La nonviolenza e' in cammino. 575



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 575 del 23 aprile 2003

Sommario di questo numero:
1. Norma Bertullacelli: le nostre bandiere di pace
2. Ernesto Balducci: introduzione a "La pace. Realismo di un'utopia"
3. Giovanni la Fiura, Amelia Crisantino, Augusto Cavadi: mafia, una guida
bibliografica ragionata (1991)
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. NORMA BERTULLACELLI: LE NOSTRE BANDIERE DI PACE
[Norma Bertullacelli (per contatti: norma.b at libero.it), insegnante, amica
della nonviolenza, collaboratrice di questo foglio, e' impegnata nella "Rete
controg8 per la globalizzazione dei diritti" di Genova]
Alle finestre delle nostre citta' continuano a sventolare le bandiere di
pace.
E' un segnale importante. Ci dice che il no alla guerra in Iraq non e' solo
l'istintivo, sacrosanto rifiuto dell'approccio violento ad un conflitto che
aveva bisogno di ben altre risposte. E'  espressione di un bisogno sempre
piu' diffuso di soluzioni diverse, di diversi rapporti tra le persone, tra i
popoli, tra gli stati. Una consapevolezza che cresce rispetto ai legami che
intercorrono tra gli attuali modelli di economia, di politica, di vita, e le
risposte sempre piu' brutali a quanto si muova al di fuori di questi
modelli.
Un bisogno di un mondo diverso, la speranza che sia possibile realizzarlo.
Facciamo ancora sventolare le nostre bandiere di pace.

2. MAESTRI. ERNESTO BALDUCCI: INTRODUZIONE A "LA PACE. REALISMO DI
UN'UTOPIA"
[Riproponiamo nuovamente l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e
Lodovico Grassi, La pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un
ottimo libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del
pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders.
L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al
convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei
punti di elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista
che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e
dell'ovest. Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di
Grosseto) nel 1922, ed e' deceduto a seguito di un incidente stradale nel
1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore
di numerose iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista
"Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986.
Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, e' stato un
pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi
sono decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici
problemi dell'ora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo
particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio
(Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione
con Lodovico Grassi; Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario
(Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp); Montezuma scopre l'Europa
(Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si chiude
(Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una
cosa (Ecp); il manuale di storia della filosofia, Storia del pensiero umano
(Cremonese), ed il corso di educazione civica Cittadini del mondo
(Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto
Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a
lui dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn. 347-349, 1992; ed
Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, "Testimonianze" nn.
373-374, 1995. Un'ottima rassegna bibliografica preceduta da una precisa
introduzione biografica e' il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci:
cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari, Firenze 1996. Recente e' il
libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la
modernita', Laterza, Roma-Bari 2002. Cfr. anche Enzo Mazzi, Ernesto Balducci
e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002]
Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno,
dinanzi a tale prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli
utopisti, secondo i quali e' possibile, in ragione della stessa smisuratezza
del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della guerra, e i
realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo'
essere custodito solo dall'equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha
cominciato a diventare acuto agli inizi dell'eta' moderna.  Nel chiudere il
quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale,
Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento
Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro
l'arte e la natura" ... "e tra le ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero
frate, in qualche canto della piazza, sorridere pietosamente il pallido viso
di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli e' durato fino
ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il tempo in cui siamo
rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi argomenti del
realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in se'
le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono piu' gli
emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene
comune. Com'e' noto, il maestro dei realisti affidava alla virtu' (che nel
suo linguaggio voleva dire abilita' conforme a ragione) il compito di far
fronte alla fortuna e cioe' al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A
suo giudizio, fortuna e virtu' potevano governare la storia umana con una
incidenza del 50% ciascuna. Le milizie cittadine erano lo strumento primo
della virtu' di un principe. Uno strumento peraltro da usare all'interno di
una preveggenza multiforme delle eventualita' della fortuna. "Assomiglio
quella - dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap.
 XXV) - a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e'
piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa parte terreno,
pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto
loro, senza potervi in alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti,
non resta pero' che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo
fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o
egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si'
licenzioso ne' si' dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale
dimostra la sua potenzia dove non e' ordinata virtu' a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il
fiume del fuoco atomico, contro cui nessun argine vale, nessun
"provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta'" affidata al
principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo dire
materialistica, non Firenze o l'Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte
all'imperativo assoluto del bene del Principato, un imperativo ipotetico,
legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste condizioni mutano,
anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.
*
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate.  L'umanita' e' entrata in
un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma:
o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una
mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e
noi siamo vivi! Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente
allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi
serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si
sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il
riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della
mutazione.
La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un
destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di
natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si
e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente
e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e'
ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il
Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a
dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il
fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica
rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche' esiste
un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi
l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra
memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a
pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo
anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che
la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o
dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica
internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria
delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte
di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa.
Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi.  Gli uomini e le donne che, fosse
pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza,
non hanno piu' la coscienza tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace,
ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e'
arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto
che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita'
distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale
e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante
un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva
la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum
necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali
che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo non
ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era
mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la
storia sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla
sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo
in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le
culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e
cioe' come uno strumento limite della ragione.  E difatti, nelle nostre
ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso
le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio
di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento"
fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun
avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo
materno dell'accadimento.
*
Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella
pratica politica ancora dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano e'
anch'esso di tipo nuovo, non in continuita' con quello tradizionale. Per
pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o
misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle
correnti ideologiche che, nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della
politica la ricerca di una pace definitiva. In questo senso potremmo parlare
di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le culture
via via dominanti, il cui dogma centrale e' sempre stato la inevitabilita'
della guerra.
Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perche'
ebbe le sue prime manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che potremmo
chiamare anche, utilizzando un lessico piu' alla moda, radicale. Il suo
principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da quello
religioso a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va
posata sulla fede religiosa o su qualsiasi altra visione del mondo, ma su
cio' che negli uomini e' comune, sulla loro natura razionale, la cui voce e'
la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa
cattolica. Il pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle
istituzioni, in particolar modo nell'esercito, e ripone la causa dello
spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze.
Cio' che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo
impianto individualistico, e' la disponibilita' al confronto e soprattutto
la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della loro capacita',
almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di
fornirgli strumenti di diritto per il perseguimento della giustizia e
dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato sempre un pacifismo elitario,
capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente sulle
cause che generano i conflitti interni ed esterni alla societa'. Il
principio della tolleranza e' senza dubbio necessario a dar fondamento a una
societa' pacifica, purche' pero' venga coniugato con una militanza politica
il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai fini del bene
comune e della pace.
E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la
formula ideologica che gli dettero, al suo nascere, i giacobini, esso
identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la fondazione della
pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli amano la
pace - ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la
liberta' coincidono con i loro interessi, mentre la guerra produce sprechi,
rovine, servitu' militari. Bastarono i plebisciti di Napoleone a dimostrare
quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo,
una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranita',
rifugga naturalmente dalle guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra
essa ebbe una splendida reviviscenza con la dottrina di Wilson che tenne a
battesimo la Societa' delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu' democratica
delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco, quella di Weimar,
che prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il nazismo. Ed oggi noi
siamo qui a constatare che un paese di sicura democrazia formale come gli
USA si e' trasformato in una cittadella atomica, alla cui ombra prosperano
in tutto il mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica
e' che essa chiama in causa il popolo senza tener conto delle forze che nel
suo seno si contrastano e lo frantumano piegandolo alla loro logica.
La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data il
pacifismo socialista. L'internazionalismo operaio e' senza dubbio l'utopia
pacifista piu' straordinaria che sia nata nel mondo moderno. Il suo
strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma non violenta, che ha
modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non
e' stato in grado di arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche
quando e' stato indetto, lo "sciopero per la pace" non ha mai funzionato.
Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra, dimostrando che essa
e' strutturalmente connessa alla societa' capitalistica e che percio' vivra'
e morira' con questa. La razionalita' della guerra e' nel fatto di portare
al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar cosi' il suo
capovolgimento: la rivoluzione. E' quanto avvenne, per suo merito, in
Russia. Ma la sua tesi, smentita per due volte, era che una guerra mondiale
avrebbe dovuto generare una rivoluzione mondiale.
La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi,
provocando un collasso estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di
due ordini. La' dove si ritiene di aver gia' realizzato il socialismo, non
solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia
quello delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica
socialista all'imperialismo del capitale potrebbe anche vedere un dato
provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese della
repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla
logica del capitale, c'e' attualmente lo stato di all'erta: segno, per
molti, che le cause della guerra non sono riducibili all'economia di
mercato.
Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e'
contraddetta almeno da due dati oggi emergenti: i movimenti pacifisti
all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei paesi
ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze
capitalistiche si equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra
parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era ancora succube dello
schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo
Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie di
immensa retroguardia del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno scenario
storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno, l'ideologia socialista
appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle
necessita'. Essa sconta fino in fondo il lato positivistico della sua
origine che l'ha tenuta subalterna all'ideologia borghese. Non e' forse una
tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e' il naturale erede della
cultura della borghesia, che e' intimamente cultura di violenza? Niente di
strano che ben poco sia rimasto oggi, in occidente, del pacifismo
proletario.  Non e' forse vero, ad esempio, che, stretti nel cappio delle
necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche
nell'immenso apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale,
produce armi da esportare nei paesi del Terzo Mondo per dar forza ai regimi
oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse scandalizzati, dato che
per loro la pace sarebbe stata il risultato di una rivoluzione mondiale che,
dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far uso della violenza delle
armi. Ma che senso ha oggi parlare di rivoluzione armata, quando le classi
dominanti del sistema imperialistico hanno in mano le armi atomiche?
*
Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno
confusamente, che se ci sara' una reazione all'altezza dell'estremo
discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la proposta dei
pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un
mutamento culturale (la mutazione di cui sopra si diceva) che metta fine,
una volta per sempre, all'eta' neolitica, tanto per usare un'espressione
cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle nuove
manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di cambiamento,
non solo della politica, ma dei termini fondamentali della presenza
dell'uomo alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del passaggio da una
civilta' che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso
sviluppo ad una civilta' che ponga la sua radice nell'altra valenza
dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque
inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del
proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo,
della solidarieta' con l'intera specie come condizione del suo essere
persona.
Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi
c'e' anche quello, remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie.
Ora sappiamo che gli uomini preistorici non erano piu' bellicosi di noi, a
volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma questa parola ora la
pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non
manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civilta' e guerra ci
autorizza a dedurne che dunque la guerra e' una legge insuperabile della
specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie
quello che poi si e' scoperto essere niente piu' che un portato della
cultura. Ad esempio, la schiavitu'. L'opinione comune, fino a due secoli fa,
era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale della societa' umana,
proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per
eccellenza, Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitu' ci ripugna.  E
cosi': appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il quale e' la
natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a san
Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi
anche nel diritto italiano e' stata sancita la parita' dell'uomo e della
donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che quanto si attribuiva alla
natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e' stata
l'eta' della pietra e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe
esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta' della pace?
E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli
autori di questa rassegna. Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle
cose non puo' non portare alla previsione della catastrofe. Ma cio' che e'
improbabile, non per questo e' impossibile. La paleontologia dimostra che la
nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita' che
invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi), mettendo
i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo istinto di
conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del
genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani,
puo' incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di vita o puo'
diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della
storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell'unica
citta' che e' ormai il nostro pianeta.
Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che
essa e' per la prima volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa e'
l'unica alternativa alla morte universale Quel che le manca e', appunto, una
cultura che sia al suo livello, cioe', come si e' detto, al livello della
voce della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda alla
cultura della guerra di cui noi siamo figli, cosi' come alla cultura
paleolitica successe, piu' di diecimila anni fa, la cultura neolitica che
ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.
E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo
adoperarsi perche' non sia accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene
chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la mutazione
antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa
chiama in causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi -
non dovremmo aver paura a riconoscerlo - chiama in causa primariamente le
singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'e' una virtu' che non
puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la
fede dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e
mortificate            dalla gelida stagione del cinismo morale. Non si
obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola con i rigori della
ragione, perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a
nient'altro e' intenta se non a codificare l'esistente e a proiettarne le
forme nel futuro, e' proprio questa ragione il primo bersaglio della fede
morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede,
quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono
come seria l'ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata!
La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza
riscontro nei fatti. Essa ha gia' dalla sua parte alcuni processi in corso,
il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta' della pace come
loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno
battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della
civilta' della guerra. La prima di queste premesse e' che l'uomo sia per
natura aggressivo, di quell'aggressivita' distruttiva che noi chiamiamo
violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto
ad un punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per natura pacifico
o che l'uomo e' per natura violento. La natura dell'uomo e' nel suo farsi,
e' cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi' come si fa.
Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile,
scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella societa'
cresciuta all'ombra del fungo atomico.
- Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come un
individuo solo, secondo la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con
la coscienza ancora dispersa e frazionata nel suo organismo, ma con
strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche' avvenga l'unificazione
soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono
sempre piu' intollerabili: chi le tollera e' un ominide il cui sottosviluppo
e' insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli ominidi, il tempo
della fine e' gia' segnato, perche' la loro egemonia e' diventata
fisicamente impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica - il Nord -
ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e quando lo schiavo si accorge che il
padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo del padrone
e' finito, ed e' finita la sua cultura. Il padrone puo' morire come Sansone
o puo' morire di tranquilla morte naturale, e cioe' il Nord puo' morire
sotto le macerie cosmiche provocate dalla sua tracotanza o puo' morire
risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu' discriminazioni.
- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere
quello che e' stato, non lo puo' piu' per ragioni fisiche. L'ideologia dello
sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai contro i suoi
fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la
natura che non e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui
batte la luce dell'utopia marxiana dell'uomo naturalizzato e della natura
umanizzata. La passione ecologica e' un capitolo importante della cultura
della pace.
- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e'
proprio il caso di dirlo) della violenza e' il modo storico in cui si e'
determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio della sessualita'
quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarita'.
L'emancipazione femminile, con il connesso mutamento del senso della
sessualita', segna potenzialmente un salto qualitativo nella stessa
soggettivita' umana. L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della
terra, a partire dall'eta' neolitica, e' stata mantenuta con violenza al di
fuori degli spazi in cui si crea la storia: l'uomo del neolitico e' un uomo
dimidiato e proprio per questo violento.  L'emancipazione femminile e'
potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace.
- Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede nell'uomo,
e' la nuova dialettica che si e' aperta all'interno delle grandi religioni.
Possiamo limitarci, e non solo per brevita', al cristianesimo. La soglia
atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e vita del genere
umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della
vita trionfera', essa non potra' andare che nel senso di una composizione
unitaria del genere umano. Il che significa che tutto cio' che e' nato e
cresciuto con i segni del "particolare" potra' sopravvivere solo se sapra'
accettare le nuove misure di universalita' concreta. Alla pari delle altre
religioni, il cristianesimo non potra' non apparire (e gia' appare) come il
patrimonio di una porzione del genere umano. La sua storia, nel bene e nel
male, si confonde con quella dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce
come un pungolo sulla forma storica del cristianesimo, un pungolo che
sgretola quel che e' connesso alla relativita' storico-geografica e, nello
stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia cristiana ha
questo di proprio e forse di esclusivo: che e' una profezia messianica,
investe cioe' la totalita' delle speranze degne dell'uomo, prima fra tutte
la speranza della pace. In questo senso il cristianesimo trabocca dai
confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualita' laica della
storia.
- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre
confessioni che fanno capo al Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando
l'asse della propria vita interna o della propria missione storica dagli
spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo la
giustizia e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia' in atto.
Morendo alle sue terribili stagioni di complicita' con le guerre, il
cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di fondo,
che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che la
transizione alla civilta' della pace e' come un appuntamento storico che Dio
ha loro fissato e su cui le giudichera'. Una chiesa veramente evangelica e'
come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne viva del mondo.
Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro vertici
istituzionali, che sono piu' tardi a muoversi e che d'altronde hanno ancora
un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si sentono sospinte
sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo
alcuni, e' gia' matura la stagione per un Concilio ecumenico in cui le
chiese si ritrovino non per lanciare un nuovo messaggio al mondo ma per
assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la
responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento
della civilta' della pace.
- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando
un'indagine commissionata dall'UNESCO, riconosceva che la crisi della scuola
era un dato evidente in ogni parte del mondo e osava affermare che, alla
radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli autori di
questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si tratti. La
scuola, nelle forme e nei modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione
borghese e che nei paesi dell'Est europeo appaiono aggravati, e' sempre
stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al potere
costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti, per
definizione, guardano al mondo con l'occhio del dominio e cioe' l'occhio
che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il proprio particolare per
l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione
colonialistica per la diffusione della civilta'. Ma l'occhio fiero del
padrone ha bisogno dell'occhio umile dello schiavo: oggi, finalmente,
l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di vista
conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare un'eco
veramente umana nelle coscienze se non e' cultura planetaria, e cioe' se il
suo punto di vista non e' il punto di vista del pianeta divenuto
l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve
essere cultura di pace.
La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base
della crisi della scuola e' proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola
e' ancora un organo di diffusione della cultura padronale che e', per forza
di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di
crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno
semplici palliativi finche' non scenderanno a questa profondita', per
mettere in questione il presupposto antropologico che ha fatto da dogma
latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla riforma
di se stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai processi
di cambiamento che preparano e prefigurano la cultura della pace.
*
Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in
quei processi e' la costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria
storica diversa da quella codificata nel sapere dominante. Ed e' un compito
che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico che
abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era
riconducibile alla sfera dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti
critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza o relegato ai margini
come ingenuo o poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale:
ecco il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione del
sapere. La parola pace, nei libri di scuola, serve normalmente per indicare
i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco piu' che
interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La
"verita' effettuale" e' diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel
costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano piuttosto oggetti
che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui e'
solito rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.
E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la
presente rassegna intende offrire una larga documentazione critica. Il
panorama che essa offre e' di necessita' limitato, nel tempo e nello spazio.
Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la politica
degli Stati e congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico,
l'"istituzione guerra". Nello spazio: la rassegna resta, salvo qualche
sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perche' e' in quest'area
che la civilta' della guerra ha prodotto le sue grandezze e oggi il suo
dilemma mortale.
Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste
pagine sempre in un rapporto dialettico con la realta' della guerra e appare
sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo oggi, nell'era di Hiroshima, le
due logiche, quella dell'ideale morale e quella della necessita' realistica,
arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di prospettive morali e
politiche.
Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a
questo singolare evento della coincidenza tra utopia e realismo, la loro
posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla fin da questa lunga
premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso
oggettivo delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta' su
cui le coscienze possono elaborare, in modo autonomo, le proprie scelte. Lo
strumento che essi hanno preparato intende provocare e soccorrere,
all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il piu' alto, il
piu' universale e, sia permesso di dire, il piu' religioso tra quelli che
fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante per la formazione
dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino
a colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre
piu' adatto ad illuminare e ad alimentare, dentro e fuori della scuola, la
cultura della pace da cui dipende il destino della Terra.

3. MATERIALI. GIOVANNI LA FIURA, AMELIA CRISANTINO, AUGUSTO CAVADI: MAFIA,
UNA GUIDA BIBLIOGRAFICA RAGIONATA (1991)
[Questa bibliografia ragionata sulla mafia, redatta da Giovanni La Fiura,
Amelia Crisantino e Augusto Cavadi, e' tratta dalla rivista "Nuova
secondaria", n. 5 del 15 gennaio 1991 (Editrice La Scuola, Brescia); e'
stata piu' volte ripubblicata: ad esempio in Augusto Cavadi, Liberarsi dal
dominio mafioso, Edizioni Dehoniane, Bologna 1993, pp. 21-31 (con un
sintetico aggiornamento in conclusione, che qui riproduciamo); e
parzialmente rielaborata e con Un breve aggiornamento di Umberto Santino,
alle pp. 161-173 del volume a cura di Augusto Cavadi, A scuola di antimafia,
Csd quaderni/6, Palermo 1994 (volume cui rinviamo). Qui riproduciamo ancora
una volta il testo originale del '91 (con la minima integrazione finale
dell'edizione '93, che riportiamo tra parentesi quadre), che avevamo gia'
ristampato in opuscolo anni fa autorizzati da "Nuova secondaria", che
nuovamente ringraziamo. Ci sembra che nonostante siano trascorsi oltre dieci
anni, questo breve testo offra ancora un assai significativo contributo di
conoscenza e di interpretazione; se da allora ad oggi molto e' cambiato
nella percezione e nell'analisi del fenomeno mafioso, ed oggi sono
disponibili rispetto ad allora vari nuovi libri di cospicuo valore,
grandissima parte del merito e' proprio del gruppo di studiosi e di
militanti di cui gli autori di questa rassegna fanno parte. Giovanni La
Fiura, Amelia Crisantino e Augusto Cavadi sono tre autorevoli studiosi
impegnati nel "Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato",
autori di molte pubblicazioni che apportano fondamentali contributi di
conoscenza e di proposta alla lotta contro i poteri criminali.
Giovanni la Fiura e' un prestigioso studioso e militante del movimento
antimafia, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato" di Palermo. Tra le opere di Giovanni La Fiura: con Amelia
Crisantino, la mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989;
con Umberto Santino, L'impresa mafiosa, Franco Angeli, Milano 1990; con
Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Ugo Adragna, Gabbie vuote, Franco Angeli,
Milano 1992; con Umberto Santino, Dietro la droga, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1993; Droghe & mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1993..
Amelia Crisantino e' una prestigiosa studiosa e militante antimafia,
collaboratrice del Centro Impastato di Palermo. Tra le opere di Amelia
Crisantino: (con Giovanni La Fiura), La mafia come metodo e come sistema,
Pellegrini, Cosenza 1989; La citta' spugna, Centro Impastato, Palermo 1990;
Capire la mafia, La Luna, Palermo 1994.
Augusto Cavadi (per contatti: acavadi at lycos.com), prestigioso intellettuale
ed educatore, collaboratore del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato" di Palermo, e' impegnato nel movimento antimafia e nelle
esperienze di risanamento a Palermo, collabora a varie qualificate riviste
che si occupano di problematiche educative e che partecipano dell'impegno
contro la mafia. Opere di Augusto Cavadi: Per meditare. Itinerari alla
ricerca della consapevolezza, Gribaudi, Torino 1988; Con occhi nuovi.
Risposte possibili a questioni inevitabili, Augustinus, Palermo 1989; Fare
teologia a Palermo, Augustinus, Palermo 1990; Pregare senza confini,
Paoline, Milano 1990; trad. portoghese 1999; Ciascuno nella sua lingua.
Tracce per un'altra preghiera, Augustinus, Palermo 1991; Pregare con il
cosmo, Paoline, Milano 1992, trad. portoghese 1999; Le nuove frontiere
dell'impegno sociale, politico, ecclesiale, Paoline, Milano 1992; Liberarsi
dal dominio mafioso. Che cosa puo' fare ciascuno di noi qui e subito,
Dehoniane, Bologna 1993, seconda ed.; Il vangelo e la lupara. Materiali su
chiese e mafia, 2 voll., Dehoniane, Bologna 1994; A scuola di antimafia.
Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Essere
profeti oggi. La dimensione profetica dell'esperienza cristiana, Dehoniane,
Bologna 1997; trad. spagnola 1999; Jacques Maritain fra moderno e
post-moderno, Edisco, Torino 1998; Volontari a Palermo. Indicazioni per chi
fa o vuol fare l'operatore sociale, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1998, seconda ed.; voce "Pedagogia" nel cd-
rom di AA. VV., La Mafia. 150 anni di storia e storie, Cliomedia Officina,
Torino 1998, ed. inglese 1999; Ripartire dalle radici. Naufragio della
politica e indicazioni dall'etica, Cittadella, Assisi, 2000; Le ideologie
del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. Vari suoi contributi sono
apparsi sulle migliori riviste antimafia di Palermo. Indirizzi utili:
segnaliamo il sito: http://www.neomedia.it/personal/augustocavadi (con
bibliografia completa).
Umberto Santino - che del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato" di Palermo e' fondatore, presidente e principale animatore, e di
cui in questa bibliografia si propone l'approccio teorico - da decenni e'
uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi
complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni
concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia,
politica e criminalita'. Il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato" (via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax
091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito internet: www.centroimpastato.it) e'
un istituto di ricerca tra i piu' accreditati in campo internazionale,
particolarmente specializzato su mafia e poteri criminali; operante dal
1977, e' stato successivamente intitolato a Giuseppe Impastato, militante
della nuova sinistra assassinato dalla mafia nel 1978; una sintetica ma
esauriente scheda di autopresentazione, di quattro pagine, e' richiedibile
presso il Centro Impastato. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di),
L'antimafia difficile,  Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza
programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi,
Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa
mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio
Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote.
Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli,
Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro
la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra,
progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia
mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le mafie, per
l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi,
paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti
nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al 1994, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995; La
democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione
delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Oltre la
legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997; L'alleanza e
il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni
nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del movimento
antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome. Materiali per lo
studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Scritti
su Umberto Santino: una rassegna bibliografica di alcuni lavori di Umberto
Santino e' apparsa nei numeri 573-574 di questo notiziario]
1. Di che cosa ci stiamo occupando
Puo' sembrare paradossale, ma una ricerca sulla mafia deve cominciare dalla
focalizzazione precisa del tema: in questo caso, come in pochi altri,
infatti, uno stesso termine e' adoperato in significati disparati, talora
contraddittori. La parola "mafia" ha insieme indicato: un comportamento e un
modo di essere, cioe' una mentalita' e uno stato d'animo, e un dato di
fatto, cioe' l'associazione criminale; l'espressione del "senso dell'onore"
e dell'"ipertrofia dell'io" di determinate popolazioni e la manifestazione
della loro inferiorita' razziale; un fenomeno locale e residuale e la
"piovra" universale; l'effetto e la causa del sottosviluppo etc. etc. E'
evidente che l'indeterminazione pregiudica la riuscita dell'indagine, per
cui si pone preliminarmente l'esigenza di individuare un'ipotesi
definitoria. In un volume che raccoglie gli atti di una "giornata di
bilancio e di riflessione", svoltasi nel 1988, Umberto Santino, direttore
del primo centro di documentazione e di studi sulla mafia sorto in Italia,
propone la seguente definizione del fenomeno mafioso: "Per mafia intendiamo
un fenomeno complesso, polimorfico, consistente nell'uso di pratiche di
violenza e di illegalita' in genere da parte di strati sociali dominanti o
tendenti a diventare tali ('borghesia mafiosa') allo scopo di accumulare
ricchezza e acquisire posizioni di potere, avvalendosi di un codice
culturale non immodificabile e di un relativo consenso sociale, variabile a
seconda della composizione della societa' e dell'andamento del conflitto di
classe o comunque del rapporto tra le varie componenti" (Mafia e lotta alla
mafia: materiali per un bilancio e nuove ipotesi di lavoro in AA. VV.,
L'antimafia difficile, a cura di U. SANTINO, Centro Siciliano di
documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989, pp. 21-22).
Per quanto riguarda lo sviluppo storico del fenomeno, esso viene visto come
un intreccio di continuita' e trasformazione, qualcosa di piu' complesso
delle classificazioni correnti, imperniate su nozioni approssimative come
"mafia vecchia" e "mafia nuova". Santino individua quattro fasi:
"- un lungo periodo di incubazione (in cui piu' che di mafia vera e propria
puo' parlarsi di 'fenomeni premafiosi' all'interno del processo di
transizione dal feudalesimo al capitalismo in una regione che sulla scorta
dello schema di Wallerstein abbiamo definito una 'semiperiferia anomala',
contrassegnata dalla prevalenza del lavoro mezzadrile e dal policentrismo
del potere);
- una fase agraria che va dall'unita' d'Italia agli anni '50 di questo
secolo, con almeno quattro subfasi: opposizione strumentale iniziale,
integrazione successiva con delega (da parte dello Stato centrale) del
potere locale, espulsione relativa di fasce di bassa mafia ed integrazione
dell'alta mafia nel periodo fascista, rilegittimazione politica e assunzione
diretta del potere nell'immediato dopoguerra e successiva integrazione nel
blocco dominante;
- una fase urbano-imprenditoriale dalla seconda meta' degli anni '50 agli
anni '60, caratterizzata dalla compenetrazione con il potere politico,
l'egemonia locale, il controllo della spesa pubblica, l'intreccio tra
pratiche parassitarie, come la riscossione delle tangenti, che non e' mai
cessata, con attivita' imprenditoriali che producono, d'amore e d'accordo
con altri soggetti imprenditoriali, quell'insalata di palazzoni che si
chiama Palermo e quel deserto di cemento che si chiamava Conca d'oro;
- la fase della 'mafia finanziaria' dagli anni '70 ad oggi, cioe' una grande
macchina di accumulazione del capitale a livello mondiale, che opera in
collaborazione-concorrenza-competizione con altre criminalita' organizzate,
che sono venute assumendo caratteri omologhi, in quanto praticano le stesse
attivita' (traffici di droga e di armi in primo luogo) e si trovano di
fronte agli stessi problemi (riciclaggio del denaro sporco, investimento);
la mafia nella fase attuale utilizza le opportunita' offerte dal
proibizionismo delle droghe, dall'espansione del mercato delle armi, dal
segreto bancario e dai fenomeni di innovazione finanziaria e, forte delle
sue capacita' di accumulazione, e' entrata in gara egemonica con altri
soggetti sociali dominanti e chiede di contare di piu' a livello sociale e
politico, abbattendo gli ostacoli che si frappongono al suo processo di
espansione" (U. SANTINO, Mafia e lotta alla mafia, cit., pp. 22-23).
*
2. Dalla preistoria della mafia alla fase agraria
Tra i volumi piu' significativi che si occupano della genesi e dei primi
sviluppi della mafia va citato S. F. ROMANO, Storia della mafia, Mondadori,
Milano 1966, che analizzava "gli antecedenti strutturali e le origini
sociali della 'mafia': compagni d'arme, maestranze, squadre e controsquadre"
sino all'ascesa dei gruppi mafiosi dopo la seconda guerra mondiale (con
riferimenti alla mafia americana). Purtroppo si tratta di un testo da tempo
irreperibile sul mercato editoriale, e gia' questo ci sembra indicativo di
una situazione di fatto che contraddice la sensazione di un'abbondanza di
informazioni sull'argomento.
Se molto si e' scritto e si scrive sul piano giornalistico, pochissimo e'
stato prodotto a livello di analisi scientifica: e sarebbe auspicabile una
riedizione di questi e di altri lavori di valore da tempo caduti nel
dimenticatoio, pur senza essere stati adeguatamente rimpiazzati.
Per fare un altro esempio, la rassegna antologica piu' significativa e'
ancora l'Antologia della mafia, a cura di N. RUSSO, il Punto, Palermo 1964,
anch'essa irreperibile. L'antologia raccoglie documenti degli anni '70
dell'Ottocento, la relazione Bonfadini della prima commissione parlamentare
d'inchiesta (1875-76), ampi stralci dell'inchiesta di Franchetti e Sonnino
del 1876 - un testo lucidissimo nella individuazione della mafia come
"industria del delitto", cioe' come violenza strumentale a fini di
arricchimento e di potere, e caratteristica delle "classi medie" siciliane -
e si conclude con documenti del periodo fascista. Di questi materiali, nel
1974, e' stata ripubblicata dall'editore Vallecchi di Firenze, con il titolo
Inchiesta in Sicilia, la ricerca condotta privatamente da LEOPOLDO
FRANCHETTI e SIDNEY SONNINO.
Allo stato attuale, per quanto riguarda l'approccio storiografico, bisogna
dunque accontentarsi dei riferimenti rintracciabili in opere sulla Sicilia
in generale come il paragrafo su mafia e corruzione politica in D. MACK
SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Bari 1970 (pp.
662-685), e il capitolo secondo del volume primo e il capitolo primo del
volume terzo della Storia della Sicilia dal 1860 al 1970  di F. RENDA,
Sellerio, Palermo 1984-87, in tre volumi. Cfr. anche il volume della Storia
d'Italia. Le regioni dall'Unita' a oggi: AA.VV. (a cura di M. AYMARD e G.
GIARRIZZO), La Sicilia, Einaudi, Torino 1987; in particolare Per una storia
della mafia. Interpretazioni e questioni controverse di R. SPAMPINATO (pp.
881-902) e Stato violenza societa'. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso
di P. PEZZINO (pp. 903-982). In questo contributo, per "paradigma mafioso"
si intende "l'insieme di analisi, indagini, interpretazioni, luoghi comuni,
che si sono andati depositando e stratificando nel tempo sopra vicende e
aspetti significativi della storia siciliana progressivamente, e non sempre
con identico significato, classificati col termine 'mafia'" (p. 906), cioe'
piu' un assemblaggio di stereotipi che un vero e proprio paradigma
scientifico. Il "paradigma" si forma nei primi anni dell'Unita' d'Italia e
in particolare dopo l'insurrezione palermitana del 1866; e risponde a
esigenze dettate dalla lotta politica, tendendo a criminalizzare come
"mafiosa" qualsiasi forma di opposizione; esso successivamente, "nella
duplice versione di riduzione del fenomeno a codice culturale o a forma
popolare di autogiustizia, attraversa le divisioni ideologiche perche' la
valorizzazione della mafia come dato storico originario del popolo siciliano
si colloca tra le manifestazioni piu' tipiche del sicilianismo: a tale
ideologia le classi dirigenti siciliane ricorrevano nel tentativo di
pilotare un processo di sviiluppo che non mettesse in discussione la
tradizionale egemonia proprietaria" (pp. 958-959). Nel periodo fascista,
come in altri momenti della storia, "al paradigma mafioso elaborato dalle
classi dirigenti siciliane veniva contrapposto il paradigma associativo
elaborato dalle istituzioni in quelle occasioni in cui si faceva della
repressione antimafia strumento di lotta politica" (p. 977). Ad avviso
dell'autore, il paradigma "riemerge nelle discussioni che hanno accompagnato
le vicende degli ultimi anni, e soprattutto con riferimento
all'approvazione, dopo l'assassinio di La Torre e Dalla Chiesa, della Legge
13 settembre 1982, n. 646" (p. 981).
Se passiamo da opere di respiro generale a lavori di carattere monografico,
vanno citati gli studi di G. C. MARINO sui primi anni dell'unita' d'Italia
(L'opposizione mafiosa (1870-82). Baroni e mafia contro lo Stato, Flaccovio,
Palermo 1964, ripubblicato nel 1986), sul periodo fascista (Partiti e lotta
di classe in Sicilia, De Donato, Bari 1976) e sul separatismo (Storia del
separatismo siciliano 1943-47, Editori Riuniti, Roma 1979).
Efficace il capitolo dedicato alla mafia nel volume di E. J. HOBSBAWM; I
ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1990; ma ed.
or. 1959 (pp. 41-74). La mafia viene considerata come "uno sviluppo alquanto
piu' complesso del banditismo sociale", sempre di piu' nel suo percorso
storico "strumento di esponenti del potere o di aspiranti ad esso»"(p. 9) e
"sistema di potere, a carattere privato e parallello a quello ufficiale" (p.
48).
Per anni uno dei testi a cui si e' fatto riferimento e' il volume di H.
HESS, La mafia, Laterza, Bari 1984, ed. or. 1970, una ricerca sociologica
con taglio antropologico. Al centro della ricerca e' il "comportamento
mafioso", studiato all'interno di un "sistema subculturale" che coinvolge
l'intera popolazione, o la grande maggioranza di essa, delle quattro
provincie della Sicilia occidentale (non si fa cenno alle ondate di
movimento contadino anti-mafioso, dai Fasci siciliani al secondo
dopoguerra). Tale comportamento svolge le funzioni di "protezione",
"mediazione" e "regolamentazione economica", nei confronti di uno Stato
estraneo o assente, per cui si arriva alla conclusione che "il comportamento
mafioso non potra' piu' manifestarsi quando lo Stato assolvera' le funzioni
di protezione e regolamentazione economica e perseguira' energicamente ogni
forma privata di ricorso alla violenza" (p. 230).
Fanno continuo riferimento, invece, ai legami fra mafia e istituzioni e
mondo politico i libri di denuncia, ancora facilmente reperibili, di MICHELE
PANTALEONE, soprattutto Mafia e politica: 1943-1962, Einaudi, Torino 1962;
Antimafia occasione mancata, Einaudi, Torino 1969.
Al limite fra storia e sociologia e' A. BLOCK,  La mafia di un villaggio
siciliano 1860-1960. Imprenditori, contadini, violenti, Einaudi, Torino 1986
(edito in inglese nel 1975). L'autore analizza il fenomeno mafioso
"dall'interno", a partire dall'osservazione quotidiana dei comportamenti e
della vita di relazione di una comunita' della Sicilia Occidentale,
"Genuardo" (Contessa Entellina). L'indagine si sviluppa in due direzioni: da
una parte una ricostruzione storica dei rapporti sociali nelle campagne
siciliane e delle vicende del latifondo; dall'altra l'analisi del difficile
incontro della societa' locale con lo Stato postunitario. Dall'incrocio di
queste prospettive e' lo stesso oggetto "mafia" ad essere trasformato:
liquidata l'immagine della "banda delle bande" tramandata dal senso comune,
i mafiosi si configurano come strumento di gestione del potere locale e di
mediazione (brokers) con lo Stato. La mafia non e' sinonimo del
sottosviluppo di una paese senza legge, ma il prodotto della particolare
forma di sviluppo che il processo di formazione dello Stato ha avuto in
Sicilia.
Un'altra ricerca condotta con il metodo dell'osservazione partecipante e'
quella di JANE e PETER SCHNEIDER, Classi sociali, economia e politica in
Sicilia, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1989, ed. or. 1976, in cui il
fenomeno mafioso viene ricondotto al cosiddetto "capitalismo di mediazione"
che si sviluppa in Sicilia, considerata come area periferica (viene
utilizzato lo schema centro-periferia elaborato da I. WALLERSTEIN in Il
sistema mondiale dell'economia moderna, Il Mulino, Bologna 1978).
*
3. La mafia dagli anni '60 ad oggi
Sarebbe troppo impegnativo citare le fonti per una ricerca sulla mafia
attuale che non dovrebbe prescindere dai materiali pubblicati dalla
Commissione parlamentare antimafia (1963-1976), voluminosi e difficilmente
reperibili. Per gli anni piu' recenti ricordiamo solo, per l'accessibilità
anche a docenti e studenti, il volume a cura di C. STAJANO, Mafia. L'atto d'
accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986, che pubblica
stralci dell'ordinanza-sentenza istruttoria del primo maxi-processo di
Palermo. Immediatamente fruibili, e coinvolgenti anche dal punto di vista
psicologico, alcune "storie di vita" riguardanti personaggi femminili in
rotta con il mondo mafioso e un ambiente popolare impregnato di mafiosita'
da cui provengono: F. BARTOLOTTA IMPASTATO, La mafia in casa mia, La Luna,
Palermo 1986;  A. PUGLISI (a cura di), Sole contro la mafia, La Luna,
Palermo 1990. Nel primo testo viene intervistata la madre di Impastato, il
militante siciliano che - avendo rinnegato la matrice mafiosa familiare - si
dedica a iniziative politiche e culturali contro la mafia, finendo trucidato
con una bomba ad opera di notissimi ignoti. Nel secondo testo sono
intervistate Michela Buscemi e Pietra Lo Verso, legate a vittime di violenza
mafiosa, che rompendo una secolare tradizione di omerta' si sono costituite
"parti civili" in processi contro la mafia. Un'importante testimonianza e'
il volume di NANDO DALLA CHIESA, Delitto imperfetto, Mondadori, Milano 1984.
Se passiamo dalle "fonti" alle interpretazioni critiche, troviamo molto
materiale a livello divulgativo, ma molto poco a livello di ricerca empirica
e di sintesi teorica. Per un orientamento nel vasto mondo della pruduzione
giornalistica un'utile bussola e' il volume di G. PRIULLA (a cura di), Mafia
e informazione, Liviana, Padova 1987.
Le poche ricerche che propongono modelli complessivi d'interpretazione
teorica della mafia contemporanea sono quelle di F. Ferrarotti, P. Arlacchi,
R. Catanzaro e U. Santino.
FRANCO FERRAROTTI, in Rapporto sulla mafia: da costume locale a problema
dello sviluppo nazionale, Liguori, Napoli 1978, pubblica i materiali di una
ricerca commissionatagli dalla Commissione parlamentare antimafia. La mafia
viene considerata come "fenomeno globale", nel senso che essa "non puo'
essere compresa se non prendendo in considerazione i nessi radicali che la
legano non soltanto ai gruppi sociali che vivono nelle zone di influenza
mafiosa, ma alla stessa societa' nazionale" (p. 53). Il volume propone una
bibliografia critica essenziale e contiene i risultati di una ricerca
condotta, attraverso la somministrazione di un questionario, in citta' e
comuni della Sicilia "nell'intento di mettere in luce la cultura delle
popolazioni che vivono nelle zone mafiose, intesa come il costume e la
mentalita' media prevalente" (p. 141), e che ha riguardato anche l'evasione
scolastica e l'atteggiamento delle famiglie verso l'istruzione.
PINO ARLACCHI, in La mafia imprenditrice. L'etica mafiosa e lo spirito del
capitalismo, il Mulino, Bologna 1983, introduce una categoria interpretativa
basata sull'impresa mafiosa, e sui suoi vantaggi economico-finanziari. La
prima parte del volume "e' dedicata ad un riesame dei caratteri piu'
significativi del fenomeno mafioso nel Mezzogiorno tradizionale (...). Il
quadro della situazione tradizionale e' stato elaborato secondo una
metodologia tipico-ideale, che ricalca da vicino i classici precetti
weberiani (...). L'esposizione della struttura tipico-ideale del fenomeno
mafioso tradizionale (...) e' stata scomposta in due sequenze differenti,
corrispondenti a due diversi aspetti della stessa. Nella prima sequenza
viene descritta la dinamica del fatto sociale di rilevanza strategica per la
comprensione dei rapporti tra la mafia e l'ambiente socio-economico che
l'esprime; il comportamento mafioso ed il suo stretto legame con il fenomeno
della competizione per l'onore vigente in alcune aree della Calabria
meridionale e della Sicilia occidentale (...) Nella sequenza successiva
viene evidenziata la seconda componente del fenomeno mafioso: il potere
mafioso e le funzioni da esso svolte nell'universo socio-economico e
politico locale e nazionale" (pp. 10-11). Nella seconda parte del volume si
fa una rapida descrizione degli effetti della "grande trasformazione"
post-bellica della societa' italiana e del Mezzogiorno sul potere e sul
comportamento mafioso tradizionali, mentre la terza parte "e' dedicata ad un
tipo ideale della mafia e del mafioso dei nostri tempi" (p. 12). Negli anni
'70 sarebbe nata la "mafia imprenditrice", la quale godrebbe di un "profitto
monopolistico", frutto di una "innovazione" consistente nel "trasferimento
del metodo mafioso nell'organizzazione aziendale del lavoro e nella
conduzione degli affari esterni all'impresa" (p. 109). Secondo l'autore, "la
gravita' dell'odierno fenomeno mafioso consiste (...) nel suo non costituire
piu' una componente improduttiva e subalterna dell'economia, ma una forza
della produzione radicata nelle strutture portanti dell'universo
socio-economico di aree sempre piu' vaste del Mezzogiorno" (p. 135).
Tuttavia, in un testo successivo, la grande criminalita' meridionale, che da
parassitaria sarebbe diventata produttiva, viene presentata come "uno degli
ostacoli piu' importanti e piu' trascurati dello sviluppo economico
italiano" (I costi economici della grande criminalita', in AA. VV.,
L'impresa mafiosa entra nel mercato, F. Angeli, Milano 1985, p. 29).
RAIMONDO CATANZARO, in Il Delitto come impresa, Liviana, Padova 1988, ha
proposto un'interpretazione della mafia come frutto di un processo di
"ibridazione sociale": "la mafia nasce come risposta della periferia
all'impatto del centro; ma non potrebbe affermarsi senza il sostegno di
quest'ultimo. L'utilizzazione del potere mafioso da parte delle autorita' va
inquadrato nell'ambito di sistemi di alleanze tra classi sociali e fra
interessi politici che si realizzano a livello locale, ma che per mantenersi
in vita e affermarsi debbono travalicare il sistema politico locale e
immergersi in un brodo di coltura costituito da equilibri politici
nazionali" (pp. 133-134). Particolarmente significative le pagine dedicate
al concetto di onore inteso come "concentrato di ricchezza, potere,
prestigio e violenza" (p. 65); le considerazioni sulla violenza come
"strumento di regolazione dell'economia" (pp. 71 e ss.) e le riflessioni
sugli sviluppi del fenomeno  mafioso negli ultimi anni, sia per cio' che
riguarda le attivita' imprenditoriali sia per gli effetti di inquinamento
del sistema politico (cfr. pp. 250 e ss.).
L'ipotesi di definizione della mafia come "borghesia mafiosa", concetto piu'
ampio di quello di mafia come mera associazione criminale, elaborata da
Umberto Santino, e' stata verificata all'interno di ricerche empiriche
pubblicate nei volumi: G. CHINNICI, U. SANTINO, La violenza programmata.
Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, F. Angeli,
Milano 1989 e U. SANTINO, G. LA FIURA, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli
Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990. Nel primo l'omicidio mafioso viene
considerato come "omicidio-progetto", cioe' come strumento per la
risoluzione della concorrenza interna e della "gara egemonica" con soggetti
esterni, che si inquadra in un programma complessivo delle organizzazioni
criminose, con l'abbattimento degli ostacoli che si frappongono alla
realizzazione del piano di arricchimento e di dominio. Nel secondo volume si
formula l'ipotesi della "economia polimorfa" e del "mercato
multidimensionale", in cui economia legale, sommersa e illegale presentano
tipologie di rapporti (compenetrazione, convivenza, conflitto), ricavate
dalle risultanze dell'indagine, condotta sugli accertamenti patrimoniali in
attuazione della legge antimafia. Da tali accertamenti risulta che, tolti
due grandi gruppi imprenditoriali, individuati in Lombardia e in Sicilia, le
altre realta' imprenditoriali sottoposte a sequestro e confisca hanno
principalmente funzione di copertura e di riciclaggio del capitale
accumulato illecitamente, per cui sarebbe confermata l'ipotesi di lettura
della mafia attuale soprattutto come "mafia finanziaria".
I libri sinora citati mirano, essenzialmente, a decifrare il fenomeno
"mafia" da un punto di vista storico, sociologico, economico e  politico.
Sarebbe interessante, almeno per degli educatori, avere a disposizione anche
del materiale per elaborare una "pedagogia" dell'antimafia: ma, purtroppo,
su questo versante, siamo ancora a contributi sporadici sotto forma di
articoli. D'altra parte e' ovvio che, se non si vuole cedere agli slogans,
un'azione pedagogica efficace ha senso solo se inserita in un progetto
culturale, etico, sociale e politico tendente a fare delle popolazioni
meridionali i protagonisti del proprio riscatto. Con limiti ed ambiguita',
la chiesa cattolica e' tra le pochissime agenzie educative che ha cercato di
offrire elementi in questo senso: per farsi un'idea di tale impegno puo'
consultarsi il recento volume di A. CHILLURA, Coscienza di chiesa e fenomeno
mafia, Augustinus, Palermo 1990, che raccoglie gli interventi delle chiese
siciliane, sia a livello di vertici che di base.
Alcuni degli esperimenti piu' interessanti nell'elaborazione di strategie
pedagogiche alternative sono il frutto della convergenza di soggettivita' e
culture diverse, come e' testimoniato, per esempio, nel recento volume di A.
CAVADI, Fare teologia a Palermo. Intervista a don Cosimo Scordato sulla
"teologia del risanamento" e sull'esperienza del Centro sociale "San
Francesco Saverio" all'Albergheria, Augustinus, Palermo 1990.
Anche sotto l'impulso delle Legge 51/80 della Regione siciliana, non sono
mancati i tentativi di approntare degli strumenti didattici attraverso cui
tradurre per la pratica quotidiana delle scuole alcune informazioni
essenziali ed alcuni criteri di orientamento valutativo. Purtroppo si
tratta, quasi sempre, di materiali da apprezzare piu' per le intenzioni
lodevoli che per il valore intrinseco. Un contributo pionieristico,
difficilmente reperibile, e' la raccolta di materiali curata dal CIDI,
Mafia, Camorra, 'ndrangheta, delinquenza organizzata: anzitutto conoscere,
Ediesse, Roma, 1984. Sul lavoro nelle scuole siciliane cfr. G. CIPOLLA,
Tradizione e innovazione nelle esperienze educative antimafia, in AA. VV.,
L'antimafia difficile, cit., pp. 128-139.
Probabilmente, per un approccio "didattico" rimangono insostituibili alcune
opere letterarie con felici intuizioni sociologiche, quali Il giorno della
civetta di LEONARDO SCIASCIA (Einaudi, Torino, 1961, successivamente
riedito), in cui e' colto lucidamente il passaggio dalla mafia agraria alla
mafia contemporanea, con la doverosa avvertenza che proliferano, in questo
ambito, anche romanzi apologetici di una fantomatica mafia "tradizionale",
come Il padrino di M. PUZO (Mondadori, Milano 1978). Particolarmente
significativo il lavoro giornalistico e letterario di GIUSEPPE FAVA,
fondatore della rivista "I Siciliani", assassinato dalla mafia nel 1984. Fra
i suoi scritti: Gente di rispetto, Bompiani, Milano 1975; I siciliani,
Cappelli, Bologna 1980.
In ordine ad una pedagogia e ad una didattica anti-mafia, non si puo' non
tener conto di alcune ricerche di psicologia sociale. Segnaliamo: AA. VV.
( a cura di A. M. DI VITA), Alle radici di un'immagine della mafia, F.
Angeli, Milano 1986, in cui sono pubblicati i materiali di una ricerca della
facolta' di Magistero di Palermo, ed AA. VV., L'immaginario mafioso. La
rappresentazione sociale della mafia, Dedalo, Bari 1986, indagine
dell'Istituto di psicologia dell'Universita' di Palermo diretta da GIGLIOLA
LO CASCIO. [Un interessante tentativo, di fare il punto sulla ricerca
attuale e di aprire nuove prospettive, nel volume G. CASARRUBEA, P.
BLANDANO, L'educazione mafiosa. Strutture sociali e processi di identita',
Sellerio, Palermo 1991].

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 575 del 23 aprile 2003