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La nonviolenza e' in cammino. 575
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 575
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 23 Apr 2003 06:33:51 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 575 del 23 aprile 2003 Sommario di questo numero: 1. Norma Bertullacelli: le nostre bandiere di pace 2. Ernesto Balducci: introduzione a "La pace. Realismo di un'utopia" 3. Giovanni la Fiura, Amelia Crisantino, Augusto Cavadi: mafia, una guida bibliografica ragionata (1991) 4. La "Carta" del Movimento Nonviolento 5. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. NORMA BERTULLACELLI: LE NOSTRE BANDIERE DI PACE [Norma Bertullacelli (per contatti: norma.b at libero.it), insegnante, amica della nonviolenza, collaboratrice di questo foglio, e' impegnata nella "Rete controg8 per la globalizzazione dei diritti" di Genova] Alle finestre delle nostre citta' continuano a sventolare le bandiere di pace. E' un segnale importante. Ci dice che il no alla guerra in Iraq non e' solo l'istintivo, sacrosanto rifiuto dell'approccio violento ad un conflitto che aveva bisogno di ben altre risposte. E' espressione di un bisogno sempre piu' diffuso di soluzioni diverse, di diversi rapporti tra le persone, tra i popoli, tra gli stati. Una consapevolezza che cresce rispetto ai legami che intercorrono tra gli attuali modelli di economia, di politica, di vita, e le risposte sempre piu' brutali a quanto si muova al di fuori di questi modelli. Un bisogno di un mondo diverso, la speranza che sia possibile realizzarlo. Facciamo ancora sventolare le nostre bandiere di pace. 2. MAESTRI. ERNESTO BALDUCCI: INTRODUZIONE A "LA PACE. REALISMO DI UN'UTOPIA" [Riproponiamo nuovamente l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico Grassi, La pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders. L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei punti di elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e dell'ovest. Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista "Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, e' stato un pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi sono decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici problemi dell'ora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio (Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi; Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario (Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp); Montezuma scopre l'Europa (Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si chiude (Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa (Ecp); il manuale di storia della filosofia, Storia del pensiero umano (Cremonese), ed il corso di educazione civica Cittadini del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn. 347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, "Testimonianze" nn. 373-374, 1995. Un'ottima rassegna bibliografica preceduta da una precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996. Recente e' il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002. Cfr. anche Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002] Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali e' possibile, in ragione della stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della guerra, e i realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo' essere custodito solo dall'equilibrio delle forze in campo. Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha cominciato a diventare acuto agli inizi dell'eta' moderna. Nel chiudere il quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale, Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro l'arte e la natura" ... "e tra le ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche canto della piazza, sorridere pietosamente il pallido viso di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli e' durato fino ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il tempo in cui siamo rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi argomenti del realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in se' le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono piu' gli emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene comune. Com'e' noto, il maestro dei realisti affidava alla virtu' (che nel suo linguaggio voleva dire abilita' conforme a ragione) il compito di far fronte alla fortuna e cioe' al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A suo giudizio, fortuna e virtu' potevano governare la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna. Le milizie cittadine erano lo strumento primo della virtu' di un principe. Uno strumento peraltro da usare all'interno di una preveggenza multiforme delle eventualita' della fortuna. "Assomiglio quella - dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap. XXV) - a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, senza potervi in alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti, non resta pero' che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si' licenzioso ne' si' dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non e' ordinata virtu' a resisterle". Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il fiume del fuoco atomico, contro cui nessun argine vale, nessun "provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta'" affidata al principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo dire materialistica, non Firenze o l'Italia, ma il pianeta Terra. Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte all'imperativo assoluto del bene del Principato, un imperativo ipotetico, legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste condizioni mutano, anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare. * Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. L'umanita' e' entrata in un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia. Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e noi siamo vivi! Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della mutazione. La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e' ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche' esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza tranquilla. La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e' arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita' distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualita'. La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e cioe' come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento" fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell'accadimento. * Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella pratica politica ancora dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano e' anch'esso di tipo nuovo, non in continuita' con quello tradizionale. Per pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle correnti ideologiche che, nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della politica la ricerca di una pace definitiva. In questo senso potremmo parlare di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le culture via via dominanti, il cui dogma centrale e' sempre stato la inevitabilita' della guerra. Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perche' ebbe le sue prime manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che potremmo chiamare anche, utilizzando un lessico piu' alla moda, radicale. Il suo principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da quello religioso a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va posata sulla fede religiosa o su qualsiasi altra visione del mondo, ma su cio' che negli uomini e' comune, sulla loro natura razionale, la cui voce e' la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa cattolica. Il pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle istituzioni, in particolar modo nell'esercito, e ripone la causa dello spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze. Cio' che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo impianto individualistico, e' la disponibilita' al confronto e soprattutto la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della loro capacita', almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di fornirgli strumenti di diritto per il perseguimento della giustizia e dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato sempre un pacifismo elitario, capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente sulle cause che generano i conflitti interni ed esterni alla societa'. Il principio della tolleranza e' senza dubbio necessario a dar fondamento a una societa' pacifica, purche' pero' venga coniugato con una militanza politica il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai fini del bene comune e della pace. E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la formula ideologica che gli dettero, al suo nascere, i giacobini, esso identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la fondazione della pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli amano la pace - ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la liberta' coincidono con i loro interessi, mentre la guerra produce sprechi, rovine, servitu' militari. Bastarono i plebisciti di Napoleone a dimostrare quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo, una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranita', rifugga naturalmente dalle guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra essa ebbe una splendida reviviscenza con la dottrina di Wilson che tenne a battesimo la Societa' delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu' democratica delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco, quella di Weimar, che prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il nazismo. Ed oggi noi siamo qui a constatare che un paese di sicura democrazia formale come gli USA si e' trasformato in una cittadella atomica, alla cui ombra prosperano in tutto il mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica e' che essa chiama in causa il popolo senza tener conto delle forze che nel suo seno si contrastano e lo frantumano piegandolo alla loro logica. La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data il pacifismo socialista. L'internazionalismo operaio e' senza dubbio l'utopia pacifista piu' straordinaria che sia nata nel mondo moderno. Il suo strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma non violenta, che ha modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non e' stato in grado di arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche quando e' stato indetto, lo "sciopero per la pace" non ha mai funzionato. Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra, dimostrando che essa e' strutturalmente connessa alla societa' capitalistica e che percio' vivra' e morira' con questa. La razionalita' della guerra e' nel fatto di portare al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar cosi' il suo capovolgimento: la rivoluzione. E' quanto avvenne, per suo merito, in Russia. Ma la sua tesi, smentita per due volte, era che una guerra mondiale avrebbe dovuto generare una rivoluzione mondiale. La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi, provocando un collasso estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di due ordini. La' dove si ritiene di aver gia' realizzato il socialismo, non solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia quello delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica socialista all'imperialismo del capitale potrebbe anche vedere un dato provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese della repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla logica del capitale, c'e' attualmente lo stato di all'erta: segno, per molti, che le cause della guerra non sono riducibili all'economia di mercato. Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e' contraddetta almeno da due dati oggi emergenti: i movimenti pacifisti all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei paesi ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze capitalistiche si equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era ancora succube dello schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie di immensa retroguardia del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno scenario storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno, l'ideologia socialista appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle necessita'. Essa sconta fino in fondo il lato positivistico della sua origine che l'ha tenuta subalterna all'ideologia borghese. Non e' forse una tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e' il naturale erede della cultura della borghesia, che e' intimamente cultura di violenza? Niente di strano che ben poco sia rimasto oggi, in occidente, del pacifismo proletario. Non e' forse vero, ad esempio, che, stretti nel cappio delle necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche nell'immenso apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale, produce armi da esportare nei paesi del Terzo Mondo per dar forza ai regimi oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse scandalizzati, dato che per loro la pace sarebbe stata il risultato di una rivoluzione mondiale che, dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far uso della violenza delle armi. Ma che senso ha oggi parlare di rivoluzione armata, quando le classi dominanti del sistema imperialistico hanno in mano le armi atomiche? * Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno confusamente, che se ci sara' una reazione all'altezza dell'estremo discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la proposta dei pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un mutamento culturale (la mutazione di cui sopra si diceva) che metta fine, una volta per sempre, all'eta' neolitica, tanto per usare un'espressione cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle nuove manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di cambiamento, non solo della politica, ma dei termini fondamentali della presenza dell'uomo alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del passaggio da una civilta' che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso sviluppo ad una civilta' che ponga la sua radice nell'altra valenza dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo, della solidarieta' con l'intera specie come condizione del suo essere persona. Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi c'e' anche quello, remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie. Ora sappiamo che gli uomini preistorici non erano piu' bellicosi di noi, a volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma questa parola ora la pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civilta' e guerra ci autorizza a dedurne che dunque la guerra e' una legge insuperabile della specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie quello che poi si e' scoperto essere niente piu' che un portato della cultura. Ad esempio, la schiavitu'. L'opinione comune, fino a due secoli fa, era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale della societa' umana, proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per eccellenza, Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitu' ci ripugna. E cosi': appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il quale e' la natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a san Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi anche nel diritto italiano e' stata sancita la parita' dell'uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che quanto si attribuiva alla natura non era che un portato della cultura. Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e' stata l'eta' della pietra e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta' della pace? E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli autori di questa rassegna. Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle cose non puo' non portare alla previsione della catastrofe. Ma cio' che e' improbabile, non per questo e' impossibile. La paleontologia dimostra che la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita' che invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi), mettendo i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo istinto di conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani, puo' incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di vita o puo' diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell'unica citta' che e' ormai il nostro pianeta. Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che essa e' per la prima volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa e' l'unica alternativa alla morte universale Quel che le manca e', appunto, una cultura che sia al suo livello, cioe', come si e' detto, al livello della voce della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda alla cultura della guerra di cui noi siamo figli, cosi' come alla cultura paleolitica successe, piu' di diecimila anni fa, la cultura neolitica che ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali. E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo adoperarsi perche' non sia accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la mutazione antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa chiama in causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi - non dovremmo aver paura a riconoscerlo - chiama in causa primariamente le singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'e' una virtu' che non puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la fede dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e mortificate dalla gelida stagione del cinismo morale. Non si obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola con i rigori della ragione, perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a nient'altro e' intenta se non a codificare l'esistente e a proiettarne le forme nel futuro, e' proprio questa ragione il primo bersaglio della fede morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede, quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono come seria l'ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata! La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza riscontro nei fatti. Essa ha gia' dalla sua parte alcuni processi in corso, il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta' della pace come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della civilta' della guerra. La prima di queste premesse e' che l'uomo sia per natura aggressivo, di quell'aggressivita' distruttiva che noi chiamiamo violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto ad un punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per natura pacifico o che l'uomo e' per natura violento. La natura dell'uomo e' nel suo farsi, e' cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi' come si fa. Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile, scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella societa' cresciuta all'ombra del fungo atomico. - Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come un individuo solo, secondo la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con la coscienza ancora dispersa e frazionata nel suo organismo, ma con strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche' avvenga l'unificazione soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono sempre piu' intollerabili: chi le tollera e' un ominide il cui sottosviluppo e' insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli ominidi, il tempo della fine e' gia' segnato, perche' la loro egemonia e' diventata fisicamente impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica - il Nord - ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e quando lo schiavo si accorge che il padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo del padrone e' finito, ed e' finita la sua cultura. Il padrone puo' morire come Sansone o puo' morire di tranquilla morte naturale, e cioe' il Nord puo' morire sotto le macerie cosmiche provocate dalla sua tracotanza o puo' morire risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu' discriminazioni. - Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere quello che e' stato, non lo puo' piu' per ragioni fisiche. L'ideologia dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai contro i suoi fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la natura che non e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui batte la luce dell'utopia marxiana dell'uomo naturalizzato e della natura umanizzata. La passione ecologica e' un capitolo importante della cultura della pace. - Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e' proprio il caso di dirlo) della violenza e' il modo storico in cui si e' determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio della sessualita' quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarita'. L'emancipazione femminile, con il connesso mutamento del senso della sessualita', segna potenzialmente un salto qualitativo nella stessa soggettivita' umana. L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della terra, a partire dall'eta' neolitica, e' stata mantenuta con violenza al di fuori degli spazi in cui si crea la storia: l'uomo del neolitico e' un uomo dimidiato e proprio per questo violento. L'emancipazione femminile e' potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace. - Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede nell'uomo, e' la nuova dialettica che si e' aperta all'interno delle grandi religioni. Possiamo limitarci, e non solo per brevita', al cristianesimo. La soglia atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e vita del genere umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della vita trionfera', essa non potra' andare che nel senso di una composizione unitaria del genere umano. Il che significa che tutto cio' che e' nato e cresciuto con i segni del "particolare" potra' sopravvivere solo se sapra' accettare le nuove misure di universalita' concreta. Alla pari delle altre religioni, il cristianesimo non potra' non apparire (e gia' appare) come il patrimonio di una porzione del genere umano. La sua storia, nel bene e nel male, si confonde con quella dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce come un pungolo sulla forma storica del cristianesimo, un pungolo che sgretola quel che e' connesso alla relativita' storico-geografica e, nello stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia cristiana ha questo di proprio e forse di esclusivo: che e' una profezia messianica, investe cioe' la totalita' delle speranze degne dell'uomo, prima fra tutte la speranza della pace. In questo senso il cristianesimo trabocca dai confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualita' laica della storia. - Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre confessioni che fanno capo al Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando l'asse della propria vita interna o della propria missione storica dagli spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo la giustizia e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia' in atto. Morendo alle sue terribili stagioni di complicita' con le guerre, il cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di fondo, che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che la transizione alla civilta' della pace e' come un appuntamento storico che Dio ha loro fissato e su cui le giudichera'. Una chiesa veramente evangelica e' come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne viva del mondo. Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro vertici istituzionali, che sono piu' tardi a muoversi e che d'altronde hanno ancora un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si sentono sospinte sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo alcuni, e' gia' matura la stagione per un Concilio ecumenico in cui le chiese si ritrovino non per lanciare un nuovo messaggio al mondo ma per assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento della civilta' della pace. - Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando un'indagine commissionata dall'UNESCO, riconosceva che la crisi della scuola era un dato evidente in ogni parte del mondo e osava affermare che, alla radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli autori di questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si tratti. La scuola, nelle forme e nei modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione borghese e che nei paesi dell'Est europeo appaiono aggravati, e' sempre stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al potere costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti, per definizione, guardano al mondo con l'occhio del dominio e cioe' l'occhio che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il proprio particolare per l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione colonialistica per la diffusione della civilta'. Ma l'occhio fiero del padrone ha bisogno dell'occhio umile dello schiavo: oggi, finalmente, l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di vista conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare un'eco veramente umana nelle coscienze se non e' cultura planetaria, e cioe' se il suo punto di vista non e' il punto di vista del pianeta divenuto l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve essere cultura di pace. La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base della crisi della scuola e' proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola e' ancora un organo di diffusione della cultura padronale che e', per forza di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno semplici palliativi finche' non scenderanno a questa profondita', per mettere in questione il presupposto antropologico che ha fatto da dogma latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla riforma di se stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai processi di cambiamento che preparano e prefigurano la cultura della pace. * Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in quei processi e' la costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria storica diversa da quella codificata nel sapere dominante. Ed e' un compito che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico che abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era riconducibile alla sfera dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza o relegato ai margini come ingenuo o poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale: ecco il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione del sapere. La parola pace, nei libri di scuola, serve normalmente per indicare i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco piu' che interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La "verita' effettuale" e' diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano piuttosto oggetti che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui e' solito rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno. E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la presente rassegna intende offrire una larga documentazione critica. Il panorama che essa offre e' di necessita' limitato, nel tempo e nello spazio. Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la politica degli Stati e congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico, l'"istituzione guerra". Nello spazio: la rassegna resta, salvo qualche sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perche' e' in quest'area che la civilta' della guerra ha prodotto le sue grandezze e oggi il suo dilemma mortale. Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste pagine sempre in un rapporto dialettico con la realta' della guerra e appare sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo oggi, nell'era di Hiroshima, le due logiche, quella dell'ideale morale e quella della necessita' realistica, arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di prospettive morali e politiche. Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a questo singolare evento della coincidenza tra utopia e realismo, la loro posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla fin da questa lunga premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso oggettivo delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta' su cui le coscienze possono elaborare, in modo autonomo, le proprie scelte. Lo strumento che essi hanno preparato intende provocare e soccorrere, all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il piu' alto, il piu' universale e, sia permesso di dire, il piu' religioso tra quelli che fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante per la formazione dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino a colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre piu' adatto ad illuminare e ad alimentare, dentro e fuori della scuola, la cultura della pace da cui dipende il destino della Terra. 3. MATERIALI. GIOVANNI LA FIURA, AMELIA CRISANTINO, AUGUSTO CAVADI: MAFIA, UNA GUIDA BIBLIOGRAFICA RAGIONATA (1991) [Questa bibliografia ragionata sulla mafia, redatta da Giovanni La Fiura, Amelia Crisantino e Augusto Cavadi, e' tratta dalla rivista "Nuova secondaria", n. 5 del 15 gennaio 1991 (Editrice La Scuola, Brescia); e' stata piu' volte ripubblicata: ad esempio in Augusto Cavadi, Liberarsi dal dominio mafioso, Edizioni Dehoniane, Bologna 1993, pp. 21-31 (con un sintetico aggiornamento in conclusione, che qui riproduciamo); e parzialmente rielaborata e con Un breve aggiornamento di Umberto Santino, alle pp. 161-173 del volume a cura di Augusto Cavadi, A scuola di antimafia, Csd quaderni/6, Palermo 1994 (volume cui rinviamo). Qui riproduciamo ancora una volta il testo originale del '91 (con la minima integrazione finale dell'edizione '93, che riportiamo tra parentesi quadre), che avevamo gia' ristampato in opuscolo anni fa autorizzati da "Nuova secondaria", che nuovamente ringraziamo. Ci sembra che nonostante siano trascorsi oltre dieci anni, questo breve testo offra ancora un assai significativo contributo di conoscenza e di interpretazione; se da allora ad oggi molto e' cambiato nella percezione e nell'analisi del fenomeno mafioso, ed oggi sono disponibili rispetto ad allora vari nuovi libri di cospicuo valore, grandissima parte del merito e' proprio del gruppo di studiosi e di militanti di cui gli autori di questa rassegna fanno parte. Giovanni La Fiura, Amelia Crisantino e Augusto Cavadi sono tre autorevoli studiosi impegnati nel "Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato", autori di molte pubblicazioni che apportano fondamentali contributi di conoscenza e di proposta alla lotta contro i poteri criminali. Giovanni la Fiura e' un prestigioso studioso e militante del movimento antimafia, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Tra le opere di Giovanni La Fiura: con Amelia Crisantino, la mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989; con Umberto Santino, L'impresa mafiosa, Franco Angeli, Milano 1990; con Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Ugo Adragna, Gabbie vuote, Franco Angeli, Milano 1992; con Umberto Santino, Dietro la droga, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; Droghe & mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1993.. Amelia Crisantino e' una prestigiosa studiosa e militante antimafia, collaboratrice del Centro Impastato di Palermo. Tra le opere di Amelia Crisantino: (con Giovanni La Fiura), La mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989; La citta' spugna, Centro Impastato, Palermo 1990; Capire la mafia, La Luna, Palermo 1994. Augusto Cavadi (per contatti: acavadi at lycos.com), prestigioso intellettuale ed educatore, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi. Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini, Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua. Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito, Dehoniane, Bologna 1993, seconda ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane, Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd- rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina, Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili: segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con bibliografia completa). Umberto Santino - che del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo e' fondatore, presidente e principale animatore, e di cui in questa bibliografia si propone l'approccio teorico - da decenni e' uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e criminalita'. Il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" (via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax 091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito internet: www.centroimpastato.it) e' un istituto di ricerca tra i piu' accreditati in campo internazionale, particolarmente specializzato su mafia e poteri criminali; operante dal 1977, e' stato successivamente intitolato a Giuseppe Impastato, militante della nuova sinistra assassinato dalla mafia nel 1978; una sintetica ma esauriente scheda di autopresentazione, di quattro pagine, e' richiedibile presso il Centro Impastato. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Scritti su Umberto Santino: una rassegna bibliografica di alcuni lavori di Umberto Santino e' apparsa nei numeri 573-574 di questo notiziario] 1. Di che cosa ci stiamo occupando Puo' sembrare paradossale, ma una ricerca sulla mafia deve cominciare dalla focalizzazione precisa del tema: in questo caso, come in pochi altri, infatti, uno stesso termine e' adoperato in significati disparati, talora contraddittori. La parola "mafia" ha insieme indicato: un comportamento e un modo di essere, cioe' una mentalita' e uno stato d'animo, e un dato di fatto, cioe' l'associazione criminale; l'espressione del "senso dell'onore" e dell'"ipertrofia dell'io" di determinate popolazioni e la manifestazione della loro inferiorita' razziale; un fenomeno locale e residuale e la "piovra" universale; l'effetto e la causa del sottosviluppo etc. etc. E' evidente che l'indeterminazione pregiudica la riuscita dell'indagine, per cui si pone preliminarmente l'esigenza di individuare un'ipotesi definitoria. In un volume che raccoglie gli atti di una "giornata di bilancio e di riflessione", svoltasi nel 1988, Umberto Santino, direttore del primo centro di documentazione e di studi sulla mafia sorto in Italia, propone la seguente definizione del fenomeno mafioso: "Per mafia intendiamo un fenomeno complesso, polimorfico, consistente nell'uso di pratiche di violenza e di illegalita' in genere da parte di strati sociali dominanti o tendenti a diventare tali ('borghesia mafiosa') allo scopo di accumulare ricchezza e acquisire posizioni di potere, avvalendosi di un codice culturale non immodificabile e di un relativo consenso sociale, variabile a seconda della composizione della societa' e dell'andamento del conflitto di classe o comunque del rapporto tra le varie componenti" (Mafia e lotta alla mafia: materiali per un bilancio e nuove ipotesi di lavoro in AA. VV., L'antimafia difficile, a cura di U. SANTINO, Centro Siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989, pp. 21-22). Per quanto riguarda lo sviluppo storico del fenomeno, esso viene visto come un intreccio di continuita' e trasformazione, qualcosa di piu' complesso delle classificazioni correnti, imperniate su nozioni approssimative come "mafia vecchia" e "mafia nuova". Santino individua quattro fasi: "- un lungo periodo di incubazione (in cui piu' che di mafia vera e propria puo' parlarsi di 'fenomeni premafiosi' all'interno del processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo in una regione che sulla scorta dello schema di Wallerstein abbiamo definito una 'semiperiferia anomala', contrassegnata dalla prevalenza del lavoro mezzadrile e dal policentrismo del potere); - una fase agraria che va dall'unita' d'Italia agli anni '50 di questo secolo, con almeno quattro subfasi: opposizione strumentale iniziale, integrazione successiva con delega (da parte dello Stato centrale) del potere locale, espulsione relativa di fasce di bassa mafia ed integrazione dell'alta mafia nel periodo fascista, rilegittimazione politica e assunzione diretta del potere nell'immediato dopoguerra e successiva integrazione nel blocco dominante; - una fase urbano-imprenditoriale dalla seconda meta' degli anni '50 agli anni '60, caratterizzata dalla compenetrazione con il potere politico, l'egemonia locale, il controllo della spesa pubblica, l'intreccio tra pratiche parassitarie, come la riscossione delle tangenti, che non e' mai cessata, con attivita' imprenditoriali che producono, d'amore e d'accordo con altri soggetti imprenditoriali, quell'insalata di palazzoni che si chiama Palermo e quel deserto di cemento che si chiamava Conca d'oro; - la fase della 'mafia finanziaria' dagli anni '70 ad oggi, cioe' una grande macchina di accumulazione del capitale a livello mondiale, che opera in collaborazione-concorrenza-competizione con altre criminalita' organizzate, che sono venute assumendo caratteri omologhi, in quanto praticano le stesse attivita' (traffici di droga e di armi in primo luogo) e si trovano di fronte agli stessi problemi (riciclaggio del denaro sporco, investimento); la mafia nella fase attuale utilizza le opportunita' offerte dal proibizionismo delle droghe, dall'espansione del mercato delle armi, dal segreto bancario e dai fenomeni di innovazione finanziaria e, forte delle sue capacita' di accumulazione, e' entrata in gara egemonica con altri soggetti sociali dominanti e chiede di contare di piu' a livello sociale e politico, abbattendo gli ostacoli che si frappongono al suo processo di espansione" (U. SANTINO, Mafia e lotta alla mafia, cit., pp. 22-23). * 2. Dalla preistoria della mafia alla fase agraria Tra i volumi piu' significativi che si occupano della genesi e dei primi sviluppi della mafia va citato S. F. ROMANO, Storia della mafia, Mondadori, Milano 1966, che analizzava "gli antecedenti strutturali e le origini sociali della 'mafia': compagni d'arme, maestranze, squadre e controsquadre" sino all'ascesa dei gruppi mafiosi dopo la seconda guerra mondiale (con riferimenti alla mafia americana). Purtroppo si tratta di un testo da tempo irreperibile sul mercato editoriale, e gia' questo ci sembra indicativo di una situazione di fatto che contraddice la sensazione di un'abbondanza di informazioni sull'argomento. Se molto si e' scritto e si scrive sul piano giornalistico, pochissimo e' stato prodotto a livello di analisi scientifica: e sarebbe auspicabile una riedizione di questi e di altri lavori di valore da tempo caduti nel dimenticatoio, pur senza essere stati adeguatamente rimpiazzati. Per fare un altro esempio, la rassegna antologica piu' significativa e' ancora l'Antologia della mafia, a cura di N. RUSSO, il Punto, Palermo 1964, anch'essa irreperibile. L'antologia raccoglie documenti degli anni '70 dell'Ottocento, la relazione Bonfadini della prima commissione parlamentare d'inchiesta (1875-76), ampi stralci dell'inchiesta di Franchetti e Sonnino del 1876 - un testo lucidissimo nella individuazione della mafia come "industria del delitto", cioe' come violenza strumentale a fini di arricchimento e di potere, e caratteristica delle "classi medie" siciliane - e si conclude con documenti del periodo fascista. Di questi materiali, nel 1974, e' stata ripubblicata dall'editore Vallecchi di Firenze, con il titolo Inchiesta in Sicilia, la ricerca condotta privatamente da LEOPOLDO FRANCHETTI e SIDNEY SONNINO. Allo stato attuale, per quanto riguarda l'approccio storiografico, bisogna dunque accontentarsi dei riferimenti rintracciabili in opere sulla Sicilia in generale come il paragrafo su mafia e corruzione politica in D. MACK SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Bari 1970 (pp. 662-685), e il capitolo secondo del volume primo e il capitolo primo del volume terzo della Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 di F. RENDA, Sellerio, Palermo 1984-87, in tre volumi. Cfr. anche il volume della Storia d'Italia. Le regioni dall'Unita' a oggi: AA.VV. (a cura di M. AYMARD e G. GIARRIZZO), La Sicilia, Einaudi, Torino 1987; in particolare Per una storia della mafia. Interpretazioni e questioni controverse di R. SPAMPINATO (pp. 881-902) e Stato violenza societa'. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso di P. PEZZINO (pp. 903-982). In questo contributo, per "paradigma mafioso" si intende "l'insieme di analisi, indagini, interpretazioni, luoghi comuni, che si sono andati depositando e stratificando nel tempo sopra vicende e aspetti significativi della storia siciliana progressivamente, e non sempre con identico significato, classificati col termine 'mafia'" (p. 906), cioe' piu' un assemblaggio di stereotipi che un vero e proprio paradigma scientifico. Il "paradigma" si forma nei primi anni dell'Unita' d'Italia e in particolare dopo l'insurrezione palermitana del 1866; e risponde a esigenze dettate dalla lotta politica, tendendo a criminalizzare come "mafiosa" qualsiasi forma di opposizione; esso successivamente, "nella duplice versione di riduzione del fenomeno a codice culturale o a forma popolare di autogiustizia, attraversa le divisioni ideologiche perche' la valorizzazione della mafia come dato storico originario del popolo siciliano si colloca tra le manifestazioni piu' tipiche del sicilianismo: a tale ideologia le classi dirigenti siciliane ricorrevano nel tentativo di pilotare un processo di sviiluppo che non mettesse in discussione la tradizionale egemonia proprietaria" (pp. 958-959). Nel periodo fascista, come in altri momenti della storia, "al paradigma mafioso elaborato dalle classi dirigenti siciliane veniva contrapposto il paradigma associativo elaborato dalle istituzioni in quelle occasioni in cui si faceva della repressione antimafia strumento di lotta politica" (p. 977). Ad avviso dell'autore, il paradigma "riemerge nelle discussioni che hanno accompagnato le vicende degli ultimi anni, e soprattutto con riferimento all'approvazione, dopo l'assassinio di La Torre e Dalla Chiesa, della Legge 13 settembre 1982, n. 646" (p. 981). Se passiamo da opere di respiro generale a lavori di carattere monografico, vanno citati gli studi di G. C. MARINO sui primi anni dell'unita' d'Italia (L'opposizione mafiosa (1870-82). Baroni e mafia contro lo Stato, Flaccovio, Palermo 1964, ripubblicato nel 1986), sul periodo fascista (Partiti e lotta di classe in Sicilia, De Donato, Bari 1976) e sul separatismo (Storia del separatismo siciliano 1943-47, Editori Riuniti, Roma 1979). Efficace il capitolo dedicato alla mafia nel volume di E. J. HOBSBAWM; I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1990; ma ed. or. 1959 (pp. 41-74). La mafia viene considerata come "uno sviluppo alquanto piu' complesso del banditismo sociale", sempre di piu' nel suo percorso storico "strumento di esponenti del potere o di aspiranti ad esso»"(p. 9) e "sistema di potere, a carattere privato e parallello a quello ufficiale" (p. 48). Per anni uno dei testi a cui si e' fatto riferimento e' il volume di H. HESS, La mafia, Laterza, Bari 1984, ed. or. 1970, una ricerca sociologica con taglio antropologico. Al centro della ricerca e' il "comportamento mafioso", studiato all'interno di un "sistema subculturale" che coinvolge l'intera popolazione, o la grande maggioranza di essa, delle quattro provincie della Sicilia occidentale (non si fa cenno alle ondate di movimento contadino anti-mafioso, dai Fasci siciliani al secondo dopoguerra). Tale comportamento svolge le funzioni di "protezione", "mediazione" e "regolamentazione economica", nei confronti di uno Stato estraneo o assente, per cui si arriva alla conclusione che "il comportamento mafioso non potra' piu' manifestarsi quando lo Stato assolvera' le funzioni di protezione e regolamentazione economica e perseguira' energicamente ogni forma privata di ricorso alla violenza" (p. 230). Fanno continuo riferimento, invece, ai legami fra mafia e istituzioni e mondo politico i libri di denuncia, ancora facilmente reperibili, di MICHELE PANTALEONE, soprattutto Mafia e politica: 1943-1962, Einaudi, Torino 1962; Antimafia occasione mancata, Einaudi, Torino 1969. Al limite fra storia e sociologia e' A. BLOCK, La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960. Imprenditori, contadini, violenti, Einaudi, Torino 1986 (edito in inglese nel 1975). L'autore analizza il fenomeno mafioso "dall'interno", a partire dall'osservazione quotidiana dei comportamenti e della vita di relazione di una comunita' della Sicilia Occidentale, "Genuardo" (Contessa Entellina). L'indagine si sviluppa in due direzioni: da una parte una ricostruzione storica dei rapporti sociali nelle campagne siciliane e delle vicende del latifondo; dall'altra l'analisi del difficile incontro della societa' locale con lo Stato postunitario. Dall'incrocio di queste prospettive e' lo stesso oggetto "mafia" ad essere trasformato: liquidata l'immagine della "banda delle bande" tramandata dal senso comune, i mafiosi si configurano come strumento di gestione del potere locale e di mediazione (brokers) con lo Stato. La mafia non e' sinonimo del sottosviluppo di una paese senza legge, ma il prodotto della particolare forma di sviluppo che il processo di formazione dello Stato ha avuto in Sicilia. Un'altra ricerca condotta con il metodo dell'osservazione partecipante e' quella di JANE e PETER SCHNEIDER, Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1989, ed. or. 1976, in cui il fenomeno mafioso viene ricondotto al cosiddetto "capitalismo di mediazione" che si sviluppa in Sicilia, considerata come area periferica (viene utilizzato lo schema centro-periferia elaborato da I. WALLERSTEIN in Il sistema mondiale dell'economia moderna, Il Mulino, Bologna 1978). * 3. La mafia dagli anni '60 ad oggi Sarebbe troppo impegnativo citare le fonti per una ricerca sulla mafia attuale che non dovrebbe prescindere dai materiali pubblicati dalla Commissione parlamentare antimafia (1963-1976), voluminosi e difficilmente reperibili. Per gli anni piu' recenti ricordiamo solo, per l'accessibilità anche a docenti e studenti, il volume a cura di C. STAJANO, Mafia. L'atto d' accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986, che pubblica stralci dell'ordinanza-sentenza istruttoria del primo maxi-processo di Palermo. Immediatamente fruibili, e coinvolgenti anche dal punto di vista psicologico, alcune "storie di vita" riguardanti personaggi femminili in rotta con il mondo mafioso e un ambiente popolare impregnato di mafiosita' da cui provengono: F. BARTOLOTTA IMPASTATO, La mafia in casa mia, La Luna, Palermo 1986; A. PUGLISI (a cura di), Sole contro la mafia, La Luna, Palermo 1990. Nel primo testo viene intervistata la madre di Impastato, il militante siciliano che - avendo rinnegato la matrice mafiosa familiare - si dedica a iniziative politiche e culturali contro la mafia, finendo trucidato con una bomba ad opera di notissimi ignoti. Nel secondo testo sono intervistate Michela Buscemi e Pietra Lo Verso, legate a vittime di violenza mafiosa, che rompendo una secolare tradizione di omerta' si sono costituite "parti civili" in processi contro la mafia. Un'importante testimonianza e' il volume di NANDO DALLA CHIESA, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano 1984. Se passiamo dalle "fonti" alle interpretazioni critiche, troviamo molto materiale a livello divulgativo, ma molto poco a livello di ricerca empirica e di sintesi teorica. Per un orientamento nel vasto mondo della pruduzione giornalistica un'utile bussola e' il volume di G. PRIULLA (a cura di), Mafia e informazione, Liviana, Padova 1987. Le poche ricerche che propongono modelli complessivi d'interpretazione teorica della mafia contemporanea sono quelle di F. Ferrarotti, P. Arlacchi, R. Catanzaro e U. Santino. FRANCO FERRAROTTI, in Rapporto sulla mafia: da costume locale a problema dello sviluppo nazionale, Liguori, Napoli 1978, pubblica i materiali di una ricerca commissionatagli dalla Commissione parlamentare antimafia. La mafia viene considerata come "fenomeno globale", nel senso che essa "non puo' essere compresa se non prendendo in considerazione i nessi radicali che la legano non soltanto ai gruppi sociali che vivono nelle zone di influenza mafiosa, ma alla stessa societa' nazionale" (p. 53). Il volume propone una bibliografia critica essenziale e contiene i risultati di una ricerca condotta, attraverso la somministrazione di un questionario, in citta' e comuni della Sicilia "nell'intento di mettere in luce la cultura delle popolazioni che vivono nelle zone mafiose, intesa come il costume e la mentalita' media prevalente" (p. 141), e che ha riguardato anche l'evasione scolastica e l'atteggiamento delle famiglie verso l'istruzione. PINO ARLACCHI, in La mafia imprenditrice. L'etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, il Mulino, Bologna 1983, introduce una categoria interpretativa basata sull'impresa mafiosa, e sui suoi vantaggi economico-finanziari. La prima parte del volume "e' dedicata ad un riesame dei caratteri piu' significativi del fenomeno mafioso nel Mezzogiorno tradizionale (...). Il quadro della situazione tradizionale e' stato elaborato secondo una metodologia tipico-ideale, che ricalca da vicino i classici precetti weberiani (...). L'esposizione della struttura tipico-ideale del fenomeno mafioso tradizionale (...) e' stata scomposta in due sequenze differenti, corrispondenti a due diversi aspetti della stessa. Nella prima sequenza viene descritta la dinamica del fatto sociale di rilevanza strategica per la comprensione dei rapporti tra la mafia e l'ambiente socio-economico che l'esprime; il comportamento mafioso ed il suo stretto legame con il fenomeno della competizione per l'onore vigente in alcune aree della Calabria meridionale e della Sicilia occidentale (...) Nella sequenza successiva viene evidenziata la seconda componente del fenomeno mafioso: il potere mafioso e le funzioni da esso svolte nell'universo socio-economico e politico locale e nazionale" (pp. 10-11). Nella seconda parte del volume si fa una rapida descrizione degli effetti della "grande trasformazione" post-bellica della societa' italiana e del Mezzogiorno sul potere e sul comportamento mafioso tradizionali, mentre la terza parte "e' dedicata ad un tipo ideale della mafia e del mafioso dei nostri tempi" (p. 12). Negli anni '70 sarebbe nata la "mafia imprenditrice", la quale godrebbe di un "profitto monopolistico", frutto di una "innovazione" consistente nel "trasferimento del metodo mafioso nell'organizzazione aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni all'impresa" (p. 109). Secondo l'autore, "la gravita' dell'odierno fenomeno mafioso consiste (...) nel suo non costituire piu' una componente improduttiva e subalterna dell'economia, ma una forza della produzione radicata nelle strutture portanti dell'universo socio-economico di aree sempre piu' vaste del Mezzogiorno" (p. 135). Tuttavia, in un testo successivo, la grande criminalita' meridionale, che da parassitaria sarebbe diventata produttiva, viene presentata come "uno degli ostacoli piu' importanti e piu' trascurati dello sviluppo economico italiano" (I costi economici della grande criminalita', in AA. VV., L'impresa mafiosa entra nel mercato, F. Angeli, Milano 1985, p. 29). RAIMONDO CATANZARO, in Il Delitto come impresa, Liviana, Padova 1988, ha proposto un'interpretazione della mafia come frutto di un processo di "ibridazione sociale": "la mafia nasce come risposta della periferia all'impatto del centro; ma non potrebbe affermarsi senza il sostegno di quest'ultimo. L'utilizzazione del potere mafioso da parte delle autorita' va inquadrato nell'ambito di sistemi di alleanze tra classi sociali e fra interessi politici che si realizzano a livello locale, ma che per mantenersi in vita e affermarsi debbono travalicare il sistema politico locale e immergersi in un brodo di coltura costituito da equilibri politici nazionali" (pp. 133-134). Particolarmente significative le pagine dedicate al concetto di onore inteso come "concentrato di ricchezza, potere, prestigio e violenza" (p. 65); le considerazioni sulla violenza come "strumento di regolazione dell'economia" (pp. 71 e ss.) e le riflessioni sugli sviluppi del fenomeno mafioso negli ultimi anni, sia per cio' che riguarda le attivita' imprenditoriali sia per gli effetti di inquinamento del sistema politico (cfr. pp. 250 e ss.). L'ipotesi di definizione della mafia come "borghesia mafiosa", concetto piu' ampio di quello di mafia come mera associazione criminale, elaborata da Umberto Santino, e' stata verificata all'interno di ricerche empiriche pubblicate nei volumi: G. CHINNICI, U. SANTINO, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989 e U. SANTINO, G. LA FIURA, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990. Nel primo l'omicidio mafioso viene considerato come "omicidio-progetto", cioe' come strumento per la risoluzione della concorrenza interna e della "gara egemonica" con soggetti esterni, che si inquadra in un programma complessivo delle organizzazioni criminose, con l'abbattimento degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del piano di arricchimento e di dominio. Nel secondo volume si formula l'ipotesi della "economia polimorfa" e del "mercato multidimensionale", in cui economia legale, sommersa e illegale presentano tipologie di rapporti (compenetrazione, convivenza, conflitto), ricavate dalle risultanze dell'indagine, condotta sugli accertamenti patrimoniali in attuazione della legge antimafia. Da tali accertamenti risulta che, tolti due grandi gruppi imprenditoriali, individuati in Lombardia e in Sicilia, le altre realta' imprenditoriali sottoposte a sequestro e confisca hanno principalmente funzione di copertura e di riciclaggio del capitale accumulato illecitamente, per cui sarebbe confermata l'ipotesi di lettura della mafia attuale soprattutto come "mafia finanziaria". I libri sinora citati mirano, essenzialmente, a decifrare il fenomeno "mafia" da un punto di vista storico, sociologico, economico e politico. Sarebbe interessante, almeno per degli educatori, avere a disposizione anche del materiale per elaborare una "pedagogia" dell'antimafia: ma, purtroppo, su questo versante, siamo ancora a contributi sporadici sotto forma di articoli. D'altra parte e' ovvio che, se non si vuole cedere agli slogans, un'azione pedagogica efficace ha senso solo se inserita in un progetto culturale, etico, sociale e politico tendente a fare delle popolazioni meridionali i protagonisti del proprio riscatto. Con limiti ed ambiguita', la chiesa cattolica e' tra le pochissime agenzie educative che ha cercato di offrire elementi in questo senso: per farsi un'idea di tale impegno puo' consultarsi il recento volume di A. CHILLURA, Coscienza di chiesa e fenomeno mafia, Augustinus, Palermo 1990, che raccoglie gli interventi delle chiese siciliane, sia a livello di vertici che di base. Alcuni degli esperimenti piu' interessanti nell'elaborazione di strategie pedagogiche alternative sono il frutto della convergenza di soggettivita' e culture diverse, come e' testimoniato, per esempio, nel recento volume di A. CAVADI, Fare teologia a Palermo. Intervista a don Cosimo Scordato sulla "teologia del risanamento" e sull'esperienza del Centro sociale "San Francesco Saverio" all'Albergheria, Augustinus, Palermo 1990. Anche sotto l'impulso delle Legge 51/80 della Regione siciliana, non sono mancati i tentativi di approntare degli strumenti didattici attraverso cui tradurre per la pratica quotidiana delle scuole alcune informazioni essenziali ed alcuni criteri di orientamento valutativo. Purtroppo si tratta, quasi sempre, di materiali da apprezzare piu' per le intenzioni lodevoli che per il valore intrinseco. Un contributo pionieristico, difficilmente reperibile, e' la raccolta di materiali curata dal CIDI, Mafia, Camorra, 'ndrangheta, delinquenza organizzata: anzitutto conoscere, Ediesse, Roma, 1984. Sul lavoro nelle scuole siciliane cfr. G. CIPOLLA, Tradizione e innovazione nelle esperienze educative antimafia, in AA. VV., L'antimafia difficile, cit., pp. 128-139. Probabilmente, per un approccio "didattico" rimangono insostituibili alcune opere letterarie con felici intuizioni sociologiche, quali Il giorno della civetta di LEONARDO SCIASCIA (Einaudi, Torino, 1961, successivamente riedito), in cui e' colto lucidamente il passaggio dalla mafia agraria alla mafia contemporanea, con la doverosa avvertenza che proliferano, in questo ambito, anche romanzi apologetici di una fantomatica mafia "tradizionale", come Il padrino di M. PUZO (Mondadori, Milano 1978). Particolarmente significativo il lavoro giornalistico e letterario di GIUSEPPE FAVA, fondatore della rivista "I Siciliani", assassinato dalla mafia nel 1984. Fra i suoi scritti: Gente di rispetto, Bompiani, Milano 1975; I siciliani, Cappelli, Bologna 1980. In ordine ad una pedagogia e ad una didattica anti-mafia, non si puo' non tener conto di alcune ricerche di psicologia sociale. Segnaliamo: AA. VV. ( a cura di A. M. DI VITA), Alle radici di un'immagine della mafia, F. Angeli, Milano 1986, in cui sono pubblicati i materiali di una ricerca della facolta' di Magistero di Palermo, ed AA. VV., L'immaginario mafioso. La rappresentazione sociale della mafia, Dedalo, Bari 1986, indagine dell'Istituto di psicologia dell'Universita' di Palermo diretta da GIGLIOLA LO CASCIO. [Un interessante tentativo, di fare il punto sulla ricerca attuale e di aprire nuove prospettive, nel volume G. CASARRUBEA, P. BLANDANO, L'educazione mafiosa. Strutture sociali e processi di identita', Sellerio, Palermo 1991]. 4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 5. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 575 del 23 aprile 2003
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