RossoNotizieNet n. 34 - 23 maggio 2003



ROSSONotizieNet
numero 34 - 23 maggio 2003


periodico elettronico dell'Associazione Culturale Punto Rosso



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Sono cambiati i numeri di telefono di Punto Rosso. I numeri corretti sono
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IL 15 GIUGNO VOTA SI AL REFERENDUM PER L'ESTENSIONE DELL'ART. 18.
SI AI DIRITTI PER TUTTI.


Sommario

Iniziative
Milano: Il diritto non è precario: si all'art. 18 (3 giugno 2003)
Milano: Verso la Costituzione europea: nativi, migranti, cittadinanza,
diritti - seminario (9 giugno 2003)
Milano: Le poesie di Maria Teresa Rossi(16 giugno 2003)
Milano: Festa di liberazione: dibattito su Impero e Imperialismo con Atilio
Boron (21 giugno 2001)

Iniziative locali
- Massa: incontro con Giulietto Chiesa (31 maggio 2003)
- Vimodrone (MI): perché i diritti? Si all'Art. 18 (29 maggio 2003)

Materiali:
- Si ai diritti! di Mario Agostinelli
- L'ideologia americana di Samir Amin

- Novità Edizioni Punto Rosso





Il diritto non è precario



Il portatore del diritto è la persona nel suo essere soggetto sociale-politico.

Nessuna forza, sindacale o partitica, può arrogarsi la paternità di un diritto;

quando ciò è avvenuto, è venuto meno il controllo popolare

e la conseguente perdita del diritto stesso.



Un percorso dalla precarietà ai diritti dell'art. 18



- Dal "diario postumo di un flessibile" di Gallino, un video con Albanese
che presenta esperienze di vita flessibile

Mohammed Bah - Sinafrica - canto e percussioni: "racconto di un viaggio nel
lavoro dal Senegal all'Italia"

- Annamaria Medri - Libera università delle donne:

"la precarietà senza diritti - un tempo nella vita delle donne"



e poi … esperienze dirette



Dopo il dibattito la sintesi di Paolo Cagna Ninchi:

"i diritti dell'art.18, per una legge uguale per tutti"



Martedì 3 giugno - alle ore 20,30

presso Punto Rosso (nel cortile) - via Morigi 8 - Milano





Organizzano: Rete Lilliput-Milano - Arci Milano - Attac
Milano - Associazione Culturale Punto Rosso






Forum Sociale Europeo - Forum per la Democrazia Costituzionale Europea



Verso la Costituzione Europea



NATIVI E MIGRANTI:  CITTADINANZA - UGUAGLIANZA - DIRITTI SOCIALI



La nascita di un movimento sociale con orientamenti veramente globali in
Europa, aiuta a superare i timori che l'eurocentrismo e la concezione di
una fortezza Europa contribuiscano a rafforzarne l'appartenenza alla
costellazione dominante del mondo.

La cittadinanza europea non è mera conseguenza della cittadinanza di uno
stato membro e dell'uguaglianza tra i cittadini dell'Unione; l'interesse ed
il benessere "dei propri popoli" non può essere la prima preoccupazione
dell'Europa in formazione; il più ampio mondo non può essere preso in
considerazione primariamente come ambito di diffusione "dei propri valori;
la cittadinanza europea non è solo un complemento della cittadinanza di uno
Stato membro, pena la dissoluzione del concetto stesso di cittadinanza.

Cittadinanza, universalismo, diritti fondamentali: una fase di democrazia
sociale nel processo costituente dell'Europa?

La cittadinanza universale, la diffusione dei diritti umani nel mondo,
l'uguaglianza di fronte alla legge.

Nativi e Migranti: cittadinanza comune.

I diritti sociali e il diritto al lavoro.

Cittadinanza europea, cittadinanza di genere.



Interventi di: Agostinelli, Barbarossa, Bernocchi, Bolini, Bonotto,
Bronzini, Campari, Ferrajoli, Fioravanti, Gianformaggio, Jorfida, Mecozzi,
Muhlbauer, Piccinini, Russo, Virgilio.



Milano - 9 Giugno 2003 - ore 10-17

Camera del Lavoro - C.so P.ta Vittoria






LE POESIE DI  MARIA TERESA ROSSI



UNA SERATA DI LETTURE E DI COMMENTI PER RICORDARE LA NOSTRA CARA COMPAGNA E
PER APPREZZARE LE SUE POESIE PUBBLICATE POSTUME PRESSO LE EDIZIONI PUNTO
ROSSO



Maria Teresa Rossi, studentessa, subì il carcere fascista. Fu la prima
insegnante che nel '68 a Milano solidarizzò con gli studenti, partecipando
alla prima occupazione di una scuola superiore, il liceo Parini. Militò
nella nuova sinistra e contribuì con articoli e interventi alla vita del
Quotidiano dei lavoratori, il giornale di Democrazia Proletaria. Fu tra i
primi promotori di Rifondazione Comunista a Milano. E' stata l'esempio
della coerenza di una scelta di vita fatta giovanissima e perseguita per
tutta la vita con modestia, intelligenza, rigore.

Dopo la prima serata di ricordi svolta a un mese dalla morte, nel settembre
2001, un'altra serata, questa volta dedicata alle sue poesie. Come scrive
Montuoro, nella sua premessa alla raccolta, è "il segreto sospeso a
mezz'aria", il tentativo di visitare la sua "stanza segreta".



MILANO LUNEDI' 16 GIUGNO 2003 ore 21 - LICEO CLASSICO G. PARINI - VIA GOITO 4



Interventi programmati di

CLAUDIO ANNARATONE, GIUSEPPE POLISTENA e di altri amici e compagni




FESTA DI LIBERAZIONE MILANO 2003



IMPERO & IMPERIALISMO:

GUERRA, USA, NEOLIBERISMO IN AMERICA LATINA E NEL MONDO



In occasione della presentazione del libro di Atilio Boron, Impero &
Imperialismo. Una lettura critica di Michael Hart e Antonio Negri, Edizioni
Punto Rosso, Milano 2003. La necessità di un dibattito argomentato su
nozioni decisive del nostro tempo.



MILANO SABATO 21 GIUGNO 2003 ORE 21

FESTA DI LIBERAZIONE - AREA LAMPUGNANO

(MM1 LAMPUGNANO)



partecipano

ATILIO BORON (Università di Buenos Aires, Clacso)

JOSE' LUIZ DEL ROIO (Punto Rosso-Fma, Cons. Int. Fsm)

ANDREA FUMAGALLI (Università di Pavia)

DANILO ZOLO (Università di Firenze)






INIZIATIVE LOCALI






Associazione  Culturale Punto Rosso
Massa Carrara    
e-mail: puntorosso.carrara at tin.it

in collaborazione con
Portofranco - Regione Toscana

Organizza

SABATO 31 MAGGIO 2003 - ORE 21.00
SALA DELLA RESISTENZA - PALAZZO DUCALE
PIAZZA ARANCI - MASSA

INCONTRO CON GIULIETTO CHIESA
Editorialista per "La Stampa", Premio Cultura della Pace 2003
Citta' di Sansepolcro, promotore di Megachip e del progetto di
TV indipendenti.

L'incontro sara' l'occasione per presentare il nuovo libro di
G. Chiesa e M. Villari, Feltrinelli
"SUPERCLAN"
E' la nuova superclasse sul ponte di comando mondiale, formato
dai magnati dei Media, delle Multinazionali e delle Finanziarie, che
utilizza la guerra infinita per mantenere il proprio potere imperiale.
Una nuova classe predatoria che mette a rischio la democrazia,
la pace e la stessa esistenza dell'uomo sul pianeta.

Info: puntorosso.carrara at tin.it
cell. 347-1085533



Giovedì 29 maggio 2003 presso la sala "Carlo Porta" della Biblioteca Comunale

di Via C. Battisti n. 56 a Vimodrone (MI)

si terrà

ore 20.45 - 21.30

Proiezione filmato "Li batteremo con il sorriso"

ore 21.30 - 23.40

Di b attito Pubblico

Perchè DIRITTI? Perchè SI! - Il 15 e 16 Giugno SI vota SI

Presiede: Enzo Galatioto - Coordinatore Punto Rosso Vimodrone

interventi di: Natale Ripamonti - Senatore Ulivo - Verdi, Augusto Rocchi -
Segretario P.R.C. Milano, Antonio Lareno - Segreteria C.G.I.L. Milano,
Paolo Matteucci - Capogruppo DS Provincia Milano, Marco Messineo - Cons.
Com. P.R.C. - Vimodrone Sei Tu

organizza: ass.puntorosso.vimo at email.it






 Materiali


Mario Agostinelli



Si ai diritti!



E' singolare come il dibattito sul referendum per l'estensione del
reintegro da licenziamento ingiustificato anche al di sotto dei 15
dipendenti sia stato finora avvolto da una cortina fumogena che ha sviato
l'informazione sullo sfondo dei calcoli politici e delle responsabilità
individuali, offuscando l'oggetto della discussione, e diffondendo così la
sensazione che ci troviamo soltanto di fronte ad una sorta di incidente da
rimuovere.

Eppure, proveniamo da una straordinaria stagione europea - e non solo - in
cui milioni di persone nelle piazze, nelle assemblee, con scioperi e forum
partecipatissimi, hanno sollevato speranze di cambiamento riscoprendo la
persona, la cultura della pace ed i diritti sociali in contrasto con i
dogmi della globalizzazione liberista.  Tanto più nel nostro Paese, dove
una mobilitazione senza precedenti ha riproposto il lavoro al centro di una
idea rinnovata di cittadinanza solidale. Ma  l'offensiva durissima contro
le conquiste, la rappresentanza e la democrazia dei lavoratori non si è
arrestata e ad una azione vastissima, non solo del mondo del lavoro, ma
anche di settori che hanno travalicato i confini politici tradizionali, ha
fatto riscontro una convergenza tra associazioni padronali e governo
disposta ad infrangere lo stesso tessuto costituzionale e diretta contro
 due cardini quali l'articolo 11 della Carta e l'articolo 18 dello Statuto
dei Lavoratori.

Con questo retroterra, quanto più ci avviciniamo al 15 giugno tanto più
sarà difficile non andare al cuore dei contenuti e continuare solo a
recriminare sulla opportunità più o meno discutibile del referendum.

Muoviamoci subito, allora, con la stessa pacata determinazione di Epifani,
rivolta sia a dar valore alla partecipazione, mentre Berlusconi ci vorrebbe
solo spettatori passivi,  sia ad aprire una impegnativa stagione di riforme
e di estensione per via legislativa dei diritti dopo l'affermazione del si.

In effetti le questioni reali sono tutt'altro che risolte o risolvibili se
il referendum non ci fosse e rimanesse in piedi su due piani complementari
l'attacco del governo italiano e della destra europea di
Aznar-Berlusconi-Blair  contro il modello sociale a cui si ispira tutto il
giuslavorismo del vecchio continente.

Bisogna partire dal fatto che, in contrasto con lo slancio delle
manifestazioni di questi ultimi mesi e con l'ispirazione che stava dietro
le conquiste dello Statuto, la maggior parte dell'esperienza quotidiana nei
luoghi di lavoro - per giovani e ragazze in particolare - è tornata ad
essere lontana da una partecipazione dignitosa e creativa alla produzione
di valore sociale e che la precarietà che oggi contraddistingue la
prestazione lavorativa determina insicurezza ed un'esistenza difficile da
programmare.

La cittadinanza è in pratica scissa dal lavoro e l'estraneità e
l'alienazione rispetto a quest'ultimo sono esse stesse inafferrabili,
perché non si può emancipare o liberare qualcosa che oggi c'è e domani
chissà.

Un'area sempre più vasta, in particolare nel settore delle piccole aziende
e delle prestazioni a tempo, ha sempre più coscienza dei propri diritti, ma
non è in grado di darsi rappresentanza diretta per conquistarli. E'
costretta così a sperare in una attenzione "assistenziale" dall'esterno,
magari anche da parte di un sindacato a cui partecipa per simpatia, ma
senza potersi autocostituire e farne quindi  parte attiva con lotte e
scioperi, o utilizzando permessi o assemblee ad essa inapplicabili.

Questa vastissima porzione del lavoro ha avuto l'intelligenza di guardare
agli strumenti che negli anni del fordismo la classe lavoratrice aveva
conquistato: l'articolo 18, l'assemblea nei luoghi di lavoro, la delega
sindacale, i permessi retribuiti, il collocamento pubblico: tutti
codificati nello Statuto del 1970 e attinenti però ad un modello
organizzativo della produzione che si va riducendo e che li riguarda
direttamente in parte minima. Come conseguenza, mutua da quegli strumenti e
dalla centralità dell'articolo 18 l'idea forte e radicale di estenderli ed
adeguarli alla propria realtà e vede nel si al referendum una occasione per
aprire un percorso non dissimile da quello lungo e aspro che aveva portato
la democrazia oltre i cancelli delle fabbriche trent'anni fa.  A questa
esigenza, che ha preso vigore anche dalle iniziative forti di una intera
stagione, non si può rispondere guardando altrove proprio quando le forze
conservatrici, usando i numeri del maggioritario per svuotare ogni
dialettica sociale, varano i decreti che cancellano la contrattazione e il
controllo del mercato del lavoro in sfregio a milioni di lavoratori in
sciopero o inviano un contingente militare in Iraq a fianco degli
occupanti, a dispetto di migliaia di bandiere che rimangono appese ai
balconi.

Si ritiene d'altra parte realistica l'apertura di una stagione di riforme
per via legislativa destinate all'allargamento del potere del mondo del
lavoro senza contemporaneamente provare a dimostrare a questo Governo,
anche attraverso lo strumento democratico di una consultazione del corpo
elettorale, che la maggioranza del Paese considera questi i temi prioritari
rispetto ad una agenda politica caratterizzata invece dagli affari e dallo
scontro con la magistratura?

Bisogna capire poi che il movimento di Porto Alegre, di Genova e di Firenze
sente vicino il sindacato perché l'impotenza provata di fronte ad un
sistema di impresa che oggi nella sua dimensione globale sfugge ai vincoli
contrattuali cui precedentemente doveva sottostare nei luoghi tradizionali
della produzione, lo porta a puntare su diritti universali anche nei luoghi
di lavoro. Il movimento vive quindi come indispensabile il bisogno di
riunificare  il lavoro tutelato e quello senza leggi e contratti sulla base
di diritti che valgano per tutti. Un obiettivo che rimarrebbe però sulla
carta, se non si desse anche al lavoro cosiddetto informale la possibilità
di autoorganizzarsi e di darsi una sua rappresentanza, senza la quale
qualsiasi conquista non è né importabile né esigibile.

In fondo, Maroni nel "libro bianco" ed i giuslavoristi europei autori del
documento sul lavoro di Blair Aznar e Berlusconi hanno già imboccato una
strada alternativa all'estensione dell'articolo 18: cancellare  i diritti
in essere nel rapporto di lavoro, flessibilizzare al massimo e
destrutturare il mercato del lavoro con la sua privatizzazione ed il
sostegno di ammortizzatori in caso di licenziamento, così da trasformare il
diritto all'occupazione in una perenne attesa di una prestazione a comando.
Il passo necessario al corso di questa strategia sta nell'abolire - altro
che estendere! - il reintegro al licenziamento ingiustificato. L'ineffabile
ministro del welfare, che lo sa bene, al referendum infatti partecipa con
un no tondo.

In questo contesto le perplessità che hanno indotto alcuni ad indicare
l'astensione andrebbero riconsiderate. Infatti solo con la prevalenza del
"si" viene dischiusa la possibilità nei sessanta giorni successivi al 15
Giugno di un percorso legislativo in cui politica ed economia si pongano al
servizio dei diritti.

In questi giorni si legge che le conseguenze del referendum sarebbero
vessatorie per i datori di lavoro e che si renderebbe impossibile la
sopravvivenza di un intero settore dell'economia, con la conseguente
perdita di posti di lavoro. E' facile osservare che la norma attuale è
discriminatoria per i lavoratori e che di questo non se ne parla proprio.
Giancarlo Paletta, nel dichiarare l'astensione del PCI sullo Statuto, aveva
messo in guardia che con la soglia dei 15 dipendenti si sarebbe introdotta
una divisione da recuperare prima o dopo nel mondo del lavoro. Ecco quindi
l'opportunità perché la sfida di rendere esigibile il reintegro per giusta
causa anche sotto la soglia attuale venga modulata nel tempo con una serie
di misure che incidano sulla struttura produttiva e sull'organizzazione del
lavoro in modo tale che la competizione si trasferisca dai costi alla
qualità, alla cooperazione, all'immissione di tecnologia e conoscenza, al
credito agevolato per obiettivi: tutti temi decisivi ma mai affrontati
perchè nella quotidianità si lascia spazio ad un accanimento vero e proprio
sul fattore lavoro.

In questo modo l'Italia, anziché entrare nell'"economia della conoscenza",
obiettivo di un'Europa sociale, e produrre stabilità attraverso la
formazione e la valorizzazione del fattore umano, si fa sostenitrice di un
modello di precarizzazione, incrementando la propria presenza nelle
piccolissime imprese attraverso una attività produttiva di beni e servizi
condizionata da fattori di costo. Con il doppio effetto di portarci in una
zona bassa della competizione internazionale e di condizionare lo sviluppo
dei diritti.

Quando si pensa che tutte le azioni economiche e commerciali di successo
per le imprese minori (distretti, consorzi, trasferimento di tecnologia,
marchi di qualità) ne aumentano virtualmente la dimensione per dare
efficacia a rapporti economico-produttivi di tipo cooperativo, non si
capisce perché una azione per i diritti non debba situarsi in una medesima
prospettiva accompagnandosi a misure ad hoc di politica economica ed
industriale e debba invece sottostare alla peggiore competizione al ribasso.

Tra l'altro, pochi considerano la riduzione della platea degli aventi
diritto che si è già  verificata dall'approvazione dell'articolo 18 ad
oggi, riduzione che dal punto di vista politico, in particolare per la
sinistra, è un problema di non poco conto. A parte il pubblico impiego,
dove l'applicazione vale in qualsiasi unità del territorio nazionale, nel
settore privato l'effetto congiunto dell'aumento degli occupati nelle
piccole imprese, dell'esplosione del lavoro parasubordinato e
dell'estensione abnorme dei contratti atipici, ha comportato dal 1970 ad
oggi la sottrazione del 20% della forza lavoro occupata all'obbligo del
reintegro, con uno scompenso  più sfavorevole per le nuove generazioni.
Sono modifiche strutturali della produzione e dell'organizzazione del
lavoro ad avere provocato questo sconvolgimento, ma è del tutto
comprensibile che la rappresentanza del lavoro chieda ora di correggere
questa asimmetria, che va a totale vantaggio delle imprese.

Da ultimo occorre pensare anche alle prospettive sindacali di un successo
del si. Sul piano dei diritti si potrebbero considerare ad esempio le
comunicazioni anche in rete tra lavoratori dispersi nella catena
produttiva, le assemblee territoriali, i permessi retribuiti a rotazione,
l'accesso allo scambio di informazioni via Internet, locali e bacheche
autogestite in mense interaziendali. Metteremmo infatti alla prova anche
nell'area del lavoro più esposta le tutele del Titolo III dello Statuto,
oggi applicabili solo sopra i 15 dipendenti, che consentirebbero la nascita
di un sindacato "dei" e non "per" i lavoratori, come sta a cuore alla CGIL.

In fondo, con la discussione sul contenuto di  questo referendum stiamo
riscoprendo come la soglia dei 15 dipendenti appartenga ad un modello non
generalizzabile e sia anacronistica rispetto alle prospettive. C'è chi
punta ad abbatterla verso l'alto, ma per estendere a tutti il risarcimento
monetario e chi,  al contrario, ne vuole eliminare l'incongruenza cogliendo
la sfida attualissima del valore del lavoro e dell'irriducibilità della
persona. Questo alla fine è il senso della polarizzazione in atto.

Si tratta di una dicotomia ancora presente nella prospettiva costituente
dell'Europa  e ancora non pienamente risolta nemmeno con la Carta dei
Diritti Fondamentali. Il Forum Sociale Europeo di Parigi, a Novembre,
assumerà il tema della dignità e del diritto universale del lavoro nella
piattaforma con cui andrà al confronto con le proposte della Convenzione,
che fin qui sembrano appannaggio di riservate decisioni di una ristretta
elite guidata da Giscard d'Estaing. Sarebbe imbarazzante trovarci ad un
appuntamento di movimento, magari di massa e condiviso come quello del 2002
a Firenze, per avanzare le stesse richieste che si sono eluse quando erano
in campo in un appuntamento democratico come quello del 15 Giugno.






 SAMIR AMIN



L'IDEOLOGIA AMERICANA: LIBERISMO SENZA CONSENSO, CAMUFFATO DA
FONDAMENTALISMO PARARELIGIOSO E IMPACCHETTATO NELLA RETORICA DELLA
DEMOCRAZIA



Oggi gli Stati Uniti sono governati da una giunta di criminali di guerra,
arrivata al potere quasi con un colpo di stato, dopo elezioni dubbiose (ma
perfino Hitler era stato eletto correttamente!). Dopo il suo "incendio del
Reichstag" (l'11 settembre) questa giunta ha accordato alla polizia dei
poteri analoghi a quelli in dotazione a suo tempo alla Gestapo. La giunta
ha il suo "Mein Kampf" (The National Security Strategy of the United
States, del 2002), le sue organizzazioni di massa (l'Associazione dei
Patrioti) e i suoi predicatori. Bisogna avere il coraggio di proclamare
queste verità, e smettere di nascondersi dietro la frase ormai insipida e
beffarda "i nostri amici americani".

La cultura politica è il prodotto della storia considerata sulla lunga
durata, ed è naturalmente caratteristica di ogni paese. Quella degli Stati
Uniti è segnata su questo piano da specificità molto diverse da quelle che
caratterizzano la storia del continente europeo: la fondazione della Nuova
Inghilterra da parete di sette protestanti estremiste, il genocidio degli
indiani, la schiavitù dei neri, lo sviluppo dei "comunitarismi" sorti con
la successione delle ondate migratorie del XIX secolo.

La modernizzazione, il laicismo e la democrazia non sono il prodotto di una
evoluzione (o rivoluzione) delle interpretazioni religiose, ma al contrario
queste si sono adattate, più o meno felicemente, alle esigenze di quelli.
Tale processo di adattamento non è stato privilegio del protestantesimo.
Nel mondo cattolico ha operato in maniera certo diversa, ma non meno
efficace. In tutti i casi ha creato un nuovo spirito religioso, liberato
dai dogmi. In questo senso la Riforma non era la "condizione" dello
sviluppo del capitale, anche se tale tesi (di Weber) gode di larga
popolarità nella società che è oggetto della sua lusinga (l'Europa
protestante). La Riforma non è neppure stata la forma più radicale di
rottura ideologica con il passato europeo e le sue ideologie "feudali" -
fra le altre la sua precedente interpretazione del cristianesimo. Al
contrario, ne è stata la forma più confusa e primitiva.

Vi è stata una "riforma delle classi dominanti" che si è saldata con la
creazione di chiese nazionali (anglicana, luterana) controllate da tali
classi e che sanciva un compromesso fra la borghesia emergente, la
monarchia e la grande proprietà rurale, scartando la minaccia delle classi
popolari e dei contadini. L'arretramento dell'idea cattolica di
universalità che si è espresso nell'istituzione delle chiese nazionali ha
svolto un'unica funzione: radicare più profondamente la monarchia,
rafforzarne il ruolo di arbitro fra le forze dell'Ancien Régime e quelle
rappresentate dalla borghesia in ascesa, rafforzare il loro nazionalismo e
ritardare il sorgere di nuove forme di universalismo, che
l'internazionalismo socialista avrebbe proposto più tardi.

Ma ci sono stati anche dei movimenti di riforma che si sono impadroniti
degli strati popolari vittime delle trasformazioni sociali prodotte dal
capitalismo emergente. Tali movimenti hanno riprodotto forme antiche di
lotta - quelle dei millenarismi medievali - che non erano avanzate rispetto
al loro tempo, ma bensì in ritardo rispetto alle sue esigenze. Si è dovuto
attendere la Rivoluzione francese - con le sue mobilitazioni popolari
laiche, democratiche e radicali - e poi il socialismo perché le classi
dominate imparassero a esprimersi con efficacia nelle nuove condizioni. Le
sette protestanti in questione si sono nutrite di illusioni di tipo
fondamentalista. Hanno creato un terreno favorevole alla riproduzione
infinita di "sette" portatrici di visioni apocalittiche, come quelle che si
vedono fiorire negli Stati Uniti.

Le sette protestanti che si sono trovate costrette a emigrare
dall'Inghilterra del XVII secolo avevano sviluppato un'interpretazione
assai particolare del cristianesimo, che non è condivisa né dai cattolici
né dagli ortodossi, e neppure - almeno non allo stesso grado di estremismo
- dalla maggioranza dei protestanti europei, compresi naturalmente gli
anglicani, che dominavano fra le classi dirigenti inglesi. La Riforma nel
suo complesso rimetteva in primo piano l'Antico Testamento che cattolici e
ortodossi avevano emarginato, in una interpretazione del cristianesimo non
come proseguimento, ma come rottura del giudaismo.

La forma particolare di protestantesimo impiantata nella Nuova Inghilterra
è destinata a segnare l'ideologia americana con un forte impronta, fino ai
nostri giorni. Sarà il motivo per cui la nuova società americana partirà
alla conquista del continente, legittimandola con termini estratti dalla
Bibbia (la conquista violenta della terra promessa da parte di Israele,
tema ripetuto a sazietà nel discorso americano). Più tardi gli Stati Uniti
estenderanno a tutto il pianeta il loro progetto di realizzare l'opera che
"Dio" ha loro ordinato di compiere. Il popolo degli Stati Uniti si
percepisce come "popolo eletto" - sinonimo nei fatti di "Herrenfolk", per
riprendere il parallelo con la terminologia nazista. Oggi siamo a questo
punto. Ed è la ragione per cui l'imperialismo americano (non l'"Impero") è
destinato a diventare ancora più selvaggio dei suoi predecessori, che
peraltro non si dichiaravano investiti da una missione divina.

Io non sono fra quelli che pensano che il passato diventi per forza di cose
"trasmissione atavica". La storia trasforma i popoli. In Europa è successo
così. Disgraziatamente lo svolgersi della storia degli Stati Uniti, lungi
dal contribuire a cancellare la mostruosità originaria, ne ha rafforzato
l'espressione e perpetuato gli effetti, che si tratti della "Rivoluzione
americana" o del popolamento del paese da parte di ondate migratorie
successive.

La "rivoluzione americana" oggi vantata più che mai, è stata solo una
guerra di indipendenza limitata, senza alcun effetto sociale. Nella loro
rivolta contro la monarchia inglese, i coloni americani non volevano
trasformare nulla nei rapporti economici e sociali, ma soltanto non
condividerne più i profitti con la classe dirigente della madrepatria. Essi
volevano il potere per se stessi, non per fare cose diverse da ciò che
facevano nell'epoca coloniale, ma per continuare a farle con maggior
determinazione e maggiore profitto. Il loro principale obiettivo era
l'espansione a ovest, che fra l'altro implicava il genocidio degli Indiani.
In questo contesto, il mantenimento della schiavitù non era minimamente in
discussione. I grandi capi della rivoluzione americana erano quasi tutti
grandi proprietari schiavisti e i loro pregiudizi in questo campo erano
incrollabili.

Il genocidio degli Indiani si è iscritto del tutto naturalmente nella
logica di missione divina del nuovo popolo eletto. E non si creda che si
tratti di un passato del tutto passato. Fino agli anni 60 il genocidio è
stato rivendicato con orgoglio (mediante i film di Hollywood che opponevano
il cow-boy - simbolo del Bene - all'indiano - il Male) e ha costituito un
elemento importante nella "educazione" delle generazioni successive.

Lo stesso per la schiavitù. Dopo l'indipendenza, è passato quasi un secolo
prima che la schiavitù fosse abolita, non per ragioni morali, come aveva
invocato la Rivoluzione francese, ma soltanto perché non era più
conveniente nel contesto dell'espansione capitalista. Ci volle poi ancora
un secolo perché i Neri americani si vedessero riconoscere un minimo di
diritti civili, senza peraltro scuotere il razzismo perfetto della cultura
dominante. Fino agli anni 60 si procedeva ai linciaggi, e le famiglie
facevano pic-nic per assistere all'esecuzione, condividerne l'allegria e
scambiarsi le foto dei linciaggi precedenti. La cosa si perpetua con
maggiore discrezione, o in maniera indiretta, con l'esercizio della
"giustizia" che manda a morire migliaia di condannati - quasi tutti Neri -
di cui si sa che almeno la metà sono innocenti, senza che l'opinione
pubblica se ne preoccupi più di tanto.

Le ondate successive di immigrazione hanno svolto il loro ruolo nel
rafforzamento dell'ideologia americana. Gli immigranti non sono certo
responsabili della miseria e dell'oppressione all'origine della loro
partenza. Al contrario, ne sono le vittime. Ma le circostanze - cioè la
loro emigrazione - li portano a rinunciare alla lotta collettiva per
cambiare le condizioni comuni di classe o di gruppo nei rispettivi paesi,
per aderire all'ideologia del successo individuale nel paese che li
accoglie. Tale adesione è incoraggiata dal sistema americano, che ne trae
ogni vantaggio. Ritarda la presa di coscienza di classe, che appena
comincia a maturare, deve fronteggiare una nuova ondata migratoria e non
riesce a realizzarsi sul piano politico. Ma nello stesso tempo la
migrazione incoraggia il comunitarismo della società americana. Il successo
individuale non esclude l'inserzione forte in una comunità originaria (gli
irlandesi, gli italiani ecc.) senza la quale l'isolamento individuale
rischierebbe di essere insopportabile. Qui ancora il rafforzamento di
questa dimensione dell'identità - che il sistema americano recupera e
incoraggia - avviene a detrimento della coscienza di classe e della
formazione del cittadino.

Quando a Parigi il popolo partiva "all'assalto del cielo" (mi riferisco
alla Comune del 1871) negli Stati Uniti le bande costituite dalle
generazioni successive di immigranti poveri (irlandesi, italiani ecc.) si
ammazzavano reciprocamente, manipolate con perfetto cinismo dalle classi
dominanti.

Negli Stati Uniti non esiste alcun partito operaio, non è mai esistito. I
sindacati operai, peraltro potenti, sono "apolitici". Lo sono in tutti i
sensi del termine, non avendo come riferimento alcun partito loro prossimo
per natura, e non essendo neppure capaci di sostituirvisi producendo essi
stessi un'ideologia socialista. Essi condividono con tutta la società
l'ideologia liberale, che domina senza rivali. Continuano a battersi per
rivendicazioni limitate e precise che non mettono in discussione il
liberismo. In un certo senso sono dei "post-moderni", e lo sono sempre
stati.

Le ideologie comunitarie non potevano costituire un sostituto all'assenza
di un'ideologia socialista della classe operaia. Neppure per la più
radicale, cioè la comunità nera. Giacché per definizione il comunitarismo
si inserisce nel quadro del razzismo generalizzato che esso combatte sul
proprio terreno, senza andare oltre.

Uno degli aspetti più trascurati nell'analisi delle differenze che
oppongono le ideologie "europee" (nella loro diversità) all'ideologia
americana è quello dell'impatto esercitato dalla filosofia illuminista
nella rispettiva formazione.

Come è ben noto, la filosofia illuminista è l'elemento di partenza decisivo
per la costituzione delle culture e delle ideologie dell'Europa moderna,
tanto che il suo impatto è rimasto importante fino ai nostri giorni. Ciò è
vero non solo per i centri precoci del capitalismo in formazione, sia
cattolici (Francia) che protestanti (Inghilterra e Paesi Bassi), ma anche
per la Germania e perfino per la Russia. Negli Stati Uniti invece la
filosofa illuminista ha avuto un impatto solo marginale e ha interessato
una frangia "aristocratica" (e schiavista) rappresentata da Jefferson,
Madison e pochi altri, mentre la Nuova Inghilterra delle sette restava
impermeabile al suo spirito critico. La sua cultura dominante è più vicina
alle streghe di Salem che all' "empio" Illuminismo.

Il risultato di tutto ciò, che si è affermato man mano che si rafforzava la
borghesia "yankee" uscita in primo luogo dalla Nuova Inghilterra, è stato
una sostituzione semplice ma falsa: che la Scienza (bisogna intendere le
scienze esatte - la fisica) regola il divenire della società. E'
un'opinione comune senz'altro condivisa negli Stati Uniti, da più di un
secolo, sia fra le classi dominanti che nel popolo.

A me sembra che appunto questa sostituzione spieghi alcuni tratti
caratteristici dell'ideologia americana. Anzitutto l'insignificanza della
sua filosofia, ridotta alla versione più miserabile dell'empirismo. Poi il
suo sforzo costante di ridurre le scienze dell'essere umano e della società
a scienza "pura" (e "dura"): l'economia "pura" al posto dell'economia
politica, la "scienza della genomica" all'antropologia e alla sociologia.
Questa deriva - ahimè - avvicina molto l'ideologia americana contemporanea
a quella promossa dai nazisti, e trova un terreno fertile nel profondo
razzismo che la storia ha prodotto negli Stati Uniti. Da questa visione
della Scienza risulta poi un'ulteriore deriva: l'attrazione per le
costruzioni cosmologiche (il "Big Bang" ne è l'espressione più popolare).
L'Illuminismo aveva fatto capire che la Fisica è la scienza delle
"particelle dell'universo scelte come campo di ricerca", non la scienza
dell'Universo nella sua totalità, che è un concetto metafisico e quindi non
scientifico. Su questo terreno, il pensiero americano è più vicino alla
concezione pre-moderna (per non dire medievale), preoccupata anzitutto di
conciliare fede e ragione, piuttosto che alla tradizione scientifica
moderna. Questa deriva - all'indietro - era assai adatta alle sette
protestanti della Nuova Inghilterra, come alla società immersa in una
religiosità diffusa che essa ha generato.

Il pericolo prodotto da queste derive minaccia ormai l'Europa, come è ben noto.

La combinazione tipica della formazione storica della società statunitense
- dominio di un' ideologia religiosa "biblica" e assenza di partiti operai
- ha prodotto una situazione ancora senza paragoni, quella di un partito di
fatto unico, il partito del capitale.

I due segmenti che costituiscono tale partito unico condividono lo stesso
liberismo fondamentale. L'uno e l'altro si rivolgono alla sola minoranza -
il 40% dell'elettorato - che "partecipa" a questo tipo di vita democratica
tronca e impotente loro offerta. Ogni segmento ha la propria clientela -
nelle classi medie, visto che le classi popolari non votano - e vi ha
adattato il proprio linguaggio. Ognuno cristallizza al proprio interno un
conglomerato di interessi capitalistici segmentati (le lobbies) o dei
sostegni "comunitari".

La democrazia americana costituisce oggi il modello avanzato di ciò che io
definisco "democrazia a bassa intensità". Il funzionamento è fondato su una
separazione totale fra la gestione della vita politica,  basata sulla
pratica della democrazia elettorale, e quella della vita economica,
regolata dalle leggi dell'accumulazione del capitale. Tale separazione poi
non è oggetto di discussione radicale, ma fa parte di quel che si definisce
il consenso generale. Ma essa annienta tutto il potenziale creativo della
democrazia politica e castra le istituzioni rappresentative (parlamenti e
altre), rese impotenti di fronte al "mercato" di cui accettano i diktat.
Votare democratico o votare repubblicano non ha alcuna importanza, giacché
il futuro non dipende dalle scelte elettorali ma dalle vicende del mercato.

Lo Stato americano è perciò al servizio esclusivo dell'economia (cioè del
capitale di cui è fedele servitore esclusivo, senza doversi preoccupare di
altri e diversi interessi sociali). E può esserlo perché la formazione
storica della società americana ha bloccato - nelle classi popolari - la
maturazione di una coscienza politica di classe.

In Europa invece lo Stato ha rappresentato (e può tornare a essere) il
punto di passaggio obbligato del confronto fra interessi sociali e su
quella base favorire i compromessi storici che danno senso e portata reale
alla pratica democratica. Se lo Stato non è obbligato a svolgere tale
funzione dalle lotte di classe e dalle lotte politiche che mantengono la
propria autonomia di fronte alle logiche esclusive dell'accumulazione del
capitale, allora la democrazia diventa una pratica beffarda, proprio come è
negli Stati Uniti.

La combinazione di una religiosità dominante, sfruttata a vantaggio di un
discorso fondamentalista, e dell'assenza di coscienza politica delle classi
dominate conferisce al sistema di potere degli Stati Uniti un margine di
manovra senza confronti, che annulla la portata potenziale delle pratiche
democratiche riducendole allo status di rituali anodini
(politica-spettacolo, inaugurazione delle campagne elettorali con le
sfilate di majorettes ecc.).

Ma attenzione a non sbagliarsi. Non è questa ideologia fondamentalista
dalle pretese religiose che si trova ai posti di comando e imporrebbe la
sua logica ai veri detentori del potere - il capitale e i suoi servi nello
Stato. E' bensì il capitale che prende da solo tutte le decisioni più
convenienti e solo successivamente mobilita l'ideologia americana in
questione per metterla al suo servizio. I mezzi utilizzati - una
disinformazione sistematica mai vista - riescono allora efficaci, perché
isolano gli spiriti critici e li sottopongono a un ricatto odioso e
permanente. Il potere riesce così a manipolare senza difficoltà una
"opinione pubblica" mantenuta nella stupidità.

In questa situazione, la classe dirigente degli Stati Uniti ha sviluppato
un cinismo perfetto, avvolto in un'ipocrisia che tutti gli osservatori
stranieri possono constatare, ma che il popolo americano non riesce mai a
vedere! Inoltre, tutte le volte che è necessario, viene usata la violenza
nelle sue forme più estreme. Tutti i militanti radicali americani lo sanno:
vendersi o essere assassinati è la sola scelta che gli viene lasciata.

L'ideologia americana, come tutte le ideologie, subisce l'usura del tempo.
Nei periodi "calmi" della storia - segnati da una buona crescita economica
accompagnata da ricadute sociali giudicate soddisfacenti - la pressione che
la classe dirigente deve esercitare sul popolo si allenta. Di quando in
quando, secondo i bisogni del momento, tale classe dirigente "gonfia"
l'ideologia americana con mezzi che sono sempre gli stessi: viene indicato
un nemico (sempre esterno, la società americana è buona per definizione),
l'Impero del Male o l'asse del Male, che permette la "mobilitazione totale"
di tutti i mezzi destinati ad annientarlo. Ieri era il comunismo, che ha
permesso - con il maccartismo (opportunamente dimenticato dai
filo-americani) di intraprendere la guerra fredda e subalternizzare
l'Europa. Oggi è il "terrorismo", pretesto evidente (l'11 settembre
assomiglia talmente all'incendio del Reichstag) per far passare il vero
progetto della classe dirigente: garantirsi il controllo militare del
pianeta.

L'obiettivo dichiarato della nuova strategia egemonica degli Stati Uniti è
di non tollerare l'esistenza di una potenza capace di resistere ai comandi
di Washington, e perciò di cercar di smantellare tutti i paesi giudicati
"troppo grandi" e di creare il massimo di Stati sottomessi, prede facili
per stabilirvi basi americane che ne assicurino la "protezione". Un solo
Stato ha il diritto di essere "grande", gli Stati Uniti, come hanno detto
gli ultimi tre Presidenti (Bush senior, Clinton e Bush junior).

L'egemonia degli Stati Uniti riposa dunque in definitiva più sulla
sovradimensione della loro potenza militare che sui "vantaggi" del loro
sistema economico. Possono dunque porsi come leaders incontestati della
Triade, facendo della loro potenza militare il "pugno visibile" che impone
il nuovo ordine imperialista agli eventuali recalcitranti.

Incoraggiata da questi successi, l'estrema desta americana è riuscita a
prendere le redini del potere a Washington. Ormai la scelta è chiara:
accettare l'egemonia degli Stati Uniti e il virus liberale rafforzato,
ridotto al principio elementare di "make money" (far soldi), o rifiutare
l'uno e l'altro. La prima alternativa dà a Washington la responsabilità di
"rimodellare" il mondo a immagine del Texas. La seconda è la sola che possa
contribuire alla ricostruzione di un mondo pluralistico, democratico e in
pace.

Se avessero reagito nel 1935 o nel 1937, gli europei sarebbero riusciti a
fermare il delirio hitleriano. Reagendo solo nel settembre 1930 si sono
inflitti decine di milioni di vittime. Bisogna agire perché di fronte alla
sfida dei neo-nazisti di Washington, la risposta sia più tempestiva.

L'ideologia americana - come contenuto essenziale - si riduce a un
liberismo (economico) senza condivisione, prodotto da un "consenso" che
l'assenza di coscienza politica delle classi dominate (che ho spiegato con
la storia della formazione sociale americana tracciata prima) non ha
permesso di intaccare in maniera sufficientemente seria. Tale ideologia -
molto povera - si cela dietro un discorso fondamentalista para-religioso.
Poi viene il processo di imballaggio della merce in una retorica insipida
sulla "democrazia". Che la classe dirigente può allora manipolare
svergognatamente, con una quasi certezza di successo presso l'opinione
stupida che essa ha creato. Sentir dire che negli Stati Uniti l'opinione
pubblica ha un peso notevole - e a volte anche decisivo - nella formazione
delle decisioni - cosa che tutti i filoamericani ripetono, dietro i
liberali come dietro ai conservatori - dovrebbe far sorridere. Esistono
pochi casi al mondo in cui l'opinione pubblica è altrettanto manipolata
come negli Stati Uniti. L'insipida retorica democratica con cui
impacchettano la loro merce impegna solo coloro che sono così ingenui (o
hanno interesse a farsi passare per tali) da credervi.



Bibliografia:



Questo scritto sintetizza idee sviluppate nei dettagli nei miei tre libri
seguenti:



Samir Amin, Le virus libéral, la guerre permanente et l'américanisation du
monde ; Le temps des Cerises, 2003, section IV-2, pages 71 et suivantes.



Samir Amin, L'eurocentrisme, critique d'une idéologie ; Economica -
Anthropos, 1988 ; chap II-section I, pages 55 et suivantes.



Samir Amin, Modernité, Démocratie et Religion, Critique des culturalismes ;
in corso di pubblicazione, Première Partie section II, Modernité et
interprétation des religions.



Voir également, pour la critique de la « Science » comme idéologie :



François Lurçat, L'autorité de la Science, CERF, Paris 1995.








Novità Edizioni Punto Rosso



Piero Pagliani

Alla conquista del cuore della terra
Gli Usa: dall'egemonia sul "mondo libero" al dominio sull'Eurasia

Il mondo sta vivendo la fase discendente di una parabola storica
caratterizzata dalla supremazia degli Stati Uniti. Le stesse dinamiche che
nella prima metà del secolo scorso spingevano questa grande nazione a
contrapporsi agli Imperi Centrali prima e al nazifascismo in seguito, la
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ripresentando in forma nuova molti degli inquietanti fenomeni che
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No money, please!

Favoletta civile per tempi difficili

- "Il quadro può essere anche suggestivo", rispose con tono pacato il
vecchio professore "ma se viene abolito il denaro, che cosa accade?"

 "Questo è proprio il fatto nuovo!

Occorre introdurre un'altra unità di misura per regolare la convivenza
sociale e allora ci si accorge che tutte le cose, proprio tutte, cambiano
di fisionomia e di contenuti, come si diventassero altra cosa…"

- "Credo di capire ciò che dici: ciascun uomo sarà fornito di uno strumento
assolutamente individualizzato e pressoché invisibile, che potrà
permettergli di segnare e registrare all'istante qualsiasi operazione
intenda compiere…"

"Certo, ma non solo. Questo strumento renderà impossibile l'accumulo e il
furto della ricchezza materiale da parte di chiunque. Praticamente renderà
impossibile quella violenza che nella quasi totalità dei casi ha origine e
giustificazione con il denaro e il potere che ne deriva".

La prima parte di questa favoletta civile per tempi difficili, pensata
soprattutto per il mondo giovanile, che durante gli anni '90 in particolare
appariva a tutti disgregato, disperso e confuso, è stata pubblicata in
edizione non venale nell'ottobre 2000.

   I fatti e gli avvenimenti si succedono, a volte, imprevedibili, rapidi,
drammatici.

   Cosi, il crollo delle Torri un anno dopo, e il diffondersi sempre più
esteso di un movimento globale assai critico nei confronti della cosiddetta
new economy, hanno suggerito le pagine della seconda parte, allegate con il
titolo "…cinquecento anni dopo".

Nel suo insieme la proposta vuole stimolare una platea più vasta a una
rivisitazione necessaria della realtà, cosi che possa poi diventare più
facile individuare nel buio dei nostri giorni le strade più adatte per
incominciare a costruire, finalmente e per tutti!, una civiltà a dimensione
umana.

Collana Varia, pp. 169, 10 Euro.





F. Houtart, S. Amin (a cura di)
La globalizzazione delle resistenze
Lo stato delle lotte 2002/2003
Il libro raccoglie i contributi di diversi autori da tutte le parti del
mondo sullo stato delle lotte nei diversi continenti e alcuni saggi sui
temi principali della resistenza alla globalizzazione capitalistica e sulle
sue alternative. Collana Libri FMA/8, pp.320, 14 Euro.



Atilio Boron
Impero & Imperialismo
Dal presidente della CLACSO argentina, un critica radicale del libro di
Negri e Hardt, Impero. Collana Varia, pp. 160, 10 Euro.





Quaderni di Alternatives Sud
Il potere delle transnazionali
Il punto di vista del Sud
Dall'Argentina, al Congo, all'India, il ruolo delle trans-nazionali nel
dominio planetario della globalizzazione. Pp. 220, 13 Euro.



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