La nonviolenza e' in cammino. 580



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 580 del 13 giugno 2003

Sommario di questo numero:
1. Giobbe Santabarbara: due si' ai referendum
2. Maria Grazia Campari: la cittadinanza, l'Europa, le donne
3. Ida Dominijanni: Hannah Arendt tra Europa e Stati Uniti
4. Ettore Masina: Brasile di ieri e di oggi
5. Il catalogo per argomenti 2003 della Claudiana editrice
6. Letture: Robin Norwood, Donne che amano troppo
7. Riedizioni: Sebastiano Timpanaro, Il lapsus freudiano
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: DUE SI' AI REFERENDUM
Esprimo un'opinione personale, e come spesso mi succede, un'opinione
consapevole della sua parzialita', dell'esistenza di serie ragioni sia a
favore che contro di essa. E l'opinione che esprimo e' che ai prossimi
referendum votero' si', e votero' si' in una sorta di stato di necessita'.
Condivido molte obiezioni di metodo e di merito; talune grossolane menzogne,
profonde ipocrisie ed irrazionalita' patenti della piu' urlata e meno
meditata propaganda per il "si'" mi turbano ed irritano indicibilmente. Come
mi turbano ed irritano indicibilmente tutti gli slogan autoritari e
imbroglioni (e tutti gli atteggiamenti "senza se e senza ma" con relativo
sbatter di tacchi; e tutte le chiamate in piazza d'armi; e le evoluzioni in
ordine chiuso di tutti gli stenterelli che si reputano machiavelli e non si
accorgono di rinforzare col loro speculare atteggiarsi i fascisti al
potere).
E tuttavia votero' si'. Perche', per poco che valga, la mia opinione e' che
tra il forte e il debole, tra l'oppressore e l'oppresso, tra la classe di
chi sfrutta e aliena e ammala altrui e la classe di chi sfruttamento ed
alienazione e male subisce, non si puo' avere esitazione su quale sia la
parte giusta.
So che il referendum sugli elettrodotti ha un'incidenza limitata e neppur
nitida, ma per quel poco che esso vale in difesa dell'ambiente e del diritto
alla salute e delle generazioni future, merita chiaro un sostegno.
So che il referendum cosiddetto per l'estensione dell'articolo 18 alle
piccole imprese e' largamente inefficace nel difendere i lavoratori
dipendenti dalle forme vecchie e nuove di arbitrio ed abuso e ricatto, ma
per quel poco che esso vale in difesa del diritto a non essere calpestato da
chi sovrasta, merita persuaso un sostegno.
Votero' dunque si'. Continuando a dubitare.
Non amo questo frequente ricorso ai referendum, istituto giuridico cosi'
rilevante e delicato che dovrebbe essere adito con estrema parsimonia e
profondo rispetto: l'abuso di essi ha avuto un ruolo rilevante nel favorire
derive plebiscitarie, illegalitarie, di abbrutimento di massa; nel
promuovere una visione della politica che ritengo fortemente antidemocratica
e manifestamente incivile; nel mutilare la partecipazione collettiva alla
cosa pubblica e nel degradare la pubblica discussione a forme fittizie,
balbuzienti, manipolate, quelle forme il cui trionfo ha ridotto anche il
nostro paese alla merce' dei demagoghi di turno: i demagoghi razzisti,
eversori, corrotti e criminali che siedono oggi al governo. Molte sono le
cose che non apprezzo e su cui sono piu' che perplesso, contrariato; ma
andro' a votare, a votare si'.

2. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA CAMPARI: LA CITTADINANZA, L'EUROPA, LE DONNE
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net). Maria Grazia Campari
e' una prestigiosa giurista e intellettuale femminista]
L'idea moderna di "cittadinanza" include, in linea di principio, tutti i
membri della collettivita' senza distinzione di razza, sesso, religione,
condizioni sociali, scelte politiche, propensioni sessuali e quant'altro.
La collettivita' dei cittadini si regge con proprie leggi che formano
l'ordine giuridico condiviso, essa afferma l'eguale condivisione
dell'attivita' e dei poteri fra tutti i suoi componenti. Chi ne e' escluso,
pertanto, non ha la possibilita' di autorappresentarsi come cittadino. Non
e' soggetto di cittadinanza poiche' il godimento di uguali diritti passivi
(come quello di votare) sfiora il problema, eludendo l'essenziale che e'
costituito dalla partecipazione integrale attiva agli affari pubblici.
Vi sono regole nella vita sociale che riguardano tutti, quindi fondamentale
garanzia di liberta' e' la partecipazione alla elaborazione di quelle
regole.
Partecipare alla creazione e alla gestione delle regole che presiedono al
vivere associato, produrre "autonomia", sottrarsi all'"eteronomia" della
regola prodotta dall'altro sulla sua misura considerata come unica, consente
di riconoscere in queste regole (almeno parzialmente) una propria
riflessione, quindi darvi un'adesione almeno parziale (I. Young). La
democratizzazione delle istituzioni e' l'esito di procedure di allargamento
nella discussione e nella decisione collettiva circa i fini e i mezzi che
una societa' si propone. Essa, quindi, suppone la riorganizzazione delle
regole che attengono al processo decisionale (R. Dworkin).
Abbiamo spesso riflettuto sulla grande distanza che separa la maggior parte
delle donne dai luoghi del potere politico/economico e dalle istituzioni
definite rappresentative. Abbiamo individuato nella situazione un deficit di
democrazia e anche un pericolo grave e ricorrente di erosione di uno stato
minimo di "cittadinanza", intesa, appunto, come possibilita' di
partecipazione a pieno titolo ai processi decisionali che investono i
soggetti della polis.
La situazione attuale manifesta, purtroppo, assetti assai lontani da quelli
ritenuti desiderabili.
Nelle societa' contemporanee constatiamo l'esistenza di una piramide
gerarchica patriarcale/mercantile che produce disparita' nel diritto di
cittadinanza e alimenta situazioni di monopolio maschile del discorso,
dell'economia, della politica. Tutto il contrario di una (auspicabile)
politica relazionale che, valorizzando le soggettivita', contrasti, in forma
collettiva, le tensioni del mercato verso la mercificazione degli esseri
umani.
*
Sottoponiamo la questione ad un esame piu' preciso, riferito al progredito
mondo occidentale.
Occorre partire quantomeno dal 1995 e dai punti fermi acquisiti nella
Conferenza Onu di Pechino.
Da allora, i governi di molti Paesi hanno ripetutamente dichiarato di
considerare fondamentale (non fosse altro, come atto di giustizia) la
presenza delle donne nei luoghi sociali e nelle istituzioni della politica
rappresentativa.
Si sono susseguiti impegni dell'Unione Europea nella dichiarazione
conclusiva della stessa Conferenza, la Carta di Roma del maggio 1996, la
Raccomandazione del Consiglio dell'Unione del dicembre 1996, le proposte di
parlamentari (soprattutto francesi) della precedente legislatura tendenti a
ridefinire la Carta d'Europa con un preambolo impegnativo rispetto alla
paritaria partecipazione di donne e uomini alle istituzioni e agli organismi
politici.
Propositi non mantenuti e silenziosamente fatti slittare in un vetusto e
inefficace orizzonte di quote. Mentre si trattava, all'evidenza, della
rimozione di un interdetto penalizzante, fastidioso, nella sua iniquita' per
tutti, anche per le donne che non sono direttamente interessate ad una
presenza nei luoghi istituzionali della politica, preferendo intervenire in
ambiti diversi della societa' civile.
Agli inizi del nuovo millennio, si e' ancora costrette a registrare
l'esclusione delle donne dalla scena politica istituzionale e dall'esercizio
effettivo della cittadinanza (intesa nel senso gia' detto di creazione delle
regole del vivere associato).
A questo disconoscimento la Carta Europea approvata a Nizza da' un apporto
significativo nel preambolo e nel capitolo sulla cittadinanza. Manifesta,
infatti, la totale mancanza (appunto nel preambolo e nel capo V) di una
ridefinizione della "cittadinanza europea" come "cittadinanza
plurisoggettiva".
Le donne, la meta' del genere umano, risultano, invece, collocate
nell'elenco degli svantaggiati da tutelare rispetto alle discriminazioni,
previsione priva di senso e dimostratasi storicamente inefficace anche
rispetto ai suoi limitati obiettivi.
*
Oggi la speranza (infondata?) sarebbe che la Costituzione Europea in fase di
avanzata elaborazione potesse superare simbolicamente, negli enunciati
formali, le contraddizioni di Costituzioni precedenti, imperniate sulla
misura unica del soggetto maschile.
A questo proposito, il riferimento obbligato e', in Italia, agli articoli 2,
3 e 29 della nostra Costituzione.
Nei suoi enunciati la pari dignita' sociale e l'uguaglianza dei cittadini
singoli e/o associati nelle forme da loro liberamente determinate (artt. 2 e
3) incontra un ostacolo palese nell'art. 29 che norma l'istituto della
famiglia definendola come pilastro del vivere associato ed esplicitamente
determinando che l'uguaglianza morale e giuridica fra i soggetti dei due
sessi (i coniugi) possa essere limitata in favore dell'istituto famigliare.
La preminenza e' attribuita non alle persone, ma ad una istituzione privata
formalizzata, tanto che le donne appaiono detenere un certo numero di
diritti piuttosto in base al loro statuto famigliare che non in base alla
loro qualita' di individui.
L'espressione (pudica) in realta' definisce il sesso (maschile) di chi
detiene la decisione ultima, quindi il titolo a rappresentare i componenti
di questo nucleo basilare nella comunicazione verso il sociale.
La misura dell'uguaglianza affermata nel patto sociale costituente (concluso
fra uomini anche per conto delle donne) appare tutta pensata sul metro
maschile: ne e' spia significativa il fatto che per le donne essa non e'
incondizionata, ma, appunto, condizionata dall'appartenenza all'istituzione
sociale cardine, la famiglia.
Tuttavia, i diritti fondamentali non possono essere condizionati: o sono
incondizionati oppure non sono. Appare allora, come nell'ordinamento
giuridico vigente in Italia l'uguaglianza fra i soggetti dei due sessi e la
rappresentanza plurima non siano date, neppure in linea di enunciazione
formale.
Come le femministe hanno ben chiarito, il personale e il politico si tengono
inscindibilmente. Esiste, cioe', un nesso di interdipendenza, una relazione
di circolarita' fra i due poli in cui si gioca la vita di ognuno, il privato
e il pubblico. Mi sembra, allora, che la ricaduta sia questa:
l'unita'/unicita' che e' garantita verso il sociale dall'istituzione
famigliare nella nostra Costituzione nazionale, significa appartenenza delle
donne ad una aggregazione che vede come delegato permanente il solo soggetto
maschile.
Questo dato e', a mio parere, importante per comprendere l'asimmetria
sessista in campo politico: un ostacolo, una ineffettivita' della
rappresentanza per il genere femminile. Dall'unicita' del soggetto delegato
alla comunicazione nel sociale, dalla dignita' costituzionale attribuita ad
una istituzione monocratica esplicitamente esclusa dalla dichiarazione di
uguaglianza, consegue una ricaduta sui diritti di cittadinanza che sono, fra
donne e uomini, palesemente asimmetrici e, per le donne, incompiuti.
*
La progettata costituzione Europea mostra, a sua volta, parecchi punti
critici.
L'art. 6 che tratta il tema della "discriminazione", appare estremamente
riduttivo e dovrebbe quantomeno recepire i contenuti dell'art. 21 della
Carta varata a Nizza. L'art. 7 che tratta della "cittadinanza" mostra
anch'esso parecchi limiti e potrebbe essere integrato dalla seguente
previsione: "Ogni persona residente da almeno cinque anni nel territorio
dell'Unione ne acquista la cittadinanza, conseguendo diritto di voto e
eleggibilita'. Ogni persona residente nel territorio dell'Unione ha diritto
di cercare lavoro, di lavorare, di prestare servizio e di stabilirsi in
qualunque Stato membro alle stesse condizioni dei cittadini di quello Stato.
Qualsiasi persona residente nell'Unione gode nel territorio di un Paese
terzo nel quale lo Stato membro di sua residenza non sia rappresentato,
della tutela delle autorita' diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato
membro dell'Unione alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato".
Inoltre, l'art. 33 sul principio di "uguaglianza democratica" dovrebbe
prevedere che: "L'Unione riconosce il diritto fondamentale all'uguaglianza
di statuto della donna e dell'uomo in tutte le sfere della vita politica e
sociale. Le autorita' pubbliche dell'Unione hanno l'obbligo di adottare
misure speciali miranti ad accelerare la partecipazione paritaria delle
donne e degli uomini alle istituzioni e agli organismi politici. Tutti i
cittadini dell'Unione partecipano paritariamente alla vita politica".
Questi concetti hanno fatto parte del dibattito parlamentare nella
legislatura precedente all'attuale, sono stati recentemente riproposti in
forma di emendamenti della Carta da parte di organizzazioni europee di donne
(tra esse l'associazione di giuriste Ewla) e ritornano nella dichiarazione
di Atene (31 marzo 2003) della rete di Commissioni parlamentari per
l'uguaglianza di opportunita' fra donne e uomini nell'Unione Europea.
*
Il pensiero sottostante e' sempre quello.
Non pare lecito parlare di democrazia e di diritti universali finche'
l'universalismo si incentra sull'"uno" ed esclude l'"altra". Questo tipo di
universalismo escludente crea strutture piramidali e periferie di umanita',
che sono la negazione della cittadinanza e dei diritti condivisi.
E' un ossimoro. Afferma diritti universali, ma nell'affermarli li nega
poiche' li modella sulla sola misura del cittadino maschio
europeo/occidentale.
Come molte, resto convinta che ai margini delle istituzioni sia possibile
creare nuovi spazi che le regole istituzionali non avevano previsto. Che un
nuovo ordine possa essere creato consumando e riarticolando il vecchio.
Un esempio per me significativo.
In alcuni casi, i movimenti dei migranti che, raggiunta l'Europa, hanno
sentito sopra di se' l'oppressione dell'imperialismo culturale sono riusciti
a politicizzare la cultura, attaccando gli stereotipi e le regole tendenti
alla loro assimilazione. Hanno cosi' affermato la positivita' della loro
esperienza e dei loro valori, rifiutando la pura omologazione ai valori
dominanti. Hanno contribuito a smascherare quel tipo di oppressione che
consiste nel vedere come deviante chi e' diverso.
Questi movimenti politici possono contribuire a modificare istituzioni e
pratiche prima accettate acriticamente, e provocare un dibattito su come
riorganizzarle. Possono concorrere alla costruzione di una "democrazia
plurale" che si avvantaggia di percorsi, pensieri, relazioni che trovano
radici e possibilita' di crescita in diverse esperienze di vita.
Un altro nodo di questa rete.
Sulla linea della frattura dell'esistente si colloca anche il pensiero e la
pratica politica di donne, consapevoli di essere attualmente "l'altro della
cittadinanza", quindi agente primario della modificazione dell'ordine che le
confina nel privato, al servizio della famiglia, imponendo la pervasivita'
del controllo sociale sul loro corpo/mente, la negazione dello spazio
pubblico.
Questo ordine che divide il mondo in privilegiati ed esclusi va
scompigliato, modificato in profondita'. In questo ordine occorre provocare
disordine. Attraverso il disordine dell'esistente si puo' tentare di
produrre un ordine che preveda la connessione fra diversi che si mantengono
tali e che dalla diversita' interloquiscano, procedendo attraverso
successive e piu' avanzate mediazioni, invece di inglobare/colonizzare
l'altro da se' in una fusionalita' omologante che lo nega e lo distrugge.
Quindi, per gli spiriti critici e in particolare per le donne e' tempo di
affermare la necessita' di dismettere l'adesione subalterna all'ordine dato,
che provoca catastrofi alla comune umanita'.
E' tempo di far venire al mondo un soggetto politico complesso che tenti la
creazione di un ordine nuovo capace di riconoscere e mettere
costruttivamente all'opera le differenze attraverso metodi che favoriscano
l'azione di uno sguardo molteplice sull'esistente per uno sviluppo
autocritico della societa'. Un esito che e', a mio parere, interesse e
responsabilita' delle femministe.

3. RIFLESSIONE: IDA DOMINIJANNI: HANNAH ARENDT TRA EUROPA E STATI UNITI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 giugno 2003. Ida Dominijanni (per
contatti: idomini at ilmanifesto.it) e' una prestigiosa intellettuale
femminista. Hannah Arendt (Hannover 1906 - New York 1975) e' stata una delle
piu' grandi pensatrici del Novecento]
Mai forse come in questi giorni e' apparso chiaro, tanto dai fatti politici
quanto dal dibattito culturale (compreso quello avviato sabato scorso da
Habermas e Derrida sui principali quotidiani europei), che parlare della
costruzione europea significa parlare anche, se non soprattutto, dei
rapporti fra Europa e Stati Uniti, in un momento di massima frattura
politica fra Europa continentale e asse angloamericano e di massima tensione
culturale fra un risorgente antiamericanismo in Europa e un nuovo
antieuropeismo negli Stati Uniti.
La questione e' complicata e molto ambivalente, perche' se e' facile
pronunciarsi contro i progetti di una Unione debole e subalterna al modello
americano e a favore di una Unione forte, autonoma, aperta, radicata nella
sua migliore tradizione storica e nel suo costituzionalismo novecentesco,
capace di opporsi programmaticamente alla visione del mondo unipolare
dell'attuale leadership politica americana, e' molto piu' difficile tutelare
questo progetto dai rischi di chiusura in una nuova logica di potenza che
pure corre (specularmente a quanto accade dall'altra parte dell'Atlantico),
e soprattutto decifrare il complesso gioco di specchi che governa lo scambio
fra immaginario europeo sull'America e immaginario americano sull'Europa. Un
gioco peraltro antico, in cui gli stessi pregiudizi e fantasmi ritornano,
ma, come sempre accade, in un contesto storico cosi' mutato da farli mutare
a loro volta di segno.
Un buon esercizio per orientarsi in questo gioco di specchi, ma anche per
dare profondita' storica a certi aspetti dell'accidentata costruzione
europea, e' la lettura di alcuni scritti di Hannah Arendt sui rapporti fra
Europa e Usa, ripubblicati recentemente nel secondo volume dell'Archivio
Arendt (Feltrinelli) che la curatrice Simona Forti presenta giustamente come
una raccolta esemplare della capacita' di interpretazione del presente della
filosofa tedesca. Sono scritti degli anni Cinquanta, informati da un
contesto assai diverso da quello di oggi - il dopoguerra, il legame di ferro
fra Europa e Stati Uniti stretto attorno alla liberazione dal fascismo e dal
nazismo, il maccartismo, il primo nucleo del progetto europeo - ma proprio
per questo molto interessanti per un confronto con l'oggi. Anche in quel
contesto infatti il gioco di specchi dell'immaginario fra le due sponde
dell'Atlantico era all'opera, giacche', scrive Arendt, si tratta di un gioco
costitutivo della storia materiale dei rapporti fra il Vecchio e il Nuovo
continente: "senza una qualche immagine dell'America, nessun navigatore
europeo avrebbe mai attraversato l'oceano". E' il sogno del mondo nuovo che
crea dunque il nuovo mondo, investendolo di aspettative di liberta' e
progresso che, una volta istituzionalizzate nella nascita degli States,
inevitabilmente si rovesciano in delusione. Il sogno si alterna da allora
all'incubo, e nell'immaginario europeo l'America diventa, piu' che la meta
da raggiungere, un futuro preoccupante da cui distanziarsi: quello che
l'Europa deve attendersi dalla modernita' nei suoi esiti peggiori.
L'America, osserva Arendt, ci mette ovviamente del suo: il suo isolazionismo
e la sua smodata ricchezza non fanno che alimentare la sua mitologia
negativa. Piu' cauto e' invece il parere della filosofa su altri punti
attorno a cui si annodano le diffidenze degli europei per gli americani e
viceversa. La questione dell'atomica ad esempio, perche' se e' vero che
furono gli americani a sganciarla non va dimenticato che furono gli
scienziati europei emigrati in America per sfuggire al totalitarismo a
inventarla. Oppure lo scambio di reciproche accuse sul conformismo (e i suoi
correlati, compreso il maccartismo) come connotato della societa' di massa
americana e sul totalitarismo come peccato originale della politica europea,
due marchi d'infamia che ciascuna sponda attribuisce all'altra, convinta che
"qui non potrebbe succedere". E invece potrebbe, scrive Arendt, perche' "in
verita' tutto cio' che accade in Europa puo' accadere anche in America, e
viceversa, perche' a prescindere dalle differenze la storia dei due
continenti e' fondamentalmente la stessa".
Tanto convinta e' Arendt che lo sia, che di fronte ai primi progetti di
unificazione dell'Europa, attraversati a suo parere da un antiamericanismo
che rischiava di fare da collante di "un nuovo nazionalismo paneuropeo", non
puo' fare a meno di domandarsi: "Americanismo ed europeismo, due ideologie
che si affrontano, si combattono e soprattutto si assomigliano come tutte le
ideologie apparentemente contrapposte: che sia questo il pericolo cui stiamo
andando incontro?". Siamo, ripeto, negli anni '50, quando il progetto
europeo non doveva confrontarsi come oggi con un neonazionalismo unilaterale
americano che teorizza e pratica le guerre preventive e distrugge in pochi
mesi il diritto internazionale costruito in mezzo secolo; e c'e' da
immaginare che in un contesto come questo Arendt cambierebbe molti suoi
giudizi, compresi quelli - simili ad alcune voci del realismo americano di
oggi - che sembrano aspettare il pacifismo europeo al varco di una politica
estera e di difesa da grande potenza. Come pure cambierebbero alcuni suoi
giudizi sull'antiamericanismo degli europei, in presenza dell'antieuropeismo
emerso negli ultimi mesi nel dibattito e nel senso comune americano. Ma
fatte le debite differenze di tempo e di contesto, resta comunque prezioso
il suo richiamo a guardare non solo alle cruciali differenze che dividono le
due rive dell'Atlantico ma anche alle segrete simmetrie che le legano.

4. RIFLESSIONE. ETTORE MASINA: BRASILE DI IERI E DI OGGI
[Ringraziamo Ettore Masina (per contatti: ettore.mas at libero.it) per averci
messo a disposizione il testo della sua relazione al convegno sul Brasile
tenutosi a Chiasso, in Svizzera, l'8 giugno con la partecipazione anche del
grande romanziere Joao Ubaldo Ribeiro, di dom Tomas Balduino, fondatore e
presidente della Commissione pastorale della terra, di Vilson Santin, uno
dei portavoce del Movimento dei Senza Terra (le loro relazioni possono
essere richieste alla segreteria organizzativa dell'incontro, e-mail:
marco.galli at chiasso.ch). Ettore Masina, come e' noto, e' una delle persone
piu' nitidamente ed alacremente impegnate per la pace e i diritti umani]
Quasi esattamente  trent'anni fa, il 7 maggio 1973, in uno dei periodi piu'
duri della dittatura militare brasiliana, mentre si compivano su scala
continentale le atrocita' di cui parlava "Sergente Getulio", lo stupendo
libro nordestino del nostro maestro, qui, Joao Ubaldo Ribeiro, in quel
terribile  anno  di lacrime e di sangue, con le camere di tortura affollate
giorno e notte, e leggi repressive emanate in segreto per cui nessuno sapeva
piu' se aveva il diritto di respirare, un gruppo di vescovi pubblicava un
fascicolo che era un'aperta sfida al regime.
Era intitolato "Un popolo emarginato", sottotitolo: "Il grido delle Chiese
brasiliane del Centro Ovest". Quelle pagine contenevano un'implacabile
descrizione  della miseria e della mancanza dei diritti piu' elementari di
cui soffriva la quasi totalita' dei brasiliani. Vi si citavano statistiche e
avvenimenti storici ma, quasi a sottolineare il punto di vista da cui la
situazione veniva esaminata, il documento cominciava con le parole di un
campesino: "Noi che viviamo la vita del contadino e abbiamo soltanto le
braccia per vivere, sappiamo che la storia del nostro mondo somiglia a
quella dei fiumi: il pesce grande mangia il pesce piccolo. I cosiddetti
grandi non vogliono  soltanto il nostro lavoro. Essi vogliono anche il
nostro sangue. Per questo siamo destinati alla morte".
Da quelle pagine partiva non soltanto una denuncia ma anche un impegno. Dopo
avere dimostrato le capacita' mortifere del capitalismo,  la sua proprieta'
intrinseca di rendere sempre piu' ricchi i ricchi e sempre piu' emarginati i
poveri, l'opuscolo terminava con queste parole: "Ma ci sono altri che si
uniscono al popolo emarginato, ascoltano il suo grido e accolgono il suo
richiamo, credendo che un mondo nuovo e' possibile, e anzi e' necessario.
Quelli, siamo noi".
Cosi' coraggioso risultava il documento che un certo cardinale Scherer,
arcivescovo di Porto Alegre, subito denunziava i suoi confratelli come
marxisti, esponendoli alle persecuzioni  della polizia. Ma a decine e decine
di migliaia  di brasiliani, cattolici e no, quel grido appariva come
evangelo da vivere nella storia. Forse comincia da documenti come questo la
teologia della liberazione, certo comincia un modo nuovo di essere cristiani
in Brasile.
*
Ho voluto citare quel documento per quattro ragioni fondamentali.
La prima e' che uno dei sette i vescovi che lo firmarono ("bispos
vermelhos",  vescovi rossi, li defini' da allora la stampa di regime) si
chiamava - e si chiama - dom Tomas Balduino ed e' qui, fra noi.
La seconda ragione, per mostrare come il grido che oggi leviamo non solo
proprio a Porto Alegre ma sotto tutti i cieli della Terra, in tutte le
lingue ma, giustamente, soprattutto in brasiliano, "Outro mundo e'
possivel", scaturisce non soltanto dalla fantasia dei poeti o dalla
razionalita' dei politici ma, anche e primariamente, dal lungo grido delle
vittime della lotta di classe sferrata dai ricchi: insomma dai servi della
gleba, dai "dannati della Terra".
La terza ragione: per mostrare come, nei tempi piu' duri e bui della vicenda
umana, gli uomini e le donne di buona volonta' sappiano sognare e gridare
parole che smuovono la storia.
La quarta ragione, infine, e' per sottolineare che, al contrario di quanto
lasciato credere da certi mass-media, l'elezione di Lula, la conquista del
governo da parte delle forze popolari, non e' un'improvvisa esplosione
rivoluzionaria, e' l'approdo di una lunga marcia che ha lasciato dietro di
se' il  sangue di migliaia di militanti, e che e' stata segnata da
indicibili sofferenze.
Come ha detto l'anno scorso a Porto Alegre la scrittrice indiana Arundhati
Roy, se vogliamo resistere all'offensiva ideologica del neoliberismo,
"dobbiamo affilare la nostra memoria", ricordare, cioe', da quali lotte
veniamo, con quali sacrifici noi e soprattutto i nostri padri abbiamo
conquistato i diritti della democrazia. Perche' e' la memoria che ci
certifica che e' possibile vincere i Moloch dell'ingiustizia e ci avverte
dei nemici, quelli di fuori e quelli che ci portiamo dentro.
*
Joao Ubaldo vi ha illustrato, da quel grande poeta che e', il suo
paese-continente, guardandolo con la tenerezza di chi gli appartiene. Io ho
l'onore - di cui ringrazio "Festestate" - di essere oggi l'unico
non-brasiliano a parlare, qui, del Brasile, e quindi a farlo, per cosi'
dire, "dall'esterno".
Dico subito che cerchero' di darvi notizie e statistiche ma che saro'
profondamente fazioso. Io, infatti, sono innamorato del Brasile: non
soltanto di quello del turismo, tutto splendide mulatte, samba e spiagge
bianchissime, ma anche, e assai piu', di quello che i casi della vita e
alcune scelte personali (o meglio: di coppia, con la mia Clotilde) mi hanno
consentito di conoscere e che porto nel cuore.
*
Innanzitutto quello brasiliano mi pare un popolo di straordinario valore
antropologico. I 175 milioni di brasiliani costituiscono il quinto popolo
piu' numeroso del mondo. Ma nessuno dei quattro popoli che lo precedono
nella graduatoria (quello cinese, quello della Federazione Russa, quello
degli Stati Uniti e quello indonesiano) sono stati altrettanto - come
dire? - plasmati da una storia affascinante, terribile e gloriosa.
Sugli autoctoni piomba nel 1500 l'onda omicida degli invasori portoghesi e
poi olandesi; milioni di schiavi angolani e yoruba vi giungono in catene
dall'Africa, e poi arrivano gli emigranti italiani e quelli tedeschi, i
libanesi e i giapponesi: uno straordinario melting pot, il quale,
generazione dopo generazione, continua a produrre linguaggi, volti, culture,
espressioni artistiche di un'infinita varieta'.
E in questa varieta', tuttavia, sia il "testa-tonda" nordestino che la
mulatta di Salvador che il campesino del Sud, il quale usa ancora, come
Leonardo  Boff e i suoi fratelli, l'antico dialetto veneto, si sentono figli
dello stesso paese; e se nelle favelas la nascita di un bambino di
carnagione bianca e' fonte di generali congratulazioni ai genitori, questo,
tuttavia, non elimina il fatto che ormai, lo vogliano o no, in grandissima
maggioranza, in quasi totalita', i brasiliani per grazia di Dio sono un
popolo di meticci, e quello che in botanica si definisce un ibrido
lussureggiante. E una solidissima infrangibile isola lusitanofona nel grande
mare dell'America di lingua castigliana.
*
Il Brasile e' anche, forse soprattutto e' stato, un quasi incredibile
laboratorio teologico; o, si potrebbe dire, un immenso caleidoscopio di
luci, di colori, di ombre, di sangue.
I conquistadores del XVI secolo si portano dietro i loro cappellani, pronti
a battezzare gli schiavi non appena i fazendeiros li hanno marchiati a
fuoco; approdano, condannati alla deportazione dalla Santa Inquisizione
portoghese, meno sanguinaria di quella spagnola, eretici o supposti tali,
streghe e stregoni che si legano o si scontrano con gli sciamani aborigeni;
poi arrivano i gesuiti che creano le reducciones, i grandi villaggi
clandestini per la salvezza degli indios perseguitati; sbarcano dalle navi
negriere gli uomini piu' belli e le piu' belle donne dell'Africa Nera,
selezionati non soltanto al momento della cattura ma anche da viaggi
crudelissimi che sterminano i meno forti. Questi miseri conservano
gelosamente la loro fede, la travestono con le aureole di santi cattolici, e
altri santi creano dalle leggende.
Nasce il candomble', che e' probabilmente oggi la religione piu' diffusa in
Brasile, accanto e in qualche misura "dentro" quella cattolica.
Gia' nel XVII secolo sono attive, germinate un po' dovunque, confraternite
bianche nere e meticcie; le quali erigono basiliche, sfilano in splendidi
abiti e in solenni liturgie ai margini dell'eterodossia, creano  legami
sociali, possiedono cimiteri in cui avere una tomba e' segno di distinzione
per una famiglia...
I secoli si susseguono e la vicenda continua. Come in tutto il mondo
cattolico, i grandi proprietari terrieri, chiamati coroneis, cioe'
"colonnelli", hanno i loro cappellani e confessori, professionisti della
sistemazione a buon prezzo delle coscienze padronali, mentre nel XIX secolo
l'aristocrazia e l'alta borghesia delle grandi citta' costiere accolgono
dall'Europa lo spiritismo e la massoneria. L'anima religiosa brasiliana
fagocita anche queste, le metabolizza.
Piu' tardi (procedo, ovviamente, a salti) profeti millenaristi infiammano
grandi masse, subito represse dall'esercito; i preti poveri si dividono fra
le spinte di un eroico socialismo e il fascismo populista di Getulio Vargas.
Infine mentre la dittatura militare devasta le liberta', si levano i vescovi
coraggiosi di cui ho gia' detto ma dei quali voglio ricordare almeno qualche
nome: dom Helder Camara, il cardinale Paulo Evaristo Arns, dom Pedro
Casaldaliga. Sorgono, dalla matrice del Concilio e dell'assemblea episcopale
latinoamericana di Medellin, le comunita' di base, chiese dei poveri. I loro
sacerdoti, soprattutto i frati domenicani come Frei Betto, che oggi e' uno
dei piu' vicini collaboratori di Lula, finiscono in carcere, molti vengono,
dalla dittatura o dai fazendeiros, feriti, orrendamente torturati, alcuni
uccisi.
La teologia della liberazione crea nuove consapevolezze, nuovi impegni,
anche politici. Vi si oppongono, dai primi anni '80, la ottusa
"normalizzazione" portata avanti  dal Vaticano, la proliferazione,
sponsorizzata dalla Casa Bianca, delle sette che si definiscono evangeliche
le quali proclamano un Cristo che libera dai peccati, dispensa grazie
terrene ma chiede di guardare soltanto il cielo; infine le tentazioni
mass-mediatico-pentecostali di sacerdoti come un don Rossi che a Sao Paulo
danza e balla davanti a grandi folle mentre celebra la messa; cresce il
potere ecclesiale affidato a movimenti come l'Opus Dei o Comunione e
Liberazione e si sviluppa, non a caso, la marcia trionfale della cosiddetta
"Chiesa di Dio", super-setta proprietaria della seconda, dopo O Globo, rete
televisiva del Brasile. Nonostante queste tentazioni "angelicanti" e
individualiste, un grande "popolo di Dio", protagonista di lotte eroiche,
vede oggi nella vittoria di Lula una tappa del proprio Esodo verso la Terra
promessa della giustizia e della liberta'.
*
Infine. il popolo brasiliano mi pare uno straordinario laboratorio politico.
Qui io ho davvero ben poco da dire perche' dom Tomas Balduino, creatore
della Commissao Pastoral da Terra e Vilson Santin, leader storico del
Movimento dos Sem Terra, sono due protagonisti (vorrei dire: due artisti) di
quella capacita' aggregativa brasiliana che, ben lontana dal sistema
sclerotico e ormai un po' imbarazzante dei partiti tradizionali, produce
tuttavia politica in difesa dei poveri e la sostiene con la pressione di
grandi masse.
Voglio pero' almeno dire che osservare la vita politica del popolo
brasiliano non significa penetrare in un Eden: anche in Brasile le grandi
lobbies inquinano il Parlamento e cercano di addentare spazi nello stesso
governo. Anche in Brasile vi e' un potere mediatico dominante, capace, in
alcuni momenti della sua brutta storia, di "drogare" i telespettatori, di
far eleggere, per esempio, presidente della repubblica, al posto di Lula
(parlo del 1991), un playboy corrotto e di mediocrissima intelligenza come
Fernando Collor de Mello, poi cacciato per malversazione. Anche in Brasile
vi sono potentati e clientele.
Tuttavia sono evidenti alcuni fattori che a me sembrano peculiari di quel
paese. Uno di questi fattori e' la decisione della Chiesa di essere sale e
lievito nella "pasta" della politica (di essere lobby, se vogliamo dirlo nel
piu' volgare dei modi) piuttosto che esplicita presenza politica. Nel
cattolico Brasile non e' mai esistito, se non contingentemente e
regionalmente, un partito moderato che si proclamasse di ispirazione
cristiana.
Ma quella che a me pare la piu' straordinaria caratteristica del laboratorio
politico brasiliano e' il fatto che esso vanifica l'idea del vecchio Marx
per la quale solo il proletariato e' il motore della storia.
Certo, e' vero: a sgretolare la saldezza della dittatura militare furono
soprattutto i grandi scioperi operai paulisti degli anni '80, guidati da
Lula, ma e' vero anche che - in quell'epoca e ancor oggi - una fittissima
rete di aggregazioni di base, esplicitamente o implicitamente politiche  era
ed e' presente nelle favelas o anche, piu' eroicamente, nei cortiços o nelle
zone agricole, persino quelle di straziante poverta', nascendo da gruppi  di
popolazione che l'autore del Capitale non avrebbe esitato a definire di
lumpenproletariat.
*
Credo che indicare questa realta' sia importante perche' va, fra l'altro, a
stroncare il razzismo presente nell'orgoglio europeo nei confronti dei
popoli "altri", soprattutto di quelli dei paesi tropicali o equatoriali.
Questo razzismo, che inconsciamente risiede anche in ambienti che pure
praticano la solidarieta' internazionale e che continua a provocare errori
come quello di credere di poter insegnare ai latino-americani o agli
africani come si puo' essere buoni latino-americani o buoni africani, e'
stato usato anche come arma di dominio da parte degli intellettuali delle
classi alte brasiliane. A Bonifacio Odulfo, uno dei personaggi di "Viva il
popolo brasiliano", Joao Ubaldo fa scrivere sprezzantemente: "Le nazioni
come il Brasile, in cui praticamente esistono soltanto l'inverno e l'estate
e dove impera la stabilita' climatica da gennaio a dicembre, sembrano votate
all'arretratezza e di questo abbondano esempi storici e contemporanei"; e a
questa sua creatura torvamente caricaturale Joao Ubaldo fa poi sproloquiare
un lungo discorso sul caldo che stimola pigrizia e sensualita'.
Arma di classe, ho detto; perche' in Brasile, come in molti altri luoghi
della Terra, il capolavoro culturale delle classi dominanti e' stato quello
di convincere i poveri che essi sono brutti, sporchi, cattivi e inetti. Come
puo' diventare presidente della repubblica un uomo che non porta la cravatta
e non e' laureato, chiedeva la dominante rete televisiva O Globo, facendo la
campagna elettorale a favore di Fernando Collor de Mello e contro Lula. Lula
ha poi messo la cravatta (so quanto gli dia fastidio) ma gli elettori delle
favelas e delle zone agricole non hanno deciso questa volta in base a quel
nastro di stoffa ma a una nuova consapevolezza: l'intima convinzione che,
nonostante il parere degli uomini dei sinedri, anche dalle infinite galilee
della storia puo' venire qualcosa di buono.
*
Dunque, al potere Lula, il retirante, fuggiasco dalla siccita' nordestina,
un misero che se fosse giunto da queste parti qualche buono svizzero tedesco
lo avrebbe subito chiamato cingalo, un tornitore che ha perso un mignolo
sotto una pressa, un uomo che e' stato in carcere come sedizioso e che ha
visto morire la prima moglie per mancanza di cure adeguate.
Un piccolo uomo sapiente come soltanto certi poveri che non si sono arresi
sanno essere, un realista e un pragmatico come ogni buon sindacalista. Un
cattolico fervente ma non un bigotto: ho assistito tanti e tanti anni fa a
un casuale incontro, a Roma, fra lui e Lech Walesa. Lula mostro' il suo
disagio nel vedere un leader operaio che portava sul bavero della giacca
un'immaginetta della Madonna di Czestochowa. Alla fine di un dialogo reso
difficile non soltanto dalla necessita' di tradurre il polacco in italiano e
poi in brasiliano e viceversa, ma anche dall'assoluta ignoranza di Walesa
per la situazione dell'America Latina, il leader polacco dono' a Lula una
sua fotografia. "Come un attore", brontolo' poi Lula.
*
Un uomo cosi' alla guida di uno dei piu' grandi e ricchi paesi del nostro
pianeta.
Piu' che grande, immenso: perche' il Brasile e', per area, il quinto stato
della Terra (dopo la Federazione Russa, il Canada, la Cina e gli Stati Uniti
d'America). E' un vero e proprio subcontinente, che copre, con gli 8 milioni
e mezzo di chilometri quadrati della sua area quasi la meta' dell'America
Latina.
E l'area del Brasile puo' essere considerata anche piu' grande se si pensa
che la sua piattaforma continentale, il suo zoccolo immerso nell'Atlantico
meridionale, insomma le sue propaggini subacquee, hanno un'area di circa 4
milioni di chilometri quadrati, tanti quanto l'Amazzonia; e rappresentano
buona parte del futuro del Brasile perche' si sa che contengono immensi
giacimenti di petrolio e di gas.
E' un paese di gigantesche citta' in cui si accalca l'81% dei brasiliani.
Dieci di queste citta' hanno piu' di 2 milioni di abitanti e sono in
continua crescita. Due (Sao Paulo e Rio) non sono neppure piu' citta', sono
megalopoli, citta'-regioni con rispettivamente 17 e 10 milioni di abitanti.
Belo Horizonte (4 milioni di abitanti) sta anch'essa dilatandosi
enormemente.
Uno dei paesi piu' ricchi del mondo: nelle sue viscere non solo petrolio ma
anche ferro, manganese, bauxite, uranio. La produzione brasiliana di gemme
preziose rappresenta il 90% di quella mondiale. Una fiorente industria
elettronica segna frontiere d'avanguardia. Il prodotto interno lordo ha,
teoricamente, per i brasiliani le stesse potenzialita' di quelle dei
cittadini degli Stati Uniti. E tuttavia...
*
Tuttavia hanno ragione gli intellettuali brasiliani quando dicono che il
loro paese e' meta' Belgio e meta' Somalia.
Per 25 anni il Brasile e' stato il  paese nel mondo con la peggiore
distribuzione del reddito. Adesso la sua situazione e' migliorata: e' sceso
al terzo posto, venendo superato dalla Sierra Leone e dalla Repubblica
Centro-africana...
Tanto per dire: l'1% piu' ricco della popolazione concentra nelle proprie
mani un reddito superiore a quello del 50% piu' povero. Il 10% piu' ricco
della popolazione ha un reddito di 28 volte superiore a quello complessivo
del 40% piu' povero. l'1% dei proprietari terrieri possiede il 43% dei suoli
fertili.
L'Amazzonia e' il polmone verde della Terra, fornisce gratuitamente gran
parte dell'ossigeno che la popolazione mondiale respira ma quel polmone e'
aggredito dal cancro delle multinazionali.
Dal 1999 il Brasile e' il secondo paese nel mondo per numero di disoccupati:
11 milioni e mezzo, soltanto l'immenso subcontinente indiano lo supera in
questo tragico fenomeno. E ancora: sebbene il Brasile sia fra i 10  paesi
piu' sviluppati dal punto di vista dell'industria, esso si situa al
sessantaduesimo posto nell'Indice dello Sviluppo Umano redatto dal
Development Program delle Nazioni Unite, sulla base di parametri che tengono
conto non soltanto del prodotto interno lordo ma anche delle aspettative di
vita e della qualita' della esistenza dei cittadini.
Le famiglie sotto il livello della poverta', cioe' costrette a campare con
meno di 40 dollari al mese, sono 9,3 milioni: piu' o meno 50 milioni di
affamati in un paese che ha le stesse estensioni di terreno fertile della
Cina, paese in cui, com'e' arcinoto, vivono, piu' o meno bene, un miliardo e
300 milioni di persone.
25 milioni di brasiliani sono analfabeti primari; circa 70 milioni
analfabeti di ritorno.
9 milioni di bambini sono praticamente randagi, nelle strade. Molti vi
vivono giorno e notte, sbrigativamente uccisi con tragica frequenza o
trascinati negli orrendi carceri della Febem, l'ente che dovrebbe garantire
la realizzazione di quello statuto Onu dei diritti dei bambini che il
Brasile ha inserito gia' nel 1990 nella propria Costituzione. Almeno un
quarto del bambini fra i 10 e i 14 anni lavora, sottopagato, in mestieri
pesanti e pericolosi. Due citta' brasiliane, Fortaleza e Recife, sono
diventate capitali della pedofilia in America Latina.
Nelle campagne brasiliane, una spietata violenza agraria si abbatte sui
sindacalisti e sugli animatori sociali. Ve ne parleranno, come di tutta la
questione agraria, dom Tomas e Vilson, ma non posso non ricordare almeno che
il 17 aprile 1996 la polizia militare uccise 19 Sem Terra e ne feri' un
centinaio; che dal 1988 al 2002 e' stato documentato l'assassinio di 1.548
campesinos; che nel marzo scorso, nello stato del Para' la polizia ha
liberato 273 lavoratori in stato di schiavitu'; che altri 387 erano stati
liberati nel gennaio predente; che si calcola che gli schiavi (sottolineo:
veri e propri schiavi) siano in Brasile  almeno 25 mila.
*
Questo e' il Brasile "antico" - cioe' ferito da problemi che si potrebbero
definire secolari e sempre vivi - che Lula e' chiamato a trasformare.
Ma anche il Brasile del piu' recente passato sfida le sue capacita' di
governo.
Come dicono alcuni dirigenti dei Sem Terra, Lula ha ricevuto "un'eredita'
perversa" dal suo predecessore, Fernando Henrique Cardoso. Cardoso ha
deregolamentato il mercato, ridotto il protezionismo, privatizzato grandi
comparti industriali e di servizio, svenduto - dicono molti - le ricchezze
brasiliane. Poco prima che Lula salisse al governo una pubblicazione
ufficiale del governo dichiarava: "Il reddito nazionale e' stato indirizzato
con priorita' verso la riduzione del debito. A seguito delle riforme
nell'area del commercio estero, il Brasile e' diventato una delle economie
piu' aperte del mondo". Si', rispondono gli uomini di Lula: e' vero. Ma
tutto questo e' avvenuto con operazioni che hanno provocato una crescita
della poverta' e della disoccupazione e l'aumento della concentrazione delle
ricchezze.
Il carico dello spaventoso debito estero (che oggi si aggira intorno ai 250
miliardi di dollari), contratto dagli uomini della dittatura militare, e'
passato dal 25 al 45% del prodotto interno lordo.
Le multinazionali, favorite da Cardoso, controllano oggi il commercio dei
cereali, le grandi agroindustrie, la ricerca biologica, la produzione di
sementi. Hanno comprato i magazzini di stato mentre il governo si e'
ritirato dall'agricoltura. Bisognera' ricostruire un nuovo modello agricolo
che privilegi la produzione di alimenti, e piu' in generale la produzione
per il mercato interno.
Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, i grandi poteri
egemoni sui paesi che cercano proprie strade per uno sviluppo (o dovrei
dire: un socialismo?) dal volto umano tengono sotto il mirino il governo di
Lula.
Lula e' riuscito  a convincere a votare per lui i militari, solleticandone
il nazionalismo ferito dalle pretese egemoniche del Pentagono; gli
industriali che hanno assistito con rabbia all'acquisto di molti sistemi di
produzione da parte delle multinazionali; i piccoli borghesi spinti
all'ingiu' nella scala sociale dalla mancanza di alloggi, dal costo delle
scuole private (quelle pubbliche essendo poco piu' che enti di carita'), ma
ha dovuto pagare, per questo, prezzi rilevanti: non per niente il
vicepresidente del nuovo Brasile e' Jose' Alencar, grande industriale
tessile, che non si puo' certo definire uomo di sinistra.
Frei Betto non si stanca di ripetere, saggiamente, che il Pt non ha preso il
potere, nonostante che Lula sia stato eletto con quasi 53 milioni di voti,
il suffragio presidenziale di gran lunga piu' alto nella storia elettorale
del Brasile. "Siamo al governo, non al potere", dice Frei Betto, vi sono
poteri altri che condizionano, fortemente, la politica governativa. Riuscire
a tenere la barra, da un lato, fra le attese dei suoi elettori, e,
dall'altro, il sistema neoliberista che cerca di dominare la Terra: Lula e'
chiamato a questo capolavoro politico.
Si puo' dire che sino ad oggi, Lula ha seguito la politica di Cardoso.
Niente di nuovo per la classe lavoratrice, dice Joao Pedro Stedile, leader
dei Sem Terra. Vi sono provvedimenti preoccupanti, dicono alcuni critici,
che pure confermano la loro stima per Lula. Ed elencano: la conferma del
progetto di autonomia della Banca centrale; un progetto di riforma della
previdenza che metterebbe in discussione il sistema integrato di sicurezza
sociale; una restrizione delle spese statali che non ha significato soltanto
il rinvio dell'acquisto di aerei militari, che tanto e' piaciuto a noi del
movimento per la pace, ma anche tagli dolorosi in settori come quello
culturale: il povero Gilberto Gil, grande artista chiamato a reggere il
ministero della Cultura, e' ridotto a organizzare una lotteria televisiva
per raccogliere i fondi necessari alla manutenzione di quel gioiello che e'
l'antica citta' di Ouro Preto. Ancora piu' grave: la linea macroeconomica
imposta sin qui dal ministro delle finanze, Antonio Palocci, e dalla Banca
centrale, e' in tutto e per tutto "cardosiana": altissimi i tassi nominali
di interesse, impegnativo il pagamento del debito estero e non soltanto
degli interessi.
I sindacati e i Sem Terra alzano la voce contro questi provvedimenti, con
solide ragioni. Tuttavia e' giusto dire che non si tratta di  un  tradimento
delle promesse elettorali. E' la prevista "fase uno" del programma di Lula,.
quella della stabilita' economica. E, anche in seguito a questi
provvedimenti, il Pt, che aveva alla Camera soltanto la maggioranza
relativa, adesso puo' contare su 325 voti piu' o meno sicuri sui 513 della
Camera e su 53 senatori su 80 (quelli del Pt sono 14). Al momento solo i due
partiti principali della sconfitta coalizione di Cardoso - il Pmdb e il
Pfl - sono rimasti all'opposizione.
*
I sostenitori del governo, anche i piu' critici, ammettono comunque che Lula
e la sua gente garantiscono solide possibilita' di realizzare una vera
riforma agraria (della questione agraria brasiliana, fatale anche dal punto
di vista simbolico, non parlo, come ho gia' detto, perche' ne avete qui due
perfetti conoscitori in dom Tomas e in Vilson).
Piace anche il proposito di rilanciare il Sudene (un organo di
sovrintendenza per lo sviluppo del Nordeste, il tragico "quadrilatero della
fame").
E' approvata  la campagna Fome Cero, Fame Zero, il primo e principale
progetto di Lula: quello di sradicare per sempre la miseria delle classi
emarginate, guidandole nel contempo alla consapevolezza dei propri diritti e
doveri civici. Non si tratta, infatti, di assistenzialismo: chi ricevera'
gli aiuti dallo Stato dovra' garantire che i figli frequentino le scuole,
che i piu' piccoli vengano sottoposti a periodiche visite mediche, che le
gestanti si facciano controllare dal servizio sanitario, che gli adulti
analfabeti frequentino appositi corsi: un tentativo, si direbbe, di spingere
le masse sin qui emarginate a quella democrazia partecipativa che e' lo
spirito di Porto Alegre. Mi sembra di riudire certe parole del Che Guevara:
"Lottiamo contro la miseria ma anche contro l'alienazione".
*
A meno di possedere una sfera magica, non e' possibile prevedere il futuro.
Un gruppo di intellettuali, di cui fa parte anche dom Tomas, hanno inviato
un appello affettuoso a Lula, invitandolo a limitare lo strapotere della
banca centrale brasiliana e ad opporsi ai passi necessari per la
realizzazione dell'Alca, il trattato di libero scambio per tutta l'America,
dall'Alaska alla Patagonia. (Apro una parentesi: per la verita' la
diplomazia di Lula questi passi  li ha gia' assai rallentati, nella
convinzione che l'Alca avrebbe, come il Nafta, effetti positivi soltanto per
gli Stati Uniti). Dicono i firmatari dell'appello che se lo scontro con i
poteri imperiali richiedesse sacrifici, anche gravi, il popolo brasiliano e'
sufficientemente politicizzato per sopportarli. In altra occasione, pero'
contigua, ho letto che invece per il Movimento dei Sem Terra il popolo
brasiliano ha ancora un troppo basso indice di politicizzazione. Ascoltero'
dunque molto volentieri, in proposito, se vorranno darcelo, il parere
incrociato di dom Tomas e di Vilson.
*
Quello che invece mi pare di poter dire con certezza e' che il Brasile di
Lula, sia per le potenzialita' del paese, sia per il carisma del nuovo
presidente, paragonabile nel mondo d'oggi soltanto a quello di Mandela, e'
destinato a contare enormemente in campo internazionale. Innanzi tutto, in
America Latina. In questo e' favorito dalla sua stessa connotazione
geografica: i suoi immensi confini toccano tutti gli stati del Continente,
esclusi soltanto il Cile e l'Ecuador. La devastante crisi argentina ha
sottratto a Buenos Aires, forse per sempre, una leadership americo-latina
che in altri tempi pareva incontestabile. Nestor Kirchner, il nuovo
inquilino della Casa Rosada, prima ancora che a Washington, va a Brasilia.
Lula ha gia' mostrato di attribuire grande importanza al Mercosur, il
mercato comune che unisce il Brasile all'Argentina, all'Uruguay, al
Paraguay. Con l'aperto appoggio al Venezuela bolivariano di Chavez e alla
Cuba castrista e con le dichiarazioni di condanna della guerra in Iraq il
presidente ha mostrato di non essere disposto agli inchini verso l'Impero
del Nord.
Ma il Brasile, immenso stato di lingua portoghese, e' anche destinato, come
gia' si vede chiaramente, a essere il perno di un blocco delle nazioni di
lingua lusitana: forse non del Portogallo, chiuso nel suo orgoglio di ex
impero, ma certamente del Mozambico, dell'Angola, e forse della Guinea
Bissau. Significa non soltanto un insieme di grandi territori e di 40
milioni di abitanti (dunque ben piu' di 200 milioni di persone considerati
anche i brasiliani) ma una presenza intercontinentale che certamente
qualifichera' il Brasile come candidato per eccellenza a un posto di membro
permanente in un possibile e auspicabile riformato Consiglio di sicurezza
dell'Onu.
Del resto,. gli interventi di Lula a Davos e, pochi giorni fa, a Evian
mostrano  l'evidenza (e certo una possibilita') che proprio il Brasile possa
diventare il capofila di quello che il presidente brasiliano ha definito "un
polo alternativo, capace di interloquire con i poteri forti", senza essere
cortesemente ma ambiguamente invitati alla mensa dei Grandi.
*
Concludo. Senza sciocche illusioni, senza culto della personalita', senza
lirismi, siamo in  molti - e certo anche in questa sala - ad accompagnare
con i nostri auguri e con una rinnovata solidarieta', questo "nuovo"
Brasile.
Mi viene in mente che fra le tante meraviglie di Itaparica, l'isola di Joao
Ubaldo, c'e' una fontana che, dice la leggenda, butta "agua fina que faz
veia virar menina": acqua squisita che trasforma la vecchia in bambina.
E' come se la nostra speranza vissuta contra spem nei tempi duri del Brasile
della dittatura avesse, il primo gennaio dell'anno di grazia 2003, bevuto
una sorsata di quell'acqua: e' diventata una speranza, ancora un po'
incerta, com'e' il cammino di una piccina; ma il futuro e', per l'appunto,
dei bambini.

5. EDITORIA. IL CATALOGO PER ARGOMENTI 2003 DELLA CLAUDIANA EDITRICE
E' disponibile il Catalogo per argomenti 2003 della Claudiana editrice,
l'ottima casa editrice di riferimento della cultura protestante in Italia.
Per richiederlo: Claudiana, via Principe Tommaso 1, 10125 Torino, tel.
0116689804, fax 011657542, e-mail: info at claudiana.it, sito: www.claudiana.it
Fondata a Torino nel 1855, la Claudiana pubblica attualmente una quarantina
di novita' all'anno. Nel suo catalogo opere fondamentali della Riforma e
autori classici del pensiero teologico del Novecento (da Dietrich Bonhoeffer
a Karl Barth, da Paul Tillich a Giovanni Miegge), ma anche eccellenti lavori
storici, rilevanti contributi al dialogo interreligioso e interculturale,
testi che apportano contributi profondi alla riflessione teologica,
filosofica, morale, civile, alla costruzione di una cultura della pace e
della dignita' umana.

6. LETTURE. ROBIN NORWOOD: DONNE CHE AMANO TROPPO
Robin Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, Milano 1989, 2002, pp.
312, euro 7. E' il notissimo libro della notissima psicoterapeuta americana,
che merita di essere letto e  puo' anche essere d'aiuto. Con una prefazione
di Dacia Maraini.

7. RIEDIZIONI. SEBASTIANO TIMPANARO: IL LAPSUS FREUDIANO
Sebastiano Timpanaro, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale,
La Nuova Italia, Firenze 1974, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. XXXVI +
208, euro 22. Di uno dei nostri maestri di rigore intellettuale, morale e
civile, scomparso nel 2000, viene opportunamente ripubblicato questo libro
del 1974; con una ampia e impegnata introduzione di Fabio Stok, e nel testo
alcune correzioni ed integrazioni dell'autore.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 580 del 13 giugno 2003