esperienze, prospettive"; promotore del Centro di ricerca e formazione sui conflitti e la pace presso l'Universita' di Perugia e dell'Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e per la pace; numerose le sue esperienze come medico, in Germania, in Nicaragua ed in Italia, sia in reparti di medicina che di chirurgia ed in particolare in pronto soccorso, come medico di famiglia, inoltre come psichiatra nei servizi pubblici ed in un servizio di medicina legale, infine come libero professionista psicosomatista e psicoterapeuta; le sue attivita' di studioso e formatore si sono incentrate sulla ricerca teorica, la gestione pragmatica dei conflitti, sulla mediazione e la gestione delle risorse umane per e nelle emergenze; e' impegnato dal 1970 in attivita' di volontariato per la prevenzione della violenza e lo sviluppo umano; quale conduttore di incontri, seminari, laboratori teorico-pratici, si e' occupato di gestione dei conflitti, d'affiatamento di gruppi di lavoro, di gruppi di terapia e di crescita umana; in ambito sociale tale interesse si e' tradotto in un contributo culturale per la prevenzione e la gestione dei conflitti intergruppali. In particolare ha coordinato ricerche e convegni sui temi della violenza organizzata e della guerra; e' autore e curatore di diverse pubblicazioni. Ci sia consentito di confermare il nostro dissenso dalla sottovalutazione eccetera, e ricambiare un saluto affettuoso a Francesco Tullio che e' un caro, prezioso amico da tanti anni] Ringrazio per la pubblicazione sul n. 600 della prima parte del mio saggio su "Resistere o disobbidire" (la seconda parte sara' sui rischi e le opportunita' di parlare di resistenza ora e sulla cautela necessaria nel dare credito a questa opposizione, prima che abbia rivisto l'approccio che ha contribuito a portarci alla situazione attuale). La redazione ha premesso al saggio un commento in cui si dice: "Ci sia consentito di notare almeno che ci pare che in un passo di questo per vari aspetti utile e nitido intervento si sottovaluti con soverchio candore la gravita' dell'attacco eversivo alla democrazia e alla legalita' specificamente e consapevolmente condotto dall'attuale coalizione governativa e dal suo demiurgo e padrone". Invece io affermo che nello stagno torbido delle comunicazioni propagandistiche non si capisce chi inquina le acque. Bisogna prima smettere di rimestare. A mio avviso la redazione non ha colto la diversita' fra il soverchio candore e lo sforzo di uscire da una situazione controproducente di accuse reciproche e di visioni semplicistiche e manichee della realta'. Si tratta di una proposta forse difficile da cogliere subito da parte di soggetti che fanno della loro verita' un dogma, ma potrebbe invece diventare un criterio di aggregazione partendo da coloro che sono consapevoli della complessita' della realta' e della necessita' tuttavia di usare talvolta griglie di lettura semplificanti. Inoltre nell'articolo si segnala che la griglia di lettura e' volutamente semplificante per porre le condizioni di una strategia che si e' cercato di indicare. Riassumo: La lotta nonviolenta, e speriamo in futuro anche quella per la democrazia, e' sempre accompagnata da chiare e forti proposte costruttive che offrono la opportunita' anche per la controparte di uscire onorevolmente dal conflitto. Se tu accusi di intenzionalita' il leader della controparte le possibilita' di uscire onorevolmente dal conflitto si riducono. Insomma, io non so se tutte le componenti del movimento di cui Berlusconi e' espressione intendono o non intendono fare un attacco eversivo alla democrazia ed alla legalita', ma agisco e parlo come se non vogliano (e sicuramente alcune fra di loro non vogliono ed e' opportuno sostenerle). Non attribuisco intenzioni inverificabili al loro leader. Cerco di evitare un peggioramento della situazione, e proprio per questo mi prefiguro anche gli scenari piu' difficili e sollevo ipotesi di strategie e di intervento, perche' il rischio in effetti lo avverto. Allora dov'e' il candore? Segnalo infine che per mio errore tecnico nell'ultima parte dell'articolo venivano ripetuti concetti gia' esposti all'inizio e mi scuso della ridondanza. 7. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: LE MASCHERE DELLA GUERRA [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 luglio 2003. Ida Dominijanni (per contatti: idomini at ilmanifesto.it) e' una prestigiosa intellettuale femminista] Mentre in Iraq continua lo stillicidio dei soldati americani, nelle aree del dissenso americano continua il dibattito sull'imbroglio ideologico e politico allestito dall'amministrazione Bush per giustificare la guerra all'Iraq. E per cominciare: fu guerra "preventiva" contro la minaccia del terrorismo e delle armi di distruzione di massa, o fu guerra "umanitaria" per la liberazione degli iracheni dalla dittatura di Saddam? Le due giustificazioni dell'intervento, come si ricordera', si sovrapposero durante la sua preparazione, vennero poi usate la prima piu' da Bush e la seconda piu' da Blair, finche' nella fase conclusiva della guerra, coronata non dalla scoperta degli arsenali chimici ma dalle immagini truccate dell'abbattimento della statua del dittatore, fu la seconda a prevalere nettamente sulla prima. Non molto diversamente era andata in Afghanistan, dove la guerra fu presentata prevalentemente come guerra contro il terrorismo finche' si sperava di catturare Bin Laden, e divento' prevalentemente guerra umanitaria per la liberazione degli afghani dai talebani in corso d'opera, quando i mullah cominciarono a dileguarsi in motocicletta. A ricordare l'andamento parallelo dello shifting ideologico della giustificazione delle due guerre sono il giurista californiano Richard Falk e l'ambasciatore svedese in Germania Carl Tham, nel forum che il settimanale "The Nation", nettamente contrario alla guerra in Iraq, dedica alla "dottrina emergente" dell'intervento umanitario, rivolgendo a dodici studiosi di diritto, guerra e relazioni internazionali alcune domande spinose che essa comporta, tanto piu' se applicata al caso dell'Iraq: poteva quella guerra essere giustificata su basi umanitarie, con l'obiettivo della liberazione degli iracheni dalla dittatura, anche senza che il regime di Saddam rappresentasse una vera minaccia per gli Stati Uniti o per i suoi vicini? Secondo il principio generale dell'intervento umanitario, non dovrebbero gli Stati Uniti sentirsi moralmente obbligati a intervenire in soccorso di tutti i popoli che vivono sotto regimi illiberali? E ancora: con la nozione di intervento umanitario, non c'e' il rischio di fornire una base razionale a una nuova forma di imperialismo americano? E in ogni caso, che diritto hanno gli Stati Uniti, o qualunque altro stato, di decidere quando e dove intervenire? Ripercorrendo la resistibile ascesa della nozione di "guerra umanitaria" lungo il decennio successivo al crollo dell'ordine bipolare, Falk ricostruisce la seduzione che essa ha a lungo esercitato piu' sulla sinistra democratica di Clinton che sulla destra isolazionista dei Bush; fino all'11 settembre, quando la dottrina umanitaria e' ritornata utile, in alternanza con la dottrina della guerra preventiva, per giustificare gli strappi del governo Usa al diritto internazionale e per nascondere sotto una retorica moraleggiante "il vero carattere delle guerre imperiali". L'uso pratico a corrente alternata delle due dottrine, tuttavia, non deve far perdere di vista la differenza ideologica che le distingue, la guerra preventiva ("l'oppio delle masse", secondo la definizione di Stephen Holmes) essendo sfacciatamente basata sulla teoria della fine della deterrenza, laddove quella umanitaria ("l'oppio dei liberals") e' insidiosamente basata sulla teoria dei diritti umani. Mary Kaldor, nota studiosa delle "nuove guerre" e a suo tempo favorevole all'intervento in Kosovo, ha ben presente questa differenza e tuttavia e' preoccupata quanto Falk e gli altri: l'intervento umanitario, scrive, dovrebbe essere un intervento di polizia volto a evitare catastrofi umanitarie, non una guerra militare di aggressione. Dunque, se si tratta di guerre, "chiamiamole con il loro nome e non rivestiamole di fantasie di giustizia internazionale", scrive David Rieff, autore di un libro sulla crisi dell'ideologia umanitaria. E se sono guerre, concordano tutti, senza nuove regole condivise dalla comunita' internazionale porteranno il mondo nel caos. Anzi, in un nuovo ordine neo-coloniale. Dove, aggiunge Ronald Steel, la democrazia, che e' sempre il problema, viene truffaldinamente spacciata per la soluzione. 8. LIBRI. PRESENTAZIONE DI EMILIANO SBARAGLIA (A CURA DI), CENTO DOMANDE A PIERO GOBETTI [Dal sito di Nonluoghi (www.nonluoghi.it) riprendiamo il seguente comunicato editoriale] E' disponibile il volume di Emiliano Sbaraglia, con prefazione di Marco Revelli, Cento domande a Piero Gobetti. Un'intervista immaginata: scuola, cultura, politica e societa' nel pensiero di un intellettuale del Novecento, Nonluoghi libere edizioni, 2003, pp. 96, euro 8,5, per richieste: tel. 3293123483, fax 1786022881, e-mail: edizioni at nonluoghi.org, sito: www.nonluoghi.it. L'autore e' riuscito a tessere un dialogo accattivante e straordinariamente verosimile con Piero Gobetti, facendo parlare l'intellettuale piemontese attraverso cento brani riportati testualmente con l'indicazione della fonte (spesso articoli apparsi su "La rivoluzione liberale"). "Leggendo Gobetti - scrive Sbaraglia - ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte un giovane uomo che non ha mai temuto per un solo istante nella vita di confondere il proprio ruolo con la virtualita' dell'esistenza, e questa condizione e' come se gli avesse assicurato la continuita' dell'azione, la fermezza dell'impegno, l'incessante partecipazione. Gobetti e' stato inequivocabilmente un avversario straziato dalla dittatura del suo tempo, senza pero' risultarne vittima: le parole attraverso le quali insiste nel comunicarci le sue idee lo testimoniano chiaramente. Pur con la consapevolezza di non poter escludere la possibilita' di cadere nella trappola dei naturali errori di valutazione, ha sempre cercato di non arrendersi di fronte ad alcuna difficolta', sia essa scaturita dalla realta' concreta, sia dalla conflittualita' intima; la ricerca di una propria verita' da relazionare senza trucchi con quella dell'altro, caratterizza il viaggio di questo uomo nelle viscere profonde delle umane contraddizioni, ancora oggi impossibili da comprendere sino in fondo. Mentre scrivo piove fuoco dai cieli di Mesopotamia, terra genitrice della nostra civilta'. Quale distorta involuzione ci ha ridotti a contemplare, rabbiosi ma impotenti, la realizzazione di un'assurdita' tanto grande?". 9. INFORMAZIONE. LA NONA NEWSLETTER DI "MIGRA" [Dalla redazione di "Migra" (per contatti: e-mail: redazione at migranews.net, sito: www.migranews.net) riceviamo e diffondiamo] "Migra" e' realizzata nel contesto del progetto comunitario Equal "L'immagine degli immigrati in Italia". I corrispondenti dell'agenzia sono immigrate e immigrati in una rete che si allarghera' a coprire le principali citta' italiane. Negli ultimi giorni su www.migranews.net in primo piano fra l'altro c'erano: - Strane storie fra Inps, centro-sinistra e "Bossi-Fini" nella cronaca di Saleh Zagholul; - Abiti firmati dai rom? Li ha scovati Anelise Sanchez; - Di altri rom (fra Soros e Jervolino) ragiona Nando Sigona; - Un seminario di scrittori migranti nella cronaca di Helene Paraskeva; - Se la Regione Puglia si muove fra emergenze e disinteresse: un'inchiesta di Taysir Hasan; - Il rapporto 2003 dell'Oim; - Egiziana, milanese, forse palestinese: intervista di Karim Metref a Randa Ghazy, scrittrice sedicenne; - Perche' a Padova gli emigrati occupano le case? Le risposte di Okechukwu Anyadiegwu; - Jawahir Mohamed Assan racconta di Sofia, vittima dell'infibulazione, che regala alla figlia la liberta' di scegliere; - Poco occidentali? Troppo occidentali? Milad Basir si chiede se serva una guida al "buon immigrato"; - Che c'e' di strano su quel bus a Vicenza? Lo scopre Jenny Tessaro; - e molto altro. Nelle diverse sezioni (culture, leggi, societa', speciali) potete trovare articoli, interventi e commenti di Farid Adly, Faustin Akafack, Masturah Alatas, Sabatino Annecchiarico, Okechukwu Anyadiegwu, Hamid Barole, Milad Basir, Saliha Belloumi, Idil Boscia, Rhyma Boussouf, Marcelo Cafaldo, Irida Cami, Alessandra Cecchi, Khalid Chaouki, Vitore Cokaj, Daniela Conti, Ousmane Coulibaly, Rosa Crispim Da Costa, Alvaro Erique Duque, Ziad Elayyan, Udo Clement Enwereuzor, Ubax Cristina Ali Farah, Nicoleta Mirela Filip, Arturo Ghinelli, Taysir Hasan, Jawahir Mohamed Hassan, Mahmoud Kairouan, Nabil Igui, Liana Corina Iosip, Adel Jabbar, Ylli Jasa, Maria De Lourdes Jesus, Monica Lanfranco, Mia Lecomte, David Lifodi, Zouhir Louassini, Pape Diaw Mbaye, Jean Mbundani, Karim Metref, Viorica Nechifor, Paul Bakolo Ngoi, Jamal Ouzine, Salvatore Palidda, Helene Paraskeva, Silvina Perez, Franco Pittau, Rosa Juarez Ramirez, Annamaria Rivera, Anelise Sanchez, Brunetto Salvarani, Alex Moustapha Sarr, Romana Sansa, Igiaba Scego, Vesna Scepanovic, Nando Sigona, Jenny Tessaro, Jan Carlos Torres, Aluisi Tosolini, Fulvio Vassallo, Paula Baudet Vivanco, Emmanuel Zagbla, Saleh Zaghloul. E poi ancora: l'agenda del mese, il calendario degli eventi, schede sulle comunita' e i paesi d'origine, immagini, statistiche, link utili. Nei prossimi giorni parleremo di legislazioni europee a confronto; torneremo a ragionare di asilo, incontro, naufragi; cercheremo di capire se donne e bambini "migranti" siano in Italia meno uguali; racconteremo cos'e' il progetto Tampep; e molto altro. "Migra" risponde al numero 0639031235; ci siamo dal lunedi' al venerdi' (ore 10-18); la mail e' redazione at migranews.net Ovviamente questo e' anche un invito a collaborare con noi, a mandarci notizie, a metterci nei vostri indirizzari. Pensiamo, durante l'estate, di rivedere tecnicamente il sito e dunque se avete critiche (o lodi) e suggerimenti inviateci un messaggio. Grazie. 10. LETTURE. NOAM CHOMSKY: DOPO L'11 SETTEMBRE Noam Chomsky, Dopo l'11 settembre, Marco Tropea Editore, Milano 2003, pp. 160, euro 9. Una raccolta di recenti interviste e interventi di Chomsky, l'illustre studioso nordamericano, tra le voci piu' vive dell'opposizione alla guerra. 11. LETTURE. ROBERT FISK: NOTIZIE DAL FRONTE Robert Fisk, Notizie dal fronte, Fandango, Roma 2003, pp. 176, euro 15. Una raccolta di articoli dal 1996 al 2003 del prestigioso giornalista inglese che dagli anni '70 segue come cronista presente in loco i piu' gravi conflitti; gli articoli sono disposti in quattro parti: 11 settembre, Iraq, Israele-Palestina, Medioriente. 12. LETTURE. HOWARD ZINN: NON IN NOSTRO NOME Howard Zinn, Non in nostro nome, Il Saggiatore, Milano 2003, pp. 288, euro 15. Howard Zinn, storico, docente universitario, saggista, e' una delle voci piu' influenti del movimento pacifista statunitense. 13. RIEDIZIONI. HERMANN BROCH: LA MORTE DI VIRGILIO Hermann Broch, La morte di Virgilio, Feltrinelli, Milano 1962, 2003, pp. 548, euro 12. Il capolavoro di Broch. 14. RIEDIZIONI. ANNA FREUD: NORMALITA' E PATOLOGIA DEL BAMBINO Anna Freud, Normalita' e patologia del bambino, Feltrinelli, Milano 1969, 2003, pp. 230, euro 8,50. Opportunamente ristampato in edizione economica questo classico della psicoanalisi infantile. 15. RILETTURE. MICHEL FOUCAULT: TACCUINO PERSIANO Michel Foucault, Taccuino persiano, Guerini e associati, Milano 1998, pp. 130, lire 20.000. I reportages e gli interventi di Foucault sulla e nella rivoluzione iraniana nel 1978-'79. Arricchiscono il volume ampi saggi di Renzo Guolo e Pierluigi Panza. 16. RILETTURE. ARMANDA GUIDUCCI: DONNA E SERVA Armanda Guiducci, Donna e serva, Rizzoli, Milano 1983, pp. 294, lire 15.000. "Ogni giorno milioni di donne, in milioni di cucine, si chinano sui gesti del cibo: un gigantesco spettacolo di solitudine, in cui per molte (per le piu') si esaurisce il tempo - e il senso - dell'esistenza. Come e' nato il mito del lavoro femminile familiare? Fino a che punto svuota e avvilisce, con la sua monotonia e con l'isolamento che gli e' proprio, l'interiorita' femminile? Come infine comincia a incrinarsi nella societa' occidentale la concezione del lavoro subalterno all'uomo entro la famiglia?" (dalla quarta di copertina). 17. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 18. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 608 dell'11 luglio 2003
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