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La nonviolenza e' in cammino. 564
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 564
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 12 Apr 2003 23:15:39 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 564 del 12 aprile 2003 Sommario di questo numero: 1. Hannah Arendt: l'idea di umanita' 2. Nicoletta Landi: un appello della campagna "Pace da tutti i balconi" 3. Come opporsi alla guerra, in sette punti e una postilla (settembre 2001) 4. Kahn-Tineta Horn: mocassini di pace 5. Ileana Montini: il concreto, l'astratto, l'alienato 6. Ida Dominijanni intervista Mario Tronti 7. Emmanuel Levinas: l'obbligo 8. Enrico Peyretti: proposta di un seminario 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. MAESTRE. HANNAH ARENDT: L'IDEA DI UMANITA' [Da Hannah Arendt, Ebraismo e modernita', Unicopli, Milano 1986, Feltrinelli, Milano 1993, p. 75. E' un passo del saggio "Colpa organizzata e responsabilita' universale" pubblicato nel gennaio 1945. Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000] L'idea di umanita', una volta liberata da tutti i sentimentalismi, implica questa gravissima conseguenza: che gli uomini, in una forma o nell'altra, devono assumere la responsabilita' di tutti i crimini commessi dagli uomini e che tutte le nazioni devono sopportare il peso del male commesso da tutte le altre. 2. APPELLI. NICOLETTA LANDI: UN APPELLO DELLA CAMPAGNA "PACE DA TUTTI I BALCONI" [Ringraziamo di cuore Nicoletta Landi (per contatti: nlandi26 at libero.it) per averci inviato questo appello della campagna "Pace da tutti i balconi", campagna di cui e' una delle ideatrici e promotrici. Le adesioni all'appello possono essere inviate all'indirizzo di posta elettronica: glt-nonviolenza at retelilliput.org. Puo' non convincerci l'approccio entusiasta ed effettualmente dereistico di parte di questo appello (a nostro avviso - i lettori lo sanno - il movimento per la pace ha subito una nuova durissima sconfitta, e l'ha subita perche' ancora una volta ha avuto una condotta ancora prevalentemente ambigua ed astratta, collusa e subalterna, e talora ad un tempo delirantemente trionfalistica e turpemente cialtrona, alla merce' di logiche e figuri autoritari, carrieristi e irresponsabili, che si preoccupano molto di piu' di comparire in tivu' che di salvare vite umane; e non ha saputo e voluto fare in modo netto e limpido, persuaso e intransigente, ragionato e di cuore, la scelta che e' indispensabile fare per opporsi alla guerra: la scelta della nonviolenza, della forza della nonviolenza); ma ci persuade la richiesta di chiarezza che esso comunque pone, e la nettezza di posizioni cui aspira. Nicoletta Landi e' sincera una amica della nonviolenza, e la campagna "Pace da tutti i balconi" e' stata ed e' anche - almeno noi l'abbiamo interpretata cosi', e ci sembra che anche questo appello lo tematizzi con chiarezza - piu' che un fenomeno di costume o un modo assai economico per sciacquarsi la coscienza (che sarebbe allora infame narcosi a mascheramento di una effettuale complicita' con l'ordine onnicida), un invito a cogliere l'esigenza, l'urgenza della scelta della nonviolenza come impegno diretto e personale per fermare l'orrore e la catastrofe] Sette mesi fa nasceva "Pace da tutti i Balconi!", una campagna che e' riuscita in un'impresa che solo un gruppo di sognatori poteva credere realizzabile: cambiare il volto delle nostre citta' e dei nostri paesi, cambiare il corso della storia. In questo momento, stimiamo ci siano tre milioni di bandiere della pace sventolanti sulle case, ma anche sulle chiese, sulle scuole, sui municipi, che e' come dire che almeno dieci milioni di persone si sono riconosciute in questo simbolo. Questa fortissima adesione ha certamente contribuito a rafforzare la campagna tesa a fermare la guerra in Iraq che ha avuto il suo apice nella manifestazione di Roma del 15 febbraio scorso, quando sotto una marea di vessilli arcobaleno hanno sfilato circa tre milioni di cittadini, nella piu' imponente manifestazione pacifista di tutto il mondo, ed ha contribuito a far si' che la mobilitazione per la pace continuasse anche a guerra incorso, con centinaia di migliaia di persone che partecipano quotidianamente a manifestazioni, veglie, fiaccolate, sit-in per la pace, nei circa cinquanta-sessanta eventi (considerando solo quelli piu' rilevanti) che ogni giorno continuano a costellare l'Italia. Quello che questi numeri dicono e' il risultato di una campagna che il mondo intero guarda stupefatto. Le lettere che ci giungono da chi ha avuto occasione di visitare il nostro paese ultimamente ne sono testimonianza. Quello che le cifre non possono descrivere e' il popolo dell'arcobaleno, nato e cresciuto in questi mesi. Un popolo che non e' una massa indistinta, ma una folla di volti, ciascuno unico ed irripetibile. Volti, persone che hanno preso posizione sul tema della guerra, con un gesto semplice ma non per questo meno impegnativo o importante. Questa mobilitazione non e' riuscita ad impedire la guerra, ma siamo coscienti che mai come in questo caso l'opinione pubblica abbia influito in maniera determinante sugli eventi: il nostro governo, nonostante abbia sostenuto politicamente la guerra e fornito basi e supporto logistico, e' stato impossibilitato a intervenire nel conflitto con una partecipazione diretta di soldati e mezzi militari italiani. Anche a livello europeo si e' innescata una reazione a catena che ha isolato e messo in minoranza gli Stati che hanno appoggiato la guerra. La guerra stessa, nelle riflessioni degli interventisti e' stata vista come guerra ingiusta ma dolorosamente necessaria! Cio' ha portato ad includere nei piani di chi ha preparato l'attacco il dovere di limitare al massimo le perdite fra i civili, per non perdere del tutto la faccia. Puo' sembrare poco, ma tutto questo non era affatto scontato, ed e' stato possibile grazie ad ogni singola famiglia, scuola, parrocchia, associazione, movimento, istituzione, che ha esposto e mantenuto esposto il vessillo della pace per tutti questi mesi. Grazie a questo impegno, e' cresciuta la consapevolezza rispetto alla guerra ed al problema della giustizia nei Paesi del sud del mondo. Sono state smascherate le ipocrisie di chi voleva giustificare la guerra con la lotta al terrorismo o con l'impegno per la liberta' e la democrazia. Molta gente ha capito che questa guerra, come tutte le guerre, nasce per soddisfare gli interessi di pochi, mentre crea morte e sofferenze indicibili per i popoli che la subiscono. Il no a questa guerra e' diventato il no a tutte le guerre, anche quelle piu' lontane e dimenticate. Il si' alla pace ha aperto le porte all'impegno quotidiano per nuovi stili di vita piu' attenti alla giustizia e all'impatto dei nostri comportamenti sull'ambiente e sulle condizioni di vita in tutto il pianeta. Il frutto piu' bello della campagna "Pace da tutti i balconi" e' pero' aver fatto capire una cosa fondamentale: che la pace si costruisce con il contributo di tutti e di ciascuno, per quanto piccolo possa sembrare. Insieme si puo' arrivare a risultati grandi, a piccoli passi e con sacrificio si possono modificare situazioni che sembravano fuori portata. Ora e' importante che questa inestimabile ricchezza umana non si disperda. Il valore politico di questo movimento non puo' e non deve essere ingabbiato all'interno di partiti e schieramenti elettorali. Il popolo dell'arcobaleno e' e deve restare trasversale, capace di spronare tutti i partiti a compiere gesti di pace, incoraggiando tutti e ciascuno a testimoniare i valori della pace all'interno dei programmi elettorali che vorranno proporre al vaglio degli elettori. Ci auguriamo infatti che i partiti politici facciano tutti la loro parte, dando sempre maggiore spazio alla fame e sete di giustizia e pace che i cittadini, in maniera cosi' eterogenea, hanno voluto testimoniare. Sappiamo che forte potrebbe essere la tentazione da parte delle forze politiche di appropriarsi della bandiera della pace per scopi elettorali. Non e' cosi' che potranno rispondere ai cittadini. In Italia tutti hanno percepito che la pace, lungi dall'essere una parola d'ordine di alcuni partiti politici, era ed e' un valore che puo' essere condiviso da tutti, credenti e non, di destra, centro o sinistra, di qualsiasi cultura e ceto sociale. Le risposte che ci attendiamo dai partiti politici sono altre: vogliamo sapere cosa ne pensano della liberalizzazione del commercio internazionale delle armi, approvata proprio durante la guerra e passata sotto silenzio; vogliamo sapere qual e' la loro posizione sui progetti di difesa comune europea, che prevedono la creazione di altri eserciti ed un ulteriore aumento delle spese militari; vogliamo sapere se si impegneranno affinche', nella futura Costituzione Europea, sia sancito il diritto alla pace, il ripudio della guerra, la neutralita' attiva dell'Unione; vogliamo sapere come intendano implementare concretamente il dettato costituzionale che all'art. 11 "ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti internazionali". Ma non solo. Vogliamo anche capire perche' ci siamo fermati (dopo le promesse) nel programma di riduzione del debito dei paesi del sud del mondo; vogliamo capire quali sono (se ci sono) le proposte per garantire a tutti i popoli l'accesso al cibo, all'acqua, alle cure mediche e sanitarie; vogliamo sapere come i partiti intendono accogliere chi arriva in Italia fuggendo dalle guerre e dalla fame; vogliamo sapere cosa intendono fare di fronte ad un modello economico socialmente ed ecologicamente insostenibile; vogliamo capire che ruolo hanno in mente per il nostro paese rispetto alle guerre piu' o meno dimenticate che continuano ad insanguinare il pianeta. Tutto questo lo vogliamo vedere scritto nero su bianco nei programmi dei partiti politici e soprattutto, fin da adesso, lo vogliamo vedere nel loro agire quotidiano in Parlamento e in tutte le sedi Istituzionali. Crediamo che gli Italiani abbiano diritto a queste risposte, per poter decidere di conseguenza. Siamo certi che questa volta non si accontenteranno di barattare queste risposte con qualche bandiera arcobaleno su manifesti e volantini elettorali. 3. HERI DICEBAMUS. COME OPPORSI ALLA GUERRA, IN SETTE PUNTI E UNA POSTILLA (SETTEBRE 2001) [Questo testo e' del 18 settembre 2001, ed apparve a suo tempo su questo notiziario. Giorni addietro una persona amica ce lo ha segnalato, e nuovamente qui lo pubblichiamo] 1. Illimpidendo noi stessi. Interrogandoci sulle nostre ambiguita', sulle nostre complicita', sui nostri privilegi, sulle nostre menzogne, e depurandocene. Da Mohandas Gandhi a Danilo Dolci tutte le grandi lotte nonviolente sono cominciate con il raccoglimento interiore, l'esame e la purificazione di se'. 2. Col ripudio assoluto della violenza. Che implica separarci nettamente, preliminarmente ed intransigentemente dai violenti e dagli ambigui. Far comunella con loro, o illudersi di poter percorrere insieme con loro un pezzo di strada, significa imboccare la strada sbagliata, e diventare loro complici. 3. Preparandoci all'azione diretta nonviolenta. Per contrastare la guerra praticamente, operativamente, e non solo simbolicamente, non solo a chiacchiere. L'azione diretta nonviolenta contro la guerra o e' concreta o non e'. Questo richiede una preparazione rigorosa, training di formazione, un'autentica persuasione alla nonviolenza, la profonda introiezione dei suoi valori, lo studio sistematico delle sue tecniche. Ed occorre essere intransigenti nello stabilire che ad una azione diretta nonviolenta contro la guerra possono partecipare solo le persone che hanno fatto la scelta della nonviolenza, e che ad essa intendono attenersi fino in fondo; gli altri, i non persuasi, non possono partecipare poiche' sarebbero di pericolo per se' e per gli altri, e farebbero fallire irrimediabilmente l'azione nonviolenta anche solo con una parola sbagliata. 4. Preparando la disobbedienza civile di massa. La quale disobbedienza civile e' una cosa seria che richiede serieta' di comportamenti e piena responsabilita', consapevolezza e preparazione. Essa e' quindi il contrario delle iniziative equivoche ed irresponsabili che personaggi stolti e fin inquietanti hanno recentemente preteso di spacciare sotto questa denominazione. 5. Preparando lo sciopero generale contro la guerra. E giovera' ripeterlo pari pari: preparando lo sciopero generale contro la guerra. 6. Ripudiando tutte le culture sacrificali. Occorre affermare la dignita', l'unicita' e il valore assoluto di ogni vita, la propria e l'altrui. Chi pensa che si possa sacrificare anche una sola vita umana, ha gia' sancito in linea di principio la liceita' di ucciderci tutti, ed e' quindi complice della logica degli assassini. 7. Affermando la nonviolenza in tutte le sue dimensioni, anche come nonmenzogna e come noncollaborazione al male. Mentire e' gia' disprezzare e denegare gli altri esseri umani in cio' che degli esseri umani e' piu' proprio: la facolta' di capire, la ragione. La nonviolenza e' sempre anche nonmenzogna. Chiave di volta della nonviolenza e' la consapevolezza che occorre togliere il consenso ai facitori di male. Occorre esplicitamente noncollaborare con essi. La nonviolenza e' sempre negazione del consenso all'ingiustizia e alla violenza. * Postilla. Lo scatenamento di una guerra globale come quella che gli abominevoli attentati terroristici dell'11 settembre hanno innescato puo' provocare la fine della civilta' umana. E' bene non dimenticarlo mai. Opposizione alla guerra e salvezza dell'umanita' vengono quindi a coincidere. Ma solo la nonviolenza puo' opporsi coerentemente e concretamente alla guerra. E dunque solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. Un movimento per la pace che non scelga la nonviolenza non e' un movimento per la pace. 4. RIFLESSIONE. KAHN-TINETA HORN: MOCASSINI DI PACE [Da Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) riceviamo e diffondiamo la traduzione di questo testo di Kahn-Tineta Horn, madre e nonna Mohawk] Prima che gli uomini vadano in guerra, le donne devono confezionare i loro mocassini. La tradizione dei nostri antenati prevedeva che le donne confezionassero i mocassini che gli uomini avrebbero calzato in guerra. Se le donne non volevano la guerra, non facevano i mocassini. I nostri antenati appartenevano alla Confederazione Haudenosaunee. Gli europei li chiamavano irochesi. Noi sconfiggemmo una terribile eredita' di guerra e violenza quando Deganawida, il costruttore di pace, ci diede la grande legge della pace. Il Senato degli Usa ha riconosciuto che la nostra legge e' servita da modello per la Costituzione degli Stati Uniti d'America. Tale Costituzione, poi, fu il modello per la Carta delle Nazioni Unite. Gli americani hanno copiato le nostre leggi ed usanze, ma non le hanno capite. I nostri antenati riconoscevano la sovranita' di tutte le donne e di tutti gli uomini risolvendo i conflitti della comunita' con la discussione, riunendo il consiglio del popolo. Stando alle nostre tradizioni, tre criteri vanno tenuti presenti in tutte le decisioni: 1) pace: intendendo che essa deve essere mantenuta con tutti i mezzi; 2) giustizia: intendendo che la decisione deve essere eticamente corretta, considerando i bisogni delle prossime sette generazioni; 3) potere: intendendo che il potere del popolo dev'essere mantenuto includendo un'eguale sovranita' di tutti gli uomini e di tutte le donne. I conflitti fra le nazioni venivano risolti allo stesso modo, mediante la diplomazia ed il consenso. La guerra, o l'uso della violenza, era l'ultima decisione possibile. E persino quando veniva presa, donne e bambini/e degli avversari non venivano coinvolte. Inoltre, i nostri antenati hanno sempre rispettato i differenti costumi di altre nazioni, le loro leggi ed i loro modi di vivere, che li approvassero o no. I nostri antenati lavoravano per arrivare ad un accordo su come vivere fianco a fianco. Percio' noi donne Mohawk siamo state fino ad ora in disparte, e non ci siamo lasciate coinvolgere dal conflitto in corso. Ma vediamo ora che esso si e' spinto troppo oltre. Vite innocenti e la madre Terra sono in grande pericolo. Come donne e come curatrici di questo pianeta, abbiamo deciso di parlare. Secondo le leggi dei nostri antenati, il suolo del Nord America e' il sacro paramento delle donne. Decisioni che comportassero una guerra dovevano coinvolgere l'altra meta' del popolo, le donne, le portatrici della vita, coloro che nutrono la Terra. Stiamo fronteggiando una guerra non necessaria. Abbiamo il dovere di usare il nostro potere per il bene. Abbiamo deciso di ricordare a tutta l'umanita' questa importante verita': la guerra non puo' accadere senza il sostegno delle donne. Chiediamo alle donne del mondo di farsi avanti e di assumere il loro giusto ruolo di progenitrici, di creatrici di tutti gli uomini, di tutta l'umanita', di curatrici della Terra e di tutto cio' che su di essa vive. Come donne, conosciamo la fatica e la sofferenza del mettere al mondo una creatura. Quando i nostri bambini muoiono, la nostra perdita e' profonda. Questa consapevolezza ci spinge ad agire per arrestare la distruzione della vita. I bambini e le bambine non devono soffrire. Ne' i nostri e le nostre. Ne' i bambini e le bambine di coloro con cui siamo in disaccordo. Noi rispettiamo la sovranita' ed il sacro diritto di ciascun individuo di vivere su questo pianeta. Chiediamo a voi, le donne del mondo, ed agli uomini che sostengono le nostre ragioni, di farvi avanti e di fermare questa follia. La decisione di intraprendere una guerra comporta la morte di migliaia di innocenti; uomini, donne e bambini. E' una decisione che e' stata presa sostanzialmente dagli uomini, senza l'intervento del popolo della nazione, senza l'intervento delle donne. La maggior parte degli uomini che hanno preso la decisione hanno nonne, madri, mogli, fidanzate, amanti, sorelle, zie, figlie, nipoti, eccetera. Chiediamo a tutte queste donne di fare pressione sugli uomini, uomini come i governanti e i belligeranti, e chiunque sia coinvolto nella corrente minaccia di distruzione per il mondo. Donne, portate gli uomini a contatto con i loro sensi. Donne, ricordate il vostro potere. Ricordate la vostra responsabilita'. Ogni persona ha un potere personale. Dobbiamo tutti insieme usarlo per il bene. Dobbiamo fermare la guerra. Dobbiamo mantenere la pace. Dobbiamo chiedere indietro i mocassini. 5. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: IL CONCRETO, L'ASTRATTO, L'ALIENATO [Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo intervento di cui riportiamo ampi stralci. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia' insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per "L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain" di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle" insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne". Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa, scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani, Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani, Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha redatto il progetto e curato la supervisione delle operatrici: titolo: "... ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione, insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir". Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia Menapace e Rossana Rossanda] A un salotto televisivo mercoledi' sera una scrittrice irachena di cui non so riprodurre il nome, con molta calma e un po' di distacco, ha descritto le conseguenze della "guerra lampo" degli angloamericani, facendo notare agli spettatori che l'inquinamento del suolo, dell'acqua e dell'aria sara' un notevole lascito. Ha chiesto di eliminare, prima di tutto, queste conseguenze; ma tutti i signori presenti, con una sola eccezione, non hanno, per cosi' dire, raccolto l'invito, continuando a insistere sull'esito veloce del conflitto e, quindi, sull'aumentato favore ad esso dichiarato. Forse le immagini di iracheni entusiasti e osannanti gli americani, che con dovizia l'ineffabile conduttore televisivo ci elargiva, dovevano essere un'implicita "giustificazione" del regalo di inquinanti che tali resteranno sul suolo di quel paese per gli anni prossimi venturi. Liberare dalla dittatura e "portare la democrazia" dopo aver in parte distrutto le condizioni materiali per un'esistenza sana, sa di illogicita' pura e semplice. Ma l'ecologia non e' ancora parte della sensibilita' umana su questo pianeta, da destra a sinistra. Mi piacerebbe che le manifestazioni future su questo argomento si attrezzassero e ne facessero oggetto di riflessione. Sarebbe un modo per evitare genericita' qualche volta ideologiche e astratte, o perlomeno semplicistiche. * Per esempio, e' vero che una parte consistente del popolo dei manifestanti e' stato affetto da semplicistico antimericanismo... nel senso di confondere l'amministrazione Bush con i cittadini di un paese che, sia pure in modo contraddittorio, e' pero' variegato, complesso e anche democratico. Ma allora perche' e' cosi' diffuso un epidermico sentimento antiamericano che offre continuamente il fianco ad altrettante difese di ufficio da parte delle varie destre? Provo a fare un'ipotesi. Da una parte e dall'altra degli schieramenti c'e' il collettivo, intenso e inconscio bisogno di avere un nemico su cui proiettare le proprie parti inaccettabili, allo scopo un po' paranoico di sentirsi gli unici puri e normali. Non sarebbe bene diventare capaci di riflettere anche in questi termini? 6. DOCUMENTAZIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA MARIO TRONTI [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 aprile 2003. Ida Dominijanni e' una prestigiosa giornalista e saggista femminista. Mario Tronti e' stato tra i pensatori piu' influenti nella riflessione politica della sinistra italiana negli anni sessanta e settanta, autore di Operai e capitale, figura di rilievo dell'operaismo, propositore del concetto dell'"autonomia del politico"] Parlo con Mario Tronti mentre in televisione scorrono le immagini dei carri americani che entrano a Bagdad e degli idoli del regime di Saddam che vengono distrutti. Ancora poche ore prima, quando ci siamo dati appuntamento, nessuno prevedeva che finisse cosi' in fretta. E' un film gia' visto sul calare del Novecento: regimi che crollano come birilli sotto le insegne vincitrici di una democrazia occidentale che nel frattempo si sfigura a sua volta. - Ida Dominijanni: Commentiamo in diretta: com'e' finita, in Iraq? - Mario Tronti: E' finita secondo i moduli della storia piu' antica, quella che ci ha insegnato Tucidide ai tempi del Peloponneso: con la vittoria del piu' forte. Quando la sproporzione delle forze e' gigantesca, non c'e' niente da fare: non e' piu' vero che puo' vincere il piu' debole se e' anche il piu' abile - e stavolta oltretutto il piu' debole non era il piu' abile. Non c'e' piu' Davide, c'e' solo Golia. - I. D.: La vittoria militare americana e' schiacciante, ne' c'e' mai stato dubbio che lo sarebbe stata. E' anche una vittoria politica schiacciante? - M. T.: Se stiamo all'immagine si'. Torna l'immaginario politico ricorrente dall'Ottantanove in poi: muri che crollano, statue che cascano, regimi che si squagliano, capiregime che scompaiono, e la democrazia che trionfa. Se scaviamo sotto i fotogrammi di questo film le cose pero' si fanno piu' complicate. La classe dirigente che ha preso il potere negli Stati Uniti ha indubitabilmente un Dna molto aggressivo, ma questa aggressivita' segnala a mio avviso una posizione di relativa debolezza. Il dispiegamento di forza militare e tecnologica, ad esempio, stavolta e' stato evidentemente troppo sproporzionato rispetto all'obiettivo tutto sommato facile da abbattere. Perche' questa continua sovraesposizione di forza davanti al mondo? Una potenza realmente sicura di se' non ne avrebbe bisogno. La verita' e' che mentre alimentano l'immagine di una potenza in continua ascesa economica, politica e geostrategica, i neoconservatives percepiscono il declino dell'egemonia statunitense, della civilization americana che ha portato ai suoi esiti estremi la grande avventura della modernita' occidentale. E ne deducono che la prima cosa da fare e' arrestare questo declino in qualche modo, per poi ripartire. Hanno un incubo, l'avvento del secolo asiatico dopo il secolo americano, una sorta di fatalita' che accusano l'Europa di accettare con rassegnazione. - I. D.: Del resto, il grido di Huntington sullo scontro di civilta' partiva proprio da questa diagnosi. - M. T.: Si', da pensatore realista qual e', Huntington aveva individuato il punto, anche se ne traeva conclusioni sbagliate. Nella scelta strategica della "guerra preventiva infinita", e gia' prima nei documenti degli anni Novanta che la preparavano, tutto questo substrato di paure e' venuto a galla: piu' che un eskaton ci vedo un katechon, piu' che l'idea di una salvezza da raggiungere il tentativo di trattenere una catastrofe imminente, mettendo dei valli ai confini del continente asiatico, dall'Afghanistan all'Iraq alla Turchia - il che spiega perche' quegli "stati canaglia" e non altri, perche' fanno problema le armi chimiche di Saddam e non l'atomica della Corea del Nord. Questa strategia indica una debolezza americana. Una potenza davvero egemone, di fronte a una crisi dell'Occidente che faceva intravedere la contaminazione con altre civilta', avrebbe scelto la via del confronto, dell'inclusione, dell'integrazione, non del contenimento. - I. D.: In questa guerra c'e' stata una inedita commistione fra lessico politico e lessico religioso. Ha a che fare con quello che stai dicendo? - M. T.: Si', perche' l'esportazione della democrazia in Iraq ha assunto l'aspetto di una sorta di evangelizzazione, tipica di una chiesa che deve trattenere il demonio per salvare quelli che ne sono sedotti. Nella guerra in Kosovo, che pure era sbagliata, queste toni messianici non c'erano e il linguaggio era ancora quello dell'universalismo laico: c'era un'operazione di polizia giustificata in nome dell'etica dei diritti. L'uso politico del sacro che abbiamo visto stavolta a me pare, dopo la morte dei civili, l'aspetto piu' indecente di tutta la faccenda. L'indice di una regressione dal processo di secolarizzazione a "grandi narrazioni" molto piu' rozze di quelle di tipo emancipatorio dichiarate morte dopo l'89. - I. D.: Con due fondamentalismi, quello cristiano e quello islamico, che ormai calcano la scena della politica. - M. T.: Entrambi negando in radice le grandi origini delle due religioni. Ma mentre il fondamentalismo islamico e' un fondamentalismo dal basso, che corrisponde a una condizione endemica di subalternita', miseria e esclusione, il fondamentalismo cristiano americano e' il portato di un'elite politica precisa, che l'ha scientemente adottato. Alla fine, nella guerra in Iraq e' precipitato lo scontro non fra due civilta' ma fra due barbarie: stavolta la condanna della guerra coincide con la condanna dei suoi protagonisti. - I. D.: Pero' la retorica, politico-religiosa, resta quella dello scontro di civilta'. Con l'ingresso del primo carrarmato a Baghdad si levano, in Italia non meno che negli Stati Uniti, gli inni alla vittoria dell'Occidente e del suo prodotto piu' esportato, la democrazia. Mentre a me pare che l'immagine dell'Occidente esca assai compromessa dalla dottrina della guerra preventiva e dalla sua prima applicazione in Iraq. - M. T.: Non solo l'immagine dell'Occidente inteso come Kultur, ma anche il futuro geopolitico dell'area che sta sulle due sponde dell'Atlantico. Il problema adesso e' proprio questo: che fare dell'Occidente? Si apre un capitolo politico nuovo, difficile da praticare. C'e' da decifrare la frattura fra Stati Uniti e Europa provocata dalla guerra, che non si ricomporra' facilmente: Schroeder, Chirac, Putin non possono subire passivamente la vittoria americana - anzi, della parte peggiore dell'amministrazione americana - e lo scacco che ne ricevono. Ora, a differenza della sventura che ci vedono tutti, non solo a destra ma anche a sinistra, io in questa frattura vedo un'occasione politica carica di potenzialita'. Se la sinistra europea avesse una classe dirigente, cioe' esattamente quello che le manca, ci saprebbe riconoscere un terreno di grande politica, di politica-mondo. Perche' a questo punto l'Europa, con le sue due porte aperte sull'est e sull'ovest, deve proporsi come ponte fra Oriente e Occidente, e contribuire cosi' a delineare per l'Occidente un destino non imperiale. E' questo l'unico modo per riaprire e rilanciare i rapporti con gli Stati Uniti, indicando la strada di un'altra risposta, non aggressiva ma di crescita e di trasformazione, al declino americano. Voglio dire che e' vero che non c'e' Occidente senza gli Stati Uniti, ma e' anche vero che gli Stati Uniti, se lasciati a se stessi, prendono la strada di un isolamento aggressivo e distruttivo. Mentre se si reinseriscono in un Occidente piu' vasto, a sua volta aperto a Oriente, possono ritrovare la vitalita' di cui pure sono capaci. - I. D.: D'accordo, ma quale Europa dovrebbe farsi promotrice di questo progetto? L'Europa non e' la risposta al problema, e' una parte del problema. Anche Blair vuol fare da ponte fra Europa e America, a modo suo. - M. T.: Non l'Europa di Blair, evidentemente, ma quella franco-tedesca, che gia' dialoga con la Cina e la Russia, e piu' in generale l'Europa che sta all'opposizione della dottrina Bush. L'Europa che puo' parlare a quella parte tutt'altro che insignificante della societa' americana che sta anch'essa all'opposizione, ma che dopo l'11 settembre non e' riuscita a trovare la via per ritornare in campo come grande soggetto politico democratico. E pero' deve trovarla, se non vogliamo che Bush si consolidi: oggi come oggi, ha la rielezione in tasca. - I. D.: Un'Europa-ponte dev'essere anche un'Europa-potenza? Questione non marginale, in tempi - ardui - di costruzione dell'Unione e di definizione delle sue competenze, comprese quelle in materia di sicurezza e di politica estera. - M. T.: Inevitabilmente si', dev'essere anche un'Europa-potenza, cioe' un'Europa in grado di fare da forza di contrasto all'unilateralismo americano. Abbiamo passato quattordici anni a parlare dei disastri del vecchio bipolarismo, ed eccoci ora immersi nei danni del nuovo unipolarismo. Non abbiamo saputo fare i conti davvero con quello che comporta non tanto il pensiero unico, quanto la potenza unica. La stessa figura dell'Impero proposta da Negri e Hardt, che colloca il potere globale non negli Stati Uniti ma in una struttura mondiale, in un certo senso ha contribuito a mettere in ombra il fatto che negli Stati uniti si e' realizzata una potenza di livello unico. E come si contrasta, una potenza cosi'? Lo so che qui faccio la parte antipatica del solito sostenitore del modello della forza nelle relazioni internazionali: ma io non credo che si contrasti con la moltitudine, bensi' con un equilibrio di potenze. L'Europa-ponte deve emergere come campo culturale aperto all'Oriente, come differenza culturale dal cuore nero dell'America, ma deve avere anche la forza di una potenza di contrasto dell'unilateralismo americano. La preparazione e la conduzione della guerra all'Iraq dimostrano che gli Stati Uniti possono fare, militarmente parlando, quello che vogliono, quando vogliono, come vogliono. Questo strapotere non si ferma solo con le bandiere arcobaleno alle finestre. Crudamente io dico: c'e' stata una sconfitta del pacifismo, bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia. L'immagine delle due superpotenze, gli Usa e l'opinione pubblica, inventata dal "New York Times", e' suggestiva e incoraggiante quando facciamo i cortei, ma e' falsa: ci puo' essere un'opinione pubblica enorme ma impotente, a fronte di una potenza solitaria priva di forze di contrasto. - I. D.: Non sono d'accordo: dipende dal metro di misura. Certo, se l'unico metro di misura e' quello della forza, hai ragione tu. Pero' a me pare che l'immagine del "New York Times" cogliesse una verita': ci sono state davvero due potenze in campo, quella militare americana e quella del movimento globale no-war. Il problema e' che sono due potenze asimmetriche, piu' che opposte, per natura e obiettivi. E che, come i fatti hanno dimostrato, la prima puo' tranquillamente prescindere dalla seconda, anche se quest'ultima fosse di proporzioni oceaniche. Questo mi pare un lascito serio della guerra in Iraq: le nostre democrazie sono ormai strutturalmente segnate da questa scissione fra sistema politico e opinione pubblica. - M. T.: Su questo sono d'accordo, c'e' in campo il problema, urgente, del rapporto guerra-democrazia. L'homo democraticus e' ostile alla guerra, per ragioni etiche, essendo educato alle promesse della tolleranza, e per ragioni edonistiche, essendo un soggetto apatico e consumista. Il Pentagono non aveva previsto questo nuovo pacifismo democratico, e quando l'ha visto non ne ha tenuto conto. E' vero, in questo c'e' una asimmetria che la dice lunga sullo stato della democrazia reale. Il mio problema oggi infatti non sono tanto i pericoli, su cui insisteva pochi giorni fa sul "Manifesto" Alberto Asor Rosa, che la guerra comporta per le liberta' democratiche. E' il fatto che i sistemi democratici hanno in corpo una sorta di totalitarismo mascherato: se non possono piu' fare la guerra con la mobilitazione totale, la fanno non tenendo conto della mobilitazione no-war. E la fanno perche' l'opinione pubblica, che e' un prodotto squisitamente democratico, non ce la fa a metterli realmente in difficolta'. Questo sul versante no-war. Sul versante pro, nel frattempo, agiscono gli strumenti classici di manipolazione. Lato totalitario e lato comunicativo insomma si tengono, nelle democrazie contemporanee. Morale: anche da questa guerra viene fuori la necessita' di una critica della democrazia. Delle contraddizioni e delle aporie interne ai sistemi democratici. Un altro campo di iniziativa politica immenso, se solo la sinistra la smettesse di accodarsi al coro monotonale della religione democratica. - I. D.: Venerdi' si apre a Siena un convegno su guerra e pace. Il tuo intervento parte da un motto di Aron, "Pace impossibile, guerra improbabile", che risale ai primi anni Sessanta. In che chiave lo rileggi oggi? - M. T.: Nella chiave dell'equilibrio delle forze, appunto. Il discorso di Aron, che era un conservatore liberale, uno spectateur engage' come si definiva, matura fra il '60 e il '61, quando la guerra fredda stava diventando coesistenza pacifica. A sua volta, Aron rilegge le due formule di Clausewitz - la guerra come annientamento e distruzione dell'avversario, la politica come supremazia sulla guerra - e sostiene che cio' che decide fra l'una e l'altra e' la condizione dell'equilibrio delle forze. Se c'e' equilibrio delle forze, c'e' politica sopra la guerra; se non c'e', c'e' guerra di distruzione e annientamento - come in Iraq. Aron vedeva nell'equilibrio del terrore, cioe' nell'atomica, un fattore di deterrenza, e aveva ragione: l'eventualita' della distruzione totale obbligava al primato della politica sulla guerra, in una situazione in cui la pace era impossibile per via della confrontation fra i due blocchi, la guerra improbabile per via della paura della distruzione totale. Oggi, io credo, dobbiamo ripensare questo discorso nella confrontation fra armi di distruzione e terrorismo. - I. D.: Che pero', di nuovo, sono due armi asimmetriche, mentre durante la guerra fredda la deterrenza si basava sul possesso simmetrico dell'atomica. E molto piu' asimmetrici dei due blocchi sono i due "nemici" che si confrontano oggi. - M. T.: Si', ma ambedue sono armi di distruzione, e l'asimmetria comporta che non si puo' usare l'atomica contro il terrorismo, e nemmeno il viceversa. Dunque, la supremazia della politica sulla guerra ritorna come unica alternativa possibile contro la spirale guerra-terrorismo. E tanto piu' in una cosi' forte asimmetria fra i contendenti, la politica deve trovare nuove forme, nuovi linguaggi, nuove istituzioni, per entrare a contatto con le societa' in cui il terrorismo prende piede. Ci sono invenzioni istituzionali extraoccidentali di cui farsi carico, per la sinistra europea, oltre la Costituzione dell'Unione. Non si puo' esportare la democrazia come un prodotto impacchettato, gli americani l'hanno gia' visto in Afghanistan e lo vedranno ancora meglio in Iraq. - I. D.: Finiamo sull'Europa. Da Kagan in poi, circola in un certo antieropeismo americano l'immagine di un'Europa che puo' prendersi il lusso di acquietarsi sulla pace e la legge di Kant perche' dall'altra parte dell'oceano ci sono gli Stati Uniti che fanno il lavoro sporco della guerra riscoprendo il Leviatano di Hobbes. L'altroieri, Giuliano Amato ha controproposto Locke a Kant. Anche questo repechage dalla galleria dei classici fa molto post-modern. Tu quale busto scegli? - M. T.: Mettiamola cosi': per superare questa frattura tanto vale ripartire da Hegel. Che faceva sia il lavoro sporco dello Stato prussiano sia quello pulito di dare una forma costituzionale allo Stato moderno. 7. MAESTRI. EMMANUEL LEVINAS: L'OBBLIGO [Da Emmanuel Levinas, Di Dio che viene all'idea, Jaca Book, Milano 1986, 1997, p. 202. Emmanuel Levinas e' nato a Kaunas in Lituania il 30 dicembre 1905 ovvero il 12 gennaio 1906 (per la nota discrasia tra i calendari giuliano e gregoriano). "La Bibbia ebraica fin dalla piu' giovane eta' in Lituania, Puskin e Tolstoj, la rivoluzione russa del '17 vissuta a undici anni in Ucraina. Dal 1923, l'Universita' di Strasburgo, in cui insegnavano allora Charles Blondel, Halbwachs, Pradines, Carteron e, più tardi, Gueroult. L'amicizia di Maurice Blanchot e, attraverso i maestri che erano stati adolescenti al tempo dell'affaire Dreyfus, la visione, abbagliante per un nuovo venuto, di un popolo che eguaglia l'umanita' e d'una nazione cui ci si può legare nello spirito e nel cuore tanto fortemente che per le radici. Soggiorno nel 1928-1929 a Friburgo e iniziazione alla fenomenologia gia' cominciata un anno prima con Jean Hering. Alla Sorbona, Leon Brunschvicg. L'avanguardia filosofica alle serate del sabato da Gabriel Marcel. L'affinamento intellettuale - e anti-intellettualistico - di Jean Wahl e la sua generosa amicizia ritrovata dopo una lunga prigionia in Germania; dal 1947 conferenze regolari al Collegio filosofico che Wahl aveva fondato e di cui era animatore. Direzione della centenaria Scuola Normale Israelita Orientale, luogo di formazione dei maestri di francese per le scuole dell' Alleanza Israelita Universale del Bacino Mediterraneo. Comunita' di vita quotidiana con il dottor Henri Nerson, frequentazione di M. Chouchani, maestro prestigioso - e impietoso - di esegesi e di Talmud. Conferenze annuali, dal 1957, sui testi talmudici, ai Colloqui degli intellettuali ebrei di Francia. Tesi di dottorato in lettere nel 1961. Docenza all'Universita' di Poitiers, poi dal 1967 all'Universita' di Parigi-Nanterre, e dal 1973 alla Sorbona. Questa disparato inventario e' una biografia. Essa e' dominata dal presentimento e dal ricordo dell'orrore nazista (...)" (Levinas, Signature, in Difficile liberte'). E' scomparso a Parigi il 25 dicembre 1995. Tra i massimi filosofi contemporanei, la sua riflessione etica particolarmente sul tema dell'altro e' di decisiva importanza. Opere di Emmanuel Levinas: segnaliamo in particolare En decouvrant l'existence avec Husserl et Heidegger (tr. it. Cortina); Totalite' et infini (tr. it. Jaca Book); Difficile liberte' (tr. it. parziale, La Scuola); Quatre lectures talmudiques (tr. it. Il Melangolo); Humanisme de l'autre homme; Autrement qu'etre ou au-dela' de l'essence (tr. it. Jaca Book); Noms propres (tr. it. Marietti); De Dieu qui vient a' l'idee (tr. it. Jaca Book); Ethique et infini (tr. it. Citta' Nuova); Transcendance et intelligibilite' (tr. it. Marietti); Entre-nous (tr. it. Jaca Book). Per una rapida introduzione e' adatta la conversazione con Philippe Nemo stampata col titolo Ethique et infini. Opere su Emmanuel Levinas: Per la bibliografia: Roger Burggraeve, Emmanuel Levinas. Une bibliographie premiere et secondaire (1929-1985), Peeters, Leuven 1986. Monografie: S. Petrosino, La verita' nomade, Jaca Book, Milano 1980; G. Mura, Emmanuel Levinas, ermeneutica e separazione, Città Nuova, Roma 1982; E. Baccarini, Levinas. Soggettivita' e infinito, Studium, Roma 1985; S. Malka, Leggere Levinas, Queriniana, Brescia 1986; Battista Borsato, L'alterita' come etica, EDB, Bologna 1995; Giovanni Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996; Gianluca De Gennaro, Emmanuel Levinas profeta della modernita', Edizioni Lavoro, Roma 2001. Tra i saggi, ovviamente non si puo' non fare riferimento ai vari di Maurice Blanchot e di Jacques Derrida (di quest'ultimo cfr. il grande saggio su Levinas, Violence et metaphysique, in L'ecriture et la difference, Editions du Seuil, Parigi 1967). In francese cfr. anche Marie-Anne Lescourret, Emmanuel Levinas, Flammarion; François Poirie', Emmanuel Levinas, Babel] L'obbligo di non lasciare l'altro uomo solo in faccia alla morte. 8. INIZIATIVE. ENRICO PEYRETTI: PROPOSTA DI UN SEMINARIO [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per averci inviato questa lettera indirizzata a vari amici, scritta il 16 ed aggiornata il 26 marzo 2003. Enrico Peyretti e' uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999] Questa guerra ormai e' scoppiata. Mentre lottiamo ancora per svergognarla, dobbiamo guardare al dopo. Oggi sono in gioco l'assetto del mondo, le regole di convivenza tra i popoli, la liberta' o l'uso imperiale del cristianesimo. Questo aspetto della grave congiuntura impegna soprattutto i cristiani, ma gli amici di altre religioni o non credenti possono accompagnare la loro ricerca. La regola sovrana della guerra, imposta dall'attuale amministrazione Usa, impegna tutti a pensare a fondo il senso del diritto, le possibilita' della politica e le alternative profonde da far maturare. Credo tuttavia che non ci debba dominare il pessimismo, perche' non mancano segni che sui tempi lunghi, attraverso tragedie, stia crescendo nella coscienza dei popoli il ripudio del sistema della violenza. L'obiettivo dell'amministrazione Bush, dichiarato a tutte lettere nei documenti ufficiali (che posso inviare in formato elettronico), e' l'impero mondiale (escluso da Kant nel suo progetto filosofico di lega dei popoli per la pace permanente; deprecato da Panikkar nella sua concezione della pace come pluralismo; respinto anche dalle maggiori democrazie come contrario alla convivenza libera e dignitosa dei popoli; denunciato dalla cultura della pace come violenza strutturale, o pace d'imperio, anche nel caso improbabilissimo che blocchi altre azioni belliche o terroristiche). Dei vari motivi di questa guerra e di questa politica, mi sono convinto che il motivo piu' profondo e determinante e' un fondamentalismo pseudocristiano e apocalittico, un messianismo "benefico", che si sente autorizzato ad imporre con ogni mezzo il Bene dove vede il Male. Bush appartiene ad un filone, sempre presente nella storia Usa, di questo genere. La quale storia, ovviamente, comprende altre e ben diverse ispirazioni, come la popolazione, la cultura, le chiese statunitensi dimostrano anche in questi giorni. La vicenda personale di Bush lo ha condotto ad una tale convinzione particolarmente accesa e sicura di se'. L'ambiente che lo ha eletto gli suggerisce oppure utilizza a fini propri quel fondamentalismo. L'impegno di tante chiese e del papa contro questa guerra va letto anche come difesa molto preoccupata del cristianesimo da quel fondamentalismo, assai pericoloso per il mondo e per la fede: non scontro di civilta', ma complicita' di incivilta' contrapposte; non scontro di religioni, ma mimesi di fanatismi uguali e contrari. Specialmente chi di noi ha a cuore, oltre la sopravvivenza decente del mondo, anche la genuinita' delle religioni, e del cristianesimo in particolare, deve concentrare l'attenzione su questo motivo profondo della politica bellica rappresentata da Bush. * Indico alcuni articoli (recano tra parentesi la dicitura "mail" quelli che posso inviare su richiesta via e-mail): - Jose' Ignacio Gonzalez Faus, Talibanes y Talibushes, "Agenda latinoamericana" (mail); - Raniero La Valle (posso ricuperare o avere da lui vari scritti, anche mail, o appunti); - Paolo Naso (autore di God bless America, Editori Riuniti), Il futuro delle religioni, in "il foglio" n. 297, ottobre 2002 (mail); - Anna Guaita, Quando Bush divenne il crociato di Dio, in "Il messaggero", 17 febbraio 2003 (mail); - James Harding, Un uomo di fede, apparso sul "Financial Times", riportato da "Internazionale", n. 477, 28 febbraio 2003; - Alexander Stille, Un crociato alla Casa Bianca, in "La repubblica", 6 marzo 2003 (largamente copiato da Harding, che non cita); - Norman Mailer, L'America [ma vuol dire gli Usa] a caccia di demoni, in "La repubblica", 7 marzo 2003; - Barbara Spinelli, Bush e il destino manifesto, in "La stampa", 9 marzo 2003 (si capisce che ha letto Gonzalez Faus, che non cita); - Gianni Riotta, Le tre armi dell'uomo di Washington: Dio Texas e famiglia contro il rais, in "Corriere della sera", 16 marzo 2003; - Guido Moltedo, Il Principe delle tenebre ammonisce: Non bisogna fermarsi a Baghdad, in "Europa", 23 marzo 2003 (Bill Kristol, guru della destra iperconservatrice influente su Bush, ha dato conferenze dal titolo "La religione cuore della cultura di guerra dell'America"); - Giancarlo Zizola, La 'civil religion' di Bush (in "Il sole 24 ore") (mail); - Gianni Vattimo, Sulla religione di Bush, in "l'Unita'", 14 o 15 marzo (mail); - Giancarlo Zizola, Il Cristo di Bush e quello del Papa, in "Rocca", n. 7, primo aprile 2003, pp. 48-50 (www.rocca.cittadella.org). Molti di voi conosceranno altri scritti sul tema. * Come momento di riflessione comune su tutto cio', avanzo una proposta: Seminario di una giornata, sabato 3 maggio, imperniata su tre temi combinati: L'Impero del Bene Violento - La politica di pace - La forza nonviolenta. Raniero La Valle propone di intendere il tema come "evangelo contro apocalisse". Sono d'accordo, purche' lo vediamo congiunto al ripensamento della politica come scelta dei mezzi nonviolenti, piu' forti e costruttivi di ogni violenza. La mia proposta consiste proprio nel vedere insieme i tre aspetti. Il seminario dovrebbe tenersi a Torino promosso dal Centro Studi Sereno Regis (luogo dei movimenti nonviolenti classici), ma anche da altri centri e associazioni culturali, cristiane, interreligiose. Non si tratta di un incontro troppo divulgato, ma di un seminario di studio e scambio, con partecipanti preparati e sensibili sul problema. Si partecipa a proprie spese, necessariamente. Se l'aula di riunione avra' un costo, si chiedera' di condividerlo, specialmente a chi non ha spese di viaggio. Non saranno forniti dossier di documenti, se non quelli inviabili in anticipo per via telematica, su richiesta. Si potra', come conclusione, pubblicare un breve testo comune, oppure uscirne comunque con le idee arricchite per le nostre riflessioni, interventi e prese di posizione. L'idea mi e' venuta scrivendo a Roberto Mancini, filosofo dell'Universita' di Macerata, ben conosciuto anche a Torino, che nei suoi studi dimostra di avere riflettuto su tutti e tre gli aspetti indicati, con profondita' di analisi e di prospettive. Altri contributi vanno pensati. Tra le risposte e adesioni finora arrivatemi: Ermis Segatti, Claudio Torrero, Paolo Naso, Marinella Verga, Roberto Mancini, Caterina Fiora, Gianni Vattimo, Raniero La Valle, Giancarlo Zizola, Edward Sabarino (Acli), Nanni Salio (Centro Studi Sereno Regis), Teresella Parvopassu, qualcuno della Comunita' di Bose, e della redazione de "il foglio". La sede dell'incontro sara' il Centro teologico, corso Stati Uniti 11 a Torino (a pochissimi minuti da Porta Nuova) gentilmente concessa. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 564 del 12 aprile 2003
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