Guerre&Pace: La “quarta guerra mondiale”



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La “quarta guerra mondiale”

di Achille Lodovisi

L’occupazione militare, “flessibile ma stabile” dell’Iraq servirà a favorire i progetti di intervento nell’intero Medio Oriente. Ma l’amministrazione Bush non si fermerà
a questo, fedele alla “guerra infinita” dichiarata oltre un anno fa


Le masse di iracheni festanti che, secondo quanto assicuravano alcuni esponenti dell’opposizione a Saddam in esilio, avrebbero dovuto accogliere le truppe anglo-statunitensi non si sono palesate. Solo una mentalità criminale e cinica poteva pensare a una accoglienza favorevole nei confronti di chi, per dodici anni, ha largamente contribuito a uccidere e affamare un intero popolo. La stessa cattiva presunzione ha ispirato il piano militare per l’invasione, secondo il quale la popolazione, guidata dai commandos statunitensi, sarebbe dovuta insorgere provocando la caduta del regime e, appena iniziata l’invasione, l’esercito iracheno avrebbe dovuto arrendersi favorendo una “guerra lampo” di conquista. Invece il preconizzato collasso militare iracheno non si è registrato; al contrario, i primi dieci giorni di guerra sono stati un autentico calvario per gli anglo-statunitensi. Improvvisamente poi, nell’arco di poche ore, quello che sembrava essere un quadro estremamente negativo si è trasformato nel suo opposto. Le difese irachene sono collassate a causa della scomparsa della catena di comando e controllo, le truppe sono state abbandonate dai loro comandanti e la strada per Baghdad si è aperta: una “vittoria” tanto repentina da destare più di un sospetto su possibili patteggiamenti ed accordi segreti. Il meccanismo che ha portato alla dissoluzione delle forze armate irachene è ancora da chiarire e, in ogni modo, ha prodotto la diffusione in tutto il paese di una grande quantità di mezzi, piccole armi e munizioni che, come per i conflitti degli anni Novanta, potrebbero costituire l’arsenale per una insurrezione armata contro gli occupanti o per lo scoppio di una guerra civile.

BUSH NEI PANNI DI SHARON
Il progetto di insediare in tempi brevi al governo delle principali regioni del paese una classe dirigente filostatunitense è rimasto per ora lettera morta e l’armata dei “liberatori” si è trasformata immediatamente in una forza d’occupazione. In Iraq il conflitto continua sotto forma di guerra neocoloniale d’occupazione. Gideon Samet (1) ha coniato l’efficace termine di israelizzazione degli Stai uniti, un neologismo che ben descrive la nuova fase militare e politica. Al pari dell’esercito di Sharon, le truppe anglo-statunitensi hanno la necessità di operare ogni giorno in un ambiente umano largamente ostile, impiegando strategie e tattiche simili a quelle messe in atto dall’esercito israeliano in Palestina: dal punto di vista politico gli Usa non hanno insediamenti di coloni da difendere, tuttavia perseguono l’obiettivo di insediarsi politicamente e militarmente non solo a Baghdad ma in tutti i paesi della regione da loro giudicati “nemici” o “inaffidabili”. Tra Washington e Tel-Aviv la differenza non riguarda la strategia di assoggettamento e deprivazione politica, morale ed economica delle popolazioni; differenti sono la dimensione geopolitica dell’azione e la portata delle contraddizioni interne alle rispettive classi dirigenti, assai evidente negli Stati uniti. Qui gli eventi iracheni hanno accresciuto l’aggressività degli estremisti neoconservatori che sono giunti a chiedere, per bocca di Gingrich, la testa di Colin Powell, reo di aver proposto la ripresa del processo negozionale israelo-palestinese e di voler trattare con la Siria. Immediatamente il segretario di Stato ha lanciato un segnale di accondiscendenza verso i “falchi” minacciando di adottare sanzioni contro la Francia per punire la sua politica contraria alla guerra. Ovunque in Iraq regna il caos e i “liberatori” non fanno nulla e non sanno fare nulla (non conoscono né le leggi né la cultura locali) per contrastarlo perché esso è funzionale, in questa fase, al progetto di dominio volto a privare la popolazione della prospettiva di una vita futura di benessere, libertà e indipendenza. L’apparato politico, militare e affaristico anglo-statunitense sta mettendo in pratica quanto ha appreso sui meccanismi di dominio e riduzione in schiavitù, per mezzo del bisogno, della dipendenza, della violenza e del ricatto, prodotti dai conflitti degli anni Novanta nei Balcani, in Africa e in Medio Oriente. Questo disegno sembra essere il più adatto per giustificare una lunga permanenza militare in Iraq con circa 75.000 uomini, eventualità che è oggetto di notevoli contestazioni anche negli Usa, a causa dei costi e delle conseguenze politiche e militari che comporterà.

CHI ORIENTA IL “CAOS”?
Il fallimento del “vertice” di Nassiryia, le manifestazioni antistatunitensi della popolazione di fede sciita (2), la parte più povera degli iracheni - oggi privata anche dei servizi essenziali per la sopravvivenza - che nel sud del paese e nelle periferie della capitale reclama il governo degli ayatollah e minaccia di impugnare le armi contro le truppe anglo-statunitensi dando manforte alle milizie filo iraniane dello Sciri (4-8.000 uomini appoggiati da Teheran attive a Najaf, Karbala e Bassora, v. Barillari, p. 11), sono alcuni degli episodi che attestano la grave situazione di instabilità. Un quadro che potrebbe trasformarsi in uno scenario da incubo per i vertici Usa, incapaci di orientare secondo i propri piani il caos, con il formarsi di un’alleanza tra gli sciiti iracheni e l’Iran. Ma a minacciare un’insurrezione armata sono anche gli iracheni di fede sunnita. La volontà di unire sciiti e sunniti contro gli invasori, emersa nel corso delle manifestazioni, ha preoccupato alcuni degli “strateghi” neoconservatori di Washington. Immediatamente, si sono affrettati a ventilare sviluppi futuri a tinte fosche in cui il tentativo di imporre uno stato teocratico sciita provocherebbe l’insurrezione dei sunniti iracheni e l’intervento della Giordania e dell’Arabia Saudita (3). Mentre a Baghdad l’80% della popolazione è ancora priva di una regolare erogazione di acqua ed energia elettrica e non può usufruire di ospedali e scuole, continuano ovunque i saccheggi effettuati sotto gli occhi indifferenti delle truppe d’occupazione. Ma ciò che fa riflettere è la strategia “selettiva” delle distruzioni e delle ruberie, condotte da squadre organizzate e non da “disperati” in cerca di bottino; azioni tutte indirizzate a disgregare, disgiungere, distruggere, degradare le infrastrutture necessarie per ricostruire la convivenza civile, preservare l’identità culturale e nazionale e una organizzazione minimamente efficiente di governo. Sono stati devastati ospedali, archivi, musei, biblioteche e i ministeri più importanti per la ricostruzione di un embrione di normalità (sanità, pubblica istruzione, agricoltura e irrigazione) che, guarda caso, non interessano agli occupanti, ben pronti a proteggere il dicastero che gestiva le risorse energetiche del paese.

INSTABILITÀ DEL KURDISTAN
Nel Kurdistan iracheno tale scenario è reso ancora più drammatico dal diffondersi di tensioni e scontri a sfondo etnico tra la popolazione kurda, turcomanna e araba sunnita, quest’ultima trasferita dal regime iracheno a partire dagli anni Settanta nel tentativo di “arabizzare” la regione. Oggi l’intera area, soprattutto nelle zone rurali, è teatro di una spirale di vendette, saccheggi e rappresaglie messe in atto da bande criminali che si presentano come combattenti kurdi, con autentiche operazioni di pulizia etnica di alcuni villaggi arabi nei dintorni di Kirkuk (4). Del resto i dirigenti del Kurdistan Democratic Party e della Patriotic Union of Kurdistan, ora alleati degli anglo-statunitensi, nel corso della guerra civile scoppiata a metà degli anni Novanta si sono resi responsabili di gravi e documentate violazioni dei diritti umani che hanno indotto Amnesty International a chiederne l’esclusione dai nuovi organismi di governo (5). Dal canto suo la popolazione araba di Mosul ha chiesto l’allontanamento delle truppe Usa e dei guerriglieri kurdi dalla città, ma le proteste sono state sedate nel sangue con la morte di una trentina di persone; a Kirkuk le vendette contro i membri del partito Baath avrebbero provocato più di quaranta morti. In generale la situazione nel Kurdistan iracheno è molto instabile, e le formazioni armate kurde potrebbero giocare sui contrasti tra Usa e Turchia per accelerare il processo di indipendenza della regione, evento che renderebbe molto probabile un intervento militare di Ankara.

UN REGIME DI SADDAM SENZA SADDAM?
L’ambiente delle città irachene si è trasformato, nei giorni successivi alla “resa”, in una sorta di “selvaggio West” (6) dove la vita dei civili è minacciata congiuntamente dalle truppe d’occupazione, dalle bande armate che tentano di conquistare il controllo del potere locale (appoggiate in alcuni casi dagli stessi invasori) (7) e da gruppi di sbandati provenienti dalle file dell’esercito iracheno, della Guardia repubblicana e della milizia dei Fedayeen. I gruppi armati sovente assumono, a seconda delle opportunità, il doppio ruolo di saccheggiatori e tutori dell’ordine pubblico in veste di squadre di “autodifesa” al servizio di autoproclamatisi amministratori con i quali gli stessi anglo-statunitensi devono fare i conti. Inoltre si sta realizzando in parte quanto ipotizzato da Elijah Wald (8) nei primi giorni di guerra, ossia l’instaurazione di una dittatura brutale, capace di gestire in maniera funzionale agli interessi degli occupanti l’amministrazione della cosa pubblica, e la cui sintesi potrebbe essere racchiusa nell’espressione “un regime di Saddam senza Saddam”. Lo scenario della semplice sostituzione di un socio d’affari non più controllabile con altri completamente supini, lasciando inalterata la struttura del potere interno è certamente sul tappeto; tuttavia, per realizzarsi, dovrebbero magicamente scomparire le gravi tensioni e la turbolenza politica nelle diverse aree del paese. L’ulteriore carta a disposizione degli occupanti, complementare a quella dello smembramento del territorio in tre unità amministrative su base etnico-religiosa (kurdi al nord, sunniti nella regione centrale, sciiti al sud), potrebbe quindi essere quella del ritorno degli apparati burocratici, militari e polizieschi del regime, assai esperti e ottimi conoscitori della popolazione e del territorio, per condurre una guerra civile interna di “pacificazione” e “stabilizzazione” nell’ambito di un simulacro di stato federale, che non dovrebbe essere in nessuna maniera considerato un’entità politica araba. Non è quindi un caso che gli strateghi neoconservatori di Washington oggi ritengano la società irachena “profondamente ammalata” e assolutamente impreparata per la democrazia di stile statunitense. Sul campo ciò si traduce in uno stato di guerra asimmetrica permanente. La “minaccia” è ora rappresentata da tutti coloro che non accettano l’occupazione militare anglo-statunitense a tempo indeterminato, mentre la ricostruzione del paese passa in secondo ordine e non ci si preoccupa nemmeno di stimare a quanto ammontino le risorse necessarie per realizzarla, né di raccogliere dati aggiornati sulla situazione economica, demografica e ambientale dell’Iraq, indispensabili per conoscere come e cosa “ricostruire”, ragguagliando seriamente la fantomatica Conferenza dei “donatori” (9).

OCCUPAZIONE “FLESSIBILE”, MA STABILE
Di certo gli anglo-statunitensi sembrano intenzionati a controllare saldamente soprattutto le principali articolazioni del sistema di pozzi, raffinerie, oleodotti e gasdotti del paese, obiettivi evidenti di tutta l’offensiva militare sin dalle prime ore dell’invasione lungo la direttrice Fao (unico terminale petrolifero iracheno nel Golfo Persico), Bassora, Rumalia, Nassiryia, Al Samawah, Najaf, Daurah, Baghdad, Kirkuk. La stessa diatriba in corso con Francia e Russia relativamente all’immediato ritiro delle sanzioni chiesto dagli Usa riguarda il desiderio di Washington di vedere riconosciuto a livello internazionale il proprio “diritto” ad amministrare l’Iraq, con il conseguente via libera alla gestione monopolistica delle esportazioni irachene di petrolio e alla privatizzazione del settore (chiesta a gran voce da Fadhil, fratello di Ahmed Chalabi) attualmente sotto il controllo dello stato; a tutto questo si oppongono Mosca e Parigi, titolari di importanti contratti di sfruttamento del petrolio e del gas naturale iracheni. L’altro obiettivo palese degli invasori è quello di assicurarsi una stabile presenza militare mediante l’occupazione “flessibile” di quattro basi (Rasheed prossima a Baghdad, H-1 Airfield nel deserto occidentale dove si trovano le più importanti zone di ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas, Tallil nel sud e Bashur nel nord). Il termine “flessibile” sintetizza la nuova teoria di Rumsfeld, contrario ad impiantare apparati di presidio stabili e molto costosi economicamente e politicamente - come quelli realizzati dopo la guerra del 1991 nei paesi del Golfo Persico -, più incline alla creazione di un network di basi dotate di tutte le infrastrutture necessarie per l’impiego in tempo reale, ma non necessariamente affidate al massiccio presidio statunitense.

ESORDI DELLA “QUARTA GUERRA MONDIALE”
Con l’insediamento del “proconsole” statunitense Jay Garner a Baghdad la pax americana regna in Iraq, ovvero la guerra prosegue assumendo aspetti e dinamiche diverse. Mentre si fa un gran parlare di ricostruzione, di vincere la pace e di destino dell’Iraq consegnato finalmente nelle mani degli iracheni, i gruppi dirigenti neoconservatori statunitensi sostengono la necessità di devastare piuttosto che dissaudere il mondo arabo, a costo di far “accettare” agli statunitensi la “cultura” della guerra permamente, con il relativo tributo di sangue e risorse, e trasformando l’operazione Iraqi Freedom in operazione Eternal War (10). Nel corso del vertice Nato di Praga, svoltosi nel novembre 2002, l’ex direttore della Cia e pupillo di Clinton, James Woolsey, uno dei candidati a ricoprire un ruolo importante nell’amministrazione Usa a Baghdad e dirigente del gruppo finanziario Paladin Capital Group attivo nell’attirare investimenti in titoli delle aziende del settore della sicurezza e della difesa, ha pubblicamente definito l’aggressione all’Iraq come la prima battaglia della Quarta guerra mondiale, un conflitto che potrebbe durare anni se non decenni (11). Non si tratta di un delirio di onnipotenza; questo è il progetto di politica estera assunto da chi attualmente ha le redini in mano a Washington. L’obiettivo finale, dopo la conquista del Medio Oriente e del mondo arabo, è il soggiogamento politico ed economico della Cina e del “blocco” europeo (asse franco-tedesco-russo). In quest’ottica vanno ripensati anche gli avvenimenti dell’11 settembre. In un rapporto reso noto nel 2000 dal gruppo denominato Project for the New American Century (Pnac), al quale appartengono esponenti di spicco dell’amministrazione Bush ideologicamente vicini alle posizioni dei neoconservatori filo israeliani, si scriveva che una simile trasformazione “rivoluzionaria” della politica statunitense sarebbe avvenuta lentamente, a meno che non si fosse verificato "qualche evento catastrofico e catalizzatore, come un nuova Pearl Harbor" (12). Ciò avvenne l’11 settembre quando i sostenitori del Pnac occupavano i posti di comando a Washington. Se il progetto di conquista del “Grande Medio Oriente” dovesse fallire o incontrare forti resistenze, la proiezione di potenza si sposterà in Africa (13), cioè nel Golfo di Guinea, Madagascar, Sudan e Corno d’Africa (14), aree importanti per la presenza di risorse quali petrolio, gas naturale, uranio, oro, diamanti, coltan e minerali strategici e nel Mar Cinese meridionale (Filippine, Sumatra, Borneo, Stretto di Malacca).
RIDISEGNARE IL MEDIO ORIENTE
Michael Ledeen, analista molto ascoltato dai circoli affiliati al clan Bush-Cheney, ha delineato con chiarezza gli scenari che già si stanno approntando: “Penso che saremo obbligati a combattere una guerra regionale”. La guerra totale al “terrorismo” assumerebbe, nella fase attuale e nei prossimi mesi, l’aspetto di un confronto militare di tipo asimettrico con un “network regionale di nemici che si sta espandendo” (15). Il progetto da realizzare prevederebbe la destabilizzazione, l’abbattimento e la sostituzione dei governi attuali ed eventualmente l’occupazione militare di una regione che si estende dal Corno d’Africa, all’Iran, alla Somalia, passando per la Siria, per i Territori palestinesi, senza escludere Libano, Yemen, Libia e Sudan. Il compito di “ridisegnare” la mappa politica, militare ed economica si concluderebbe con la caduta degli attuali governi e regimi al potere in Arabia Saudita, negli Emirati e in Egitto. Una nuova genia di padroni praticanti il vampirismo economico scalzerebbe le élite arabe in larga parte corrotte e tiranniche e le petrolcrazie del Golfo. La geografia politica dell’area ne uscirebbe stravolta grazie allo smembramento di molti degli attuali territori statali (soprattutto nel caso di Iraq, Siria e Arabia saudita) e la creazione di una costellazione di piccoli simulacri di stati, nella realtà governatorati economico-militari statunitensi, nei quali le “libere” elezioni si svolgeranno solo quando la vittoria di forze politiche filostatunitensi verrà in qualche modo assicurata (16). La suddivisione territoriale verrebbe decisa sulla scorta di alcuni criteri “guida” che terrebbero in considerazione due esigenze principali: la necessità di organizzare al meglio nello spazio regionale il controllo dei mercati delle risorse energetiche e idriche e l’imperativo di impedire che possa sorgere in un prossimo futuro una compagine statale in grado di recitare un ruolo come “potenza” regionale. In conclusione si tratta di un adattamento alle condizioni attuali del classico divide et impera: si traspone così in Medio Oriente il concetto di stabilizzazione orientata (ovvero diffusione dell’instabilità e dei conflitti allo scopo di realizzare i disegni politici ed economici degli Usa) già sperimentato in Asia centrale e proposto da Zalmay Khalilzad (17), consigliere dell’amministrazione Bush per i problemi dell’Afghanistan e attuale incaricato per i rapporti con l’opposizione irachena. Già si profila all’orizzonte l’intervento militare contro la Siria: truppe e mezzi militari (carri armati, elicotteri da combattimento e aerei anticarro A-10, adatti ad affrontare le truppe corazzate siriane), oltre a munizioni e scorte di vario genere, sarebbero già state dislocate lungo le frontiere occidentali dell’Iraq nella località di Ar-Rutbah (18). Nel mondo arabo tale possibile sviluppo della guerra statunitense è considerato una prova evidente della coincidenza attuale tra gli obiettivi generali della strategia Usa e quelli “regionali” del governo Sharon; i paesi dell’area si aspettano inoltre un forte contraccolpo economico causato dal conflitto in corso. Secondo Mervat Tallawi, segretario dell’Economic and Social Commission for West Asia (Escwa) delle Nazioni unite (organismo al quale aderiscono Bahrain, Egitto, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Oman, Autorità palestinese, Qatar, Arabia saudita, Siria, Emirati arabi uniti e Yemen), il conflitto provocherà una diminuzione di quasi 1.000 miliardi di dollari nel Pil dei paesi dell’area, con la perdita di 5-6 milioni di posti di lavoro in una regione che negli anni Novanta ha vissuto un periodo di pronunciata recessione economica (19).


NOTE
(1) “Haaretz”, 4-4-2003.
(2) “The Guardian”, 16-4-2003
(3) Dichiarazione di James Philips della Heritage Foundation, “Reuters”, 20-4-2003.
(4) “BBC News”, 16-4-2003.
(5) Amnesty says Iraq oil better protected than people, “Reuters”, 15-4-2003. (6) L’espressione è stata usata da Patrick Nicholson, rappresentante di una associazione umanitaria cattolica inglese presente a Um Qasr, nel corso di una intervista rilasciata alla BBC; cfr. A. Cockburn, We said it wuold be a nightmare, “Working for Change”, 9-4-2003. (7) È il caso della milizia denominata Iraqi Coalition of National Unity (ICNU) che ha apparentemente il controllo del centro di Hay Al Ansar nell’Iraq meridionale; cfr. “Financial Times”, 9-4-2003.
(8) A Familiar Future for Iraq, “Alter Net”, 23-3-2003.
(9) Once an economic dynamo, Iraq is now a financial riddle, “Associated Press”, 9-4-2003; a tutto il 23 aprile è stato messo a disposizione dai paesi “donatori” (Usa, Gran Bretagna, Australia, Giappone, Spagna, Norvegia, Olanda) poco più di un miliardo di dollari a fronte di stime annuali che si aggirano tra i 20 ed i 25 miliardi di dollari per un periodo non specificato. L’amministrazione Usa vorrebbe il coinvolgimento immediato della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale; cfr. “Associated Press”, 23-4-2003.
(10) M. Dowd, Dances With Wolfowitz, “New York Times”, 9-4-2003.
(11) J. Lobe, Woosley’s Role Crucial to Impact of Occupation, “Foreign Policy In Focus”, 8-4-2003 (12) Cfr. The Plan, “ABC News Internet Ventures”, 10-3-2003: “un evento catastrofico e catalizzante simile ad una nuova Pearl Harbor”. (13) Usa set to engage in Africa, “Jane’s Intelligence Review”, gen. 2003, p. 55. (14) Cfr. Conflict turns to chaos in Somalia, “Jane’s Intelligence Review”, gen. 2003, pp. 18-21. (15) R. Dreyfuss, Just the Beginning. Is Iraq the opening salvo in a war to remake the world?, “The American Prospect,” apr. 2003, p. 26.
(16) Cfr. la dichiarazione di Woosley in J. Lobe, cit.
(17) Rand Co., NATO and Caspian Security: A Mission Too Far?, autunno 2000, consultabile su www.rand.org/. (18) Notizia dell’agenzia di stampa iraniana IRNA ripresa da fonti giornalistiche tedesche, 14-4-2003.
(19) Arab World set to the war bill, “Reuters”, 16-4-2003.