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libertà per leyla zana e i deputati curdi: diario da ankara della terza udienza del processo
- Subject: libertà per leyla zana e i deputati curdi: diario da ankara della terza udienza del processo
- From: "associazione culturale punto rosso" <puntorosso at puntorosso.it>
- Date: Mon, 9 Jun 2003 14:12:06 +0200
Come sapete da molto Punto Rosso sta seguendo la vicenda di Leyla Zana e degli altri deputati curdi in carcere in Turchia. Oltre da aver organizzato una campagna per la scarcerazione, culminata in una assemblea con la presenza del marito e deil figlio, ora stiamo seguendo in loco l'iter processuale e giudiziario. Di seguito trovate il diario di Silvana Barbieri da Ankara, presente al processo e le dichiarazioni dei quattro deputati Ankara 22-23 maggio 2003 Diario della terza udienza del processo a Leyla Zana e ai suoi colleghi Selim Sadak, Hatip Dicle, Orhan Dogan 22 maggio. Una storia di ordinaria Turchia L'aereo che deve portarci a Istanbul parte stamattina con un'ora di ritardo, perderemo la coincidenza delle 14.40, che ci dovrebbe portare ad Ankara per la terza udienza del processo a Leyla Zana, Selim Sadak, Hatip Dicle, Orhan Dogan. In aereo mi trovo accanto a una donna sui quarant'anni, parla bene l'italiano ma si capisce che è straniera, l'aiuto a mettere in alto una borsa molto pesante e ci sediamo. Dopo un po' iniziamo a scambiare qualche parola, le chiedo di quale paese sia, mi dice che è turca e che vive in Italia da parecchi anni. Il marito è fuggito dalla Turchia più di vent'anni fa, andò prima in Svizzera come rifugiato politico, poi, aiutato da un'associazione che si occupa dei profughi, trovò lavoro in un ristorante di Campione d'Italia; qui diventò aiuto cuoco, ebbe il permesso di soggiorno, e dopo dieci anni poté far arrivare la moglie. Le faccio osservare che non deve essere stato facile imparare così bene l'italiano, avendo come lingua madre una lingua molto diversa come il turco. Mi risponde che all'inizio era stato molto difficile, anche perché il marito non voleva che lei lavorasse, quindi aveva pochissime occasioni di incontro con italiani; ma dopo molte insistenze il marito accettò che lei lavorasse, e a questo punto stando tutto il giorno in mezzo alla gente le fu facile imparare la nostra lingua. Siccome muoio dalla voglia di sapere come mai il marito fuggì dalla Turchia le chiedo a quale partito o associazione egli apparteneva. A niente, mi risponde, noi siamo di confessione alawita (è un ramo assai differenziato dell'islam sciita), lo stato turco ci odia perché siamo alawiti; mio marito era perseguitato per questo, anche un mio fratello dovette scappare, ora vive in Francia, e una mia sorella ha lasciato la Turchia due anni fa, aveva 22 anni. Come mai lo stato turco vi odia, le chiedo. Il fatto, mi spiega, è che la nostra religione è molto tollerante e molto aperta, anche a Campione dove viviamo andiamo d'accordo con tutti e tutti ci vogliono bene, benché un po' di cattiveria verso gli extracomunitari ci sia pure in Italia. Mio marito, aggiunge, è morto quattro anni fa, io sono stata assunta nel ristorante dove lavorava, lavo i piatti e pulisco il ristorante e la cucina. Ora ho chiesto venti giorni di ferie, per andare a trovare mia madre che sta male, e per sostituire me hanno dovuto prendere tre persone. Noi alawiti siamo persone aperte a tutti gli esseri umani, anche se non sono della nostra religione, della nostra lingua o del nostro paese. Le chiedo come mai sua sorella abbia dovuto fuggire. Era andata, un primo maggio, a una manifestazione, mi risponde, casualmente si era trovata nel tratto del corteo dov'erano i curdi, noi non abbiamo niente contro i curdi, anzi sono moltissimi i curdi di religione alawita, così come non abbiamo niente contro i georgiani o gli armeni o i greci o gli ebrei, quindi mia sorella nella manifestazione si era trovata con i curdi e per lei questa era una cosa normale. Ma ad un certo momento c'è stato un intervento della polizia, alcuni agenti le hanno chiesto che cosa ci faceva lei turca in mezzo ai curdi, lei ha risposto che dove stava lei non li riguardava, che lei stava dove gli pareva: così gli agenti hanno tentato di prenderla, è intervenuta una parte del corteo a difenderla, la polizia ha reagito caricando il corteo e picchiando tutti quelli che non riuscivano a scappare. Lei è rimasta a terra con la testa ferita per le manganellate, due giornalisti l'hanno portata in ospedale, dove un'amica infermiera le ha consigliato di dare un nome falso al medico e di andarsene dopo la medicazione, perché i medici erano obbligati a parlare alla polizia dei feriti e quindi correva il rischio di essere arrestata. Così si è fatta medicare dando un nome falso al medico e dopo qualche ora è fuggita dall'ospedale. Le botte in testa le hanno lasciato brutte conseguenze: ogni tanto perde il controllo, parla da sola, se sei con lei non ti vede e non ti sente. E' tornata qualche volta in ospedale ma non potendo raccontare la causa del disturbo e avendo paura di dare il suo nome ha deciso di emigrare. Due anni fa è arrivata in Svizzera, poi è venuta a Campione; ha già trovato un lavoro e si sta facendo curare. Sakine, così si chiama questa donna, ha 39 anni, due figli, un ragazzo di 22 anni che sta terminando gli studi e una ragazza di 16 che sta facendo un corso di sarta; è molto fiera dei suoi figli, anche loro di religione alawita, secondo lei sono giovani diversi dagli altri; e anche loro sono fieri della madre. Aggiunge che il dispiacere più grosso lo ebbe quando il ragazzo due anni fa vedendo la fatica della madre per mantenere la famiglia voleva smettere di studiare e andare a lavorare. Ma lei si oppose, anche se era contenta dell'intenzione del figlio. A Istanbul oltre ai genitori ha ancora una sorella e un fratello, sposato con due bambini. Questo fratello, mi spiega, è un uomo fragile sul piano nervoso. In Turchia quando fai il militare puoi essere mandato in un posto buono o in uno cattivo: e a mio fratello capitò un posto pessimo, nel Curdistan, dove c'era la guerra. Lì lui ha visto cose orribili: i soldati che massacravano la povera gente dei villaggi, che uccidevano chi capitava. Sapeva che prima o poi sarebbe toccato anche a lui di uccidere la povera gente, era terrorizzato, e quando durante un rastrellamento in un villaggio gli dissero che toccava a lui di uccidere la gente rastrellata gli venne una crisi di pianto e non riusciva a fermarla. Così lo portarono in ospedale e ci restò più di un mese, e quando uscì non lo mandarono più a fare rastrellamenti. E' stato fortunato, perché molti di quelli che si rifiutavano di fare rastrellamenti e di uccidere la gente rastrellata venivano fucilati sul posto. Ora mio fratello lavora a Istanbul, guadagna 300 milioni di lire turche al mese, cioè più o meno 150 euro, ne paga 100 di affitto e fa molta fatica ad arrivare a fine mese, qualche volta gli mando qualcosa io dall'Italia. Siamo arrivati a Istanbul, il tempo è passato veloce. Le dico salutandola che ammiro il suo coraggio. Ci scambiamo i numeri del telefono e ci abbracciamo come vecchie amiche. Ho avuto la fortuna di un incontro straordinario. E narrandolo mi sembra la maniera migliore di aprire la terza puntata di questo diario dedicato al processo che si è riaperto ad Ankara a Leyla Zana e ai suoi tre compagni. Sono entrata a contatto, attraverso la testimonianza di una donna come milioni di tante altre, pacifica, buona e indifesa, con un'altra pagina di quel potere feroce e paranoico che tuttora strazia la Turchia, la divide, la perseguita, la infanga, le impedisce di essere un paese civile, ne uccide o ne fa fuggire la parte migliore. 23 maggio. Il dibattimento Rispetto alle precedenti udienze c'è una novità clamorosa: fuori dal tribunale l'esercito di poliziotti, gendarmi e soldati a sbarrare l'entrata dal lato dell'aula del processo a Leyla Zana e ai suoi tre compagni non c'è! Si passa senza essere filtrati! Le rimostranze della volta scorsa degli osservatori dell'Unione Europea, e forse di alcuni parlamentari turchi, su quest'aspetto barbarico del processo sembrano andate a segno. Inoltre, come tra poco vedremo, anche in aula i gendarmi armati sono diminuiti, e solo uno è rivolto col fucile d'assalto verso il pubblico! Incredibile! In compenso, è vero, sono aumentati i poliziotti, ma sono armati solo di revolver. D'altra parte, chi sa mai, i genitori, le mogli o i bambini degli imputati potrebbero tentare un assalto all'arma bianca contro la Giuria, agevolati dal rinforzo che gli verrebbe dalla retrovia dei parlamentari europei, dei loro funzionari e degli interpreti che li accompagnano. Arriva il cellulare con gli imputati, un grosso torpedone della gendarmeria, si ferma ad un ingresso laterale, i gendarmi ora si fanno finalmente vedere, circondando con più cordoni gli imputati che scendono. Molte donne curde nei loro abiti tradizionali e qualche uomo si avvicinano, gridano qualcosa e applaudono gli imputati, ci sono dei fotografi che scattano foto, vedo Selim Sadak e poi i gendarmi non mi fanno vedere più niente, tento di farmi strada ma Stefano Squarcina mi blocca, mi ricorda che non vogliamo incidenti, il cipiglio è severissimo. Ha ragione, ci muoviamo quindi verso l'entrata che porta all'aula del processo. Le perquisizioni all'entrata del tribunale segnalano esse pure un clima meno insensato: gli uomini anzi non sono neppure perquisiti. Gli agenti ci riconoscono, qualcuno di loro ci saluta e sorride. Tuttavia, come verso sera vedremo, si tratta di rondini, questi piccoli fatti, che non fanno nessuna primavera. In attesa di entrare in aula sono avvicinata da una donna curda anziana, la riconosco e ci salutiamo. Sembra avere 70 anni, probabilmente sono un po' meno. Tramite la mia amica Lerzan, che mi fa da interprete, le chiedo come mai è sempre lì. Sono di Diyarbakir, mi risponde, sono curda, tutto il mondo sa che esistono i curdi, solo in Turchia negano la nostra esistenza. Sono qui per questo, per far vedere che esistiamo e perché voglio bene a Leyla Zana. Entriamo finalmente in aula. E' molto piena, probabilmente perché tutti quelli che volevano entrare questa volta ci sono riusciti. Stavolta i parlamentari europei sono tre, Joost Lagendijk, del gruppo Verde, e Feleknas Uca e Luigi Vinci del gruppo della Sinistra Unita. Ci sono anche le rappresentanze di alcune Ambasciate dell'Unione Europea, la rappresentanza, tramite l'Ambasciata di Grecia, del Consiglio Europeo, i rappresentanti della Commissione Europea. Ci sono ancora, inoltre, come alla prima udienza, parecchi parlamentari turchi, e, mi dicono, sia del partito di governo che di quello di opposizione. La presenza di parlamentari di questo partito, che poi è il partito kemalista storico, pertanto un partito sciovinista, e che oggi è vicino all'Internazionale Socialista, è essa pure una novità. E ci sono Akim Birdal, grande coraggiosa figura di democratico e di uomo della sinistra turca, gravemente ferito sei o sette anni fa in un attentato dei Lupi Grigi e ancora malconcio, gli amici delle associazioni per i diritti umani, tra i quali i rappresentanti dell'IHD di Ankara, ancora freschi delle perquisizione e dei sequestri dei loro materiali, il 6 maggio, da parte della gendarmeria, e gli amici delle formazioni politiche curde Hadep-Dehap, anch'essi freschi dello scioglimento di Hadep da parte della Corte Costituzionale e dell'apertura di un procedimento di scioglimento nei riguardi di Dehap. Entrano finalmente in aula gli imputati, sorridono e salutano con le braccia amici e parenti, ci riconoscono e salutano anche noi. Almeno questo stiamo riuscendo a fare, di non farli sentire soli. Ricomincia la sfilata dei testimoni, oggi saranno cinque. Con i primi due è la solita storia, sono agenti di polizia o guardiani del villaggio, affermano la veridicità delle loro deposizioni del 1994, non ricordano niente dei fatti, agli avvocati della difesa non è consentito di interrogarli direttamente. Tuttavia il Presidente della Giuria appare adesso più disponibile nei confronti della difesa, cioè procede con attenzione nel riproporne le domande agli imputati. Col terzo testimone invece la cosa si fa interessante. E' un pover'uomo con il braccio bendato e una serie di ferri che gli entrano nel polso, sembrerebbe una frattura multipla, un'aria completamente spaesata, risponde a monosillabi al Presidente, risponde a una domanda della difesa che sì, è stato ricoverato a suo tempo per ragioni psichiatriche. Parla pochissime parole di turco e lo capisce a malapena, tutta la sua deposizione sarà faticosissima. A un certo punto il Presidente gli legge la deposizione resa alla polizia e portata come prova a carico degli imputati al primo processo: ma è una deposizione scritta in turco e il testimone non ne capisce il senso. E' sua, almeno, la firma sulla deposizione? gli chiede il Presidente, disorientato. Sì. C'era un interprete, si fanno sotto gli avvocati della difesa, quando lei rese la sua deposizione, e a leggergliela dopo che fu scritta in turco dai funzionari di polizia che la raccolsero? No, borbotta il testimone, non c'era nessun interprete. Dove rilasciò la deposizione? Nel villaggio di Senova, provincia di Eludere. Selim Sadak si alza e gli richiede chi gli fece da interprete, ma egli ribadisce che non c'era nessun interprete; ci ripensa, e dice che non ricorda. Il Presidente gli chiede se gli imputati, a proposito dei fatti recati nella testimonianza, quelli del bar nel quale gli imputati avrebbero fatto l'apologia del PKK, erano dentro o fuori rispetto al bar, ed egli risponde che erano nel giardino. Gli viene chiesto dagli avvocati a quale distanza è il bar dalla stazione della gendarmeria, ed egli risponde 60 metri. L'avvocato Alatas¸ a questo punto rammenta alla Giuria che si tratta di 20 metri, che il testimone non capisce il turco e quindi che la sua testimonianza in turco resa e scritta senza l'ausilio di un interprete non può considerarsi valida. Il Presidente è di parere opposto. Agli atti la protesta di Alatas¸, avanti un altro testimone. Il quarto testimone di nuovo conferma ma non ricorda eccetera. Il quinto e ultimo testimone è interessante anche lui, ma per ragioni del tutto opposte. Questo è infatti un pezzo da novanta, è il supertestimone, quello a partire dalla cui testimonianza soprattutto si giunse nel 1995 alla condanna degli imputati. E' cioè Mehmet Serif Temelli, capo della tribù Babak di Metinan, la zona è quella di Mardin. Ai tempi comandava, e tuttora comanda, un esercito di 600 guardiani del villaggio. Sempre ai tempi, e precisamente nelle elezioni del 1991, fu candidato al Parlamento nelle liste del partito della Tansu Ciller, quello, l'improntitudine della denominazione è davvero notevole, della Retta Via; ma non fu eletto, mentre vennero eletti i quattro imputati. La sua testimonianza reca che Leyla Zana, Hatip Dicle e Selim Sadak si recarono al suo villaggio a farvi propaganda per il PKK e per la separazione del Curdistan, affermando anche di avere il sostegno dell'Unione Europea, e a chiedere che i suoi guardiani cessassero di servire la Turchia e cedessero le armi; Leyla Zana inoltre sarebbe tornata al villaggio una seconda volta, seguita da 16 membri del PKK, portando inoltre con sé una cassetta registrata di propaganda del PKK, sarebbe entrata nella casa del testimone, avrebbe fatto ascoltare ai presenti la cassetta e avrebbe dichiarato di essere d'accordo con quanto conteneva. Infine il testimone tira fuori dalla tasca una cassetta, che sarebbe quella in questione, e la consegna alla Corte. Questa cassetta è una novità: al precedente processo se ne era parlato come di prova a carico ma non era stata ascoltata, e che sarebbe apparsa a questo processo gli avvocati non lo sapevano. Pausa pranzo. L'avvocato Alatas¸ e alcuni altri avvocati chiedono alla Giuria come ritenga possibile che gli imputati possano aver fatto entrare nel villaggio del testimone 16 uomini del PKK, quando c'erano 600 guardie del villaggio armate, al comando, per di più, del testimone, e una caserma della gendarmeria. Perché gli uomini del PKK non furono arrestati? Ma il Procuratore (l'accusa) insorge: Alatas¸ sta di fatto accusando il testimone e il Presidente della Corte non lo difende. Alatas¸ protesta a sua volta: la Corte di Strasburgo ha condannato come iniquo il precedente processo perché vi furono violati i diritti al controinterrogatorio dei testimoni da parte della difesa, e tuttora la Procura sta impedendo l'accertamento della verità. Interviene Leyla Zana, e spiega come i suoi viaggi nel villaggio del testimone avessero lo scopo di aiutare a porre termine a una faida tra tribù, tra le quali quella del testimone, di vecchissima data, nel corso della quale due nipoti del testimone erano stati uccisi. Solo in seguito, con la costituzione in alcune tribù delle guardie del villaggio, le faide prenderanno una tinta politica, cioè cominceranno le accuse ai danni delle tribù ostili di essere dalla parte del PKK. La repressione spietata consentita dallo stato alla guardie del villaggio farà sì che accusando le tribù ostili di essere dalla parte del PKK esse potranno essere tolte di mezzo. Leyla Zana poi ripropone la domanda posta da Alatas¸, e cioè perché le guardie del villaggio e la gendarmeria non agirono contro i 16 membri del PKK, se essi erano effettivamente del PKK. Ma il Procuratore di nuovo non solo blocca la domanda ma invita il Presidente a porre termine all'interrogatorio del testimone. Il Presidente fa sua la posizione del Procuratore e congeda il testimone. Il clima, in pochi minuti, si è rifatto gelido. Qualcosa è successo. E cioè, ci diranno più tardi gli avvocati, la Procura nell'intervallo per il pranzo è intervenuta pesantemente sulla Giuria, che con i primi testimoni si era mostrata troppo consenziente alle richieste della difesa, e poi ha addirittura protestato contro il Presidente in aula, mettendolo con le spalle al muro. 23 maggio. Gli interventi degli imputati e la conclusione dell'udienza L'intervento di Selim Sadak Sono contento - dice - perché il fatto di rifare questo processo, di accettare la sentenza della Corte di Strasburgo è un passo avanti per la Turchia. Sono invece triste per le menzogne raccontate anche in questo processo dai testimoni dell'accusa. Noi imputati avevamo quando eravamo parlamentari tre obiettivi: primo, di far finire le faide tra le diverse tribù del Sud-est, portandolo così dal Medioevo alla modernità; secondo, dopo aver portato la pace nel Sud-est, di portarla in tutta la Turchia, cioè tra turchi e curdi; terzo, di portare la Turchia alla democrazia. Il ruolo di guardiano del villaggio non era quello di difendere il proprio villaggio ma di fare la guerra ai villaggi considerati simpatizzanti del PKK, spesso perché, semplicemente, villaggi tradizionalmente nemici. Migliaia di contadini furono così obbligati a trasferirsi in campi custoditi dai guardiani del villaggio o dalle forze di sicurezza. Perciò in quanto parlamentari tentammo di agire contro la corruzione e le faide che rovinavano le relazioni tra i villaggi e tra le tribù. Per esempio lavorammo per riconciliare tra loro le tribù Necinoglu e Turk e le tribù Turk e Babak, quella cioè del villaggio di Metinan. Le prime due grazie al nostro intervento in effetti si riconciliarono, e questo benché ci fossero tra loro anche differenze politiche: a Necinoglu erano stati eletti parlamentari della destra, a Turk del Dep. Insieme con il prefetto convincemmo le due tribù a porre termine a una faida di anni. Lo stesso lavoro fu tentato da Leyla Zana e da Hatip Dicle con le tribù Babak e Turk. Di fronte però alle difficoltà essi mi chiamarono ad aiutarli. Così tutti e tre andammo diverse volte presso la tribù Babak. La prima volta ci accolsero con un banchetto; ci fermammo per dormire alla casa di un guardiano del villaggio, e lì parlammo anche di come far finire la faida. Alla fine sembravano convinti, tant'è che quando terminammo il nostro lavoro fummo salutati dai contadini con un applauso. Ma dopo le nostre visite è intervenuto qualcuno a far cambiare loro idea, apparvero delle cassette, che tra l'altro nel passato processo non abbiamo potuto ascoltare, a causa del contenuto delle quali fummo accusati di aver fatto propaganda per il PKK. L'intervento di Hatip Dicle Confermo che scopo delle nostre azioni era di far uscire le tribù dalle faide, quindi di portare il Sud-est dal feudalesimo a tempi moderni. Mi impegnai perciò nella riconciliazione tra la tribù Babak di Metinan, del cui capo dei guardiani del villaggio abbiamo sentito la testimonianza, e la tribù Turk. Quindi con la Presidente a Diyarbakir dell'Associazione per i Diritti Umani e con il Presidente dell'Associazione degli Avvocati ci recammo a Metinan, dove parlammo anche con il testimone. Questi rifiutò ogni proposta di pace, e noi gli lasciammo i nostri numeri telefonici nell'eventualità che cambiasse idea. La situazione degli anni novanta era terribile: quando scoppiavano dei conflitti tra le tribù ognuna accusava l'altra di essere con il PKK; così gli eserciti privati, a dire le guardie del villaggio, avevano dallo Stato e dall'esercito licenza di uccidere la gente delle tribù nemiche, giustificando le uccisioni appunto come azioni contro il PKK. Il nostro obiettivo fondamentale era di annullare il sistema delle tribù e dei guardiani del villaggio, che era la condizione del proseguimento delle faide. Ancora oggi questo sistema tiene il Sud-est nel feudalesimo, ne impedisce il passaggio alla democrazia. Questo sistema non fa crescere la coscienza degli individui ma li rende propri schiavi. Non a caso. L'incidente di Susurluk ha evidenziato, a suo tempo, le connessioni tra il sistema delle tribù, la mafia, lo Stato, l'esercito, cioè tra questo sistema e la corruzione nel Paese. L'intervento di Leyla Zana Scrisse Dostojevskij che "ognuno di noi è responsabile, non può sottrarsi alle proprie responsabilità, deve farsi carico dei mali dell'umanità". Benché, dunque, le testimonianze a nostro carico udite nella scorsa udienza e in quella odierna siano false, è vero che andammo in quei villaggi. Quando sono andata presso quelle tribù per tentarne la riconciliazione, vi sono andata prima di tutto come donna e come madre. La riconciliazione tra tribù curde è sempre stata affidata alle donne. Volevamo infatti riconciliare le tribù. La faida, cioè la vendetta, è un comportamento primitivo, dalla quale a nessuno viene un vantaggio. Il nostro impegno è sempre stato orientato dall'idea di risolvere in avanti, fuori dal feudalesimo, le questioni della popolazione curda, e di questo non solo non sono pentita ma sono fiera. Noi siamo stati l'espressione della volontà di cambiamento nella popolazione curda, e dopo di noi nessuno è riuscito a continuare il nostro tentativo. Se oggi possiamo vedere in Turchia qualche piccolo passo verso la democrazia, è perché noi abbiamo pagato un prezzo altissimo. Mai, invece, ho suggerito a qualcuno di entrare nel PKK. Lo Stato dovrebbe essere al servizio della società e dovrebbe comprendere tutta la società. Disse Roosevelt che quando si è eguali dinanzi alla legge si possono avere sogni condivisi. E quando le popolazioni condividono gli stessi sogni le guerre civili possono essere evitate. Intervento di Orhan Dogan Dopo le prime udienze di questo processo alcuni giornali hanno scritto che la Corte per la Sicurezza dello Stato sta ripetendo gli errori del passato. Altri hanno affermato che questo processo è tale solo nella forma, perché i testimoni sono testimoni di Stato. Ancora una volta questa Corte ha voluto ascoltare solo i testimoni dell'accusa, ripetendo appunto l'errore del passato. Un primo segnale di cambiamento la Corte avrebbe potuto darlo togliendo i militari dall'aula e permettendo ai nostri avvocati di interrogare direttamente i testimoni, di non passare cioè per il Presidente. Non è successo. Se il processo continuerà in questo modo si ripeterà la condanna del 1995. Ciò significherà che i giudici anziché correggere gli errori del passato intendono difenderli. Mai la giustizia dovrebbe venire sacrificata alla ragion di Stato. Diventa altrimenti una cosa sporca. Nel rapporto tra Stato, società e singoli individui, se questi perdono la fiducia nella giustizia sentono di vivere nell'insicurezza, e quando questo accade la giustizia è sostituita da metodi feudali e mafiosi. Il capo dell'esercito turco ha affermato che, turchi e curdi, non siamo né fratelli tra noi né i cittadini di questo paese, bensì ne siamo gli schiavi. Tutto è ragion di Stato. E' l'affermazione di una mentalità feudale. Quando il primo gennaio del 1995 ci fu l'unificazione doganale tra Turchia e Unione Europea quest'ultima chiese la nostra scarcerazione. La Turchia prese quest'impegno. Fu sono uno dei tantissimi impegni sul terreno della democrazia presi e non mantenuti dalla Turchia. Questo processo è perciò una novità per la Turchia, è la prima volta che in questo Paese viene rifatto un processo a seguito di una condanna della Corte di Strasburgo. La sentenza di questo processo dovrebbe perciò risolvere i difetti di legittimità messi in evidenza dalla sentenza di Strasburgo relativamente al precedente processo. Noi abbiamo lottato per la pace, la democrazia e la fratellanza tra curdi e turchi. E anche se la sentenza di questo processo dovesse essere eguale a quella del processo precedente, noi continueremo a lottare per la pace, la democrazia e la fratellanza tra curdi e turchi. Le richieste della difesa, le decisioni della Corte L'avvocato Alatas¸ mette in rilievo come ogni qualvolta la difesa fosse intervenuta chiedendo precisazioni in ordine alle dichiarazioni dei testimoni c'è sempre stato il rifiuto de giudici. Ciò ha impedito la ricerca della verità. Le richieste della difesa, dichiarano Alatas¸ e altri avvocati, sono dunque le seguenti quattro: - L'ascolto della cassetta che l'ultimo testimone ha appena consegnato alla Corte, il cui contenuto la difesa non ha mai potuto ascoltare. Va verificato se in questa cassetta oltre alla propaganda del PKK sono anche registrate dichiarazioni di Leyla Zana che invitano il testimone a unirsi al Dep per la costituzione di uno Stato curdo, perciò di non lavorare più per lo Stato turco. - La verifica della distanza del famoso bar dalla gendarmeria, dentro o fuori dal quale alcuni imputati avrebbero fatto propaganda per il PKK. - L'ascolto da parte della Corte dei testimoni della difesa, come richiesto nella sentenza della Corte di Strasburgo. - L'immediata scarcerazione degli imputati, pur proseguendo il processo. La corte si ritira in camera di consiglio, ovviamente con il Procuratore, dove rimane per una mezzora. La sua decisione, dichiara il Presidente, è la seguente: la cassetta può essere ascoltata dalla difesa; le altre richieste della difesa sono respinte. ------------------------------------------------------------------- ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO puntorosso at puntorosso.it FORUM MONDIALE DELLE ALTERNATIVE fma at puntorosso.it LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE lup at puntorosso.it EDIZIONI PUNTO ROSSO edizioni at puntorosso.it VIA MORIGI 8 - 20123 MILANO - ITALIA TEL. 02-874324 e 02-875045 (anche fax) www.puntorosso.it
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