Guerre&Pace: L'Italia in guerra



TERRITORI OCCUPATI

L’Italia in guerra

di Walter Peruzzi

I silenzi di Ciampi sulle violazioni della Costituzione, una sfacciata disinformazione e soprattutto il comportamento della maggioranza ulivista hanno aiutato Berlusconi a uscire dall'angolo in cui l'aveva cacciato uno straordinario movimento per la pace, oggi impegnato a riflettere su come incidere nei luoghi del potere politico


Uno dei pochi aspetti positivi di questo conflitto, aveva scritto Giorgio Bocca su "La Repubblica", è di aver messo a nudo la pochezza del Piccolo Cesare, stretto fra l'esigenza di partecipare alla guerra e quella di non farla, "non belligerante" per gli italiani e arruolato per gli Usa. Ma l'ottimismo di Bocca si è rivelato eccessivo.

NON BELLIGERANTE E FILOusa
Il Piccolo Cesare è sgusciato senza farsi troppo male fra l'incudine dei sondaggi e il martello di Bush per rifare capolino a guerra finita (si fa per dire) sventolando il suo filoamericanismo. Certo, come ha dichiarato lui stesso il giorno della "presa" di Baghdad, avrebbe forse potuto "fare di più per gli amici americani", ma era "il massimo che si potesse fare" stante i catto-comunisti, il papa, l'articolo 11 e il temperamento pacioso dei nostri concittadini. Il governo italiano ha comunque contribuito a "non" fermare la guerra, consentendo il passaggio in Iraq delle armi e dei marines, opponendosi al cessate il fuoco e lavorando per impedire all'Europa di assumere una posizione unitaria contro il conflitto. Nel frattempo i sondaggi danno sempre minoritarie ma in recupero le posizioni favorevoli alla guerra (dal 30 al 43%) e di riflesso al suo governo. Era il massimo che potesse sperare. Nel quadro di questa politica mirante ad accreditare l'Italia come fedele vassallo degli Usa, rientra la trovata pubblicitaria degli "aiuti umanitari" all'Iraq, con carabinieri al seguito, varata dal parlamento il 15 aprile e anticipata dai giornali della famiglia Berlusconi con la campagna sui bambini iracheni.

QUANDO VOLANO GLI AVVOLTOI
"Mostrare i bambini spauriti e feriti dell'Iraq", ha scritto Alessandro Robecchi sul "manifesto" del 13 aprile, "era - fino a qualche giorno fa - segno di debolezza, malfede, intelligenza col nemico, pacifismo cacasotto… mezzuccio mediatico… roba da comunisti". Ma "ora, a missione compiuta, i bambini vengono buoni… Piccoli bambini prima affamati dal regime, poi ammazzati dall'embargo, poi bombardati dai liberatori… ora aiutati dal 'Giornale' con apposita sottoscrizione, sparati in copertina dal 'Foglio'… Sorridono tutti… tranne quelli fucilati ai check-point, che però di colpo non sono bambini, ma 'errori'". L'operazione "aiuti all'Iraq" è analogamente ipocrita, se si considera che il discorso strappalacrime sulle gravi sofferenze dei civili iracheni è fatto da quello stesso governo che ha contribuito a produrle sostenendo la guerra d'aggressione dopo aver praticato, insieme ai governi precedenti, un embargo che ha ucciso oltre un milione di persone. Ma è soprattutto una deliberata forma di sciacallaggio a fini politici. L'invio in gran fretta e con gran clamore di scarsi aiuti (molto poco influenti, se non scaduti e avariati come da tradizione) serve solo a legittimare la presenza dei soldati italiani sul fronte di guerra. Ha trasformato il Piccolo Cesare nella parodistica riedizione di Cavour in Crimea o di Mussolini alla rincorsa di Hitler in una guerra (creduta) vittoriosa. Precipitandosi a festa finita sul campo di battaglia (dove non ha potuto arrivare prima per via dei sondaggi), il filantropo di Arcore ha inteso far vedere "da che parte sta" l'Italia: una politica che deraglia perfino dal filoatlantismo della Dc e del Psi, attento agli interessi del capitalismo italiano specie in Medio Oriente, e che pare ancora una volta dettata da interessi propagandistici privati, cioè dalla voglia di lucrare, e di esibire in campagna elettorale, le briciole della ricostruzione o i galloni di vice-proconsole europeo dell'imperatore. Obiettivo quest'ultimo improbo, stando almeno all'accordo sulla centralità dell'Onu e sugli aiuti dell'Ue all'Iraq siglato il 16 aprile fra Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania senza coinvolgere nelle consultazioni preventive l'Italia…
COL FAVORE DELLE CIRCOSTANZE
Alcune circostanze favorevoli hanno permesso a Berlusconi di tirarsi parzialmente fuori dall'angolo in cui lo aveva cacciato un impetuoso movimento per la pace. La prima è stata la rapida fine della guerra di "liberazione" e soprattutto l'impegno dei telegiornali a venderla come tale, mostrando le folle (?) festanti e glissando su quelle che già manifestano contro i liberatori o lasciando in ombra la difficoltà di gestire e far incancrenire nel silenzio il dopoguerra iracheno, come si sta facendo per quello afghano. A favore di Berlusconi ha poi giocato la sfacciata disinformazione dei media. Non parlo delle inviate al fronte (quasi tutte donne), che ci hanno consentito di vedere la guerra meglio di quanto sia accaduto in passato, compresi i bombardamenti sulla stampa. E che sono state definire non a caso "veline di Saddam" dai più trivali esponenti del maschilismo fascista di An. Parlo degli insopportabili salotti organizzati da Cocuzza, Vespa e soci. Mentre i sondaggi e le incessanti manifestazioni davano il pacifismo al 70/80% nel paese, sul piccolo schermo, forse per ristabilire la par condicio, si avvicendavano all'80/90% (appena un po' meno sui grandi giornali d'informazione), i fans della guerra di Bush (vedi scheda). Si è riprodotta la spaccatura vista in occasione del G8 di Genova fra professionisti dell'informazione, intenzionati a dar almeno conto dei fatti, e professionisti della disinformazione (opinionisti di lungo corso, direttori di Tv e carta stampata, "esperti", politici, "strateghi") preoccupati di imbrogliare le carte. E che in parte, almeno, ci sono riusciti.

D'AMATO CONSENTE, CIAMPI COPRE
Non è poi mancato a Berlusconi il sostegno della Confindustria di D'Amato, che si è limitato a ricordargli di ripigliare la strada, da qualche tempo prudentemente abbandonata, delle "riforme" (leggi art. 18 e pensioni). E Berlusconi, riconoscente, ha fatto proprio al Convegno degli industriali le sue prime esternazioni del doposaddam, per vantare i meriti di guerra del governo ma anche per assicurare che metterà mano alle riforme cominciando dall'art. 41 della Costituzione ("sovietica") per riportare al centro l'impresa al posto dello stato e, tanto più, dei cittadini. Berlusconi non ha invece parlato di cambiare l'art. 11, perché gli bastano le interpretazioni di comodo fornite a inizio guerra dal consiglio della Difesa presieduto da Ciampi: un altro dei suoi aiutanti, con buona pace di chi si ostina a ritenerlo un baluardo contro le derive anticostituzionali della destra. Ai pacifisti di Asti, che gli chiedevano di far rispettare la Costituzione impedendo la partenza dalle nostre basi dei soldati statunitensi, Ciampi ha replicato, facendo il finto tonto, che non sarebbe partito nessun soldato italiano. Adesso, mentre partono anche quelli, è da presumere che Ciampi plaudirà all'azione "umanitaria".

CIAMBELLE DI SALVATAGGIO
DALL'OPPOSIZIONE
Infine, l'opposizione. Sotto la straordinaria pressione del movimento, e dato che la resistenza franco-russa-tedesca ha fatto mancare a Bush l'ombrello dell'Onu, l'opposizione è riuscita a unirsi in un voto parlamentare contro la guerra. Ma tutto è finito li. Di fronte alla concessione anticostituzionale delle basi, l'opposizione (o almeno la sua parte determinante) si è ben guardata dal saldare la protesta nelle aule e quella nelle piazze orientandole verso un duro scontro col governo, in modo da metterlo in crisi o in difficoltà. Ciò avrebbe richiesto di assediare i luoghi della politica e di fermare il paese, cosa che anche i sindacati confederali hanno evitato di fare, tolte le due ore di sciopero all'inizio dei bombardamenti. Col procedere della guerra, d'altra parte, nonché mettersi alla testa del movimento, l'opposizione ha stentato a tenergli dietro, tornando a dividersi fino all'indecente astensione della maggioranza ulivista sui "carabinieri umanitari". Berlusconi ha potuto così attendere senza patemi la fine dei combattimenti. Si è confermato che per la maggioranza ulivista il problema non era di contrastare Berlusconi e men che mai di mettere in crisi il suo governo, ma di riportare la barra al centro, riconducendo il correntone Ds nell'alveo del "riformismo" e dell'amicizia con la "grande democrazia americana", come è riuscita provvisoriamente a fare. L'obiettivo dei vari Fassino e Rutelli è azzerare i fastidiosi movimenti per tornare alla vecchia politica di palazzo, al vecchio neoliberismo dei governi di centro-sinistra e al duetto bipartisan fra i sostenitori di Bush e quelli di Blair, che hanno rimesso in onore dopo la guerra, aggrappandosi agli esili "distinguo" di Blair rispetto alla Casa bianca.

UN MOVIMENTO ENORME E COMPOSITO
Questo insieme di fattori negativi ha finito per pesare e ancora più peserà sul movimento per la pace, che è stata la più straordinaria novità del deprimente quadro politico italiano. Si tratta di un movimento non solo quantitativamente più esteso di quello cresciuto costantemente da Genova a Firenze, ma qualitativamente diverso perché vi sono confluiti accanto ai socialforum e ai disobbendienti, alla Rete Liliput e ai movimenti sindacali (non solo Cgil ma Cisl) o ai girotondi, pezzi della Margherita, molti militanti Ds non solo della sinistra ma soprattutto tanta gente comune anche moderata e il popolo delle parrocchie. Penso al mare di bandiere alle finestre; alle fiaccolate e ai dibattiti sul sagrato delle chiese; agli incontri promossi dall'Azione cattolica o da esponenti dei popolari; ai gruppi che il 15 febbraio a Roma sostenevano con calore gli slogan contro Berlusconi per irrigidirsi e discutere di fronte a quelli contro D'Alema, che ricordavano il Kosovo. Questo movimento di un'ampiezza senza precedenti non è solo "plurale" ma composito, per ciò stesso meno politicizzato, più influenzabile dalla disinformazione di guerra, più volatile. Limiti che si sono visti nella difficoltà di tradurre la domanda di pace in obiettivi politici, di trasformare la protesta contro la guerra di Bush in campagna per la caduta del governo Berlusconi. A orientarlo in questa direzione, ad aiutare questi passaggi, avrebbero dovuto essere le forze politiche contrarie alla guerra. Ma così non è accaduto né potrà accadere, per quanto si è già detto. E se non si vuole che il movimento torni ad essere - come è possibile - qualcosa di molto più scontato e modesto, i suoi diversi pezzi dovranno affrontare da soli, o con la compagnia di piccola parte dell'opposizione politica italiana (parte della minoranza ulivista, Rifondazione), i grossi problemi del dopopace.

I PROBLEMI DEL DOPOPACE
C'è un problema enorme di informazione-politicizzazione e di strumenti nuovi da inventare e mettere in campo a questo scopo, se si vuol tentare di comunicare con una massa tanto vasta ed eterogenea di persone, quotidianamente bombardate da una disinformazione che monopolizza i media. E come "oscurare il video", anziché farci intrappolare in dibattiti organizzati nei salotti tv per zittire i pacifisti? Come, più in generale, combinare il lavoro di informazione con azioni efficaci e mobilitanti, adeguate ai livelli di consapevolezza del movimento e in grado di farli crescere unendo la lotta per la pace a quella per la democrazia o la libertà d'informazione, il lavoro, gli immigrati, i diritti? È necessaria soprattutto, ha osservato Pietro Ingrao in una intervista del 13 aprile su "Liberazione", "una riflessione critica" che aiuti il popolo della pace a "cercare, apprendere, costruire i modi per incidere nei luoghi del potere politico". È sicuramente il problema più importante. E questo per un verso rende urgente un dialogo più trasversale, che finora è spesso mancato, fra i vari segmenti del movimento, anche i più lontani e diversi fra loro, in vista di individuare obiettivi comuni e forme almeno embrionali di collegamento. Per altro verso occorre che il movimento, almeno le sue parti più politicizzate, vada a un duro confronto con forze politiche sempre meno capaci di dirigere e rappresentare alcunché, perché si produca un indispensabile chiarimento fra chi sta con la screditata dirigenza ulivista e chi vuol costruire insieme ai movimenti una reale alternativa.



al suq della disinformazione

I cantori della guerra sono tanti che stilare un elenco è impossibile, senza far torto a qualcuno. Sono numerosi come cavallette ma molto diversificati: beceri (Belpietro Farina Feltri Teodori Schifani Tajani Selva Ostellino Panebianco) o poco più accorti (Ferrara Riotta Della Loggia), untuosi (Vespa), svagati (Cocuzza), finto-esperti (Arpino), raffinati (Sofri Allam Friedman); un campionario inesauribile in cui hanno cercato di infilarsi anche Rutelli e Fassino, contrari a questa guerra "ingiusta" ma desiderosi di una "rapida vittoria" Usa e inorriditi dallo slogan del povero Epifani ("né con Bush, né con Saddam"). Quanto ai temi della propaganda di guerra, ci fermeremo qui soprattutto sulla contrapposizione fra il "feroce dittatore" e la "grande democrazia", uno dei più gettonati per legittimare l'occupazione Usa, assolverla da ogni sospetto di motivi inconfessabili e trasformarla nel "25 aprile iracheno".
CHI HA GASATO I CURDI
Uno degli argomenti più usati per giustificare la guerra del 2003 è stato il feroce massacro dei kurdi compiuto da Saddam nel 1988 "gasando il suo stesso popolo" (Schifani e cento altri). 5.000 morti, spiega il prof. Teodori in un salotto tv; e si accolora talmente che i morti lievitano a 500.000. Finché lo ferma un kurdo, per ridimensionare il numero e chiarire che i gas li hanno gentilmente offerti gli Usa. Come, va aggiunto, il divieto alle sanzioni Onu contro Baghdad. Piuttosto improbabile una guerra degli Stati uniti quindici anni dopo, per punire un crimine di cui erano complici… Ma della ferocia di Saddam ci sono altre prove, fresche. Ce le ricorda Riotta sul "Corriere" quando, dopo centinaia di prigionieri iracheni mostrati dalle tv occidentali a mani alzate e con la pistola alla nuca, vengono mostrati dalla tv irachena cinque prigionieri Usa: si tratta di una propaganda-tipo, su cui soffermarsi.
FEROCIA ED ERRORI
"Chi, dopo decenni di sangue, nutriva ancora dubbi sulla ferocia del regime di Saddam Hussein", scrive Riotta, "deve meditare sulle immagini di ieri: in violazione della Convenzione di Ginevra i genieri americani hanno subìto le forche umilianti della tv, con il volto tumefatto dalle percosse. Il cadavere inquadrato dalla tv di stato di Baghdad sembrava vittima del colpo di grazia di un boia… La guerra è già orrenda se combattuta secondo le regole e le immagini dei raid contro l'Iraq ce lo ricordano ogni notte. Le sevizie la rendono ancor più inumana". I corpi dei civili sventrati dalle bombe rientrano nelle "regole", i prigionieri messi alla gogna e (forse) giustiziati sono invece segno della "ferocia" di Saddam. Ma lo stesso i conti non tornano. E Riotta se ne accorge qualche giorno dopo: "E Guantanamo? 'E i talebani detenuti nella base cubana, senza processo, legati, stretti in gabbia, con il Corano gettato nel bugliolo per umiliarli?' lamentano migliaia di messaggi sul Web. Sono preoccupazioni legittime e condivisibili. Gli Stati uniti hanno deciso… di considerare circa 600 prigionieri, talebani o terroristi di Al Qaeda, come 'combattenti illegali', non coperti quindi dalla Convenzione di Ginevra" ma insomma… E poi "nella prigione dell'Air Force americana a Bagram, in Afghanistan… due detenuti, anche loro 'combattenti illegali', sono morti. Elizabeth Rouse, medico legale dell'Aviazione, conferma: 'Si tratta di due omicidi, con traumi da corpo contundente'. Dire che la bisecolare democrazia americana e la dittatura di Saddam siano moralmente equivalenti - come tanti sciagurati fanno - è frutto di ignoranza o malafede. Le democrazie però sono tenute a uno standard etico senza equivoci o ipocrisie. Guantanamo, con le sue gabbie e i suoi cappucci, è un errore da eliminare." Si, avete capito bene. I 5 sbattuti in tv a Baghdad più un forse-giustiziato sono segno di "ferocia"; i 600 di Guantanamo più i due sicuri morti ammazzati di Bagram sono un "errore". Inoltre, per "ignoranza o malafede", Riotta come Fassino, Rutelli e altri trasforma in un confronto fra due sistemi politici quello sull'uso terroristico della guerra e della violenza, che accomuna i due antagonisti ed è il senso dello slogan "né con Bush, né con Saddam" (anche se il secondo massacra "il suo stesso popolo" e il primo le popolazioni altrui) . Così, evidentemente, non c'è partita: chi potrà non schierarsi con la "democrazia" contro la "dittatura", magari riconoscendo alla prima, già che c'è, anche il diritto di decidere quali sono "combattenti illegali" e quali “autorizzati"? Tanto più che "il nostro mondo… ha solo da temere dal crollo dell'impero" Usa, scrive su "Repubblica" Sofri, perché diventerebbe "una terra corsa da bande micidialmente armate di botulino e nervino e antrace": cose di cui gli Stati uniti abbondano. Fortuna che sono buoni.

un buco troppo piccolo
Ma la guerra intanto continua, stragi sui mercati incluse, e le vittime civili non fanno un bel vedere. Così il generale Arpino, ospite fisso al risiko di Vespa, si ostina a spiegarci per sere che il buco fatto dal missile è "troppo piccolo" per essere degli Usa; più probabile che sia della contraerea irachena, anche se Fink ha rintracciato e mostra un pezzo del missile con su stampigliata la provenienza Usa.

LE ARMI CHIMICHE NON SI TROVANO
Ma forse è in quel buco, anche se piccolo, che sono finite le introvabili armi di distruzione di massa. Vespa, un po' innervosito, chiede lumi su questo al solito Arpino che lo rassicura: gli iracheni le avevano sicuramente già nel 1991 (un già di troppo che non fa i conti con otto anni di ispezioni Onu) ma allora chi aveva ordine di usarle non si sentì di farlo ("feroci" o "bonaccioni" questi iracheni?) e adesso è troppo presto, le useranno solo all'ultimo momento. L'ultimo momento arriva e Vespa avverte Arpino che ancora non le usano. Ma i generali hanno una risposta per tutto: "Adesso è troppo tardi, chi dovrebbe usarle ha paura di essere processato per crimini di guerra". Neanche dopo si troveranno, a parte i "clamorosi" ritrovamenti, poi subito smentiti, di medicinali col teschio o di qualche "gas" urticante - meno di quelli usati a Genova e che adesso, forse, i nostri bravi carabinieri potranno introdurre in Iraq, insieme agli "aiuti"…

RIPORTARE LA DEMOCRAZIA
E poi, chi se ne frega se le armi chimiche (il motivo con cui si era giustificata la guerra) ci sono o no? Questa guerra è un 25 aprile, gridano anche i nazionalalleati, che pure non dovrebbero averne un buon ricordo… Questa guerra è fatta per "riportare la democrazia" in Iraq. Parola di Tajani. Qualcuno lo interrompe ricordando che in Iraq la democrazia non si può "riportare" perché non c'è proprio mai stata. Ma non si può pretendere che un deputato di Publitalia conosca la storia dell'Iraq e neppure che sappia, come spiega Enrico Baldoni sul cattolico "Eco di Bergamo", che portare la democrazia non significa "fare tabula rasa di un regime, senza preoccuparsi di creare le condizioni per un trapasso di potere", che "il 25 aprile italiano fu preparato anche da una Resistenza e trovò già pronto un governo di unità nazionale. A Roma non dovette insediarsi come governatore un generale americano" né "un governo formato da ministri stranieri" che gli italiani pur sconfitti non avrebbero "potuto accettare". Come, per verità, sembra stia succedendo anche in Iraq…

AGLI USA SOLO UN PEZZETTO DI TERRA
Nessuno ha neppure spiegato a noi perché se gli Stati uniti fanno addirittura una guerra per portare la democrazia in Iraq, non la portano in Arabia saudita e in Kuwait, dove basterebbe una telefonata, o hanno fatto sanguinosi colpi di stato per toglierla in Cile e in altri paesi dove c'era già. Eppure, se non fosse per la democrazia, perché mai gli Stati uniti sarebbero andati in Iraq? "Quando uno dei giornalisti egiziani", scrive Friedman su "Repubblica", "ha ripetuto che noi siamo qui per 'occupare l'Iraq', ho ricordato le parole di Colin Powell: l'America è un impero potente come molti altri nella storia, ma ogni volta che ha invaso un paese l'unico pezzo di terra che ha chiesto è un piccolo appezzamento per seppellire i soldati che non sarebbero tornati a casa". Commovente. E inevitabile, dato che il resto del territorio era ingombro dei cadaveri delle loro vittime. E neppure c'entra il petrolio iracheno. Ce lo assicura Magdhi Allam, convertitosi recentemente al partito della guerra e per questo forse ospite fisso di Vespa, rispondendo a un lettore su "Repubblica on line": "la gran parte dei proventi petroliferi serviranno a ricostruire un Paese totalmente disastrato da 35 anni di dittatura". Probabilmente per questo, come spiega su La Sette il sorridente "esperto" Paolo Raffone, gli Stati uniti hanno già dichiarato che il controllo delle risorse petrolifere sarà lasciato interamente in mano agli iracheni, cioè - aggiunge per gli increduli - "al nuovo governo iracheno". Quello, tanto per capirci, presieduto da un iraco-americano e formato da ministri statunitensi. Adesso, finalmente, è tutto molto più chiaro…

w. p.