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La nonviolenza e' in cammino. 580
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 580
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 13 Jun 2003 03:20:01 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 580 del 13 giugno 2003 Sommario di questo numero: 1. Giobbe Santabarbara: due si' ai referendum 2. Maria Grazia Campari: la cittadinanza, l'Europa, le donne 3. Ida Dominijanni: Hannah Arendt tra Europa e Stati Uniti 4. Ettore Masina: Brasile di ieri e di oggi 5. Il catalogo per argomenti 2003 della Claudiana editrice 6. Letture: Robin Norwood, Donne che amano troppo 7. Riedizioni: Sebastiano Timpanaro, Il lapsus freudiano 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: DUE SI' AI REFERENDUM Esprimo un'opinione personale, e come spesso mi succede, un'opinione consapevole della sua parzialita', dell'esistenza di serie ragioni sia a favore che contro di essa. E l'opinione che esprimo e' che ai prossimi referendum votero' si', e votero' si' in una sorta di stato di necessita'. Condivido molte obiezioni di metodo e di merito; talune grossolane menzogne, profonde ipocrisie ed irrazionalita' patenti della piu' urlata e meno meditata propaganda per il "si'" mi turbano ed irritano indicibilmente. Come mi turbano ed irritano indicibilmente tutti gli slogan autoritari e imbroglioni (e tutti gli atteggiamenti "senza se e senza ma" con relativo sbatter di tacchi; e tutte le chiamate in piazza d'armi; e le evoluzioni in ordine chiuso di tutti gli stenterelli che si reputano machiavelli e non si accorgono di rinforzare col loro speculare atteggiarsi i fascisti al potere). E tuttavia votero' si'. Perche', per poco che valga, la mia opinione e' che tra il forte e il debole, tra l'oppressore e l'oppresso, tra la classe di chi sfrutta e aliena e ammala altrui e la classe di chi sfruttamento ed alienazione e male subisce, non si puo' avere esitazione su quale sia la parte giusta. So che il referendum sugli elettrodotti ha un'incidenza limitata e neppur nitida, ma per quel poco che esso vale in difesa dell'ambiente e del diritto alla salute e delle generazioni future, merita chiaro un sostegno. So che il referendum cosiddetto per l'estensione dell'articolo 18 alle piccole imprese e' largamente inefficace nel difendere i lavoratori dipendenti dalle forme vecchie e nuove di arbitrio ed abuso e ricatto, ma per quel poco che esso vale in difesa del diritto a non essere calpestato da chi sovrasta, merita persuaso un sostegno. Votero' dunque si'. Continuando a dubitare. Non amo questo frequente ricorso ai referendum, istituto giuridico cosi' rilevante e delicato che dovrebbe essere adito con estrema parsimonia e profondo rispetto: l'abuso di essi ha avuto un ruolo rilevante nel favorire derive plebiscitarie, illegalitarie, di abbrutimento di massa; nel promuovere una visione della politica che ritengo fortemente antidemocratica e manifestamente incivile; nel mutilare la partecipazione collettiva alla cosa pubblica e nel degradare la pubblica discussione a forme fittizie, balbuzienti, manipolate, quelle forme il cui trionfo ha ridotto anche il nostro paese alla merce' dei demagoghi di turno: i demagoghi razzisti, eversori, corrotti e criminali che siedono oggi al governo. Molte sono le cose che non apprezzo e su cui sono piu' che perplesso, contrariato; ma andro' a votare, a votare si'. 2. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA CAMPARI: LA CITTADINANZA, L'EUROPA, LE DONNE [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net). Maria Grazia Campari e' una prestigiosa giurista e intellettuale femminista] L'idea moderna di "cittadinanza" include, in linea di principio, tutti i membri della collettivita' senza distinzione di razza, sesso, religione, condizioni sociali, scelte politiche, propensioni sessuali e quant'altro. La collettivita' dei cittadini si regge con proprie leggi che formano l'ordine giuridico condiviso, essa afferma l'eguale condivisione dell'attivita' e dei poteri fra tutti i suoi componenti. Chi ne e' escluso, pertanto, non ha la possibilita' di autorappresentarsi come cittadino. Non e' soggetto di cittadinanza poiche' il godimento di uguali diritti passivi (come quello di votare) sfiora il problema, eludendo l'essenziale che e' costituito dalla partecipazione integrale attiva agli affari pubblici. Vi sono regole nella vita sociale che riguardano tutti, quindi fondamentale garanzia di liberta' e' la partecipazione alla elaborazione di quelle regole. Partecipare alla creazione e alla gestione delle regole che presiedono al vivere associato, produrre "autonomia", sottrarsi all'"eteronomia" della regola prodotta dall'altro sulla sua misura considerata come unica, consente di riconoscere in queste regole (almeno parzialmente) una propria riflessione, quindi darvi un'adesione almeno parziale (I. Young). La democratizzazione delle istituzioni e' l'esito di procedure di allargamento nella discussione e nella decisione collettiva circa i fini e i mezzi che una societa' si propone. Essa, quindi, suppone la riorganizzazione delle regole che attengono al processo decisionale (R. Dworkin). Abbiamo spesso riflettuto sulla grande distanza che separa la maggior parte delle donne dai luoghi del potere politico/economico e dalle istituzioni definite rappresentative. Abbiamo individuato nella situazione un deficit di democrazia e anche un pericolo grave e ricorrente di erosione di uno stato minimo di "cittadinanza", intesa, appunto, come possibilita' di partecipazione a pieno titolo ai processi decisionali che investono i soggetti della polis. La situazione attuale manifesta, purtroppo, assetti assai lontani da quelli ritenuti desiderabili. Nelle societa' contemporanee constatiamo l'esistenza di una piramide gerarchica patriarcale/mercantile che produce disparita' nel diritto di cittadinanza e alimenta situazioni di monopolio maschile del discorso, dell'economia, della politica. Tutto il contrario di una (auspicabile) politica relazionale che, valorizzando le soggettivita', contrasti, in forma collettiva, le tensioni del mercato verso la mercificazione degli esseri umani. * Sottoponiamo la questione ad un esame piu' preciso, riferito al progredito mondo occidentale. Occorre partire quantomeno dal 1995 e dai punti fermi acquisiti nella Conferenza Onu di Pechino. Da allora, i governi di molti Paesi hanno ripetutamente dichiarato di considerare fondamentale (non fosse altro, come atto di giustizia) la presenza delle donne nei luoghi sociali e nelle istituzioni della politica rappresentativa. Si sono susseguiti impegni dell'Unione Europea nella dichiarazione conclusiva della stessa Conferenza, la Carta di Roma del maggio 1996, la Raccomandazione del Consiglio dell'Unione del dicembre 1996, le proposte di parlamentari (soprattutto francesi) della precedente legislatura tendenti a ridefinire la Carta d'Europa con un preambolo impegnativo rispetto alla paritaria partecipazione di donne e uomini alle istituzioni e agli organismi politici. Propositi non mantenuti e silenziosamente fatti slittare in un vetusto e inefficace orizzonte di quote. Mentre si trattava, all'evidenza, della rimozione di un interdetto penalizzante, fastidioso, nella sua iniquita' per tutti, anche per le donne che non sono direttamente interessate ad una presenza nei luoghi istituzionali della politica, preferendo intervenire in ambiti diversi della societa' civile. Agli inizi del nuovo millennio, si e' ancora costrette a registrare l'esclusione delle donne dalla scena politica istituzionale e dall'esercizio effettivo della cittadinanza (intesa nel senso gia' detto di creazione delle regole del vivere associato). A questo disconoscimento la Carta Europea approvata a Nizza da' un apporto significativo nel preambolo e nel capitolo sulla cittadinanza. Manifesta, infatti, la totale mancanza (appunto nel preambolo e nel capo V) di una ridefinizione della "cittadinanza europea" come "cittadinanza plurisoggettiva". Le donne, la meta' del genere umano, risultano, invece, collocate nell'elenco degli svantaggiati da tutelare rispetto alle discriminazioni, previsione priva di senso e dimostratasi storicamente inefficace anche rispetto ai suoi limitati obiettivi. * Oggi la speranza (infondata?) sarebbe che la Costituzione Europea in fase di avanzata elaborazione potesse superare simbolicamente, negli enunciati formali, le contraddizioni di Costituzioni precedenti, imperniate sulla misura unica del soggetto maschile. A questo proposito, il riferimento obbligato e', in Italia, agli articoli 2, 3 e 29 della nostra Costituzione. Nei suoi enunciati la pari dignita' sociale e l'uguaglianza dei cittadini singoli e/o associati nelle forme da loro liberamente determinate (artt. 2 e 3) incontra un ostacolo palese nell'art. 29 che norma l'istituto della famiglia definendola come pilastro del vivere associato ed esplicitamente determinando che l'uguaglianza morale e giuridica fra i soggetti dei due sessi (i coniugi) possa essere limitata in favore dell'istituto famigliare. La preminenza e' attribuita non alle persone, ma ad una istituzione privata formalizzata, tanto che le donne appaiono detenere un certo numero di diritti piuttosto in base al loro statuto famigliare che non in base alla loro qualita' di individui. L'espressione (pudica) in realta' definisce il sesso (maschile) di chi detiene la decisione ultima, quindi il titolo a rappresentare i componenti di questo nucleo basilare nella comunicazione verso il sociale. La misura dell'uguaglianza affermata nel patto sociale costituente (concluso fra uomini anche per conto delle donne) appare tutta pensata sul metro maschile: ne e' spia significativa il fatto che per le donne essa non e' incondizionata, ma, appunto, condizionata dall'appartenenza all'istituzione sociale cardine, la famiglia. Tuttavia, i diritti fondamentali non possono essere condizionati: o sono incondizionati oppure non sono. Appare allora, come nell'ordinamento giuridico vigente in Italia l'uguaglianza fra i soggetti dei due sessi e la rappresentanza plurima non siano date, neppure in linea di enunciazione formale. Come le femministe hanno ben chiarito, il personale e il politico si tengono inscindibilmente. Esiste, cioe', un nesso di interdipendenza, una relazione di circolarita' fra i due poli in cui si gioca la vita di ognuno, il privato e il pubblico. Mi sembra, allora, che la ricaduta sia questa: l'unita'/unicita' che e' garantita verso il sociale dall'istituzione famigliare nella nostra Costituzione nazionale, significa appartenenza delle donne ad una aggregazione che vede come delegato permanente il solo soggetto maschile. Questo dato e', a mio parere, importante per comprendere l'asimmetria sessista in campo politico: un ostacolo, una ineffettivita' della rappresentanza per il genere femminile. Dall'unicita' del soggetto delegato alla comunicazione nel sociale, dalla dignita' costituzionale attribuita ad una istituzione monocratica esplicitamente esclusa dalla dichiarazione di uguaglianza, consegue una ricaduta sui diritti di cittadinanza che sono, fra donne e uomini, palesemente asimmetrici e, per le donne, incompiuti. * La progettata costituzione Europea mostra, a sua volta, parecchi punti critici. L'art. 6 che tratta il tema della "discriminazione", appare estremamente riduttivo e dovrebbe quantomeno recepire i contenuti dell'art. 21 della Carta varata a Nizza. L'art. 7 che tratta della "cittadinanza" mostra anch'esso parecchi limiti e potrebbe essere integrato dalla seguente previsione: "Ogni persona residente da almeno cinque anni nel territorio dell'Unione ne acquista la cittadinanza, conseguendo diritto di voto e eleggibilita'. Ogni persona residente nel territorio dell'Unione ha diritto di cercare lavoro, di lavorare, di prestare servizio e di stabilirsi in qualunque Stato membro alle stesse condizioni dei cittadini di quello Stato. Qualsiasi persona residente nell'Unione gode nel territorio di un Paese terzo nel quale lo Stato membro di sua residenza non sia rappresentato, della tutela delle autorita' diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro dell'Unione alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato". Inoltre, l'art. 33 sul principio di "uguaglianza democratica" dovrebbe prevedere che: "L'Unione riconosce il diritto fondamentale all'uguaglianza di statuto della donna e dell'uomo in tutte le sfere della vita politica e sociale. Le autorita' pubbliche dell'Unione hanno l'obbligo di adottare misure speciali miranti ad accelerare la partecipazione paritaria delle donne e degli uomini alle istituzioni e agli organismi politici. Tutti i cittadini dell'Unione partecipano paritariamente alla vita politica". Questi concetti hanno fatto parte del dibattito parlamentare nella legislatura precedente all'attuale, sono stati recentemente riproposti in forma di emendamenti della Carta da parte di organizzazioni europee di donne (tra esse l'associazione di giuriste Ewla) e ritornano nella dichiarazione di Atene (31 marzo 2003) della rete di Commissioni parlamentari per l'uguaglianza di opportunita' fra donne e uomini nell'Unione Europea. * Il pensiero sottostante e' sempre quello. Non pare lecito parlare di democrazia e di diritti universali finche' l'universalismo si incentra sull'"uno" ed esclude l'"altra". Questo tipo di universalismo escludente crea strutture piramidali e periferie di umanita', che sono la negazione della cittadinanza e dei diritti condivisi. E' un ossimoro. Afferma diritti universali, ma nell'affermarli li nega poiche' li modella sulla sola misura del cittadino maschio europeo/occidentale. Come molte, resto convinta che ai margini delle istituzioni sia possibile creare nuovi spazi che le regole istituzionali non avevano previsto. Che un nuovo ordine possa essere creato consumando e riarticolando il vecchio. Un esempio per me significativo. In alcuni casi, i movimenti dei migranti che, raggiunta l'Europa, hanno sentito sopra di se' l'oppressione dell'imperialismo culturale sono riusciti a politicizzare la cultura, attaccando gli stereotipi e le regole tendenti alla loro assimilazione. Hanno cosi' affermato la positivita' della loro esperienza e dei loro valori, rifiutando la pura omologazione ai valori dominanti. Hanno contribuito a smascherare quel tipo di oppressione che consiste nel vedere come deviante chi e' diverso. Questi movimenti politici possono contribuire a modificare istituzioni e pratiche prima accettate acriticamente, e provocare un dibattito su come riorganizzarle. Possono concorrere alla costruzione di una "democrazia plurale" che si avvantaggia di percorsi, pensieri, relazioni che trovano radici e possibilita' di crescita in diverse esperienze di vita. Un altro nodo di questa rete. Sulla linea della frattura dell'esistente si colloca anche il pensiero e la pratica politica di donne, consapevoli di essere attualmente "l'altro della cittadinanza", quindi agente primario della modificazione dell'ordine che le confina nel privato, al servizio della famiglia, imponendo la pervasivita' del controllo sociale sul loro corpo/mente, la negazione dello spazio pubblico. Questo ordine che divide il mondo in privilegiati ed esclusi va scompigliato, modificato in profondita'. In questo ordine occorre provocare disordine. Attraverso il disordine dell'esistente si puo' tentare di produrre un ordine che preveda la connessione fra diversi che si mantengono tali e che dalla diversita' interloquiscano, procedendo attraverso successive e piu' avanzate mediazioni, invece di inglobare/colonizzare l'altro da se' in una fusionalita' omologante che lo nega e lo distrugge. Quindi, per gli spiriti critici e in particolare per le donne e' tempo di affermare la necessita' di dismettere l'adesione subalterna all'ordine dato, che provoca catastrofi alla comune umanita'. E' tempo di far venire al mondo un soggetto politico complesso che tenti la creazione di un ordine nuovo capace di riconoscere e mettere costruttivamente all'opera le differenze attraverso metodi che favoriscano l'azione di uno sguardo molteplice sull'esistente per uno sviluppo autocritico della societa'. Un esito che e', a mio parere, interesse e responsabilita' delle femministe. 3. RIFLESSIONE: IDA DOMINIJANNI: HANNAH ARENDT TRA EUROPA E STATI UNITI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 giugno 2003. Ida Dominijanni (per contatti: idomini at ilmanifesto.it) e' una prestigiosa intellettuale femminista. Hannah Arendt (Hannover 1906 - New York 1975) e' stata una delle piu' grandi pensatrici del Novecento] Mai forse come in questi giorni e' apparso chiaro, tanto dai fatti politici quanto dal dibattito culturale (compreso quello avviato sabato scorso da Habermas e Derrida sui principali quotidiani europei), che parlare della costruzione europea significa parlare anche, se non soprattutto, dei rapporti fra Europa e Stati Uniti, in un momento di massima frattura politica fra Europa continentale e asse angloamericano e di massima tensione culturale fra un risorgente antiamericanismo in Europa e un nuovo antieuropeismo negli Stati Uniti. La questione e' complicata e molto ambivalente, perche' se e' facile pronunciarsi contro i progetti di una Unione debole e subalterna al modello americano e a favore di una Unione forte, autonoma, aperta, radicata nella sua migliore tradizione storica e nel suo costituzionalismo novecentesco, capace di opporsi programmaticamente alla visione del mondo unipolare dell'attuale leadership politica americana, e' molto piu' difficile tutelare questo progetto dai rischi di chiusura in una nuova logica di potenza che pure corre (specularmente a quanto accade dall'altra parte dell'Atlantico), e soprattutto decifrare il complesso gioco di specchi che governa lo scambio fra immaginario europeo sull'America e immaginario americano sull'Europa. Un gioco peraltro antico, in cui gli stessi pregiudizi e fantasmi ritornano, ma, come sempre accade, in un contesto storico cosi' mutato da farli mutare a loro volta di segno. Un buon esercizio per orientarsi in questo gioco di specchi, ma anche per dare profondita' storica a certi aspetti dell'accidentata costruzione europea, e' la lettura di alcuni scritti di Hannah Arendt sui rapporti fra Europa e Usa, ripubblicati recentemente nel secondo volume dell'Archivio Arendt (Feltrinelli) che la curatrice Simona Forti presenta giustamente come una raccolta esemplare della capacita' di interpretazione del presente della filosofa tedesca. Sono scritti degli anni Cinquanta, informati da un contesto assai diverso da quello di oggi - il dopoguerra, il legame di ferro fra Europa e Stati Uniti stretto attorno alla liberazione dal fascismo e dal nazismo, il maccartismo, il primo nucleo del progetto europeo - ma proprio per questo molto interessanti per un confronto con l'oggi. Anche in quel contesto infatti il gioco di specchi dell'immaginario fra le due sponde dell'Atlantico era all'opera, giacche', scrive Arendt, si tratta di un gioco costitutivo della storia materiale dei rapporti fra il Vecchio e il Nuovo continente: "senza una qualche immagine dell'America, nessun navigatore europeo avrebbe mai attraversato l'oceano". E' il sogno del mondo nuovo che crea dunque il nuovo mondo, investendolo di aspettative di liberta' e progresso che, una volta istituzionalizzate nella nascita degli States, inevitabilmente si rovesciano in delusione. Il sogno si alterna da allora all'incubo, e nell'immaginario europeo l'America diventa, piu' che la meta da raggiungere, un futuro preoccupante da cui distanziarsi: quello che l'Europa deve attendersi dalla modernita' nei suoi esiti peggiori. L'America, osserva Arendt, ci mette ovviamente del suo: il suo isolazionismo e la sua smodata ricchezza non fanno che alimentare la sua mitologia negativa. Piu' cauto e' invece il parere della filosofa su altri punti attorno a cui si annodano le diffidenze degli europei per gli americani e viceversa. La questione dell'atomica ad esempio, perche' se e' vero che furono gli americani a sganciarla non va dimenticato che furono gli scienziati europei emigrati in America per sfuggire al totalitarismo a inventarla. Oppure lo scambio di reciproche accuse sul conformismo (e i suoi correlati, compreso il maccartismo) come connotato della societa' di massa americana e sul totalitarismo come peccato originale della politica europea, due marchi d'infamia che ciascuna sponda attribuisce all'altra, convinta che "qui non potrebbe succedere". E invece potrebbe, scrive Arendt, perche' "in verita' tutto cio' che accade in Europa puo' accadere anche in America, e viceversa, perche' a prescindere dalle differenze la storia dei due continenti e' fondamentalmente la stessa". Tanto convinta e' Arendt che lo sia, che di fronte ai primi progetti di unificazione dell'Europa, attraversati a suo parere da un antiamericanismo che rischiava di fare da collante di "un nuovo nazionalismo paneuropeo", non puo' fare a meno di domandarsi: "Americanismo ed europeismo, due ideologie che si affrontano, si combattono e soprattutto si assomigliano come tutte le ideologie apparentemente contrapposte: che sia questo il pericolo cui stiamo andando incontro?". Siamo, ripeto, negli anni '50, quando il progetto europeo non doveva confrontarsi come oggi con un neonazionalismo unilaterale americano che teorizza e pratica le guerre preventive e distrugge in pochi mesi il diritto internazionale costruito in mezzo secolo; e c'e' da immaginare che in un contesto come questo Arendt cambierebbe molti suoi giudizi, compresi quelli - simili ad alcune voci del realismo americano di oggi - che sembrano aspettare il pacifismo europeo al varco di una politica estera e di difesa da grande potenza. Come pure cambierebbero alcuni suoi giudizi sull'antiamericanismo degli europei, in presenza dell'antieuropeismo emerso negli ultimi mesi nel dibattito e nel senso comune americano. Ma fatte le debite differenze di tempo e di contesto, resta comunque prezioso il suo richiamo a guardare non solo alle cruciali differenze che dividono le due rive dell'Atlantico ma anche alle segrete simmetrie che le legano. 4. RIFLESSIONE. ETTORE MASINA: BRASILE DI IERI E DI OGGI [Ringraziamo Ettore Masina (per contatti: ettore.mas at libero.it) per averci messo a disposizione il testo della sua relazione al convegno sul Brasile tenutosi a Chiasso, in Svizzera, l'8 giugno con la partecipazione anche del grande romanziere Joao Ubaldo Ribeiro, di dom Tomas Balduino, fondatore e presidente della Commissione pastorale della terra, di Vilson Santin, uno dei portavoce del Movimento dei Senza Terra (le loro relazioni possono essere richieste alla segreteria organizzativa dell'incontro, e-mail: marco.galli at chiasso.ch). Ettore Masina, come e' noto, e' una delle persone piu' nitidamente ed alacremente impegnate per la pace e i diritti umani] Quasi esattamente trent'anni fa, il 7 maggio 1973, in uno dei periodi piu' duri della dittatura militare brasiliana, mentre si compivano su scala continentale le atrocita' di cui parlava "Sergente Getulio", lo stupendo libro nordestino del nostro maestro, qui, Joao Ubaldo Ribeiro, in quel terribile anno di lacrime e di sangue, con le camere di tortura affollate giorno e notte, e leggi repressive emanate in segreto per cui nessuno sapeva piu' se aveva il diritto di respirare, un gruppo di vescovi pubblicava un fascicolo che era un'aperta sfida al regime. Era intitolato "Un popolo emarginato", sottotitolo: "Il grido delle Chiese brasiliane del Centro Ovest". Quelle pagine contenevano un'implacabile descrizione della miseria e della mancanza dei diritti piu' elementari di cui soffriva la quasi totalita' dei brasiliani. Vi si citavano statistiche e avvenimenti storici ma, quasi a sottolineare il punto di vista da cui la situazione veniva esaminata, il documento cominciava con le parole di un campesino: "Noi che viviamo la vita del contadino e abbiamo soltanto le braccia per vivere, sappiamo che la storia del nostro mondo somiglia a quella dei fiumi: il pesce grande mangia il pesce piccolo. I cosiddetti grandi non vogliono soltanto il nostro lavoro. Essi vogliono anche il nostro sangue. Per questo siamo destinati alla morte". Da quelle pagine partiva non soltanto una denuncia ma anche un impegno. Dopo avere dimostrato le capacita' mortifere del capitalismo, la sua proprieta' intrinseca di rendere sempre piu' ricchi i ricchi e sempre piu' emarginati i poveri, l'opuscolo terminava con queste parole: "Ma ci sono altri che si uniscono al popolo emarginato, ascoltano il suo grido e accolgono il suo richiamo, credendo che un mondo nuovo e' possibile, e anzi e' necessario. Quelli, siamo noi". Cosi' coraggioso risultava il documento che un certo cardinale Scherer, arcivescovo di Porto Alegre, subito denunziava i suoi confratelli come marxisti, esponendoli alle persecuzioni della polizia. Ma a decine e decine di migliaia di brasiliani, cattolici e no, quel grido appariva come evangelo da vivere nella storia. Forse comincia da documenti come questo la teologia della liberazione, certo comincia un modo nuovo di essere cristiani in Brasile. * Ho voluto citare quel documento per quattro ragioni fondamentali. La prima e' che uno dei sette i vescovi che lo firmarono ("bispos vermelhos", vescovi rossi, li defini' da allora la stampa di regime) si chiamava - e si chiama - dom Tomas Balduino ed e' qui, fra noi. La seconda ragione, per mostrare come il grido che oggi leviamo non solo proprio a Porto Alegre ma sotto tutti i cieli della Terra, in tutte le lingue ma, giustamente, soprattutto in brasiliano, "Outro mundo e' possivel", scaturisce non soltanto dalla fantasia dei poeti o dalla razionalita' dei politici ma, anche e primariamente, dal lungo grido delle vittime della lotta di classe sferrata dai ricchi: insomma dai servi della gleba, dai "dannati della Terra". La terza ragione: per mostrare come, nei tempi piu' duri e bui della vicenda umana, gli uomini e le donne di buona volonta' sappiano sognare e gridare parole che smuovono la storia. La quarta ragione, infine, e' per sottolineare che, al contrario di quanto lasciato credere da certi mass-media, l'elezione di Lula, la conquista del governo da parte delle forze popolari, non e' un'improvvisa esplosione rivoluzionaria, e' l'approdo di una lunga marcia che ha lasciato dietro di se' il sangue di migliaia di militanti, e che e' stata segnata da indicibili sofferenze. Come ha detto l'anno scorso a Porto Alegre la scrittrice indiana Arundhati Roy, se vogliamo resistere all'offensiva ideologica del neoliberismo, "dobbiamo affilare la nostra memoria", ricordare, cioe', da quali lotte veniamo, con quali sacrifici noi e soprattutto i nostri padri abbiamo conquistato i diritti della democrazia. Perche' e' la memoria che ci certifica che e' possibile vincere i Moloch dell'ingiustizia e ci avverte dei nemici, quelli di fuori e quelli che ci portiamo dentro. * Joao Ubaldo vi ha illustrato, da quel grande poeta che e', il suo paese-continente, guardandolo con la tenerezza di chi gli appartiene. Io ho l'onore - di cui ringrazio "Festestate" - di essere oggi l'unico non-brasiliano a parlare, qui, del Brasile, e quindi a farlo, per cosi' dire, "dall'esterno". Dico subito che cerchero' di darvi notizie e statistiche ma che saro' profondamente fazioso. Io, infatti, sono innamorato del Brasile: non soltanto di quello del turismo, tutto splendide mulatte, samba e spiagge bianchissime, ma anche, e assai piu', di quello che i casi della vita e alcune scelte personali (o meglio: di coppia, con la mia Clotilde) mi hanno consentito di conoscere e che porto nel cuore. * Innanzitutto quello brasiliano mi pare un popolo di straordinario valore antropologico. I 175 milioni di brasiliani costituiscono il quinto popolo piu' numeroso del mondo. Ma nessuno dei quattro popoli che lo precedono nella graduatoria (quello cinese, quello della Federazione Russa, quello degli Stati Uniti e quello indonesiano) sono stati altrettanto - come dire? - plasmati da una storia affascinante, terribile e gloriosa. Sugli autoctoni piomba nel 1500 l'onda omicida degli invasori portoghesi e poi olandesi; milioni di schiavi angolani e yoruba vi giungono in catene dall'Africa, e poi arrivano gli emigranti italiani e quelli tedeschi, i libanesi e i giapponesi: uno straordinario melting pot, il quale, generazione dopo generazione, continua a produrre linguaggi, volti, culture, espressioni artistiche di un'infinita varieta'. E in questa varieta', tuttavia, sia il "testa-tonda" nordestino che la mulatta di Salvador che il campesino del Sud, il quale usa ancora, come Leonardo Boff e i suoi fratelli, l'antico dialetto veneto, si sentono figli dello stesso paese; e se nelle favelas la nascita di un bambino di carnagione bianca e' fonte di generali congratulazioni ai genitori, questo, tuttavia, non elimina il fatto che ormai, lo vogliano o no, in grandissima maggioranza, in quasi totalita', i brasiliani per grazia di Dio sono un popolo di meticci, e quello che in botanica si definisce un ibrido lussureggiante. E una solidissima infrangibile isola lusitanofona nel grande mare dell'America di lingua castigliana. * Il Brasile e' anche, forse soprattutto e' stato, un quasi incredibile laboratorio teologico; o, si potrebbe dire, un immenso caleidoscopio di luci, di colori, di ombre, di sangue. I conquistadores del XVI secolo si portano dietro i loro cappellani, pronti a battezzare gli schiavi non appena i fazendeiros li hanno marchiati a fuoco; approdano, condannati alla deportazione dalla Santa Inquisizione portoghese, meno sanguinaria di quella spagnola, eretici o supposti tali, streghe e stregoni che si legano o si scontrano con gli sciamani aborigeni; poi arrivano i gesuiti che creano le reducciones, i grandi villaggi clandestini per la salvezza degli indios perseguitati; sbarcano dalle navi negriere gli uomini piu' belli e le piu' belle donne dell'Africa Nera, selezionati non soltanto al momento della cattura ma anche da viaggi crudelissimi che sterminano i meno forti. Questi miseri conservano gelosamente la loro fede, la travestono con le aureole di santi cattolici, e altri santi creano dalle leggende. Nasce il candomble', che e' probabilmente oggi la religione piu' diffusa in Brasile, accanto e in qualche misura "dentro" quella cattolica. Gia' nel XVII secolo sono attive, germinate un po' dovunque, confraternite bianche nere e meticcie; le quali erigono basiliche, sfilano in splendidi abiti e in solenni liturgie ai margini dell'eterodossia, creano legami sociali, possiedono cimiteri in cui avere una tomba e' segno di distinzione per una famiglia... I secoli si susseguono e la vicenda continua. Come in tutto il mondo cattolico, i grandi proprietari terrieri, chiamati coroneis, cioe' "colonnelli", hanno i loro cappellani e confessori, professionisti della sistemazione a buon prezzo delle coscienze padronali, mentre nel XIX secolo l'aristocrazia e l'alta borghesia delle grandi citta' costiere accolgono dall'Europa lo spiritismo e la massoneria. L'anima religiosa brasiliana fagocita anche queste, le metabolizza. Piu' tardi (procedo, ovviamente, a salti) profeti millenaristi infiammano grandi masse, subito represse dall'esercito; i preti poveri si dividono fra le spinte di un eroico socialismo e il fascismo populista di Getulio Vargas. Infine mentre la dittatura militare devasta le liberta', si levano i vescovi coraggiosi di cui ho gia' detto ma dei quali voglio ricordare almeno qualche nome: dom Helder Camara, il cardinale Paulo Evaristo Arns, dom Pedro Casaldaliga. Sorgono, dalla matrice del Concilio e dell'assemblea episcopale latinoamericana di Medellin, le comunita' di base, chiese dei poveri. I loro sacerdoti, soprattutto i frati domenicani come Frei Betto, che oggi e' uno dei piu' vicini collaboratori di Lula, finiscono in carcere, molti vengono, dalla dittatura o dai fazendeiros, feriti, orrendamente torturati, alcuni uccisi. La teologia della liberazione crea nuove consapevolezze, nuovi impegni, anche politici. Vi si oppongono, dai primi anni '80, la ottusa "normalizzazione" portata avanti dal Vaticano, la proliferazione, sponsorizzata dalla Casa Bianca, delle sette che si definiscono evangeliche le quali proclamano un Cristo che libera dai peccati, dispensa grazie terrene ma chiede di guardare soltanto il cielo; infine le tentazioni mass-mediatico-pentecostali di sacerdoti come un don Rossi che a Sao Paulo danza e balla davanti a grandi folle mentre celebra la messa; cresce il potere ecclesiale affidato a movimenti come l'Opus Dei o Comunione e Liberazione e si sviluppa, non a caso, la marcia trionfale della cosiddetta "Chiesa di Dio", super-setta proprietaria della seconda, dopo O Globo, rete televisiva del Brasile. Nonostante queste tentazioni "angelicanti" e individualiste, un grande "popolo di Dio", protagonista di lotte eroiche, vede oggi nella vittoria di Lula una tappa del proprio Esodo verso la Terra promessa della giustizia e della liberta'. * Infine. il popolo brasiliano mi pare uno straordinario laboratorio politico. Qui io ho davvero ben poco da dire perche' dom Tomas Balduino, creatore della Commissao Pastoral da Terra e Vilson Santin, leader storico del Movimento dos Sem Terra, sono due protagonisti (vorrei dire: due artisti) di quella capacita' aggregativa brasiliana che, ben lontana dal sistema sclerotico e ormai un po' imbarazzante dei partiti tradizionali, produce tuttavia politica in difesa dei poveri e la sostiene con la pressione di grandi masse. Voglio pero' almeno dire che osservare la vita politica del popolo brasiliano non significa penetrare in un Eden: anche in Brasile le grandi lobbies inquinano il Parlamento e cercano di addentare spazi nello stesso governo. Anche in Brasile vi e' un potere mediatico dominante, capace, in alcuni momenti della sua brutta storia, di "drogare" i telespettatori, di far eleggere, per esempio, presidente della repubblica, al posto di Lula (parlo del 1991), un playboy corrotto e di mediocrissima intelligenza come Fernando Collor de Mello, poi cacciato per malversazione. Anche in Brasile vi sono potentati e clientele. Tuttavia sono evidenti alcuni fattori che a me sembrano peculiari di quel paese. Uno di questi fattori e' la decisione della Chiesa di essere sale e lievito nella "pasta" della politica (di essere lobby, se vogliamo dirlo nel piu' volgare dei modi) piuttosto che esplicita presenza politica. Nel cattolico Brasile non e' mai esistito, se non contingentemente e regionalmente, un partito moderato che si proclamasse di ispirazione cristiana. Ma quella che a me pare la piu' straordinaria caratteristica del laboratorio politico brasiliano e' il fatto che esso vanifica l'idea del vecchio Marx per la quale solo il proletariato e' il motore della storia. Certo, e' vero: a sgretolare la saldezza della dittatura militare furono soprattutto i grandi scioperi operai paulisti degli anni '80, guidati da Lula, ma e' vero anche che - in quell'epoca e ancor oggi - una fittissima rete di aggregazioni di base, esplicitamente o implicitamente politiche era ed e' presente nelle favelas o anche, piu' eroicamente, nei cortiços o nelle zone agricole, persino quelle di straziante poverta', nascendo da gruppi di popolazione che l'autore del Capitale non avrebbe esitato a definire di lumpenproletariat. * Credo che indicare questa realta' sia importante perche' va, fra l'altro, a stroncare il razzismo presente nell'orgoglio europeo nei confronti dei popoli "altri", soprattutto di quelli dei paesi tropicali o equatoriali. Questo razzismo, che inconsciamente risiede anche in ambienti che pure praticano la solidarieta' internazionale e che continua a provocare errori come quello di credere di poter insegnare ai latino-americani o agli africani come si puo' essere buoni latino-americani o buoni africani, e' stato usato anche come arma di dominio da parte degli intellettuali delle classi alte brasiliane. A Bonifacio Odulfo, uno dei personaggi di "Viva il popolo brasiliano", Joao Ubaldo fa scrivere sprezzantemente: "Le nazioni come il Brasile, in cui praticamente esistono soltanto l'inverno e l'estate e dove impera la stabilita' climatica da gennaio a dicembre, sembrano votate all'arretratezza e di questo abbondano esempi storici e contemporanei"; e a questa sua creatura torvamente caricaturale Joao Ubaldo fa poi sproloquiare un lungo discorso sul caldo che stimola pigrizia e sensualita'. Arma di classe, ho detto; perche' in Brasile, come in molti altri luoghi della Terra, il capolavoro culturale delle classi dominanti e' stato quello di convincere i poveri che essi sono brutti, sporchi, cattivi e inetti. Come puo' diventare presidente della repubblica un uomo che non porta la cravatta e non e' laureato, chiedeva la dominante rete televisiva O Globo, facendo la campagna elettorale a favore di Fernando Collor de Mello e contro Lula. Lula ha poi messo la cravatta (so quanto gli dia fastidio) ma gli elettori delle favelas e delle zone agricole non hanno deciso questa volta in base a quel nastro di stoffa ma a una nuova consapevolezza: l'intima convinzione che, nonostante il parere degli uomini dei sinedri, anche dalle infinite galilee della storia puo' venire qualcosa di buono. * Dunque, al potere Lula, il retirante, fuggiasco dalla siccita' nordestina, un misero che se fosse giunto da queste parti qualche buono svizzero tedesco lo avrebbe subito chiamato cingalo, un tornitore che ha perso un mignolo sotto una pressa, un uomo che e' stato in carcere come sedizioso e che ha visto morire la prima moglie per mancanza di cure adeguate. Un piccolo uomo sapiente come soltanto certi poveri che non si sono arresi sanno essere, un realista e un pragmatico come ogni buon sindacalista. Un cattolico fervente ma non un bigotto: ho assistito tanti e tanti anni fa a un casuale incontro, a Roma, fra lui e Lech Walesa. Lula mostro' il suo disagio nel vedere un leader operaio che portava sul bavero della giacca un'immaginetta della Madonna di Czestochowa. Alla fine di un dialogo reso difficile non soltanto dalla necessita' di tradurre il polacco in italiano e poi in brasiliano e viceversa, ma anche dall'assoluta ignoranza di Walesa per la situazione dell'America Latina, il leader polacco dono' a Lula una sua fotografia. "Come un attore", brontolo' poi Lula. * Un uomo cosi' alla guida di uno dei piu' grandi e ricchi paesi del nostro pianeta. Piu' che grande, immenso: perche' il Brasile e', per area, il quinto stato della Terra (dopo la Federazione Russa, il Canada, la Cina e gli Stati Uniti d'America). E' un vero e proprio subcontinente, che copre, con gli 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati della sua area quasi la meta' dell'America Latina. E l'area del Brasile puo' essere considerata anche piu' grande se si pensa che la sua piattaforma continentale, il suo zoccolo immerso nell'Atlantico meridionale, insomma le sue propaggini subacquee, hanno un'area di circa 4 milioni di chilometri quadrati, tanti quanto l'Amazzonia; e rappresentano buona parte del futuro del Brasile perche' si sa che contengono immensi giacimenti di petrolio e di gas. E' un paese di gigantesche citta' in cui si accalca l'81% dei brasiliani. Dieci di queste citta' hanno piu' di 2 milioni di abitanti e sono in continua crescita. Due (Sao Paulo e Rio) non sono neppure piu' citta', sono megalopoli, citta'-regioni con rispettivamente 17 e 10 milioni di abitanti. Belo Horizonte (4 milioni di abitanti) sta anch'essa dilatandosi enormemente. Uno dei paesi piu' ricchi del mondo: nelle sue viscere non solo petrolio ma anche ferro, manganese, bauxite, uranio. La produzione brasiliana di gemme preziose rappresenta il 90% di quella mondiale. Una fiorente industria elettronica segna frontiere d'avanguardia. Il prodotto interno lordo ha, teoricamente, per i brasiliani le stesse potenzialita' di quelle dei cittadini degli Stati Uniti. E tuttavia... * Tuttavia hanno ragione gli intellettuali brasiliani quando dicono che il loro paese e' meta' Belgio e meta' Somalia. Per 25 anni il Brasile e' stato il paese nel mondo con la peggiore distribuzione del reddito. Adesso la sua situazione e' migliorata: e' sceso al terzo posto, venendo superato dalla Sierra Leone e dalla Repubblica Centro-africana... Tanto per dire: l'1% piu' ricco della popolazione concentra nelle proprie mani un reddito superiore a quello del 50% piu' povero. Il 10% piu' ricco della popolazione ha un reddito di 28 volte superiore a quello complessivo del 40% piu' povero. l'1% dei proprietari terrieri possiede il 43% dei suoli fertili. L'Amazzonia e' il polmone verde della Terra, fornisce gratuitamente gran parte dell'ossigeno che la popolazione mondiale respira ma quel polmone e' aggredito dal cancro delle multinazionali. Dal 1999 il Brasile e' il secondo paese nel mondo per numero di disoccupati: 11 milioni e mezzo, soltanto l'immenso subcontinente indiano lo supera in questo tragico fenomeno. E ancora: sebbene il Brasile sia fra i 10 paesi piu' sviluppati dal punto di vista dell'industria, esso si situa al sessantaduesimo posto nell'Indice dello Sviluppo Umano redatto dal Development Program delle Nazioni Unite, sulla base di parametri che tengono conto non soltanto del prodotto interno lordo ma anche delle aspettative di vita e della qualita' della esistenza dei cittadini. Le famiglie sotto il livello della poverta', cioe' costrette a campare con meno di 40 dollari al mese, sono 9,3 milioni: piu' o meno 50 milioni di affamati in un paese che ha le stesse estensioni di terreno fertile della Cina, paese in cui, com'e' arcinoto, vivono, piu' o meno bene, un miliardo e 300 milioni di persone. 25 milioni di brasiliani sono analfabeti primari; circa 70 milioni analfabeti di ritorno. 9 milioni di bambini sono praticamente randagi, nelle strade. Molti vi vivono giorno e notte, sbrigativamente uccisi con tragica frequenza o trascinati negli orrendi carceri della Febem, l'ente che dovrebbe garantire la realizzazione di quello statuto Onu dei diritti dei bambini che il Brasile ha inserito gia' nel 1990 nella propria Costituzione. Almeno un quarto del bambini fra i 10 e i 14 anni lavora, sottopagato, in mestieri pesanti e pericolosi. Due citta' brasiliane, Fortaleza e Recife, sono diventate capitali della pedofilia in America Latina. Nelle campagne brasiliane, una spietata violenza agraria si abbatte sui sindacalisti e sugli animatori sociali. Ve ne parleranno, come di tutta la questione agraria, dom Tomas e Vilson, ma non posso non ricordare almeno che il 17 aprile 1996 la polizia militare uccise 19 Sem Terra e ne feri' un centinaio; che dal 1988 al 2002 e' stato documentato l'assassinio di 1.548 campesinos; che nel marzo scorso, nello stato del Para' la polizia ha liberato 273 lavoratori in stato di schiavitu'; che altri 387 erano stati liberati nel gennaio predente; che si calcola che gli schiavi (sottolineo: veri e propri schiavi) siano in Brasile almeno 25 mila. * Questo e' il Brasile "antico" - cioe' ferito da problemi che si potrebbero definire secolari e sempre vivi - che Lula e' chiamato a trasformare. Ma anche il Brasile del piu' recente passato sfida le sue capacita' di governo. Come dicono alcuni dirigenti dei Sem Terra, Lula ha ricevuto "un'eredita' perversa" dal suo predecessore, Fernando Henrique Cardoso. Cardoso ha deregolamentato il mercato, ridotto il protezionismo, privatizzato grandi comparti industriali e di servizio, svenduto - dicono molti - le ricchezze brasiliane. Poco prima che Lula salisse al governo una pubblicazione ufficiale del governo dichiarava: "Il reddito nazionale e' stato indirizzato con priorita' verso la riduzione del debito. A seguito delle riforme nell'area del commercio estero, il Brasile e' diventato una delle economie piu' aperte del mondo". Si', rispondono gli uomini di Lula: e' vero. Ma tutto questo e' avvenuto con operazioni che hanno provocato una crescita della poverta' e della disoccupazione e l'aumento della concentrazione delle ricchezze. Il carico dello spaventoso debito estero (che oggi si aggira intorno ai 250 miliardi di dollari), contratto dagli uomini della dittatura militare, e' passato dal 25 al 45% del prodotto interno lordo. Le multinazionali, favorite da Cardoso, controllano oggi il commercio dei cereali, le grandi agroindustrie, la ricerca biologica, la produzione di sementi. Hanno comprato i magazzini di stato mentre il governo si e' ritirato dall'agricoltura. Bisognera' ricostruire un nuovo modello agricolo che privilegi la produzione di alimenti, e piu' in generale la produzione per il mercato interno. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, i grandi poteri egemoni sui paesi che cercano proprie strade per uno sviluppo (o dovrei dire: un socialismo?) dal volto umano tengono sotto il mirino il governo di Lula. Lula e' riuscito a convincere a votare per lui i militari, solleticandone il nazionalismo ferito dalle pretese egemoniche del Pentagono; gli industriali che hanno assistito con rabbia all'acquisto di molti sistemi di produzione da parte delle multinazionali; i piccoli borghesi spinti all'ingiu' nella scala sociale dalla mancanza di alloggi, dal costo delle scuole private (quelle pubbliche essendo poco piu' che enti di carita'), ma ha dovuto pagare, per questo, prezzi rilevanti: non per niente il vicepresidente del nuovo Brasile e' Jose' Alencar, grande industriale tessile, che non si puo' certo definire uomo di sinistra. Frei Betto non si stanca di ripetere, saggiamente, che il Pt non ha preso il potere, nonostante che Lula sia stato eletto con quasi 53 milioni di voti, il suffragio presidenziale di gran lunga piu' alto nella storia elettorale del Brasile. "Siamo al governo, non al potere", dice Frei Betto, vi sono poteri altri che condizionano, fortemente, la politica governativa. Riuscire a tenere la barra, da un lato, fra le attese dei suoi elettori, e, dall'altro, il sistema neoliberista che cerca di dominare la Terra: Lula e' chiamato a questo capolavoro politico. Si puo' dire che sino ad oggi, Lula ha seguito la politica di Cardoso. Niente di nuovo per la classe lavoratrice, dice Joao Pedro Stedile, leader dei Sem Terra. Vi sono provvedimenti preoccupanti, dicono alcuni critici, che pure confermano la loro stima per Lula. Ed elencano: la conferma del progetto di autonomia della Banca centrale; un progetto di riforma della previdenza che metterebbe in discussione il sistema integrato di sicurezza sociale; una restrizione delle spese statali che non ha significato soltanto il rinvio dell'acquisto di aerei militari, che tanto e' piaciuto a noi del movimento per la pace, ma anche tagli dolorosi in settori come quello culturale: il povero Gilberto Gil, grande artista chiamato a reggere il ministero della Cultura, e' ridotto a organizzare una lotteria televisiva per raccogliere i fondi necessari alla manutenzione di quel gioiello che e' l'antica citta' di Ouro Preto. Ancora piu' grave: la linea macroeconomica imposta sin qui dal ministro delle finanze, Antonio Palocci, e dalla Banca centrale, e' in tutto e per tutto "cardosiana": altissimi i tassi nominali di interesse, impegnativo il pagamento del debito estero e non soltanto degli interessi. I sindacati e i Sem Terra alzano la voce contro questi provvedimenti, con solide ragioni. Tuttavia e' giusto dire che non si tratta di un tradimento delle promesse elettorali. E' la prevista "fase uno" del programma di Lula,. quella della stabilita' economica. E, anche in seguito a questi provvedimenti, il Pt, che aveva alla Camera soltanto la maggioranza relativa, adesso puo' contare su 325 voti piu' o meno sicuri sui 513 della Camera e su 53 senatori su 80 (quelli del Pt sono 14). Al momento solo i due partiti principali della sconfitta coalizione di Cardoso - il Pmdb e il Pfl - sono rimasti all'opposizione. * I sostenitori del governo, anche i piu' critici, ammettono comunque che Lula e la sua gente garantiscono solide possibilita' di realizzare una vera riforma agraria (della questione agraria brasiliana, fatale anche dal punto di vista simbolico, non parlo, come ho gia' detto, perche' ne avete qui due perfetti conoscitori in dom Tomas e in Vilson). Piace anche il proposito di rilanciare il Sudene (un organo di sovrintendenza per lo sviluppo del Nordeste, il tragico "quadrilatero della fame"). E' approvata la campagna Fome Cero, Fame Zero, il primo e principale progetto di Lula: quello di sradicare per sempre la miseria delle classi emarginate, guidandole nel contempo alla consapevolezza dei propri diritti e doveri civici. Non si tratta, infatti, di assistenzialismo: chi ricevera' gli aiuti dallo Stato dovra' garantire che i figli frequentino le scuole, che i piu' piccoli vengano sottoposti a periodiche visite mediche, che le gestanti si facciano controllare dal servizio sanitario, che gli adulti analfabeti frequentino appositi corsi: un tentativo, si direbbe, di spingere le masse sin qui emarginate a quella democrazia partecipativa che e' lo spirito di Porto Alegre. Mi sembra di riudire certe parole del Che Guevara: "Lottiamo contro la miseria ma anche contro l'alienazione". * A meno di possedere una sfera magica, non e' possibile prevedere il futuro. Un gruppo di intellettuali, di cui fa parte anche dom Tomas, hanno inviato un appello affettuoso a Lula, invitandolo a limitare lo strapotere della banca centrale brasiliana e ad opporsi ai passi necessari per la realizzazione dell'Alca, il trattato di libero scambio per tutta l'America, dall'Alaska alla Patagonia. (Apro una parentesi: per la verita' la diplomazia di Lula questi passi li ha gia' assai rallentati, nella convinzione che l'Alca avrebbe, come il Nafta, effetti positivi soltanto per gli Stati Uniti). Dicono i firmatari dell'appello che se lo scontro con i poteri imperiali richiedesse sacrifici, anche gravi, il popolo brasiliano e' sufficientemente politicizzato per sopportarli. In altra occasione, pero' contigua, ho letto che invece per il Movimento dei Sem Terra il popolo brasiliano ha ancora un troppo basso indice di politicizzazione. Ascoltero' dunque molto volentieri, in proposito, se vorranno darcelo, il parere incrociato di dom Tomas e di Vilson. * Quello che invece mi pare di poter dire con certezza e' che il Brasile di Lula, sia per le potenzialita' del paese, sia per il carisma del nuovo presidente, paragonabile nel mondo d'oggi soltanto a quello di Mandela, e' destinato a contare enormemente in campo internazionale. Innanzi tutto, in America Latina. In questo e' favorito dalla sua stessa connotazione geografica: i suoi immensi confini toccano tutti gli stati del Continente, esclusi soltanto il Cile e l'Ecuador. La devastante crisi argentina ha sottratto a Buenos Aires, forse per sempre, una leadership americo-latina che in altri tempi pareva incontestabile. Nestor Kirchner, il nuovo inquilino della Casa Rosada, prima ancora che a Washington, va a Brasilia. Lula ha gia' mostrato di attribuire grande importanza al Mercosur, il mercato comune che unisce il Brasile all'Argentina, all'Uruguay, al Paraguay. Con l'aperto appoggio al Venezuela bolivariano di Chavez e alla Cuba castrista e con le dichiarazioni di condanna della guerra in Iraq il presidente ha mostrato di non essere disposto agli inchini verso l'Impero del Nord. Ma il Brasile, immenso stato di lingua portoghese, e' anche destinato, come gia' si vede chiaramente, a essere il perno di un blocco delle nazioni di lingua lusitana: forse non del Portogallo, chiuso nel suo orgoglio di ex impero, ma certamente del Mozambico, dell'Angola, e forse della Guinea Bissau. Significa non soltanto un insieme di grandi territori e di 40 milioni di abitanti (dunque ben piu' di 200 milioni di persone considerati anche i brasiliani) ma una presenza intercontinentale che certamente qualifichera' il Brasile come candidato per eccellenza a un posto di membro permanente in un possibile e auspicabile riformato Consiglio di sicurezza dell'Onu. Del resto,. gli interventi di Lula a Davos e, pochi giorni fa, a Evian mostrano l'evidenza (e certo una possibilita') che proprio il Brasile possa diventare il capofila di quello che il presidente brasiliano ha definito "un polo alternativo, capace di interloquire con i poteri forti", senza essere cortesemente ma ambiguamente invitati alla mensa dei Grandi. * Concludo. Senza sciocche illusioni, senza culto della personalita', senza lirismi, siamo in molti - e certo anche in questa sala - ad accompagnare con i nostri auguri e con una rinnovata solidarieta', questo "nuovo" Brasile. Mi viene in mente che fra le tante meraviglie di Itaparica, l'isola di Joao Ubaldo, c'e' una fontana che, dice la leggenda, butta "agua fina que faz veia virar menina": acqua squisita che trasforma la vecchia in bambina. E' come se la nostra speranza vissuta contra spem nei tempi duri del Brasile della dittatura avesse, il primo gennaio dell'anno di grazia 2003, bevuto una sorsata di quell'acqua: e' diventata una speranza, ancora un po' incerta, com'e' il cammino di una piccina; ma il futuro e', per l'appunto, dei bambini. 5. EDITORIA. IL CATALOGO PER ARGOMENTI 2003 DELLA CLAUDIANA EDITRICE E' disponibile il Catalogo per argomenti 2003 della Claudiana editrice, l'ottima casa editrice di riferimento della cultura protestante in Italia. Per richiederlo: Claudiana, via Principe Tommaso 1, 10125 Torino, tel. 0116689804, fax 011657542, e-mail: info at claudiana.it, sito: www.claudiana.it Fondata a Torino nel 1855, la Claudiana pubblica attualmente una quarantina di novita' all'anno. Nel suo catalogo opere fondamentali della Riforma e autori classici del pensiero teologico del Novecento (da Dietrich Bonhoeffer a Karl Barth, da Paul Tillich a Giovanni Miegge), ma anche eccellenti lavori storici, rilevanti contributi al dialogo interreligioso e interculturale, testi che apportano contributi profondi alla riflessione teologica, filosofica, morale, civile, alla costruzione di una cultura della pace e della dignita' umana. 6. LETTURE. ROBIN NORWOOD: DONNE CHE AMANO TROPPO Robin Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, Milano 1989, 2002, pp. 312, euro 7. E' il notissimo libro della notissima psicoterapeuta americana, che merita di essere letto e puo' anche essere d'aiuto. Con una prefazione di Dacia Maraini. 7. RIEDIZIONI. SEBASTIANO TIMPANARO: IL LAPSUS FREUDIANO Sebastiano Timpanaro, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, La Nuova Italia, Firenze 1974, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. XXXVI + 208, euro 22. Di uno dei nostri maestri di rigore intellettuale, morale e civile, scomparso nel 2000, viene opportunamente ripubblicato questo libro del 1974; con una ampia e impegnata introduzione di Fabio Stok, e nel testo alcune correzioni ed integrazioni dell'autore. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 580 del 13 giugno 2003
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