L'impero americano non è una tigre di carta



L'impero americano non è una tigre di carta. Il fondamentalismo neppure.
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]

Per gli osservatori e i commentatori strutturalisti l'obiettivo della
guerra in Iraq era il petrolio, per quelli sovrastrutturalisti il
dominio del mondo, per quelli politici l'Europa, per quelli analisti
strategici la Cina, e per quelli utopisti il movimento di pace. Trovo
ognuna di queste considerazioni abbastanza fondata e motivata. Ma
continuo a credere che dopo l'11 settembre il nemico pubblico numero uno
degli Stati uniti sia il fondamentalismo terrorista.
Con l'Europa ci potrà essere la guerra delle scarpe o quella dei
formaggi, forse pure quella dell'acciaio o dei chip, ma all'Europa manca
il requisito che ne farebbe una potenza alternativa e simmetrica
all'America: la forza militare. Forse la Cina, un giorno, sarà una
minaccia all'impero. Forse. Un giorno.
Dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine di quell'equilibrio del
terrore basato sulla possibile distruzione nucleare del mondo non è
rimasta alcuna altra potenza di fronte agli Stati uniti. Ma non è
rimasto neppure alcun altro equilibrio. L'asimmetria del concetto di
"potenza" è evidente. Il fondamentalismo islamico incarna a suo modo
questa asimmetria.
Il carattere politico di potenza asimmetrica del terrorismo
fondamentalista a me sembra assolutamente adeguato ai tempi: ha una
faccia - che a noi occidentali appare pre-moderna - rivolta verso
l'interno e una faccia - invece del tutto postmoderna - rivolta
all'esterno [l'uso sapiente dei mass-media, l'uso dei network di banche
internazionali, l'uso di sistemi di attacco tecnologici e biologici].
Certo, non ha un territorio, uno spazio definito: e quale mai potrebbe
essere un ridotto sicuro e imprendibile in un mondo governato
dall'impero, dove la caccia è aperta sempre? E' un fenomeno che ha
radici lontane, che si è sviluppato con complicità inimmaginabili e
inconfessabili, che si è dipanato per il mondo. E' un fantasma, è
ovunque: la sua minaccia è quotidiana, è continua. E' nei sogni, negli
incubi. Ha modificato l'immaginario occidentale e americano anzitutto,
tanto quanto negli anni cinquanta la scoperta della bomba nucleare in
mano ai russi. Come ha scritto Brian Jenkins, esperto di antiterrorismo:
"Terrorism is theatre." Qui da noi, non è poco, è quasi tutto.
L'Europa, come "insieme politico", non ha capito questo e l'America se
ne irrita oltremodo. L'Europa d'altronde non è il nemico numero uno del
fondamentalismo, è un effetto collaterale, nella jihad contro gli
infedeli [gli Usa] e i traditori [i governi arabi e islamici moderati].
C'è una differenza non piccola rispetto il terrorismo - a esempio - di
Abu Nidal o di Carlos o d'altri nomi e reti: questi avevano assoluto
bisogno di "santuari", di campi, di finanziamenti, di ripari. Il
terrorismo fondamentalista è autodiretto, ha tutti i luoghi di cui ha
bisogno [le masse arabe] per prolificare e nessun bisogno d'uno "Stato"
per non essere stanato: può vivere tra le montagne d'un confine o in una
baracca d'una qualunque megalopoli del mondo: ma può avvalersi di
"colletti bianchi", imprenditori, manager, broker, capaci di far
circolare il denaro tra grattacieli, telefoni satellitari, un underworld
pazzesco dove girano armi nucleari, droghe a tonnellate, denaro sporco
in quantità inimmaginabili e irrintracciabili, e che creano a loro volta
alleanze, corruzioni, crepe. E' - per abusare di un'immagine nota a noi
italiani - una "piovra". Con questo altro terrorismo non ci sarà mai
modo di trattare.
La strategia della "guerra preventiva" a me sembra piuttosto dichiarare
questa evidenza: un affanno dei progetti di dominio americano su un'area
del mondo e sugli equilibri generali. All'opposto di un senso di
prevenzione dal pericolo, dell'impedire che quel rischio si trasformi in
dinamica reale, essa dichiara invece il ritardo rispetto l'esplosione di
un fenomeno e il raggiungimento di una soglia di pericolo: il
fondamentalismo si è già esteso, irrefrenabilmente. Impedire la
saldatura fra Stati arabi dittatoriali o traccheggianti e terrorismo è
una battaglia già perduta perché inutile. La "guerra preventiva" è in
realtà una guerra ex-post, "dopo". Per questo, è vero, essa può avere
qualunque obiettivo, qualunque motivazione [le armi di distruzione di
massa, esportare la democrazia e la libertà, stabilizzare un'area
geopolitica, and so on], può essere dichiarata in qualunque momento, al
di fuori d'ogni diritto internazionale, tanto quanto fuori da ogni
diritto internazionale s'è posto il terrorismo fondamentalista, l'altra
"potenza".
Sta qui buona parte delle motivazioni di chi si oppone alla guerra come
"metodo": war is not the answear. Ma qual è la politica dell'opinione di
pace nel mondo per intervenire nei conflitti?
Non può esservi "guerra fredda" con il fondamentalismo terrorista: la
jihad è per sua natura senza mediazioni se non quella della forza
momentanea: a cosa mai può servire la Nato contro il fondamentalismo? E
a cosa mai può servire l'Onu, un consesso di nazioni, di Stati, di
rappresentanze, diplomazie? Questa "nuova potenza", il fondamentalismo
terrorista, non ha Stato, rappresentanza, diplomazia.
La verità è che il fondamentalismo terrorista è un passo avanti la
"guerra preventiva": la verità è che, pur dopo l'Afghanistan e l'Iraq,
il "capitale politico" immagazzinato da Osama bin Laden è pari o
superiore a quello immagazzinato da Bush.
Al vecchio slogan "meglio russi che morti" si dovrebbe sostituire
l'alternativa, a seconda dei luoghi, "meglio americani che morti" oppure
"meglio musulmani che morti"? Non è una gran opzione, ma è questa la
tenaglia, lo "stato di emergenza globale".
Credo che abbiano assolutamente ragione coloro che indicano nella
volontà di dominio del mondo degli Stati uniti - e nel loro sistema
economico e militare - l'origine dei mali. Ma credo anche che tutto
questo non abbia senso "comunque", e avesse più senso "prima", prima
cioè che una nuova soggettività politica, una nuova "potenza" si
mostrasse al mondo: ignorarla, considerarla solo una conseguenza è una
grave ingenuità, non fare i conti con quello che c'è adesso in campo. Lo
scenario che abbiamo di fronte, almeno per un tempo prossimo, è questo,
lo "stato di emergenza globale". La sovradeterminazione che esso impone,
l'espropriazione della politica che esso produce sono devastanti. A meno
di non volerci costringere a considerare qualunque male politico un male
minore del potere americano, a meno di non voler reagire di fronte a
ogni possibile attacco terrorista con un "in fondo se lo meritano",
qualcosa bisogna inventare.

Ho sfilato pacificamente il 12 aprile, convinto semmai che proprio in
quel momento si dovesse ancora manifestare. Non avevo uno slogan ma un
vitalissimo senso di disagio e di inquietudine per come va il mondo: un
dolore e un timore dentro, che credo ci accompagneranno ancora a lungo:
sarà generico, ma quello è.
Per alcuni versi credo sia adesso ancora più vero quanto ha scritto il
"New York Times", che cioè il movimento mondiale per la pace sia
un'altra potenza, non l'unica altra dico io. Qui non vale la domanda
staliniana "Di quante armate dispone?" Una potenza asimmetrica, rispetto
gli Stati uniti. Tanto quanto è una potenza asimmetrica rispetto il
terrorismo fondamentalista. Come questo, si basa su sentimenti di massa,
come questo agisce attraverso network internazionali, un underworld
pazzesco fatto di piccoli comitati, di volontari, di associazioni, di
militanti, di internet e di aiuti umanitari, cose minuscole ma in grado
di mobilitare e spostare opinioni massicce. Come questo, forse, ha una
sua jihad, irrefrenabile: la trasformazione del mondo in un luogo più
giusto e sicuro. Asimmetricamente a questo e a quelli, non ha armi. Come
quelli, gli Stati uniti, forse vuole costituire un "imperium", ma al
contrario del dominio fondandovi una legge e una morale civile.
La mia opinabilissima opinione è che il nemico politico principale dei
movimenti di pace in questo momento sia il fondamentalismo terrorista.
Dovrebbe essere questo il nemico principale del movimento di pace.
Stesso nemico per l'impero americano e i movimenti globali di pace
dunque, ma nessuna possibilità di alleanza: è l'asimmetria stessa che
impedisce qualsiasi contatto. Ma l'opinione pubblica mondiale percepisce
oggi gli Stati uniti come il pericolo principale: dunque, stesso nemico
per il fondamentalismo islamico e i movimenti globali di pace, nessuna
possibilità di alleanza: è l'asimmetria stessa che impedisce qualsiasi
contatto.
C'è un evidente segno di soggezione in questo, del trovarsi in balìa
dell'incontrollabile. Lo stesso segno di fronte alla volontà di guerra
dell'impero americano o se domani scoppiasse una bomba nucleare
portatile terrorista - che so? - in piazza san Pietro a Roma. Io credo
che, quasi indipendentemente dagli obiettivi della protesta, il segno
principale delle manifestazioni che si sono svolte nel mondo sia minuto,
nelle vite individuali: l'assoluto bisogno di sentirsi protagonista,
partecipe, autorappresentato del proprio stare al mondo. L'enorme
movimento mondiale per la pace non va però solo "capitalizzato", va
piuttosto "investito".
Un movimento occidentale non ha alcuna possibilità di diventare potenza,
resterà un'opinione - una tigre di carta -, importante ma non
determinante, non in grado di immaginare un altro mondo [le risorse, la
produzione, i sistemi di autogoverno, la pace] senza le nuove
moltitudini arabe e africane.
Su questo sono assolutamente d'accordo con chi si schiera contro ogni
relativismo culturale: non è possibile una politica di non-ingerenza,
non è possibile il gradualismo geopolitico [e razziale] per cui bisogna
"seguire" il corso delle cose, il nazionalismo, il fondamentalismo, la
produzione povera, lo scambio delle perline, la delega ecc ecc. E'
sciocco tanto quanto "esportare" democrazia e neoliberismo nel mondo
povero, è altrettanto sciocco.
L'impatto dell'impero americano su queste società e culture sarà pure
devastante, anzi è devastante, ma come ogni cosa devastante costringe a
una lacerazione, a un salto storico inimmaginabile.
Certo, può accadere, anzi accade che questo salto si trasformi in un
regresso ulteriore, in una privatizzazione spietata, in una
stratificazione sociale anche peggiore della precedente, come infilare
in una macchina del tempo intere popolazioni, strapparle dai loro
riferimenti naturali e proiettarli, nuda vita, in un'accelerazione
improvvisa.
Ma vinceranno loro se non si inventa qualcosa, vinceranno loro, se la
potenza alternativa non diventa potenza reale, capacità di intervenire,
modificare, attrarre. Vorrei provare a essere diretto: qualcuno dopo
l'Afghanistan e anche l'Iraq vorrà far proprio lo slogan "Stavano meglio
quando stavano peggio"?
La sinistra europea - in sintonia con i propri governi - arranca dietro
parvenze [l'Onu, la ricostruzione], denunciando le prime mostruosità. E'
giusto allarmarsi per il "metodo americano", ma dopo i fallimenti e i
veri e propri orrori degli aiuti allo sviluppo e della cooperazione,
cosa si propone in alternativa? Perché - e questo è il punto -, quali
sono i soggetti possibili di una alternativa? Le ong? Suvvia.
Una opinione pubblica capace di costruire rapporti di forza, di spostare
soggetti in campo, di costruire alleanze, di trovare referenti e non
"altre opinioni", ma soggetti differenziati, politicizzati, economici, è
questo il punto.
Se c'è una altra potenza vera nel mondo questa è l'emigrazione, la fuga
da luoghi orribili e insopportabili, l'attrazione verso l'occidente:
perché è un'attrazione feconda, portatrice di bisogni straordinari di
cittadinanza e di diritti, di tenacia, di resistenza, di entusiasmo, di
disponibilità a lottare, tanto quanto a "integrarsi".
Non sono i poveri del mondo l'altra potenza, un senso generico e
astratto, direi "cristiano" con rispetto e distanza, ma proprio coloro
che partono, che fanno una scelta soggettiva, che spezzano catene
familistiche e tribali, che "lasciano" un mondo verso una frontiera. I
dissidenti, le comunità all'estero, i rifugiati politici, gli
intellettuali, i tecnici, le competenze, le abilità, le infrastrutture,
uomini di fede, o di grande religiosità, di grande cultura o di estrema
ignoranza, sono questi l'interlocutore d'un movimento di opinione e
trasformazione globale, perché tramite "verso" i paesi d'origine, leva
di cambiamento, e tramite d'uno sguardo verso il nostro stesso luogo di
appartenenza.
Se non lo fa l'opinione di pace, lo fanno gli americani. Se non lo fa
l'opinione di pace, lo fa il fondamentalismo.
La stessa capacità di individuare interlocutori, referenti, gruppi va
applicata nei confronti della potenza americana: immaginarsi le
dinamiche politiche dei poteri come un unico blocco è estremista e
infantile. Anche nel cuore dell'impero vi sono poteri "esiliati".
Ma qui davvero siamo a mani nude.

Roma, 22 aprile 2003