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La nonviolenza e' in cammino. 563
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 563
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 12 Apr 2003 11:22:42 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 563 dell'11 aprile 2003 Sommario di questo numero: 1. Comitato "Fermiamo la guerra": il 12 aprile a Roma 2. Giuliana Sgrena: Baghdad in trappola 3. Giuliana Sgrena: sull'orlo della catastrofe 4. Giuliana Sgrena: cannonate sulla stampa 5. Giuliana Sgrena: tank e saccheggi, la citta' si arrende 6. Giuliana Sgrena: pace infernale a Baghdad 7. Mohandas Gandhi: la scienza della guerra 8. SimoneWeil, la verita' 9. Riletture: Edith Wharton, Scrivere narrativa 10. Riletture: Virginia Woolf, Ritratti di scrittori 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. APPELLI. COMITATO "FERMIAMO LA GUERRA": IL 12 APRILE A ROMA [Riportiamo l'appello che conferma la manifestazione nazionale pacifista che si terra' il 12 aprile a Roma, un appuntamento comunque utile ed importante. Dispiace invece in questo pur apprezzabile appello la completa mancanza di una riflessione sulla nonviolenza, di un richiamo alla nonviolenza: finche' il movimento per la pace non fara' in modo esplicito e consapevole la scelta della nonviolenza la sua azione continuera' ad essere offuscata, subalterna e permeata di ambiguita'; ed in definitiva, e tragicamente, pressoche' del tutto inefficace] No alla guerra infinita e globale. Non ci arrendiamo alla guerra. La guerra rimane un orrore inaccettabile, e questa guerra e' ingiusta e illegale. Nulla la giustifica. L'occupazione di Baghdad e la spartizione delle spoglie e delle risorse dell'Iraq non possono essere chiamate pace. Rimane drammatica la situazione umanitaria, la condizione di donne, uomini e bambini ridotti allo stremo dalla guerra. La pace e' l'unica condizione per lo sviluppo della democrazia, dei diritti, della giustizia sociale. Un regime abietto e' caduto. I pacifisti lo condannano fin dai tempi in cui Saddam, alleato di chi oggi lo abbatte, sterminava i kurdi, massacrava gli oppositori. Continueremo ad impegnarci per un Iraq libero, indipendente e democratico. Abbiamo titolo per ribadire che questa guerra allarga la spirale della tensione e produce gravi pericoli. Continueremo a batterci contro la guerra preventiva, la distruzione del diritto internazionale e delle sue istituzioni, contro un'idea di ordine mondiale basato solo sulla legge del piu' forte. Vogliono trascinarci nell'epoca della guerra infinita. Noi vogliamo fermarla. Continueremo a chiedere il cessate il fuoco in Iraq e a lottare contro il pericolo annunciato d'allargamento del conflitto in Medioriente. Continueremo a batterci per il ripristino della legalita' internazionale violata dall'invasione e per il diritto all'autodeterminazione del popolo iracheno. Non ci arrendiamo alla logica di guerra che pervade la societa', alle tante guerre dimenticate che fanno milioni di morti, di profughi e rifugiati in tutto il mondo. Non ci rassegniamo a un mondo che spende risorse immense per le armi e nega risorse essenziali alla vita e alla dignita' della maggior parte della popolazione mondiale. In questi mesi e giorni, in tutto il mondo, un grande movimento per la pace si e' opposto alla guerra. Ha continuato a mobilitarsi anche quando le armi hanno preso il sopravvento sulla politica e la diplomazia. Questo movimento di milioni di donne e uomini continua la sua lotta per un altro mondo possibile. Per difendere la carta dell'Onu e la Dichiarazione dei diritti umani. Per chiedere all'Europa di assumere come suo principio il ripudio della guerra. Per la pace e la giustizia in Medioriente e il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese: due stati per due popoli. Per il rispetto dell'art. 11 della Costituzione italiana, violato dal governo. Per un'economia di giustizia, contro la guerra economia e sociale della globalizzazione neoliberista. Per una politica di disarmo globale, per un mondo dove non ci sia piu' guerra. Per queste ragioni confermiamo l'impegno per la manifestazione nazionale del 12 aprile a Roma, per il cessate il fuoco della guerra infinita. 2. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: BAGHDAD IN TRAPPOLA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 aprile 2003. Giuliana Sgrena, inviata a Baghdad, e' una illustre giornalista e saggista, esperta conoscitrice delle questioni globali, del rapporto nord/sud, della situazione dei paesi arabi ed islamici, della realta' mediorientale. E' da sempre impegnata per i diritti umani, per i diritti dei popoli, per i diritti delle donne, per la pace. Presentiamo qui i suoi articoli degli ultimi giorni] La sagoma di un carro armato Abrahms completamente carbonizzato ci appare mentre scendiamo da un cavalcavia verso la strada che porta a Hilla e Kerbala. Ci troviamo nel quartiere di al-Dora, alla periferia meridionale di Baghdad, poco lontano in linea d'aria dall'aeroporto. Sullo sfondo le nuvole di fumo nero che si alzano dalle trincee di petrolio incendiate, sul terreno tutti i segni di una feroce battaglia. Un vero teatro di guerra: l'asfalto della strada a due corsie e' completamente dissestato dai cingolati, crateri provocati dalle bombe, l'Abrahms deve essere stato colpito da una bomba anticarro e nel tentativo di fare marcia indietro ha lasciato profondi solchi sul selciato. Ma evidentemente era troppo tardi. I militari iracheni ammassati sul carro armato per festeggiare il successo agitano i loro fucili - sono gli eroi del giorno - inneggiando al rais con il solito slogan: "con l'anima e con il sangue ci sacrificheremo per te Saddam". Dicono di aver distrutto altri sei carri armati Usa, ma oltre a quello che si trova ancora in mezzo alla strada, in lontananza ne vediamo solo un altro, gli altri sostengono di averli gia' portati via, finita la battaglia, sabato mattina. Ma anche gli iracheni devono aver subito pesanti perdite: sul terreno tutto intorno carri armati bombardati, un cannoncino abbandonato, le carcasse di mezzi da trasporto di vario genere, anche un autobus che sosta sulla corsia opposta e' stato colpito. Alcuni degli edifici che si trovano la' intorno sono stati colpiti durante la battaglia. Dietro un gruppo di palme si vede una costruzione affollata di militari, non sembra che appartengano alla Guardia repubblicana. Su un altro edificio si vede una postazione della contraerea. Molti militari sparsi ai lati della strada. Nessuna traccia dei caduti in battaglia, ne' iracheni ne' americani. Gli americani del carro armato sono rimasti carbonizzati come il loro mezzo, dicono gli iracheni. Sappiamo che molti iracheni sono rimasti uccisi e che centinaia sono ricoverati negli ospedali di Yarmuk e di al-Kindy. Mentre ci troviamo sul teatro della battaglia ormai finita non si sentono i cannoni che tirano sulla zona dell'aeroporto, ma ancora per poco. Nel cielo improvvisamente appare un cacciabombardiere che si sta dirigendo proprio in quella zona. La battaglia per l'aeroporto e' tutt'altro che finita. Lo conferma anche il ministro dell'informazione Mohammed Said al-Sahaf, che parla di 50 marine americani uccisi e di 16 carri armati presi o danneggiati. Gli scontri sono ripresi, ce ne accorgiamo quando cerchiamo di avvicinarci: alcuni chilometri prima, ad al-Qadissiya, un posto di blocco ci impedisce di proseguire. Anche su questa strada ci sono i segni lasciati sul selciato dal passaggio dei carri armati e anche del loro dietrofront. Sabato ci avevano detto che gli Abrahms americani erano arrivati fin qui. C'e' ancora un negozietto aperto, vende bibite e dolciumi. Dafr, il proprietario, ci conferma: "ieri mattina (sabato, ndr) i carri armati americani sono arrivati qui davanti. Erano le sei del mattino, la battaglia, pesante, e' durata fino alle nove, poi i carri armati sono tornati indietro, noi eravamo rintanati dentro casa mentre fuori si combatteva". Ora il fronte si e' di nuovo allontanato, ma all'aeroporto si continua a sparare e a bombardare. I boati fanno tremare le pareti del bugigattolo. Ci sono molti militari in questa zona, nelle case?, chiediamo. "No, adesso no". Questo e' l'unico negozio ancora aperto su questa strada, perche' non chiude? "Perche' la gente viene a comprare anche se c'e' la guerra", risponde Dafr. Sembra che tutto stia per crollarci addosso mentre ci allontaniamo in gran fretta. Come continuano ad allontanarsi in fretta gli abitanti della zona che, raccolte poche cose, fuggono su camion e su qualsiasi mezzo a disposizione. Lungo la strada che ci riporta in citta', sotto gli alberi sono appostati mezzi militari, le "tecniche" con le mitragliatrici e i cannoncini. Nelle piazze invece i militari si nascondono dietro barriere fatte di sacchetti di sabbia. La loro presenza, quella evidente almeno, non e' massiccia. Forse molti militari mancano ancora all'appello, se in un comunicato letto ieri alla televisione irachena e attribuito a Saddam Hussein si invitano gli iracheni che non possono raggiungere le loro unita' di combattimento ad aggregarsi ad altre unita'. Quel che piu' sorprende e' la mobilita' degli iracheni - militari, miliziani si vedono soprattutto - che si concentrano e si spostano continuamente. Si passa sopra un ponte e si vedono numerosi soldati e/o miliziani appostati sotto con le loro armi, si ripassa poco dopo e sono spariti, per poi ricomparire. E questo puo' costituire una sorpresa per le truppe anglo-americane. I continui spostamenti possono prefigurare una tattica piu' simile a una guerriglia che a una guerra convenzionale. Guerriglia e "martiri", ovvero kamikaze, sarebbe stata la sorpresa per gli americani, annunciata nei giorni scorsi da Mohammed Said al-Sahaf. E la popolazione che fara'? "Dobbiamo resistere, ma non per un uomo solo, non e' come nel 1991, ora stanno invadendo il nostro paese, dobbiamo batterci per l'Iraq e per gli iracheni", sostiene un conoscente iracheno. E questa consapevolezza e' molto diffusa. Se la mattina era stata relativamente calma, verso mezzogiorno si e' nuovamente scatenato un delirio di fuoco: cannoneggiamenti, caccia che volavano a bassa quota, bombe e contraerea, la cui potenza di fuoco sembra comunque diminuita rispetto ai giorni scorsi. Arrivano notizie di combattimenti a una ventina di chilometri a sud della citta' con forze statunitensi paracadutate, confermate anche dal ministro dell'informazione. Secondo le notizie di fonte americana sarebbero diversi i commando paracadutati all'interno della capitale, ma da qui non se ne vede l'ombra. Comunque la situazione sta precipitando, la popolazione ha paura, per la strada ormai poco frequentata anche dalle macchine si vedono pick-up e vetture stracariche di masserizie, sono i baghdadini che cercano di fuggire, ma l'ordine e' di non lasciare Baghdad e difficilmente potranno uscire dalla capitale. Nei giorni scorsi chilometri di code si erano formate sia sulla strada che porta verso l'Iran che su quella diretta in Siria. Ieri sera e' circolata la voce di una imposizione del coprifuoco dalle sei di sera alle sei del mattino, e cosi' c'e' stato un fuggi fuggi generale. L'annuncio di una imposizione del divieto di circolare in citta', nelle ore indicate, e' stato dato dalla televisione, ma c'e' chi sostiene che il divieto riguarda solo l'uscita e l'entrata in Baghdad. La notizia ha comunque subito aumentato il panico e non vediamo macchine in circolazione dopo che sulla citta' e' calato un buio pesto. Se stare a Baghdad e' sempre meno sicuro, la partenza e' altrettanto rischiosa. Ieri il convoglio di macchine dei diplomatici russi, ambasciatore compreso, che sabato aveva lasciato la capitale irachena diretto a Damasco, e' stato attaccato da sconosciuti con armi automatiche, per due volte, prima a otto e poi a quindici chilometri da Baghdad. Alcuni diplomatici sono rimasti feriti. Americani e iracheni respingono la responsabilita', ma secondo un testimone diretto, un reporter russo, il convoglio sarebbe finito sotto il tiro incrociato di entrambi. Non e' il primo caso di attacchi su questa strada. Gli ultimi giornalisti e pacifisti arrivati da Amman - ma per un centinaio di chilometri da Baghdad la strada e' la stessa anche per chi e' diretto in Siria - parlano di scontri lungo il percorso e anche di aver dovuto fare diverse deviazioni per poter arrivare. Un operatore della televisione spagnola ci ha raccontato che quattro giorni fa a una trentina di chilometri da Baghdad c'era un blocco fatto dagli americani con i carri armati. All'intimazione di alt un camion non si era fermato subito ed e' stato bersagliato di colpi di arma da fuoco. Ieri un furgoncino di scudi umani diretto ad Amman ha dovuto tornare indietro: non si passava per gli scontri in corso, ci riprovera' oggi. Le notizie che arrivano dal sud e dal nord del paese non sono certo piu' confortanti, qui ci si aspetta il peggio di ora in ora. Intanto passano i giorni, l'agonia di questa citta' continua. E per ora non si vede la fine. 3. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: SULL'ORLO DELLA CATASTROFE [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 aprile 2003] I bombardamenti ci hanno abituati a non dormire la notte e domenica sera i caccia che volavano bassi su di noi avevano anticipato l'allarme, ma quello che e' scoppiato ieri mattina al termine di una notte tormentata anche da una tempesta di sabbia, poco prima delle 6, quando era ancora buio, e' stato un vero inferno. I colpi di cannone, le bombe, il fuoco e il fumo che vedevamo sull'altra riva del Tigri, proprio dove il fiume fa un'insenatura, lasciavano intendere che la battaglia per la conquista di Baghdad era cominciata. Si sparava anche da questa parte del fiume e i colpi rimbombavano persino sulle nostre pareti. Dai piani alti si potevano vedere le sagome dei carri armati, due piu' un blindato. Erano gli operatori con le telecamere a scoprire che erano americani, che avanzavano sull'altra sponda del Tigri. Inseguivano gli iracheni, da qui se ne sono visti qualche decina, alcuni si arrendevano e, nonostante questo, secondo quanto mostrato da alcune riprese, due sono stati freddati. Un'altra inquadratura invece mostrava un iracheno fatto prigioniero. Altri sono scappati, alcuni buttandosi nel Tigri, mentre gli americani sparavano loro addosso, nell'acqua. Per coprirsi la fuga, gli iracheni - alcuni erano anche senza armi - hanno dato fuoco a un deposito di petrolio che ha immediatamente offuscato tutto lo scenario con una cortina di fumo che si e' mischiata a una sorta di nebbia che era scesa sul Tigri (o forse era l'inquinamento degli aerei?), rendendo l'aria ancora piu' irrespirabile. Ieri, all'odore di petrolio si e' aggiunto quello della polvere da sparo, effetto dei bombardamenti. Nel pomeriggio un cielo grigio, coperto da dense nubi, non permetteva nemmeno di vedere i caccia che sentivamo sfrecciare sopra di noi, numerosi. Primo obiettivo degli americani: l'occupazione di uno dei palazzi di Saddam, Al Sarjut, quello che si trova sulla riva del Tigri di fronte al nostro albergo, e che ha su una delle porte di entrata una cupola d'oro. Ma il palazzo era, naturalmente, vuoto. Un abitante del quartiere Al Dora, nella zona meridionale della citta', ci ha raccontato di aver visto l'arrivo dei carri armati sulla strada di Kerbala: erano coperti nella loro avanzata da F-16, F-18 e Apache che hanno ingaggiato una feroce battaglia per sbaragliare le forze irachene cosi' da permettere ai tank di procedere verso il ponte Al Jadria, passare vicino all'universita' di Baghdad e arrivare fino nel quartiere che ospita i ministeri, ora parzialmente occupato dalle truppe americane. Anche se da questa riva del fiume non si riesce a capire l'entita' delle forze americane presenti, si vedono solo due carri armati che stazionano davanti al palazzo di Saddam. Il ministero dell'informazione che, secondo la tv del Qatar Al Jazeera, sarebbe stato occupato dagli americani, invece e' ancora sotto il controllo iracheno. Almeno ieri mattina lo era. Per dimostrarlo, dopo che il ministro dell'informazione Mohammed Said Al Sahaf si era scagliato contro l'emittente del Golfo accusandola di essere al servizio degli americani, siamo stati portati sul posto dai funzionari del press center. Il ministero, cosi' come la stazione degli autobus e dei taxi ad Al Alwia che portano fuor i citta', che pure ieri mattina veniva data da alcuni media internazionali - al seguito delle truppe alleate - nelle mani degli americani, invece non lo sono. Per verificarlo abbiamo dovuto attraversare il ponte Rashid e avvicinarci all'omonimo hotel, senza pero' riuscire a raggiungerlo; tutt'intorno abbiamo trovato i segni di una pesante battaglia. Che sarebbe ripresa nel pomeriggio, quando i militari hanno abbandonato le postazioni riconquistate la mattina. A fine mattinata comunque giravano per la citta' strombazzando macchine della polizia con la bandiera irachena e il ritratto di Saddam. Arrivati davanti all'hotel Palestine, approfittando della presenza di centinaia di giornalisti, hanno cominciato a sparare in aria decine di proiettili per festeggiare la loro "vittoria", dicevano di aver danneggiato 14 carri armati americani e di aver combattuto senza nessuna protezione, mentre inneggiavano al rais: "Bush ascoltaci, noi amiamo Saddam", prima di concludere con un "Allah Akbar", Dio e' grande. La presenza americana - noi pero' gli americani non li abbiamo ancora visti in faccia, abbiamo solo osservato le loro sagome su scala ridottissima al di la' del fiume - e' ancora limitata e riguarda la riva destra del fiume. Dalla stessa parte in cui si trova anche il quartiere presidenziale Al Mansour dove ieri pomeriggio, sulla via principale, piena di negozi ora chiusi, e' stato lanciato un missile contro un edificio. Quattro le case completamente distrutte, compreso il ristorante Assadaha, spesso frequentato anche dai giornalisti. Il missile ha lasciato un cratere enorme, profondo dieci metri. Le vittime rimaste sepolte sotto il cumulo di macerie sono almeno nove, diversi i feriti. E non si puo' certo parlare di un errore. Non si tratta delle prime vittime civili provocate dall'invasione americana di Baghdad, di alcune abbiamo gia' parlato cosi' come di altre abitazioni distrutte proprio nello stesso quartiere Al Mansour, particolarmente bersagliato. Altre vittime sono delle ultime ore, alcune sono ricoverate nell'ospedale Al Kindy. Militari e civili, il numero dei feriti e' impressionante anche se e' difficile avere delle cifre, nemmeno la Croce rossa riesce a tenere il conto. Ma le condizioni in cui versa l'ospedale sono "terribili", secondo la descrizione di alcuni rappresentanti del Comitato internazionale della Croce rossa che vi hanno avuto accesso. Medici e infermieri lavorano ininterrottamente da 24 ore e sono esausti. Manca peraltro materiale chirurgico e anestetici. Gli ospedali rischiano il collasso. La mancanza di elettricita' e, di conseguenza, di acqua rende la situazione drammatica: finora si e' supplito con l'utilizzo dei generatori, molti dei quali sono stati forniti proprio dalla Croce rossa. Mentre "Un ponte per Baghdad" ne ha forniti agli ospedali di Bassora. Ma se l'affluenza dovesse continuare a questi ritmi, ed e' probabile che con la battaglia per l'occupazione di Baghdad sia destinata ad aumentare, e notevolmente, la catastrofe e' assicurata. Gli americani hanno messo piede a Baghdad anche se non e' ancora chiaro se intendono rimanerci e avanzare oppure fermarsi e poi riprendere l'avanzata. Comunque la popolazione e' spaventata. Ieri mattina la citta' sembrava tramortita: ancora piu' spettrale del solito, strade vuote, l'unica presenza era quella dei militari, dei miliziani del partito Baath e qualche giovane in borghese con kalashnikov. Per la strada autoambulanze, macchine della polizia e autobotti dei pompieri, gli autobus e le vetture sono sempre piu' rare e anche i taxi. Negozi tutti chiusi, non siamo riusciti nemmeno a trovare del pane, il forno era aperto ma il pane era andato a ruba. Anche le farmacie sono chiuse e comunque vendevano ormai solo Valium e altri tranquillanti, persino per i bambini. Ai distributori di benzina si formano le code per gli ultimi rifornimenti. La gente ha paura e scappa, con ogni mezzo, anche a piedi, con poche cose, spesso solo con un fagotto in testa. E chi non scappa si rifugia nelle moschee. Particolarmente affollata la piu' grande moschea sciita di Baghdad, quella di Al Khadimiya. "Allah Akbar", gridano tutti, fedeli e combattenti, che hanno optato per il Jihad, la guerra santa. 4. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: CANNONATE SULLA STAMPA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 aprile 2003] Sono quasi le cinque del mattino quando i cannoneggiamenti ricominciano e, annunciati da un fragore infernale, anche gli A-10 entrano in azione per lanciare i loro missili aria-terra che si dice siano in grado di sparare fuori 1.000 proiettili al minuto. E' l'alba, sopra Baghdad. Tareq Ayoub e' un giordano di 34 anni, e' qui soltanto da tre giorni e non se la sente di lasciare il tetto del palazzo dove ha i suoi uffici la televisione per cui lavora, al Jazeera, nemmeno se il fuoco diviene piu' intenso. La tv del Qatar si trova proprio sulla riva del Tigri, dalla parte dove sono arrivati gli americani. Una posizione decisiva per fare la cronaca dell'invasione. Ayoub filma tutto, e non si muove. E non si muovera' piu', perche' non appena le cannonate cessano il suo collega lo trova morto, cosi', da solo, sul tetto. La giornata peggiore per la stampa internazionale comincia nel sangue. Testimoniare quel che succede e' sempre piu' difficile e pericoloso. All'hotel Palestine, dove sono riuniti quasi tutti i giornalisti del mondo rimasti nella capitale irachena per documentare questa guerra, l'eco della morte del collega giordano non si e' ancora spenta. E' piu' o meno mezzogiorno, quando i fatti precipitano. A qualche centinaio di metri, un tank M-1 sposta lentamente il suo cannone e lo punta sull'albergo. Piu' tardi, il filmato di un collega francese dimostra che il carro armato non ha dato alcun segno di nervosismo: il cannone si solleva con calma, resta immobile per un paio di minuti quasi prendesse la mira e poi spara. Eravamo tutti la', abbiamo sentito un boato fortissimo e abbiamo pensato che fosse caduto un missile vicino all'albergo. Invece, nelle stanze d'angolo al quattordicesimo e al quindicesimo piano, due reporter erano stati maciullati dal colpo. Racconta Ferdinando Pellegrino, del giornale radio Rai, tra i primi ad accorrere alle grida: "Jose' Couso, di Telecinco, era a terra con un osso di fuori e una gamba quasi staccata dal corpo". Couso e' in una pozza di sangue, e arriva gia' morto all'ospedale: aveva 37 anni e lascia la moglie e due figli. Un secondo collega, della ufficio Reuters al piano di sopra, Taras Trotsyuk, ucraino, 35 anni, e' ferito in modo gravissimo e non ce la fa. Era un veterano, tra gli inviati di guerra: aveva lavorato in Cecenia, in Afghanistan e nei Balcani. Altri feriti, una fotografa libanese, altri due giornalisti dell'agenzia britannica. Sconcerto e rabbia tra tutti i presenti: a fine giornata, si organizza una fiaccolata. Nel pomeriggio, il comando americano ammette che il carro armato ha sparato: "Per difendersi dai cecchini sul tetto dell'albergo e comunque avevamo avvertito i reporter che era pericoloso rimanere a Baghdad". Ma qui nessuno ha visti i cecchini e la versione non viene accreditata. Dice il corrispondente di Sky News, David Chater: "Non si e' trattato di un incidente... non ho sentito un solo colpo provenire da nessuna zona qui intorno... Devono averci visto, ci hanno visto, noi li abbiamo visti, non c'e' stato assolutamente nessun errore, sapevano che eravamo li'". Non pensavamo di essere un obiettivo degli americani, anche se sicuramente l'informazione che viene da questa parte del fiume e' scomoda per Bush. Il Pentagono ha fatto di tutto per imporre il ritiro dei giornalisti presenti a Baghdad, e non solo quelli americani. E quello di ieri e' stato un ulteriore avvertimento, rinforzato dal monito che "la capitale e' una zona di guerra a rischio" dove non si puo' assicurare nulla. Questa e' l'altra faccia della guerra, l'effetto delle bombe che cadono su una citta' di cinque milioni di abitanti, allo stremo, tenuta in ostaggio, senza che la comunita' internazionale si preoccupi nemmeno di chiedere l'apertura di un corridoio umanitario. Gli americani cominciano a manifestare nervosismo, cominciano a temere di non essere accolti come i liberatori dalla popolazione irachena: incontreranno i soldati, la Guardia repubblicana, i feddayn di Saddam, i miliziani del partito Baath, i civili che si oppongono all'occupazione. Probabilmente anche cecchini. La guerra e' sempre sporca e questa lo e' piu' che mai. Gli americani dovrebbero saperlo. Non che da questa parte del fiume fili tutto liscio, lo abbiamo provato ieri mattina, quando volevamo andare all'ospedale al-Kindy per testimoniare delle vittime civili, oltre che militari, della guerra. Ci avevano parlato di scene tremende, di molti morti e ancor piu' feriti. Ma all'ospedale non ci siamo arrivati. Abbiamo preso la Saadoun street, un tempo tra le vie piu' affollate di Baghdad ed ora sempre piu' deserta, alla fine della strada, dove si svolta sulla piazza Tahrir (della liberazione) avevamo notato un movimento di militari e volontari, volevamo riprendere la scena con una piccola telecamera. Che abbiamo subito nascosto quando ci siamo resi conto che la situazione era molto tesa. Troppo tardi. In un baleno ci siamo ritrovati circondati da dieci-quindici feddayn che ci puntavano addosso bazooka e kalashnikov: "Dammi la telecamera o ti ammazzo". Inutile negare troppo a lungo, avevano l'aria di voler mantenere la promessa. Il loro numero aumentava, non c'era via di scampo. Dopo avermi preso la telecamera mi hanno tirato fuori dalla macchina e sbattuta su un'auto della polizia arrivata in quel momento, malamente incastrata tra i kalashnikov, dopo che il poliziotto mi aveva puntato la sua rivoltella. La situazione era veramente preoccupante, anche perche' i feddayn, tutti ragazzi giovani e, a giudicare dall'accento, non iracheni ma egiziani e siriani, erano particolarmente assatanati. Dalla piazza al Tahrir, alle loro spalle, parte infatti il ponte Jumuriya su cui stavano avanzando i carri armati americani. Ce la siamo cavata solo perche' un poliziotto, di grado piu' elevato, intervenuto per vedere cosa succedeva, alla fine ha capito che non si trattava di spie ma di giornalisti e ci ha tratti in salvo. Con le spie o presunte tali, come sempre del resto in caso di guerra, non si va tanto per il sottile. La situazione sta degenerando di ora in ora. I rischi sono sempre maggiori. I cannoni continuano a tuonare, i caccia volano bassi, sempre piu' visibili. Si sentono i boati delle bombe. Quando arriveranno da questa parte del fiume? Si teme un massacro. Quest'agonia e' insopportabile. Intanto, i carri armati Abrahms avanzano, anche se lentamente. La battaglia per l'occupazione di Baghdad non subisce battute d'arresto, come aveva lasciato intendere il Pentagono, evidentemente le truppe anglo-americane non hanno la possibilita' di scegliere di entrare e uscire con grande facilita' dalla citta', come avevano annunciato. Quindi cercano di mantenere le posizioni conquistate, a tutti i costi. La mattina, i carri armati hanno puntato verso il ponte Jumuriya, ma si sono fermati la', non si sa se perche' incontrano resistenza da questa parte del fiume o perche' aspettano i rinforzi che devono arrivare da sud-est. 5. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: TANK E SACCHEGGI, LA CITTA' SI ARRENDE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 aprile 2003] La statua del rais ha un cappio intorno al collo. Il blindato americano la trascina, il metallo ondeggia, si torce, infine si spezza e piomba sul selciato della piazza Firdaus (paradiso). Al suo posto, sulla colonna di cemento, sventola una bandiera irachena. Il grande ritratto di Saddam sulla facciata dell'hotel Palestine viene dato alle fiamme, rischiando di incendiare anche l'esposizione di tappeti che si trova li' sotto. Gli spettatori della capitolazione sono in gran parte giornalisti. Baghdad non ha festeggiato l'arrivo dei carri armati americani. Questo non vuol dire che non abbia provato sollievo per la fine del regime oppressivo. Ma mai la fine di una dittatura e' stata cosi' triste. Qualcuno ha anche salutato e applaudito l'avanzata degli Abrams verso il centro della citta', a Saddam city c'e' stato chi ha urlato viva Bush, ma erano gli stessi giovani che stavano assaltando e saccheggiando edifici pubblici e depositi di cibo. Qualche donna piange, silenziosamente. La citta' appare per ora indifferente, la maggior parte della popolazione e' rimasta in casa, come nei giorni scorsi quando piovevano le bombe. Questa gente, dopo due guerre e dodici anni di embargo, e' stremata, non ne voleva sapere di un'altra guerra, potrebbe persino tirare un respiro di sollievo per la fine dei bombardamenti se non fosse cosi' orgogliosa da non poter permettere che un paese come l'Iraq diventi una colonia. Ovunque ci giriamo troviamo carri armati, qualcuno con la bandiera americana, uno invece sul cannone porta la scritta "I love Bush". Quando i marines hanno fatto irruzione nel nostro albergo sbattendo le porte, e con poco tatto, sono stati accolti dall'ultima resistenza di quel che resta degli scudi umani: "Yankee go home". Ma l'impressione e' che qui ci resteranno, e per molto. Dopo aver controllato le stanze fino al quinto piano i marine se ne sono andati, ma tanto stazionano fuori sulla strada. La sera i mezzi militari si sono ridislocati sulla piazza e una colonna e' entrata dentro il recinto fin sulla porta del Palestine. Forse e' un altro avvertimento alla stampa internazionale che si trova a Baghdad senza l'avallo Usa. Ma c'e' gia' chi si e' adattato: il venditore di bibite piazzato sul marciapiede di fronte all'albergo ieri sera chiedeva il prezzo della Pepsi in dollari. L'avanzata americana nella parte orientale della citta' e' stata veloce, non ha incontrato resistenza. Evidentemente le migliaia - non si hanno cifre di fonte irachena, ma sicuramente centinaia di cadaveri sono stati visti negli ospedali - di soldati morti per impedire l'occupazione della parte occidentale della citta' deve avere sfiancato l'esercito. Ieri mattina per strada non si vedevano piu' soldati iracheni, restava qualche miliziano del partito, e gruppi di feddayn vestiti di nero - provenienti per lo piu' da paesi arabi - che hanno preso di mira altri giornalisti, ma nessuno in grado di contrastare il potente esercito americano. Gruppi di arabi si sono visti in giro, dicono di essere lavoratori rimasti senza impiego, ma non vogliono dare il loro nome, sono senza soldi e non sanno dove andare. In Siria, dicono, ma sono stati bloccati dagli americani. Ieri sera bivaccavano sul marciapiede del Palestine. Non ci aspettavamo che i marines potessero avanzare senza colpo ferire, anche se gia' da martedi' la scarsa presenza di militari in citta' non lasciava prefigurare una grande battaglia. Potrebbe essere stata una scelta, forse e' stata data una possibilita' di fuga. E dov'e' finito Saddam, che tre giorni fa sarebbe sfuggito al missile che ha distrutto quattro case nel quartiere al Mansour? Comunque tutti i ministri, dirigenti e funzionari ieri avevano abbandonato ministeri, edifici governativi e uffici della polizia, anche quelli che si trovano da questa parte del fiume e che non erano stati bombardati. Abbiamo visto le ultime partenze di pick up dal ministero dell'educazione. Almeno cosi' e' stato evitato un bagno di sangue. Anche le bombe e i cannoni avevano taciuto per tutta la notte, fino al mattino alle sei, permettendoci finalmente di dormire. E la ripresa dei bombardamenti non era stata massiccia durante la giornata. Qualche botto piu' forte in serata, mentre scriviamo. Solo qualche colpo di coda? Comunque la posizione americana potrebbe non essere del tutto consolidata, la sensazione e' che la guerra non sia finita nemmeno per Baghdad mentre continua nel resto del paese. Poca gente per le strade, poche macchine, quelle che circolano espongono un pezzo di stoffa bianca in segno di resa o perlomeno di non ostilita', gli americani sono sospettosi, temono i kamikaze, meglio non rischiare. Anche quando, poco prima dell'irruzione nel nostro albergo, avevamo raggiunto i marine sulla strada proveniente da al-Kut (questa era la colonna arrivata martedi' da sud-est, mentre un'altra e' arrivata da Kerbala, sud-ovest) la nostra maggiore preoccupazione era quella di farci riconoscere. Non che l'essere stampa occidentale a Baghdad sia di per se una garanzia per gli americani che martedi' hanno colpito l'hotel Palestine uccidendo due giornalisti. Sulla Qanat street, una fila di carri armati Abrams, anfibi e altri mezzi, a perdita d'occhio. I marine, tanti, che non controllavano la situazione dall'alto dei loro mezzi, erano accucciati per terra sotto le palme. Un gruppo controllava la strada e gli arrivi. Alcuni con il viso rigato di nero. Tutti giovani, tra i 21 e i 23 anni, per molti la prima esperienza di guerra. Perche' siete venuti qui? Adam sembrava avere la risposta pronta, imparata a memoria: "Sono venuto per i miei due figli, perche' Saddam costituisce una minaccia per il mondo, con le sue armi chimiche...". Pero' voi di armi chimiche non ne avete trovate, facciamo notare. "Questo non e' il mio lavoro, io sono venuto per combattere, per uccidere Saddam e tutti i suoi soldati", afferma senza esitare. Jose', di origine spagnola, invece dice di essersi meravigliato di non aver incontrato resistenza, solo un po' alla periferia della citta', pensavano fosse molto peggio. Prima di andarcene, gli facciamo notare che l'altro giorno gli americani hanno ammazzato due giornalisti all'hotel Palestine. "Noi non ne sappiamo niente", taglia corto il soldato Jose. Sembra che non sappia nemmeno di cosa parliamo, cos'e' il Palestine, chi ha ammazzato chi. La mattina eravamo andati a cercare i marines, ma non li avevamo trovati. Ci eravamo invece trovati in mezzo a ingorghi provocati dai saccheggi in corso. Giovani, alcuni armati con pistola o kalashnikov, davano l'assalto a ministeri ed edifici pubblici. Prima avevamo visto l'irruzione nel Comitato olimpico presieduto dal figlio di Saddam, Uday. Uno degli edifici aveva subito anche un bombardamento. Buttate giu' le cancellate per poter entrare negli edifici, subito dopo i giovani uscivano con quel che avevano trovato: sedie, termosifoni, ventilatori, condizionatori, tavoli, schedari, scaffali, di tutto. Ammassavano la refurtiva su furgoncini e via strombazzando. C'era molta eccitazione, chi alzava le dita a V e urlava, con il rischio che partisse qualche colpo dalle loro armi. Poi il ministero dell'irrigazione, stesse scene, esagitate. Il timore del nostro autista era che si volessero rifare anche su di noi occidentali. Poi via verso Saddam city, l'esplosivo quartiere povero sciita della periferia est della capitale, dove si diceva nei giorni scorsi che ci sarebbe stata una rivolta contro i miliziani del partito Baath, ma non avevamo avuto conferme. Il quartiere e' noto per la forte opposizione al regime di Saddam, qui ci sono ben pochi ritratti da abbattere. Dopo aver superato la piazza della Mustansiriya, con l'universita' ad un lato e al centro della piazza la statua di Saddam a cavallo, la presenza del regime iracheno era completamente sparita. Tutti gli edifici governativi, della polizia e depositi alimentari venivano saccheggiati. C'era chi scappava con uno scatolone, chi con un materasso, chi trascinava via un divano. Sembrava piu' una vendetta che una necessita'. Anche se in questo quartiere la poverta' non e' certo un pretesto. Allontanandoci, vedevamo spingere le macchine in mezzo alla strada. Come mai tante auto in in panne? Forse saranno senza benzina, avevamo pensato, ma no, anche le macchine venivano rubate, preso d'assalto soprattutto il parcheggio della polizia. Alcune venivano rimorchiate con una corda, altre con un fil di ferro, altre ancora persino con un filo spinato. Come diceva un iracheno scherzando: e' la storia di Ali Baba e dei quaranta ladroni. 6. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: PACE INFERNALE A BAGHDAD [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 aprile 2003] Baghdad e' divisa in due. Tutti i ponti che collegano la riva occidentale, molto piu' distrutta dalla guerra, a quella orientale della citta' ieri pomeriggio sono stati chiusi. Non passa piu' nessuno, inutile anche il nostro tentativo di convincere i marines a lasciare proseguire alcuni uomini che sostavano sul ponte Jumuriya e volevano raggiungere la loro casa che sta oltre il fiume. I marines sono diffidenti: temono che tutte le macchine siano autobombe e che chi si presenta un po' imbottito, magari con un giubbotto antiproiettile, sia un kamikaze. I carri e i controlli e la chiusura ermetica dei ponti tuttavia non sono riusciti ad impedire che ieri sera un kamikaze si facesse saltare davanti ad un carro armato uccidendo tre marines proprio sulla riva occidentale del Tigri. E dal pomeriggio e' stata presa di mira dai cannoni che sparavano - e sparano mentre scriviamo - poco lontano dal nostro albergo e hanno provocato numerosi incendi che stanno rischiarando la notte buia. Oltre il ponte sono rimaste solo un paio di famiglie e l'avevamo verificato la mattina quando era ancora aperto ai giornalisti: le strade che attraversano il quartiere devastato dai bombardamenti e dai combattimenti erano completamente deserte, avevamo trovato solo cadaveri abbandonati e una donna che si aggirava incredula con un bambino per mano, poi ancora un vecchio con kefiah che agitava uno straccio bianco per non farsi colpire dai marines che presidiano la zona con numerosi carri armati. Tutti gli abitanti del quartiere se ne sono andati prima dell'arrivo degli americani e della battaglia campale. Anche Ahmed aveva portato la sua famiglia ad Hilla, prima di andare a combattere con l'esercito di Saddam. Ma poi, racconta, i comandanti si sono ritirati e loro sono stati abbandonati. Ora vorrebbe andare a vedere se la sua casa e' ancora in piedi, se e' stata saccheggiata, prendere qualche vestito e raggiungere la famiglia. Ma gli americani non ci stanno. "Ne avevamo lasciati passare alcuni e poi hanno cominciato a spararci addosso, sono stati lontani da casa finora, possono rimanerci ancora un po'", risponde uno di loro inflessibile. Dal ponte Jumuriya, osservando le nubi di fumo che si innalzano - su entrambe le rive del fiume: a ovest e a nord-est - si possono individuare i punti dove gli scontri sono ancora in corso, come ci confermano i marines che operano il blocco. Il fumo improvvisamente investe anche l'hotel Mansour, poco lontano dal ponte a pochi metri da quello che era il ministero dell'informazione. La battaglia piu' importante ieri pero' si e' combattuta nel quartiere Cairo, sulla strada che porta ad al-Adhamiya, dove si trova anche la moschea al-Nidha che abbiamo visto crivellata di colpi perche' gli americani pensavano che vi si fosse nascosto Saddam Hussein. Mentre una colonna di carri armati si stava dirigendo verso al-Adhamiya si e' scontrata con un gruppo di feddayn e di miliziani del partito Baath che si erano nascosti dentro un piccolo palmeto. La battaglia e' iniziata la mattina alle cinque ed e' durata tre ore. Quando noi siamo arrivati, in tarda mattinata, le case stavano ancora bruciando, cosi' come alcuni camion, altri mezzi ormai carbonizzati erano completamente accartocciati. Un cratere enorme provocato evidentemente da una bomba su un lato della strada, mentre la carreggiata era disseminata dai resti della battaglia, dava il segno della pesantezza dello scontro. I cannoni hanno colpito anche due case, in una e' morta l'intera famiglia, i genitori e due bambini. Il bilancio della battaglia: 20 iracheni e un marine uccisi. "Bush e' come Saddam, fa uccidere i nostri bambini. E per che cosa? Per il petrolio?", dice Mohammed, un uomo sulla cinquantina, sconsolato, che passava di la'. Mentre chiedevamo informazioni sull'accaduto, intorno a noi si e' formato un capannello: "Gli americani sono alleati dei sionisti che ci combattono perche' siamo musulmani", dice Ali. Gli americani hanno preso possesso di quasi tutta la citta', ma la popolazione - quella che e' rimasta a Baghdad - continua a rimanere in casa e tutti i negozi sono chiusi, proprio come durante i bombardamenti. Tra quelli costretti ad uscire si nota un'ostilita' non dichiarata: prima era l'oppressione di Saddam ad impedire agli iracheni di parlare, ora e' lo strapotere di Bush. I marines che si sono installati anche dentro l'hotel Palestine non fanno certo risparmio di arroganza: ieri uno di loro per comprare una pepsi voleva farsi cambiare dal barista i dollari a 4.000 dinari, mentre il cambio corrente era di 2.500 (contro i 3.000 di qualche giorno fa) e di fronte alla resistenza del cameriere lo ha minacciato di chiamare il suo comandante per fargli chiudere il bar. Comunque il cameriere e' stato inflessibile. E per non parlare della pattuglia che mercoledi' sera, secondo quanto riferito dalla tv del Qatar al Jazeera, ha sparato su un'autoambulanza provocando due morti e tre feriti. Anche la difficolta' di reperire il cibo si e' accentuata con i controlli americani: ieri mattina in albergo non c'era la colazione perche' le truppe avevano bloccato il furgoncino che portava il pane. Il paradosso e' che noi giornalisti gia' presenti a Baghdad, non quelli militarizzati arrivati con le truppe con tanto di divisa, per farci riconoscere usiamo il sudato accredito ottenuto dagli iracheni che negli ultimi tempi invece non ci controllavano nemmeno piu'. Una presenza cosi' massiccia di carri armati davanti all'albergo, la totale assenza di iracheni, tranne quelli che si prestano a qualche sceneggiata in esclusiva per i giornalisti, come prendere a calci la testa della statua di Saddam fatta crollare mercoledi' sera, ci fanno sentire come delle comparse sul set di un film di scadente qualita'. E dal finale sicuramente poco lieto. Haider, regista frustrato perche' doveva iniziare a girare un film proprio quando e' scoppiata la guerra e per fare qualche soldo si e' riciclato come barista, scuote la testa: "Sono felice perche' e' finito un regime che non sopportavo, ma sono triste per il modo in cui e' finito". E' la sensazione che avvertiamo in molte delle persone che incontriamo. Sono ben pochi ad illudersi che sia una liberazione, la maggioranza e' cosciente che si tratta di una occupazione. Ad inneggiare a Saddam sono invece i saccheggiatori che non vengono certo fermati dagli americani. Anzi. Di fronte ai carri armati, si fermano con la loro refurtiva, salutano con un "viva Bush" che funge da salvacondotto e si allontanano tranquillamente. I marines si creano cosi' l'alibi di essere bene accolti e i saccheggiatori un alibi per il furto. Ieri e' stata ancora una giornata di completa anarchia e di saccheggi ovunque: magazzini da dove venivano portati via computer, pezzi di ricambio, mobili. Spesso trascinati e perdendo i pezzi per strada. Incredibile, tanto da far pensare ad una regia dietro questi saccheggi oltre che a provocare la protesta della Croce rossa internazionale, l'assalto agli ospedali, in particolare al-Kindy, quello piu' importante nella zona orientale della citta', dove sono state ricoverate anche molte vittime civili dei bombardamenti. E poi il saccheggio nell'ambasciata tedesca e nel centro culturale francese, proprio le rappresentanze dei due paesi contrari alla guerra. Ma spettacolare e' stato soprattutto l'arrembaggio allo shopping center che rifornisce al-Shaab, il quartiere gia' colpito da un bombardamento americano che aveva fatto una quindicina di vittime. Dal quarto piano del magazzino la merce - tappeti, stoffe, tendaggi, biancheria, pugnali eccetera - veniva scaraventata giu' nella sala centrale e poi arraffata dagli avventori che caricavano all'inverosimile le loro macchine, oltre a carretti trascinati da asini, che creavano un ingorgo del traffico. Non di solo saccheggio si tratta, le ville sul Tigri dei dignitari del regime sono state completamente distrutte: vasi in ceramica, specchi, suppellettili, scalinate di marmo, lampadari di cristalli, mentre venivano portati via tappeti, mobili, poltrone, divani, cuscini, spesso abbandonati per strada in mezzo alla polvere. C'era persino chi arrivava in autobus a sfogare la propria razione di vendetta. Abbiamo visto smontare prima le tre residenze delle ville di Saddam, poi la casa di Watman, il fratellastro del rais, quella del vicepresidente Taha Maruf, e poi molte altre sulla riva del Tigri, nel punto in cui e' attraversato dal ponte Double Roof (si tratta di due ponti, uno sopra l'altro, coperti). I carri armati proteggevano solo la residenza del vicepremier Tareq Aziz e il vicino palazzo di Saddam. Uno dei tanti. Nel giardino di quello piu' imponente, il Salam, chiaro esempio di culto della personalita' con le quattro teste del rais che sovrastano le colonne piu' alte del palazzo visibili in lontananza, invece i marines si sono proprio acquartierati. Dopo una furente battaglia a giudicare dalla montagna di proiettili, pezzi di armi, cadaveri, puzza di morti, che incontriamo sul viale che porta al palazzo. Quando siamo passati una ruspa stava portando via uno dei cadaveri, dall'abbigliamento non sembravano nemmeno soldati ma solo guardiani o inservienti dell'immenso palazzo che e' stato abbandonato completamente vuoto: sono rimasti solo i pregiati lampadari che, in mancanza di elettricita', non possono piu' nemmeno illuminare i sontuosi pavimenti in marmo e legno intarsiato. Ieri e' iniziata la sepoltura dei "martiri" caduti nella battaglia di al-Dora, il quartiere meridionale della citta'. Sono rimasti invece abbandonati alle intemperie quelli che abbiamo visto intorno all'hotel Rashid. Non solo combattenti, ma anche autisti di macchine che erano evidentemente finiti sotto i bombardamenti: alcuni sono rimasti carbonizzati, altri diventeranno presto putrefatti. E probabilmente finiranno nel novero degli scomparsi. 7. MAESTRI. MOHANDAS GANDHI: LA SCIENZA DELLA GUERRA [Da Mohandas Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973, 1996, p. 266. Mohandas Gandhi e' il fondatore della nonviolenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra, avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico. Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il 30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va mitizzato, e che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione, della sua opera. Opere di Gandhi: essendo Gandhi un organizzatore, un giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton; Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento; La cura della natura, Lef. Altri volumi sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio pensiero, e La voce della verita'. Altri volumi ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991. Opere su Gandhi: tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e' quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L. Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci, Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem] La scienza della guerra porta alla dittatura. 8. MAESTRE: SIMONE WEIL: LA VERITA' [Da Simone Weil, Quaderni, volume terzo, Adelphi, Milano 1988, p. 356. Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa, militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria, operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti, lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione, sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna come quella che precede non rende pero' conto della vita interiore della Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora: radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del 1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil: tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici (e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita', SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi), Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr. AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985; Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, EDB, Bologna 1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994] L'innocente che soffre sa la verita' sul suo carnefice. 9. RILETTURE. EDITH WHARTON: SCRIVERE NARRATIVA Edith Wharton, Scrivere narrativa, Pratiche, Parma 1996, pp. 98, lire 18.000. La riflessione sulla narrativa della grande scrittrice americana. 10. RILETTURE. VIRGINIA WOOLF: RITRATTI DI SCRITTORI Virginia Woolf, Ritratti di scrittori, Pratiche, Parma 1995, pp. 332, lire 35.000. A cura e con introduzione di Mirella Billi, una raccolta di acuti profili critici di Virginia Woolf (su Defoe, Sterne, Austen, le sorelle Bronte, George Eliot, Meredith, James, Hardy, Conrad, Bennett, Galsworthy, Forster, Lawrence, Dorothy Richardson, Mansfield). 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 563 dell'11 aprile 2003
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